“Scarafaggi e altri racconti” di Fabrizio Valenza. A cura di Alessandra Micheli

Pensieri che risalgono lungo la spina dorsale simili a piccole zampe acuminate. Irrompono con una sorta di allegria beffarda dentro di te e forse se lasciati liberi iniziano a ritagliarsi, anche contro la tua volontà, il proprio nido.

Non vengono mai cacciati perché, nonostante il disgusto provato per il loro aspetto grottesco, diventano una sorta di silente compagnia.

Si ode soltanto il loro allegro zampettare.

Ecco come potrei iniziare la recensione di Scarafaggi.

Perché il nostro Valenza non fa altro che trasformare le parole in quei piccoli esserini infestanti, padroni di case abbandonate, di oscuri pertugi in cui le scorie abbondano, bellamente ignorate dallo sguardo vigile di una civiltà che li produce ma non ne sopporta la vista.

Ecco che le storie che emergono da questa bruma nebbiosa che tanto è familiare al mio cuore sono altrettanti movimenti, occulti, fastidiosi, pericolosi per la nostra psiche che si impongono alla vista.

Scarafaggi, che richiedono insistentemente il posto che loro spetta in questo mondo, che oggi tende a ignorare gli impulsi delle ombre o a rinchiuderli in un colorato recinto, addomesticandoli per renderli servi della nostra voglia di apparire.

L’orrore non è più cosmico.

E’ banale, noioso, improntato da quel tedio che è l’antitesi dei nostri drammi personali.

Non può esserci stasi nella paura.

Ogni onda di quel vasto mare deve poter essere un pericolo evidente, deve affogare case e villaggi, esondare e rendere melmosa la nostra vita conscia. Rompere argini e dighe e cambiare totalmente faccia del territorio del nostro io. Deve essere infestante.

Cosi come infestanti sono gli esseri che danno il titolo a questa raccolta.

Allora non c’è scampo.

Siamo orripilati, scappiamo in cerca di salvezza ma…al tempo stesso sappiamo che quel regno ctonio che abbiamo tentato per troppo tempo di dimenticare, in fondo ci appartiene e noi apparteniamo a lui.

Non possiamo fuggire.

Le zampette di quelle parole a volte di ghiaccio a volte di fuoco ci rincorrono con quel ghigno che sa di sulfureo e in fondo noi, quel ghigno lo consideriamo un po’ casa nostra.

Ecco che questi racconti, rendendo omaggio alle parole di Meyrink: certa narrativa non deve far altro che svegliarci dal torpore.

Farci comprendere come, il mondo che abbiamo costruito a immagine del nostro bisogno di routine e di tranquillità non esiste e non può esistere.

La musica non è armonica ma piena di strani stridii che si elevano dalle pagine in tutta la loro magnificenza.

Streghe, culti dimenticati, case infestate e tutto ciò che vive e viaggia nei sogni si risveglia potente e fiera.

Ti guarda negli occhi e ti mostra l’immenso abisso che è parte della nostra coscienza.

E ti inviata a occhieggiare quell’antro quasi con curiosità mista a timore.

E ti abbraccia.

Oh se ti abbraccia.

Alla fine di questo libro il cuore batte.

La mente è ormai vigile e sa che quelle ombra in quella stanza apparentemente ascoltata non è frutto di immaginazione.

Il libro ti ha mostrato il volto dell’altrove, il vero volto dell’altrove e tu, credimi lettore, non potrai più fingere che questo cosmo sia ordinato, logico e affatto pericoloso.

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