“Tempesta” di Camilla Ghiotto, Salani editore. A cura di Alessandra Micheli

Scrivere questa recensione sicuramente mi costa molto.

Ci sono temi che parlano di me in modo troppo profondo e esporli significa mettermi a nudo.

Con tutti voi.

E non ho mai avuto problemi a farlo tranne che…il tempo passa.

Passa e mai troppo lieve.

Passa e sfiora la mia pelle, come il gelo, come un urgano come qualcosa che non ti deve lasciare indifferente.

Passa e a volte ferisce, insegna in modo anche feroce.

Passa e ti lascia a volte cosi fragile e spaventata davanti al nuovo volto che decide, a volte senza chiederti il permesso, anzi sempre, di dover modellare. E è in questo suo forsennato viaggio che ti ritrovi a essere diversa, diversa negli atteggiamenti, nei modi, persino nei sogni.

Il tempo destabilizza, distrugge le nostre convinzioni e al tempo stesso può curare rigenerare e rendere forse più saldi.

Non forti.

E’ una parola usata e abusata che, forse non vuole dire nulla.

Saldi.

Saldi su quelle vacillanti gambe.

Saldi sulla consapevolezza che un orizzonte prima o poi va se non ragigunto desiderato. E quel tempo a me ha lasciato immobile come se fossi ormai divenuta un blocco di ghiaccio.

Insensibile ai suoi tentativi, decisa a non lasciarlo più entrare.

Forse ancorata al rimpianto e a un dolore divenuto una coperta di linus. Nostalgica di una gioventù che stava scappando lontana, troppo lontana da me. Ma non rimpiango certo di questa gioventù le carni sode e il volto liscio. Assolutamente.

Rimpiango le mani che non ho stretto, le lacrime che non ho pianto, abbracci e parole trattenute e gli ideali, che ho lasciato ammuffire in un cassetto.

Il passato non è certo nei ricordi gioviali ma in una forza capace di rischiare con coraggio ogni sicurezza per inseguire quella chimera.

Oggi l’ideale, politico ma non solo, mi ha lasciato devastatamente sola.

Tutte le battaglie, tutti gli scioperi, parole vergate con forza ribelle su un foglio sono i miei più acuti rimpianti.

Perché semplciemente era ciò che mi legava a mia madre.

La sua eredità e il suo lascito.

La paura di averla delusa , di non averla davvero trattenuta a me diviene il mio dolore e la mia condanna.

La maledizione di un figlio che si è sentito lontano, come se la sua ricerca fosse cosi lontana, cosi diversa da quella del genitore.

Ecco perché tempesta è un libro pericoloso.

Non solo la storia prodotta da Camilla ma la mia storia.

Diverse le distanze ma altrettanto acuminate, altrettanto taglienti.

L’età e le generazioni diverse per Camilla e per me.

La voglia di dare un nuovo ordine al mondo.

E la consapevolezza per entrambe di non poter mai davvero capirli questi genitori e di voler qualcosa che a noi sfugge e che loro hanno bevuto a piene mani.

E’ il passato che diventa spada, che diventa abisso.

Che non rasserena ma pungola, che scava e non crea ponti.

Tempesta viene descritto come un uomo dal coraggio immenso, capace di lasciare la comodità di una vita standardizzata per cercare l’essenza della libertà. Che non è per dirla come Gaber “starsene sopra a un albero” ma è “partecipazione”.

Alla lotta, alla volontà generale di rendere questo mondo un paradiso per tutti o almeno provarci.

E cosi Tempesta diventa un po’ il simbolo di una paternità che si ritrova soltanto dopo la parola fine.

Di un ricordo che non è cosi lontano per tutti quei giovani che hanno voglia di provare a calpestare orme passate, seppur nella consapevolezza di vivere, oggi in un mondo agiato.

Ed è questo che crea la distanza.

Tempesta il partigiano che vive una vita di sofferenza e rinuncia, però al tempo stresso a un sole radioso da far brillare.

E la figlia che oggi vive cosi come noi godendo delle libertà e delle conquiste di chi ha tracciato la strada.

Ma che sembra quasi non avere più stimoli, nulla da conquistare, nessuna guerra di resistenza da combattere.

Ma è davvero cosi?

Davvero noi siamo cosi diversi nelle intenzioni e nell’anima da chi ci ha preceduto, combattendo nei boschi, in segreto, per il bene comune?

Forse no.

Non siamo nascosti tra gli arbusti, in attesa di compiere qualche azione in grado di far crollare il regime.

Non siamo torturati, spaventati dalle retate, speranzosi che il sole dell’avvenire risplenda su ogni casa e ogni città.

Ma siamo comunque in resistenza.

Resistiamo agli inviti a dimenticare, a omologarci con lo slogan di turno.

A rinunciare a noi stessi per ballare quella danza maledetta che ci condanna a essere come scarpette rosse, estasiasti e incoscienti del pericolo.

Siamo costretti a lasciare che l’ego diventi per noi droga soporifera, a vivere in un mondo che è cosi informato da ingannare con le stesse informazioni che ci concede.

Siamo ovattati e fragili, considerati prigionieri di preconcetti divenuti stereotipi. Costretti a non guardare dentro noi stessi.

E a ogni afflato ideale e sentirci tacciati come illusi e ingenui.

Cosa sai te di politica è la risposta che sento spesso verso ogni giovane che prova a interessarsi.

Riferita, sopratutto, dall’alto di anni passati a imitare lo strizzo.

In queste pagine che scorrono veloci io mi sento Camilla.

Mi sento Tempesta.

Mi sento…mia madre.

Ed è solo il ripercorrere una storia che si incunea in una realtà che diviene molto più profonda di ogni resoconto colto, che io come la mia alter ego ritorno a essere tutt’uno con la mia anima.

Riappropriarsi della figura genitoriale, in questo caso, significa riappropriarsi di una parte di se.

Quella seminata a racconti che sembrano dimenticati.

A esempi e a immagini che sono, volenti o nolenti scolpiti dentro di noi.

E’ un libro che fa rinascere proprio perché, sbroglia non solo il passato ma lava via ogni sbavatura, tanto da rendere davvero autentica la storia di un padre, e di una figlia.

Così convinti di non essersi mai sfiorati e che, invece, sono stati cosi vicini troppo vicini da non accorgersi quasi di nulla.

E in questo istante in cui poso il libro in grembo e lascio che una lacrima solchi quel volto, che sento il gelo sciogliersi e diventare acqua salvifica.

Che rigenera, modella e ristora.

Grazie Camilla perché non hai solo risolto il tuo di dolore.

Ma hai dato una carezza anche al mio.

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