
Tra i tanti libri sconosciuti e/o dimenticati del panorama letterario italiano contemporaneo, sembra giusto rispolverare l’unico romanzo finora scritto da Ennio Bìspuri, noto ai più come rinomato e puntiglioso storico del cinema italiano e biografo di Totò. Katàbasis. Cronache da una stanza fumosa viene pubblicato dalla casa editrice italo-brasiliana Ila-Palma nel 1989, in un periodo in cui il suo autore, ancora quarantaseienne, svolgeva la funzione di direttore dell’istituto italiano di cultura a Colonia (Germania) e non aveva ancora pubblicato nulla sul Principe De Curtis1.
Il romanzo, molto affascinante e denso di riflessioni storiche e filosofiche, narrato in prima persona, è il diario di uno studente catapultato nel Sessantotto italiano, e affiancato da vari compagni di lotte, tra cui Massimo Duca, detto “il duca” per via del cognome, Livio, Fernando, Paola, e altri. Suddiviso in dieci capitoli, ha un’ambientazione pressocché universitaria, il cui fulcro è, per l’appunto, una stanza “fumosa” nella quale il protagonista e i suoi amici si riuniscono spesso, nel tentativo di fondare una rivista che mai si realizzerà. Il libro è introdotto da una breve prefazione del siciliano Giuseppe Bonaviri che, oltre ad anticipare la trama, osserva quanto vi sia in Bìspuri un desiderio di “integrare la realtà di oggi con quella passata, compresa la “utopica” e gli autori che di “utopia” hanno parlato. Il desiderio cioè di un ritorno, modificato dalle pulsioni e intenti sociologi dell’oggi, nel passato”.
Katàbasis è senza dubbio un libro autobiografico. Innanzitutto, perché il protagonista mostra una profonda avversione per gli aspetti più estremisti dei suoi amici militanti, esattamente come lo stesso Bìspuri che in tempi recenti ha dichiarato il suo profondo distacco dal furore sessantottino, ma anche per la suadente poetica citazionista di scrittori latini, filosofi dell’età antica, tipica del Bìspuri pensatore e saggista, e che culmina nell’allucinato finale in cui il protagonista si ritrova in mezzo a numerosi personaggi della storia antica e moderna ormai defunti che interagiscono con lui. Una chiusa dal sapore autenticamente felliniano; non a caso è proprio Fellini il regista preferito dell’autore, con il quale ha avuto anche la fortuna di stringere ottimi rapporti d’amicizia. E non manca nel suddetto capitolo conclusivo un grande, strabordante riferimento al mare, che per l’autore è una componente ricorrente nella poetica del maestro riminese e al quale ha dedicato il saggio Il mare e il treno nel cinema di Federico Fellini (2007)2.
I passaggi di elevato fascino prosaico sono numerosi e, vista la difficilissima reperibilità del libro, fuori catalogo da anni, ci sembra giusto riportare per intero i più belli in questa sede. Il protagonista è affascinato da Paola, unica donna del gruppo, intenta spesso a versare del the agli amici durante le loro discussioni. Così la descrive il protagonista:
“Quel volto triste si muoveva e si spostava nella stanza, ma a me pareva immobile, solitario e smisuratamente lontano, come una stella che a noi paia vivere nel silenzio degli spazi siderali […]. Bellezza perfetta, che attingevo nel silenzio e che nel silenzio si fissava eterna […] ero certo che, una volta evocata, la bellezza sarebbe sopravvissuta al divenire, che avrebbe vinto il duello con l’apparenza”
Nonostante questi splendidi sprazzi di sentimentalismo, la passione che il protagonista prova per la ragazza non sfocia mai nell’erotismo, e nell’arco dell’intera narrazione l’eros è più verbale che vissuto in prima persona, fatta eccezione nel delirante sogno finale, quando il protagonista immagina Lutero e Leone X intenti a consumare sesso anale.
Nel titolo troviamo probabilmente una metafora; la stanza in cui i personaggi conversano amabilmente non è fumosa soltanto per via delle sigarette, ma anche per molte delle parole che vi vengono spese. I discorsi “fumosi” di parte dei personaggi sono numerosi, specialmente quelli riguardanti il ruolo che l’ideologia comunista dovrebbe, secondo loro, svolgere all’interno del mondo. Come puntualizza anche Bonaviri, la “catabasi” del titolo non è una discesa nelle tenebre o dissoluzione morale dei personaggi, bensì un’immersione introspettiva nei meandri più profondi della mente umana che il protagonista e i suoi amici compiono tra le mura di quella stanza, divagando di politica nel più irrefrenabile dei modi.
Non mancano illuminanti riflessioni sull’arte del romanzo, anche in questo caso condite da quell’erotismo puramente verbale e mai fisico, come quando il personaggio del Duca osserva:
“Il romanzo è come un rapporto sessuale. […] è come un lungo coito, con tutti i preliminari, gli ammiccamenti, i piccoli orgasmi che preludono al grande orgasmo finale, l’ultimo periodo conclusivo, dopo il quale subentra il sonno, e il libro diventa il corpo con il quale si è goduto”.
La Roma che Bìspuri descrive è quella vera e propria del Sessantotto, con tutte le sommosse, gli scontri e i personaggi salienti, dal Pasolini autore della celebre poesia Il Pci ai giovani, ai docenti come Walter Binni, Alberto Asor Rosa e Gabriele Giannantoni. Nel radiografare le tensioni accademiche, vengono riportati alcuni episodi acri e di pungente trasgressione, come una pecora belante introdotta in un’aula dagli studenti o un professore costretto a far sostenere un esame ad un cane. Situazioni, anche se non realmente accadute, più che realistiche nell’indomabile entropia che caratterizzava il clima conflittuale di quei mesi.
Ci sarebbero davvero tanti aforismi da estrapolare dal romanzo. Katàbasis ne conta almeno una trentina di rilevante importanza, almeno quelli di maggiore impatto per lo scrivente. Ma se, come già accennato, quel mare quasi felliniano nel finale dà vita a una cornucopia di suggestioni non cinematograficamente difficili da immaginare, il sentimento latino di queste cose (e citiamo un altro libro dell’autore, per l’appunto Federico Fellini, il sentimento latino della vita [1981]3) ritorna prepotente nelle suggestioni che la bellissima Paola scatena nel protagonista
“Gli occhi di Paola, che luminosi e aperti si erano per qualche istante si erano fissati sui miei, mi avevano condotto per quelle vie del paradiso dove il gioco degli sguardi accenna e allude a qualcosa di non detto […] Rivedevo le splendide mani della Pietà di Cosme Tura, su cui mi ero per tanto tempo soffermato, ma ahimè restando prigioniero dei dettagli anatomici che soli invece dovevano portarmi oltre la dimensione del corpo, per ritornarci dopo, con la ricchezza e la completezza che voleva dire, come nei piedi del Caravaggio “come puoi pretendere di capire ciò che vedi se non lo dissolvi e non lo trascendi oltre la materia?”.
Prendendone le distanze, Bispuri mette in bocca ai personaggi una velleità politica apparentemente anacronistica, ma in realtà ampiamente da rivalutare. Così come quando si sofferma su alcuni conoscenti del periodo, aspiranti artisti disillusi e falliti per un breve periodo convinti di poter cambiare il mondo con la forza dell’arte, esattamente come nella stanza fumosa il protagonista e i suoi amici si credono convinti di ribaltare le strutture politiche globali con la forza del marxismo, anche se siamo ben lontani dall’insopportabile retorica didascalica de Il Grande sogno di Michele Placido, uno dei film più buonisti mai dedicati a quel periodo, horribile dictu per fare un latinismo esattamente come Ennio4.
Katàbasis è molto più cinematografico di quanto può sembrare. A tratti vi ritroviamo lo stile “piano” e grezzo del documentario da collettivo militante stile Alberto Grifi e Gruppo Videobase, altre volte sguaina una poetica dell’impegno civile non indegna di Francesco Rosi, per arrivare al già citato felliniano, ma anche un po’ dantesco, finale. E, dulcis in fundo, non manca una grande riflessione sul sommo poeta, pronunciata non dal protagonista bensì dal Duca, senza dubbio un altro grande alter ego dello scrittore.
“Dante è lo scrittore più coraggioso di tutti i tempi, ha fatto il tentativo estremo di esplorazione dell’altra faccia dell’uomo; il più grande viaggio all’interno dell’inconscio che sia stato mai tentato. E’ stato un uomo che ha avuto il coraggio di chiamare col loro vero cognome i suoi personaggi, che ha attaccato il potere senza mezzi termini. E ha ricostruito, in una struttura rigorosa, tutte le componenti dell’animo umano. La divina commedia è un viaggio dentro l’inconscio. E non importa l’ideologia cattolica, importa come il poeta vive la propria ideologia e come questa diventa essenziale nella sua opera”.
Quanto piacerebbe a Benigni questa frase…
1 Bìspuri ha dedicato al comico napoletano ben cinque libri, “Totò principe clown” (Guida, 1997), “Vita di Totò” (2000), “Totò attore” (2010), “Totò in 100 parole” (2015) e “Totò Kolossal” (2016), questi tutti pubblicati da Gremese
2 Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Buenos Aires, 2007
3 Edizioni Il Ventaglio, Roma, 1981 (prefazione di Lino Miccichè)
4 L’autore lo utilizza nel suo Il cinema dei telefoni bianchi (Bulzoni, 2020) per definire la celebre scena del ballo ne Il gattopardo di L. Visconti, a suo dire uno dei più brutti film del grande regista