
Impossibile non menzionare la cover di questo breve racconto a metà tra il distopico e l’horror.
Una grande bocca d’uccello pronta a digerire l’umanità.
Disarmante.
Una costa, laziale, tappezzata di carcasse e cadaveri ammassati che rendono l’aria irrespirabile è uno scenario veramente difficile da gestire per la mente umana avvezza a tapparsi gli occhi davanti alle grandi tragedie.
Se è vero infatti che siamo abituati a vedere in tv immagini che vogliono far leva sui nostri sentimenti, è altrettanto vero che non sempre siamo disposti a scendere a compromessi con le sensazioni e l’inquietudine che queste scene spesso violente lasciano come sgradito regalo.
Uno spettacolo che solo l’abitudine rendeva accettabile, perché l’abitudine ha proprio questo straordinario potere di rendere accettabile la crudeltà. L’abitudine crea assuefazione, generando a mio modo di vedere i peggiori mostri.
L’abitudine ci illude che la salvezza riguardi sempre e solo la sfera personale e mai l’umanità intera.
Ci sussurra molesta che è giusto restare immobili onde evitare di fare danni.
L’abitudine è in un certo senso un meccanismo selettivo che toglie dall’equazione le masse speranzose e lascia spazio all’incoscienza, all’inconsapevolezza, alla scelleratezza.
Questo romanzo breve vede un uomo e una donna, protagonisti alquanto singolari, muoversi, solo in parte disgustati, tra i cadaveri maleodoranti, in totale assenza di altre presenze umane.
Siamo stati invasi e gli invasori non hanno sicuramente buone intenzioni.
Anche questa è una cosa che spesso temiamo, l’invasione.
La temiamo, in sostanza, perché siamo consapevoli di avere molto da perdere, o quantomeno ci piace crederlo.
Così chi ci invade nel nostro immaginario non viene mai ad aiutarci, a risollevarci, a portare un rinnovato benessere, ma viene per annientarci, per toglierci i nostri averi, oggetti, semplici oggetti, che per noi valgono più della vita.
Poche pagine che fluttuano tra gli odori nauseabondi delle carcasse degli animali e i fumi dei motori dei carri armati con la pirite che saturava l’aria, facili da sentire in alcuni passaggi particolarmente intensi che richiedono l’attenzione e il coinvolgimento di tutti i sensi.
Il protagonista maschile, Attilio (sì avete capito bene, ma non vi dico altro perché questo è stato veramente un dettaglio simpatico da scoprire) ci spiega il tuffo e lo fa parlando di un desiderio, di una richiesta emersa dalla volontà della sconosciuta compagna che la sorte gli ha lasciato, Valeria.
La protagonista femminile è talmente atipica da sembrare non generata da mente umana.
In alcuni aspetti personifica la pazzia, in altri la scelleratezza, in altri ancora la sfrontatezza e l’incuria del pericolo, e mentre all’inizio si prova a cercare una giustificazione, scorrendo le pagine il lettore rinuncia a trovare una logica nelle azioni per concentrarsi invece sulle conseguenze, per poi solo alla fine, capire, almeno in parte.
È facile qui perdersi nella ricerca del senso dei desideri ultimi e spesso assurdi dell’uomo consapevole della propria fine, che tuttavia non rinuncia mai ad aggrapparsi con forza alla vita.
Infatti sulle pagine scende inesorabile come una spada di Damocle la minaccia dell’estinzione che ha le sembianze di un esercito che vede nel buio del terrore e della morte.
Un esercito che spia, invadendo l’intimità dei pensieri e delle intenzioni.
Fantasia sicuramente, ma anche tanti spunti di riflessione e una puntina di realismo che deve sempre appartenere alla distopia perché al lettore si chiede di immaginare che sia possibile e di accettare come provocazione la negazione di un cambiamento denunciato su più fronti e forse mai da nessuno realmente accolto.
Fa paura questo piccolo romanzo, all’inizio, nel mentre e ancor più alla fine, quando, chiuse le pagine si aspetta disarmati per capire ciò che conta davvero.
Consiglio per la lettura: sottofondo in loop di “giorni dispari” di Ludovico Einaudi