
Per chi conosce la biografia della Shelley sarà facile immaginare l’originalità dello stile, del linguaggio e soprattutto del genere di ogni sua opera.
Io, perlomeno, davanti a ogni sua libera creazione mi chiedo sempre: di cosa avrà scritto questa volta la ragazza dell’800?
Quale dei tanti mostri avrà provato ad esorcizzare?
Ritroverò quelle atmosfere gotiche che tanto mi affascinano?
Anche questa volta la Shelley insegna! Insegna come scrivere una storia d’amore, senza scrivere una storia d’amore.
La bellezza di questo piccolo racconto sta molto nell’abilità dell’autrice a manovrare la trama e il mistero che è conseguenza naturale di chi, conoscendo la penna, è pronta a leggere di ogni sorta di avventura, come se avesse comprato un biglietto cieco del treno per poi salire e godersi il viaggio senza alcuna consapevolezza della meta.
La voce narrante si perde in un labirinto di stanze vuote e approda in una sala davanti al ritratto di una giovane che osserva da una cornice appesa al muro.
Un dipinto semplice, ad acquarelli, in contrasto con l’ambiente in cui si trova.
Sotto al quadro, quasi a nascondersi, una piccola incisione in oro: La Ragazza Invisibile.
Spetta ad un’anziana donna raccontare la storia e lo fa come lo farebbe qualsiasi comare. Il suo racconto poi, una specie di narrativa confusa, ha preso forma dentro l’immaginazione della voce narrante, ricreando le immagini con tutte le loro suggestioni.
All’amore in questa fiaba in cui anche l’horror trova spazio, si aggiungono prepotenti grandi temi esistenziali e profondamente umani come la vendetta, la violenza e la morte.
La ragazza invisibile è ciò che riesce a tenere acceso il faro sia realmente che metaforicamente.
È un modo di pensare il romanticismo un po’ particolare con ingredienti classici (amore negato e ostacolato) mescolati alla superstizione dell’epoca.
Un romanticismo in cui trova spazio la violenza perpetrata ai danni dell’innocenza.
Violenza che corrompe e genera sofferenza tanto in chi la subisce, quanto in chi la infligge.
Il finale è decisamente inaspettato sia per l’autrice che per le sfumature gotiche dalle quali è stata avvolta la trama.
Aspettavo qualcosa di diverso, eppure alla fine chiudo il racconto soddisfatta di ciò che ho letto e del viaggio che ho fatto.
Si fa sempre difficoltà a pensare la Shelley come a una donna dell’Ottocento, non tanto per il linguaggio che appartiene pienamente all’epoca, quanto per gli spunti di riflessione e la sensibilità rivoluzionaria verso il mondo femminile.
Eppure ella è la prova concreta, sempre viva nelle sue opere, che il seme della ribellione non appartiene a un tempo e neanche a un’epoca ma viene gettato nella vita di alcuni da circostanze spesso fortuite come i genitori che ti toccano in sorte, ed è il caso della nostra autrice, l’ambiente in cui si cresce, le persone nelle quali si inciampa, le prove più o meno dure che affrontiamo a viso aperto.
Quest’opera, breve ma intensa, è forse la più rivoluzionaria di Mary dal punto di vista dei sentimenti.
Scritta quando le perdite dei figli e del marito hanno scosso il fertile terreno dei suoi affetti, lasciandola a fare i conti con la propria carriera, mi sarei aspettata più disincanto e cinismo e invece ritrovo la consapevolezza e la passione di chi non si è arreso e non ha nessuna intenzione di farlo.
Quello che il passato ci nega il futuro ci promette verrebbe da dire perché, se la vita è una sola, non ha nessun senso lasciarla andare. Farla scorrere senza averci provato almeno un po’ è inconcepibile.
Poco più di una manciata di pagine dure da tradurre perché lasciano la possibilità di andare oltre e hanno bisogno di parole di ampio respiro in grado di catturare le molteplici suggestioni.
Plauso dunque a Claudio Foti per la cura con cui ha trattato un linguaggio rivoluzionario cogliendone e rispettandone l’originalità.
Consiglio per la lettura: il classico va con il classico quindi questa volta andrei su gin inglese, un Hayman possibilmente: Gently rested gin, dal corpo setoso e morbido e l’anima rosa e ribelle.