“I ragazzi di Biloxi” di John Grisham, Mondadori. A cura di Alessandra Micheli

Non è facile parlare del proprio scrittore preferito senza essere di parte. Credetemi, io che pretendo di possedere nelle recensioni, un minimo di obiettività stavolta sono indifesa e poso le armi a terra.

Grisham o si ama o si odia.

E quello che si ama diventa la capacità lucida quasi giornalistica di fotografare l’altra America.

Non quella conosciuta da tutti, splendida, sogno di ogni ragazzo affacciato alla vita.

Quella del self made man, quella che è andata sulla luna e diventa l’orgoglioso stendardo della democrazia.

Che a volte appare eccessivamente rigida e poco del popolo.

Che a volte è solo appunto una bandiera che sventola cosi veloce nel vento da non permetterci di vedere quanti strappi ha.

Eppure nessuno, non lo nascondete, non è stato sedotto dal sogno americano. Dalla possibilità di scalare le vette della montagna del successo, fino a stare cosi in alto da non poter più guardare a terra.

Ecco John ci costringe a farlo.

Rimesta nel torbido e nel marcio, in quella parte, l’altro volto del sogno che non sempre riusciamo a guardare.

Che non sempre sopportiamo di dover guardare.

E i ragazzi di Bilxi affrontano proprio questo.

Due universi che si scontrano mente la commedia va avanti con i suoi guitti e i suoi re.

Il carrozzone che mostra all’umanità tutto il so folcloristico splendore.

Ma è dietro le quinte che la vita vera si svolge.

Fatta di gesti banali, di vizi e poche virtù.

E se le virtù riescono a prosperare in mezzo al tanfo della decomposizione, sono sempre circondate da volti famelici che vogliono assolutamente spegnerle, degradarle, ucciderle o corromperle.

In quella parte dell’America dimenticata, tra una natura che si ribella alal stupidità umana e lo mette di fronte alla sua piccolezza, Biloxi diventa un po’ il simbolo della..corruzione direte voi?

Anche.

Ma anche della disperazione che attira la corruzione.

Della fragilità che affoga il suo dolore in fiumi di alcol, di droga e di sesso a pagamento.

Che per sentirsi davvero vivo, per esistere imbraccia spesso un fucile e recita la parte del perduto, del macho, del cinico.

E che in realtà non fa altro che perdere se stesso.

E cosi i ragazzi di Biloxi diventano un po’ i simboli dell’umanità di fronte a un mondo che ghigna famelico.

Alcuni cedono alla seduzione di quello sguardo di fuoco.

Altri dicono no.

Ma alla fine forse, tutti perdono.

Perdono un pezzo di anima, perdono la compassione, e forse un po’ di umanità. Perdono tanto alla fine di queste pagine che sembrano quasi fredde, quasi asettiche.

Ma che soffocano cosi come è giusto quando si descrive, assieme al lettore. Che vede una commedia patetica dell’arte in cui a morire sono i sogni.

E’ la bellezza.

E la voglia di vivere perché qua forse nessuno vive davvero.

Ne chi sostiene il male.

Ne chi lotta per poterlo sconfiggere.

Perché vivere è abbracciare con speranza l’orizzonte.

Sedersi di fronte al mare e sentirsi da lui benedetto.

Non è certo in quel disperato, eroico tentativo di proteggere il senso di una vita che, forse perde anche chi lotta.

Un libro profondo, bellissimo, bello da far piangere che solo un grande talento poteva donarci.

Grazie come sempre John

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