“410 D.C. Pacta sunt servanda” di Francesco Giannetti, Oakmond publishing. A cura di Patrizia Baglioni

La politica non è mai un terreno sicuro, lo sappiamo oggi con chiara cognizione.

Tale conoscenza ci viene da un passato ricco di accordi, negoziazioni, patti rispettati e altri invece rigettati in base alle esigenze personali; la storia italiana come poche altre, riunisce nel suo carnet, infiniti eventi di tradimento e di transazioni andati a male.

Una delle più famose è quella tra romani e visigoti che ebbe tragiche conseguenze: il sacco di Roma il 24 agosto del 410 d. C.

Ancora oggi nominare tale avvenimento storico, crea disagio, scalpore e curiosità, la domanda che spesso ci chiediamo è, come possibile che la città più potente del mondo potesse essere invasa senza resistenza?

La risposta arriva semplice, immediata: perché non era più se stessa.

Roma era già vinta.

410 d.C. PACTA SUNT SERVANDA racconta proprio i giorni precedenti al sacco e le motivazioni che portarono i Visigoti a compiere un atto tanto violento ed emblematico.

FRANCESCO GIANNETTI, autore che già conosco e stimo, si muove tra le vicende con agilità, utilizzando un linguaggio moderno e ricostruendo con rispetto e perizia storica le figure storiche realmente esistite.

Ritroviamo Alarico, uomo di grande intelligenza e capacità militare, aiutato dal cognato Ataulfo, che cercano di dare scopo e dimensione al loro popolo barbaro.

E non lo fanno solo cercando di comprendere e imparare dal mondo romano, ma entrando nell’Italia con un accordo ben preciso.

Ma l’Impero Romano non è più quello di un tempo, Onorio, l’ultimo imperatore nominato bambino prende decisioni spesso sull’onda dell’impulsività o peggio ancora della paura.

Perché ormai a regnare non è più lui, ma la confusione.

Così quando cerca di venire a patti con Alarico, che invece è un uomo atto al comando, dapprima promette e poi tradisce.

Alarico nonostante il suo intento di civilizzarsi, non può accettare l’offesa e punisce Roma nell’unico modo che conosce: saccheggia, depreda, e soprattutto umilia.

In questo percorso però c’è di mezzo un’umanità a noi sconosciuta che l’autore ricostruisce affiancando ai veri protagonisti, personaggi di fantasia.

Conosciamo Alateo, giovane visigoto inviato a Roma come schiavo insieme ad altri suoi compagni, un “dono” dei Visigoti per garantire la propria buona fede.

Il giovane viene accolto da Ezio Flavio e da sua figlia Lucilla, i proprietari dei famigerati Horti Sallustiani, e quando Alateo viene a contatto con tanta bellezza e con la benevolenza dei suoi padroni, da barbaro che odia i romani, diventa un ragazzo affascinato da tutto ciò che lui non ha conosciuto, compresa Lucilla.

In direzione opposta, la stessa cosa accade a Galla Placida, sorella di Onorio, che da prigioniera disgustata dai modi gretti dei barbari, resta conquistata dalla loro spontanea affabilità.

Ed ecco ciò attorno a cui ruota tutto il romanzo: il pregiudizio.

Quello attraverso il quale si guardano i due popoli, e che sparisce quando si crea una conoscenza o una vicinanza.

La storia procede rapida, l’autore si muove tra Rimini e Roma avvicinandole sempre più, tra legami di fratellanza, diserzioni, amori e legami che spesso vanno al di là di ogni definizione.

La dimostrazione del proprio valore, l’orgoglio di popolo a un certo punto sembrano prendere il sopravvento sugli eventi, fino a quando alcuni personaggi come Ataulfo o Alateo restituiscono equilibrio e dignità alla storia.

Una delle tematiche toccate è quella della libertà e di ciò che si è disposti a fare pur di riappropriarsene.

A tal proposito molto significativo resta un dialogo tra il Re Alarico e alcuni ex schiavi che si erano uniti al suo esercito con il solo scopo di sentirsi di nuovo liberi.

Con lo stesso sentimento i tanti schiavi di Roma aspettano i Visigoti per uccidere i loro stessi padroni e chiedere vendetta per le mortificazione subite.

Ed ecco che il cerchio si chiude, o forse no?

L’epilogo lascia nel lettore un sorriso, perché è l’unica fine ammessa.

Un romanzo storico avvincente, scritto con grande cura per i dettagli, dove il lettore trova identificazione con i protagonisti e li sente vicini.

Lascio Alateo, Lucilla, Ataulfo e Alarico con rammarico, ritrovarli mi ha permesso di fare un tuffo nella storia, di guardarla con i loro occhi e di trovarla non solo ricca di fatti ma anche di sentimenti.

Mi aspettano altri libri, ma so che questo rimarrà ben impresso nella mia memoria e nel mio bagaglio di avventure.

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