
Anche se provengono da tempi diversi e da culture diverse, sono accomunati dal medesimo filo: raccontano versioni diverse di uno stesso episodio.
Nel primo (Hero)la morte di tre nemici giurati dell’imperatore della Cina, nel secondo (The last duel) una violenza subita da una donna e la sua ostinazione nel voler portare in tribunale la vicenda. Ora mi potreste obiettare che per costruzione sono film troppo diversi. Benché entrambi ambientati in epoche lontane Hero non è propriamente storico, ma ha degli elementi fantasy, mentre l’altro attinge addirittura alla piccola storia.
La mia risposta è “non mi interessa”.
Qui la contrapposizione è sul modo di narrare. Lo scontro tra Occidente e Oriente si gioca qui. Vi faccio l’esempio con la biologia e l’evoluzione. Esiste un’evoluzione convergente e una divergente. La prima sviluppa caratteristiche simili in due specie co antenati diversi, la seconda invece fa sì che da un antenato comune si sviluppino specie diverse. In questo confronto siamo in un esempio di divergenza. Partendo da episodi reinterpretati (antenato comune) ci si evolverà in due narrazioni diverse.
The last duel in breve.
Ci sono tre versioni di uno stesso avvenimento: le prime due discostano di poco, essendo narrate entrambe da uomini che pretendono di portare l’acqua al proprio mulino. Uno è il marito (Matt Damon) della donna abusata, l’altro è il nobile (Adam Driver) che la stupra. La terza versione, quella della donna (Jodie Comer), si sposta su un piano narrativo leggermente differente. Difatti, mentre gli uomini si concentrano nel “cacca, pipì, puzza” (nota versione della morra cinese adattata dai bambini dell’asilo), la donna cerca di puntare l’obiettivo sulla verità oggettiva. Attraverso i suoi occhi verranno apportate le correzioni degli errori presenti in entrambi i racconti. Ma, nonostante tre punti di vista il film, si snocciolerà comunque sui dettagli. Un’abitudine che, per noi occidentali dopo Conan Doyle, non è mai tramontata. L’amore per il particolare, per i fili da annodare (come li chiamava il tenente Colombo) ci prende la mano ogni volta.
In millemila film di questo genere ho notato questa cura maniacale dei dettagli. Siamo ossessionati dai dettagli. Forse perché, come recita un antico detto, il diavolo lavora sui dettagli e noi siamo creature diaboliche. Basti pensare che quando entriamo in una casa controlliamo le rifiniture. Vale lo stesso per una tavola apparecchiata. Questo ci descrive. Non che il dettaglio non sia utile, ma il rischio è quello di perderci ad osservare il dito perdendo di vista la Luna.
Cose che, a una prima visione, addirittura sfuggono e a cui si presta attenzione solo una volta che si rivede il film. Un esempio di quel che dico, in the last duel, è nella posizione delle scarpe di lei o nella sua scollatura. Per il cattivo lei lascia le scarpe sulla scala per invitarlo a seguirla (dunque è consenziente), nel racconto di lei, le perde per sfuggirgli.
Per il marito attraverso la scollatura sull’abito della moglie è possibile farle un’endoscopia tanto è generosa, per la donna è semplicemente audace.
Anche in film comici come gli Hot shot, per dire, c’è una cura maniacale dei dettagli. A un certo punto, da una finestra, mentre un generale fa un discorso assurdo che catalizza però l’attenzione dello spettatore si scorgono, di sfuggita, soldati in circolo ballare una specie di can-can. Ma, se non fosse per il fatto che la telecamera si sofferma per un paio di secondi, la scena passerebbe inosservata.
Ecco il valore dei dettagli, appunto. Che possono attirare l’attenzione o far addormentare e generalmente sono apprezzati solo dopo una seconda visione, se decidiamo di dare al film una seconda opportunità.
In Hero, il primo particolare, evidente come una casa, è l’utilizzo del colore. A parte un primo racconto introduttivo e la parte iniziale che è normale, quando si inizia a parlare di altri protagonisti le scene in cui sono coinvolti avranno diversi colori.
Rosso, verde, blu e bianco. Anche uno stolto neofita li noterebbe. E che combina questo simpatico regista? Conoscendo il modo di pensare occidentale si diverte a confonderci con il significato dei colori, conscio di quanto il mondo occidentale sia ignorante e becero. Il primo colore, il rosso, in oriente indica la fortuna, in occidente la passione. E lui che fa? Lo utilizza con il significato occidentale, cosicché inganna tutti. Gli occidentali perché assistono a scene passionali di gelosia, ipocrisia ecc., ma se lo aspettano (dato che ha utilizzato il colore della lussuria) e sono convinti di aver assistito a una scena reale… Gli orientali, invece, assistono a una scena di una sfortuna cosmica.
Poi che fa il regista? Grazie a questo modo di narrare non consono, fa tradire l’intento ingannatore dell’eroe (Senza Nome). L’imperatore, infatti, capisce che il colore con cui ha descritto i suoi nemici (Neve che Vola e Spada Spezzata) è meschino e non appropriato.
I suoi più grandi nemici, che da soli hanno affrontato un’armata di duemila guerrieri solo per penetrare nel suo palazzo e ucciderlo, sarebbero stati sconfitti per una insulsa storia di passione e futili gelosie? Ma per favore. Quando parla di loro ce li presenta vestiti di verde (colore usato per descrivere la scena reale dell’attacco al palazzo) e poi di blu (per raccontare come le cose si sarebbero svolte secondo il suo modo di vedere), quindi il racconto di Senza Nome deve essere per forza fasullo nonostante lui abbia presentato le prove della morte degli avversari.
E mentre lo spettatore si lascia distrarre da questo vortice colorato, il complotto è andato avanti grazie alla curiosità che non uccide solo il gatto. L’eroe (uno straordinario Jet Lee) è riuscito ad arrivare a dieci passi dall’imperatore. Lo stratagemma ha funzionato. Tant’è che l’ultima parte è narrata adoperando il colore bianco (il colore della morte, in vigore anche in occidente, prima che Caterina de Medici non s’inventasse di utilizzare il nero).
Colori rivelatori, dunque, non solo di uno stato d’animo, ma complici di una narrativa che può partire dal medesimo episodio e trasformarlo in qualcosa di più. Una terapia, un’epifania, la traduzione di un codice per entrare in una dimensione alternativa dove il confine tra l’immaginario e il reale, il vero e il presunto è tracciato non solo da dettagli, ma anche dai colori. Se per la narrativa occidentale mi sono avvalsa di Conan Doyle, per Hero smuoverò un mostro sacro: Lovecraft e il suo “colore venuto dallo spazio”, dove il genio riesce, attraverso l’uso malevolo di un colore alieno riesce a trasportarci in quella dimensione onirica che i Cinesi, con la loro cultura millenaria, si confermano essere i veri custodi di queste porte dimensionali…