“Le esiliate” di Christina Baker Kline, Harper Collins. A cura di Alessandra Micheli

Ho provato e riprovato a scrivere questa recensione in ogni modo possibile, con un incipit degno di questo ritratto ambizioso e sopratutto coraggioso della femminilità.

Ma giuro non ci sono riuscita non ci riesco ancora adesso.

Guardo fuori dalla finestra in questo strano natale affacciata a un anno che tutti sperano ricco di prosperità e promesse ma che inevitabilmente di perde in fumosi e astratti progetti.

Oggi tutti corrono, come per riprendere il filo di una vita che era rimasta sospesa, con quella voglia di mordere ogni istante considerato troppo breve, in una vita sempre più in bilico.

Alla televisione il ritratto di un mondo in rovina, quasi distopico, dove libertà significa soltanto accettazione rassegnata di nuove catene.

E mentre le donne lottano per i loro diritti negati, in Iran e in Afganistan, noi cerchiamo di assicurarci che il nostro posto nella società non venga affatto minacciato da chissà quelle oscuro governo.

E poi il mio sguardo cade sul libro, le esiliate.

Un racconto che appare lontano, o forse neanche troppo di tre donne vittime di una società che si teneva stretta le proprie strane tradizioni, convenzioni sociali e pregiudizi, come una logora coperta di linus.

Negli anni quaranta dell’ottocento, in piena età vittoriana, essere donna significava uniformarsi, oscurare la propria creatività e il proprio ardore in omaggio a una strana tirannia.

Strana perché non scritta, strana perché tentacolare.

Strana perché minacciava un esilio fisico e morale che per ironia della sorta poteva essere e in questo libro lo sarà, una possibilità di redenzione.

Tutte e tre le protagoniste si trovano allo stesso punto di partenza tutte con un passato funestato dal biasimo sociale, tutte incapaci forse di sentirsi a proprio agio in un ruolo scelto da latri per loro.

Evangeline la ripetizione dell’innocente fanciulla simbolo di un mondo che ostacolava crescita e consapevolezza, congelando il tempo in una sorta di stentato sorriso perenne.

Privata della possibilità di mangialo il frutto proibito e quindi di conoscere il bene e il male, è la Biancaneve indifesa che sarà preda degli artigli più crudeli, passione e lassismo.

Passione sfrenata che la condanna a diventare da una pura madonna dantesca a una Maddalena pentitene con l’onta del peccato su di se.

Hazel che per la sua ribellione viene condannata a un triste destino, nonostante la sua sapienza e il suo coraggio.

E il personaggio forse più interessante, quello che mi somiglia più di tutte Mathinna, la figlia orfana del capo della tribù Lowreenne, stata adottata dal nuovo governatore della Terra di Van Diemen.

Questi sono i tre destini che si incontrano e si scontrano in una terra selvaggia, non ancora del tutto civilizzata, che pur perdendo pezzi di se tenta di adattarsi al nuovo.

Evangelina diventerà la donna reale, non più eterea, non più idealizzata, ma concreta, decisa a riscattarsi, capace di trovare in ogni dramma un’opportunità di crescita.

E Hazel sarà colei che erediterà la conoscenza della nostra Evangeline, portando avanti con la stessa tenacia quel sogno di riscatto che, il vecchio mondo, ancorato alle sue sicurezze, non può dare loro.

Australia e Londra divengono cosi simboli proprio dello scontro tra immobilismo e dinamismo, tra innovazione e possibilità e stagnazione e stasi. Due modi diversi per affrontare l’ignoto, accolto come maledizione da chi ha il terrore di quella metamorfosi che l’esistenza stessa porta con se e la benedizione di chi pur trovandosi in un posto alieno e estraneo tenta in ogni modo di volgere al suo favore questa alterità.

E queste due protagoniste sono anche il simbolo di una femminilità imprigionata nei clichè, negli stereotipi, preda della lussuria di un mondo che vuole dominarle e mia conoscerle, simbolo di riscatto anche oggi, per tutte quelle donne che, con coraggio rifiutano il diktat del potere maschile.

Potere che le relega da sempre nel ruolo di comparse, piacevoli servili e mia elargisce loro la possibilità di diventare, invece, protagoniste armate di penna e gomma per cancellare la fine scritta e riscriverla a modo loro.

E Mathinna?

Direte voi.

Perché ti somiglia?

Perché è forse il personaggio più importante di questo libro?

Lei è vittima proprio dell’ossessione dell’appartenenza.

Un po’ come siamo oggi tutti noi.

Dobbiamo andare da qualche parte.

Dobbiamo identificarci, dobbiamo assolutamente sentirci membri di un gruppo, di una civiltà, di un paese persino di un clan.

Dobbiamo.

Non vogliamo.

Forse non ne abbiamo neanche bisogno.

Mathinna è indigena, con un retaggio importante di un popolo che sta affrontando il dramma della conquista senza rispetto.

Eppure viene strappata al suo destino e inserita in un altro mondo, totalmente distante e chiuso.

Talmente frastornata da stimoli continui e ossessioni altrui, da non sentirsi mai, davvero, parte di nulla.

Non è Mathinna che decide chi essere.

Sono gli altri.

Il retaggio paterno, la volontà dell’invasore, i pregiudizi della gente, le convenzioni sociali.

Le aspettative altrui.

Lei subisce, si fa plasmare ma la sua anima si dibatte sempre nella stessa eterna domanda “Mai, io chi sono?”

Sono la mia pelle?

Sono il mio paese?

Sono la mia tribù?

Sono il mio sesso?

In un eterno dubbio, del mondo ma forse non del mondo, incapace di far ascoltare la usa voce in un mondo chiuso, che pretende, che obbliga che comanda.

E forse dentro di voi c’è una Mathinna che tenta di far ascoltare la sua voce, che tenta di guardarsi davvero allo specchio e decidere, da sola, chi interpretare.

E il suo riscatto è quello finale nel rifiuto di essere metà Lowreenne e metà inglese.

Forse è solo una donna che vuole volare libera come un albatros, consapevole che sulla terra diventerà goffa e sgraziata.

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