“Il mistero della carrozza n.12” di Paolo Navi, Newton Compton. A cura di Alessandra Micheli

E’ un momento dell’anno davvero particolare questo.

Fatto di strani sogni oscuri, di sussurri e di una sensazione di irrealtà che adoro. E per questo tendo a cercare sempre testi che sono in bilico tra sogno e veglia. Laddove le dimensioni si confondono, e si abbracciano fino a superare quella fissazione per le gerarchie, le divisioni e le catalogazione che tanto funesta la nostra vita.

Noi che dobbiamo correre verso chissà quale stano obiettivo.

Noi che sogniamo sempre un orizzonte che ci appare sempre più lontano.

Noi che corriamo, ci affanniamo e che dobbiamo avere tutto sotto controllo.

Noi che viviamo di stereotipi e pregiudizi.

Noi, siamo noi questa strana creatura che diventa incomprensibile e difficile da raccontare.

E cosi che inizia il nostro libro.

Con una sensazione di soffocamento, do noie di tedio baudeleriano che da ve lo assicuro, un pizzico di fastidio.

Il nostro protagonista è pieno di certezze aride e vittima di una routine a cui sembra rassegnarsi.

Mancano i gesti spontanei, manca la spensieratezza e la leggerezza.

Persino la usa passione appare mal compresa da un ambiente e da una famiglia che considera come unico suo sovrano il successo e il potere, il successo, la sensazione di essere sulla cima di un grattacielo e di poter arrivare al cielo.

E disturba proprio questa sua rassegnazione di fronte alla dittatura del lavoro, alla boria di un identità sociale a un ruolo che ha più importanza rispetto all’essenza, all’anima e alla bellezza della passione.

Qualcosa si incrina.

E complice la neve, quel mondo che ci appare cosi ovattato, cosi silenzioso, cosi irreale tanto da poterci distogliere dal rumore caotico delle nostre ossessioni e costringerci a essere soli con noi stessi.

La neve, unica protagonista assoluta del libro costringe la quotidianità a fermarsi a prendere altre strade, a trovarsi di fronte a strani bivi, spaventosi perché ignoti.

E il malessere inizia a rompere la comoda gabbia che costringe tutti a recitare un eterna commedia dell’arte.

Qualcosa accadrà.

Qualcosa di terribile e stonato.

Qualcosa che non ci convince fino in fondo ma che stranamente mette a nudo la mente ingabbiata da tanti troppi pregiudizi.

Uno su tutti?

Che bisogna accontentarsi.

Che bisogna seguire il gregge e mordere a ogni costo l’esistenza e pretendere che da essa si spreme anche l’ultima goccia di energia.

Che bisogna correre, correre senza mai voltarsi indietro.

Che bisogna lottare per la propria sopravvivenza anche se questo rischia di uccidere la nostra umanità.

Da questo allucinato viaggio però stranamente è proprio l’interiorità dell’io a uscirne salva.

Crolla tutto certezze, convinzioni, sicurezza.

Ma nasce altro.

Come?

Beh sta a voi scoprirlo no?

E’ un momento dell’anno davvero particolare questo.

Fatto di strani sogni oscuri, di sussurri e di una sensazione di irrealtà che adoro. E per questo tendo a cercare sempre testi che sono in bilico tra sogno e veglia. Laddove le dimensioni si confondono, e si abbracciano fino a superare quella fissazione per le gerarchie, le divisioni e le catalogazione che tanto funesta la nostra vita.

Noi che dobbiamo correre verso chissà quale stano obiettivo.

Noi che sogniamo sempre un orizzonte che ci appare sempre più lontano.

Noi che corriamo, ci affanniamo e che dobbiamo avere tutto sotto controllo.

Noi che viviamo di stereotipi e pregiudizi.

Noi, siamo noi questa strana creatura che diventa incomprensibile e difficile da raccontare.

E cosi che inizia il nostro libro.

Con una sensazione di soffocamento, do noie di tedio baudeleriano che da ve lo assicuro, un pizzico di fastidio.

Il nostro protagonista è pieno di certezze aride e vittima di una routine a cui sembra rassegnarsi.

Mancano i gesti spontanei, manca la spensieratezza e la leggerezza.

Persino la usa passione appare mal compresa da un ambiente e da una famiglia che considera come unico suo sovrano il successo e il potere, il successo, la sensazione di essere sulla cima di un grattacielo e di poter arrivare al cielo.

E disturba proprio questa sua rassegnazione di fronte alla dittatura del lavoro, alla boria di un identità sociale a un ruolo che ha più importanza rispetto all’essenza, all’anima e alla bellezza della passione.

Qualcosa si incrina.

E complice la neve, quel mondo che ci appare cosi ovattato, cosi silenzioso, cosi irreale tanto da poterci distogliere dal rumore caotico delle nostre ossessioni e costringerci a essere soli con noi stessi.

La neve, unica protagonista assoluta del libro costringe la quotidianità a fermarsi a prendere altre strade, a trovarsi di fronte a strani bivi, spaventosi perché ignoti.

E il malessere inizia a rompere la comoda gabbia che costringe tutti a recitare un eterna commedia dell’arte.

Qualcosa accadrà.

Qualcosa di terribile e stonato.

Qualcosa che non ci convince fino in fondo ma che stranamente mette a nudo la mente ingabbiata da tanti troppi pregiudizi.

Uno su tutti?

Che bisogna accontentarsi.

Che bisogna seguire il gregge e mordere a ogni costo l’esistenza e pretendere che da essa si spreme anche l’ultima goccia di energia.

Che bisogna correre, correre senza mai voltarsi indietro.

Che bisogna lottare per la propria sopravvivenza anche se questo rischia di uccidere la nostra umanità.

Da questo allucinato viaggio però stranamente è proprio l’interiorità dell’io a uscirne salva.

Crolla tutto certezze, convinzioni, sicurezza.

Ma nasce altro.

Come?

Beh sta a voi scoprirlo no?

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