Per la sesta giornata ecco a voi “Il vampiro” di William Polidori. A cura di Barbara Amarotti

Se la Radcliffe è “la madre” del romanzo gotico come lo conosciamo, Polidori è “il padre” del vampiro sexy e nobile, ma con una precisazione, infatti più che “padre” ne è “patrigno”.

Durante la famosa estate piovosa che diede vita al “Frankenstein” di Mary Shelley, Polidori, allora segretario di Byron, faceva parte del gruppo di amici in vacanza a Ginevra e prese spunto proprio da un racconto non concluso di Byron per dare vita al suo “Vampiro”.

La cosa causò un fraintendimento e per anni il racconto fu attribuito a Byron, nonostante le smentite di questo.

Così Polidori, nonostante l’enorme successo ricevuto, non ebbe un grande riscontro economico e morì suicida a causa dei debiti.

Insomma, una storia del terrore dentro un’altra storia del terrore.

Prima di Polidori i vampiri erano sì presenti nella letteratura, ma erano dei mostri abbietti mentre lui crea un nobile che si aggira cercando vittime tra i suoi pari e si diverte seducendo giovani innocenti.

Uno scandalo per l’epoca, certo, ma anche una cruda descrizione della decadenza della vecchia nobiltà contrapposta però ai giovani romantici.

Ed è proprio un giovane romantico l’antagonista che si oppone al nobile vampiro.

Aubrey, questo è il suo nome, è un giovane della buona società, orfano, che incontra Lord Ruthven e ne resta talmente affascinato da seguirlo in un viaggio in Italia.

Scoperto che il compagno non è l’anima pura e tormentata che si era immaginato, parte da solo alla volta della Grecia dove viene a conoscenza nel peggiore dei modi dell’esistenza dei vampiri.

Una volta fatto ritorno in patria…

No, non ve lo racconto!

Scopritelo da soli.

Io vi racconto solo che, a differenza del “Dracula” di Stoker, qui la redenzione non esiste, non c’è in Polidori nessuna voglia di far trionfare il bene sul male quanto mostrare al lettore che, per quanti sforzi faccia, il probo deve comunque sottostare al volere dell’empio che è più scaltro e a noi lascia un po’ di amaro in bocca constatare che spesso è ancora così.

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