
E’ come conoscerlo di nuovo Luca Giribone.
Io che pensavo oramai di averlo inquadrato, che la sua scrittura mi avesse rivelato ogni anfratto della sua anima, mi ritrovo oggi, confusa, stordita e incredula davanti all’ultima pagina di Selene.
Una storia di follia e di demoni interiori, di ombre e di dolore.
Ma anche di speranza e della redenzione che il dolore stesso deve poter portarsi appresso.
Altrimenti diventa vuota, inesistente, chimera inutilmente lontana.
E invece è proprio li, quando il cuore sembra urlare, sembra spezzarsi, quando la voce graffia la nostra anima, le ferisce con schegge taglienti, in quel momento bisogna poter rinascere e tornare se stessi.
Anche in questo mondo, che i sani chiamano civiltà, ma che noi resi folli dall’impossibilità di adattarci consideriamo prigione.
E qua le prigioni non sono rappresentate dalle malattie mentali, ne dall’incapacità di delineare i confini tra reale e sogno.
Ma da quel tentativo di allontanare il pericolo della deriva dell’insania, di voler decifrare, strutturare, organizzare e mappare la regione più misteriosa della nostra esistenza umana: la mente.
E cosi in quel manicomio che non è altro che una sorta di segreta dove inserire tutti coloro che la società non sopporta di vedere, prima della possibilità che, il diverso, venga considerato semplicemente opportunità, un fantasma, eggregora creata da gocce di pianto, passeggia indisturbata tra corridoi bui, in cui si odono soltanto i lamenti di chi non vole che quel reale divenga la propria casa.
Ecco che l’ex manicomio di quarto rappresenta sia la sconfitta delal medicina davanti alla meraviglia del cervello, ma anche l’opportunità che quel senso di rettitudine che si esplica nell’accettazione acritica di ogni regola, in modo ossessivo e pedissequo divine protagonista di una storia che è un po’ a storia di chi vuole sapere, di chi vuole indagare, comprendere e forse non curare ma accettare.
Il manicomio separa.
Considera il dolore dei matti come il rincorrere infantilmente una nuvola di fumo.
Considera il disagio psichico solo una dimostrazione di debolezza.
Considera il mal di vivere, l’originalità, l’assurdità di chi guarda attraverso il velo, solo fonte di degenerazione e di caso.
E’ vero. La storia di Selene è storia di ferite.
Di ossessioni e di violenza.
E’ la storia di chi scivola via verso le spiagge corrose dal malessere.
E’ una storia forte, dura e a la tempo stesso poetica.
Storia risolta con una forza brutale che riempie e vuole reprime le verità che la stesa riesce a tirare fuori.
Ma è anche la narraz
E’ come conoscerlo di nuovo Luca Giribone.
Io che pensavo oramai di averlo inquadrato, che la sua scrittura mi avesse rivelato ogni anfratto della sua anima, mi ritrovo oggi, confusa, stordita e incredula davanti all’ultima pagina di Selene.
Una storia di follia e di demoni interiori, di ombre e di dolore.
Ma anche di speranza e della redenzione che il dolore stesso deve poter portarsi appresso.
Altrimenti diventa vuota, inesistente, chimera inutilmente lontana.
E invece è proprio li, quando il cuore sembra urlare, sembra spezzarsi, quando la voce graffia la nostra anima, le ferisce con schegge taglienti, in quel momento bisogna poter rinascere e tornare se stessi.
Anche in questo mondo, che i sani chiamano civiltà, ma che noi resi folli dall’impossibilità di adattarci consideriamo prigione.
E qua le prigioni non sono rappresentate dalle malattie mentali, ne dall’incapacità di delineare i confini tra reale e sogno.
Ma da quel tentativo di allontanare il pericolo della deriva dell’insania, di voler decifrare, strutturare, organizzare e mappare la regione più misteriosa della nostra esistenza umana: la mente.
E cosi in quel manicomio che non è altro che una sorta di segreta dove inserire tutti coloro che la società non sopporta di vedere, prima della possibilità che, il diverso, venga considerato semplicemente opportunità, un fantasma, eggregora creata da gocce di pianto, passeggia indisturbata tra corridoi bui, in cui si odono soltanto i lamenti di chi non vole che quel reale divenga la propria casa.
Ecco che l’ex manicomio di quarto rappresenta sia la sconfitta delal medicina davanti alla meraviglia del cervello, ma anche l’opportunità che quel senso di rettitudine che si esplica nell’accettazione acritica di ogni regola, in modo ossessivo e pedissequo divine protagonista di una storia che è un po’ a storia di chi vuole sapere, di chi vuole indagare, comprendere e forse non curare ma accettare.
Il manicomio separa.
Considera il dolore dei matti come il rincorrere infantilmente una nuvola di fumo.
Considera il disagio psichico solo una dimostrazione di debolezza.
Considera il mal di vivere, l’originalità, l’assurdità di chi guarda attraverso il velo, solo fonte di degenerazione e di caso.
E’ vero. La storia di Selene è storia di ferite.
Di ossessioni e di violenza.
E’ la storia di chi scivola via verso le spiagge corrose dal malessere.
E’ una storia forte, dura e a la tempo stesso poetica.
Storia risolta con una forza brutale che riempie e vuole reprime le verità che la stesa riesce a tirare fuori.
Ma è anche la narrazione del cambiamento.
Laddove il manicomio appunto, separa l’inchiesta, simbolo di una società che smette di essere assopita dalla noia, dalla paura dal tedio, vuole capire.
Vuole abbracciare il diverso.
Vuole sapere l’origine di quei fantasmi che si agitano li, in quelle mura incrostate di pianto.
In fondo è il malato oscuro, segregato nella stanza segreta, che semplicemente non esiste.
E che siamo noi, sempre e solo noi a scrivere di volta in volta la storia a nostro comodo e alle nostre esigenze.
E il malato tenuto lontano, rinchiuso, quello misterioso, pericoloso e quasi mostruoso.
Non è altro che il simbolo della nostra paura, eterna paura, verso qualcosa che non spieghiamo, che non possiamo controllare, che non vogliamo neanche affrontare.
Un libro intenso e al tempo stesso ricco di suggestioni.
Che mi fa scoprire un Luca forse più maturo, più intenso e più impegnato.
ione del cambiamento.
Laddove il manicomio appunto, separa l’inchiesta, simbolo di una società che smette di essere assopita dalla noia, dalla paura dal tedio, vuole capire.
Vuole abbracciare il diverso.
Vuole sapere l’origine di quei fantasmi che si agitano li, in quelle mura incrostate di pianto.
In fondo è il malato oscuro, segregato nella stanza segreta, che semplicemente non esiste.
E che siamo noi, sempre e solo noi a scrivere di volta in volta la storia a nostro comodo e alle nostre esigenze.
E il malato tenuto lontano, rinchiuso, quello misterioso, pericoloso e quasi mostruoso.
Non è altro che il simbolo della nostra paura, eterna paura, verso qualcosa che non spieghiamo, che non possiamo controllare, che non vogliamo neanche affrontare.
Un libro intenso e al tempo stesso ricco di suggestioni.
Che mi fa scoprire un Luca forse più maturo, più intenso e più impegnato.