Intervista di Alessia Mocci a Francesco Delvecchio: vi presentiamo “Cronache di un numero brillante”

L’università sbagliata, il fidanzato sbagliato, gli amici sbagliati sono tutte tappe (non necessariamente obbligatorie, non mi azzarderei mai di dire questo) che alla fine vanno a influenzare, a cambiare le persone che siamo. Laura che queste cose le ha provate tutte lo sa bene, non a caso il titolo del romanzo inizia con “Cronache”.” ‒ Francesco Delvecchio

Cronache di un numero brillante” è stato pubblicato nel 2022 dalla casa editrice Albatros Il Filo, l’autore, Francesco Delvecchio, è originario e vive a Bari, città nella quale è ambientato il suo romanzo.

Laura Milani, invece, è la protagonista di questa storia di crescita personale nella quale la giovane imparerà proprio grazie agli errori ed agli incidenti di percorso che, solitamente, si hanno nella vita. Una scelta sbagliata, talvolta, può mostrandosi fallimentare aprire una strada mai presa in considerazione prima.

Era una perdita di tempo, minuto dopo minuto Laura realizzava che la sua permanenza in quell’aula grande per studiare qualcosa che non le piaceva, che non le interessava minimamente, stava diventando straziante.” ‒ incipit del romanzo

L’autore, Francesco Delvecchio, si è reso disponibile per svelare qualche retroscena del romanzo. Buona lettura!

A.M.: Ciao Francesco, ti ringrazio per aver accettato questa intervista così da raccontare qualcosa in più del tuo romanzo “Cronache di un numero brillante”. Innanzitutto potremo fermarci un po’ sul titolo del libro e sulla sua genesi.

Francesco Delvecchio: Ciao Alessia. Questa effettivamente è una domanda che in diversi mi hanno rivolto. Il titolo “Cronache di un numero brillante”, se vogliamo, è stato più difficile da concepire rispetto all’intero romanzo. Partiamo però dalle origini. La storia di Laura (la protagonista del libro) mi è venuta in mente circa due anni e mezzo fa, l’ho fatta crescere ed evolvere nella mia mente prima di metterla nero su bianco. Laura è una ragazza come tante, con i dubbi, le incertezze e le fragilità che possono caratterizzare una persona a vent’anni. Timorosa del parere degli altri, ha sempre deciso di seguire i consigli di suo padre mettendo da parte le proprie ambizioni e desideri, non credendoci più, ormai, nemmeno lei. Arriva però un giorno in cui viene chiamata a fare un colloquio presso uno dei negozi d’abbigliamento più famosi del mondo, Gonzales. Dal momento in cui viene assunta si ritrova a vivere una serie di vicissitudini e vicende che la trasformeranno, le faranno vivere una sorta di metamorfosi interiore. Amici, nemici, ragazzi, clienti e colleghi trasporteranno lei e il lettore in un microcosmo folle e sempre in movimento. La sua storia è un derivato di diverse esperienze che ho voluto mettere insieme e che hanno dato vita alla storia narrata nel libro. Nei ritagli di tempo mi sono dedicato a costruire le schede personaggi e i vari intrecci, è stato intenso, mi sono riscoperto a sorridere e ad innervosirmi in determinati punti, è stato come rivivere una seconda volta alcuni episodi. Ho vissuto un periodo di frustrazione personale che mi ha portato a riversare le energie sul manoscritto, abbattermi non è mai stato il mio forte, e ad un certo punto ho pensato solo a scrivere, scrivere e scrivere. Ho scritto in poco meno di sei mesi, interi capitoli che mi hanno portato a terminarlo, scrivere l’ultima pagina è stato emozionante, è stato come chiudere effettivamente un capitolo della mia vita.

Tornando al titolo, invece, è arrivato qualche settimana dopo, pensavo a varie combinazioni di parole che potessero formare una frase o anche una parola che mettessero al centro l’esperienza della protagonista o la sua vita ed ecco poi l’intuizione. Tanti anni fa un responsabile che ha lavorato con me mi disse una frase, un qualcosa che mi aprì gli occhi su una vicenda del passato appunto, e la frase era: “… puoi essere bravo quanto vuoi ma deve esserci qualcuno pronto a credere in te affinché tu possa andare avanti… Siamo solo dei numeri: sta a noi brillare.”

All’inizio questa frase non fu di grande effetto, non mi portò ad un’immediata riflessione che mi permise di cambiare la mia vita professionale in meglio. Col tempo, però, capì cosa volesse dirmi. L’impegno, la passione e la determinazione hanno molta importanza in tutto ciò che facciamo e in determinati ambienti è ancora più importante far spiccare queste qualità se vogliamo davvero far notare il nostro sforzo. “Brillare” non significa solo avere l’appoggio di qualcuno (anche se alle volte è necessario) ma significa prima di tutto investire su noi stessi in ciò che si crede e si fa. Quindi il titolo, se vogliamo, è una sorta di riassunto della storia stessa della nostra protagonista, Laura Milani, un numero brillante e la sua avventura.

A.M.: La prefazione del romanzo porta la firma di Barbara Alberti. Sull’incipit si menziona la ricerca dell’antropologo inglese Robin Ian Dundar sul numero di amici di ogni essere umano. Sin dall’antichità questa ricerca ha appassionato gli studiosi, ricordiamo, a tal proposito, la teoria condivisa da Ippocrate, Democrito ed Epicuro secondo la quale due sono gli amici, quattro i nemici ed innumerevoli i neutrali. Ritieni fosse troppo limitata oppure riscontri che, anche nel tuo romanzo, ci sia una simile proporzione?

Francesco Delvecchio: Quando la mia casa editrice, Albatros il filo, mi disse che la prefazione sarebbe stata scritta da Barbara Alberti non potei essere più felice. La lessi e la prima reazione che ebbi fu di sorpresa, fui sorpreso dall’argomento perché mi riguarda molto. Per me l’amicizia ha un’importanza che va oltre le parole, è inestimabile. Infatti ci ho tenuto fortemente a ringraziarli con una dedica in prima pagina per essere, appunto, i fautori di molti dei miei sorrisi. Gli amici sono le persone che costituiscono quella famiglia che in un certo senso ci scegliamo, sono quelle persone a cui affidi i tuoi segreti, i tuoi malumori e le tue gioie. Quanto siamo felici nel raccontare un evento positivo che ci riguarda ad un amico? Io personalmente non vedo l’ora di farlo. Quindi posso dirmi assolutamente d’accordo, anche se non sono uno studioso di tale materia, con la teoria su citata. Sin dalle prime pagine si può notare l’impatto che gli amici hanno sulla vita della protagonista. Nel corso del romanzo, inoltre, trova due amici che saranno molto importanti nelle vicende della sua storia, Daniele e Clara, due rocce su cui fare affidamento nei momenti più bui. Purtroppo però si scontrerà anche con diversi personaggi che si riveleranno ingiusti, sleali e poco educati. Una fra tutti è Caterina. Caterina, più grande di Laura, quasi coetanea di sua madre, è forse il primo “problema” che Laura incontra nel romanzo. Una donna arrogante e irrispettosa che renderà difficile la sua permanenza all’interno del negozio. Mi piacerebbe citare, a tal proposito, un estratto di una “conversazione tipo” fra le due:

Come, per esempio, quando Caterina decise di mettersi in mostra davanti a una cliente mancando di rispetto alla collega.

«Laura rapida vedi lì… Muoviti» Quelle parole furono accompagnate da un gesto, quasi un’indicazione verso un punto del camerino. Laura non capiva cosa le stesse chiedendo.

«Perdonami Caterina, ma lì cosa? Non capisco.»

«Vedi quanta polvere, passa lo swiffer muoviti. RapidaLa cliente che stava seguendo la donna abbassò lo sguardo un po’ imbarazzata per i modi utilizzati nei confronti della ragazza. Laura però invece di restarci male decise di rispondere, era stufa.

«Caterina credo che tu sappia farlo anche da sola. Sai dove si trova il panno. Alla signora ci penso io, del resto sono pur sempre una personal shopper per l’azienda.»

Caterina era nera, probabilmente avrebbe picchiato Laura con una gruccia dato quello che le aveva detto.”

Non sempre è facile gestire momenti di questo genere, ma questo è anche un punto che segna la maturità di Laura nei confronti delle reazioni e dei rapporti a lavoro. Tornando alla teoria citata nella domanda, dove si parla dei neutrali, fra le tre categorie (amici, nemici e neutrali) trovo che siano in un certo senso i più dannosi. Perché sono coloro che non prenderanno mai una posizione nei tuoi confronti o nei confronti di un tuo nemico, non saprai mai che cosa pensano realmente di te. Basti pensare che il primo gruppo di amici di Laura scompare dalla sua vita senza farsi più sentire, i cosiddetti neutrali che avrebbero quantomeno potuto spendere una parola o un gesto per lei o la sua situazione. Io sono convinto di una cosa, ovvero, che tutte le persone presenti nella nostra vita in un certo qual senso siano presenti per un motivo, qualsiasi ruolo possano ricoprire, sta a noi prenderne il meglio. Laura per lo meno cercherà di farlo.

A.M.: Bari la si incontra sin dalla copertina. Com’è il tuo rapporto con questa città?

Francesco Delvecchio: Come hai detto è possibile ammirare Bari già dalla copertina, il teatro Margherita sullo sfondo infatti è uno dei simboli più importanti e riconoscibili della città, ma prima di parlare della copertina vorrei esplicare al meglio l’importanza che ha per me la mia città natale. Come è possibile intendere io sono molto legato ad essa.

In passato, da ragazzino, non facevo altro che pensarmi in un luogo diverso da Bari, tipo che avrei trovato lavoro a Milano, Roma o Londra addirittura, così non è stato perché con il tempo ho imparato ad amarla, ho imparato ad avere rispetto per le mie origini. Vivere a due passi dal mare, in estate sembra di stare in California con i palazzi che si affacciano sulle spiagge, è possibile sentire l’odore della salsedine addirittura in pieno centro. Oppure la tradizione delle “orecchiette” e delle “sgagliozze” fatte con le mani delle anziane del borgo antico proprio sulla soglia delle loro case, non ha prezzo perché anche se sembra anacronistico esistono giovani interessati a questa forma di arte e ad ammirarle vengono praticamente da tutto il mondo. Le nostre città rappresentano, come la nostra famiglia, le nostre radici e quindi non ho trovato giusto abbandonarla per un qualcosa che si presentava come “migliore” solo perché l’immaginario collettivo ci porta a pensare a questo molto spesso. A Bari ho tutta la mia vita, e anche se mi definisco un buon viaggiatore perché adoro farlo, adoro altrettanto il momento del ritorno. Molti potrebbero pensare che rimanga qui per pigrizia o perché è più facile barricarsi nella cosiddetta “comfort zone”. Può essere anche vera la seconda ma per farlo bisogna prima trovarla questa benedetta “comfort zone”. Ma ora veniamo alla copertina, realizzata da SWITCH ON comunicazione e media. Avevo consegnato il manoscritto alla casa editrice, non sapevo ancora quali idee mi avrebbe proposto per la copertina anche se una già ben definita mi ronzava in testa. Lavorando in un negozio d’abbigliamento, nel reparto donna, in una multinazionale proprio come quella dove lavora Laura, si ha la possibilità di conoscere una miriade di persone. Con molte ci si limita ad un saluto con altre invece addirittura ci si raccontano fatti della propria vita che solitamente si tende a tenere per sé. Un giorno entrò la signora Regina (colgo l’occasione per salutarla e ringraziarla ancora), l’aiuto spesso a cercare i capi che desidera all’interno del negozio oppure mi fermo a parlare del più e del meno, anche se non conoscevo nulla di lei come per esempio che lavoro facesse. Ricordo ancora quel pomeriggio in cui le ho raccontato del mio libro e lei senza pensarci due volte mi propose di realizzare quella che è la copertina attuale. Mi chiese se avessi idee e una di queste fu che ci dovesse essere assolutamente Bari sullo sfondo. Così è stato, ha realizzato, insieme ai professionisti che lavorano nel suo studio, la copertina esattamente così come me la immaginavo. Sono molto orgoglioso perché ogni volta che mi soffermo a guardare quell’immagine mi accorgo che non potevo chiedere di meglio.

A.M.: “Cronache di un numero brillante” è scandito da capitoli che hanno come titolo la data precisa degli eventi che il lettore andrà a leggere, si susseguono così i mesi da giugno 2012 a settembre 2013. Perché hai scelto il 2012/2013 per raccontare la storia della protagonista Laura Milani?

Francesco Delvecchio: Volevo dare l’idea al lettore di come scorre il tempo all’interno del romanzo, oltre che scandirlo con i cambiamenti che andranno a caratterizzare la protagonista (anche estetici) ho voluto inserire una sorta di time-line. Molti mi hanno chiesto come mai sei partito dal 2012? Per me quel biennio, 2012/2013, ha segnato un punto di svolta, da adolescente sono diventato uomo sia anagraficamente che interiormente. Proprio come Laura. Ho lasciato la spensieratezza del periodo adolescenziale, il cui unico pensiero era lo studio (premetto che per me a 19 anni l’università richiedeva impegno e dedizione quindi non è solo un pensiero ma è una vera e propria responsabilità verso se stessi) per approcciarmi al mondo del lavoro, probabilmente non ero pronto a quel tipo di responsabilità accademica. Inoltre trovo interessante quel biennio perché, molto tempo dopo, mi sono accorto che ha segnato un cambiamento della società, per come la conosciamo oggi. All’epoca molti utilizzavano i “Nokia” (proprio come Laura), i telefoni con le testiere fatte di soli numeri, gli smartphone sono arrivati in contemporanea, quindi c’è stato una sorta di contrappasso che ha segnato sicuramente anche il modo di vedere il mondo. Un piccolo mezzo che ci dà la possibilità di comunicare, di cercare l’amore, di viaggiare, di metterci in contatto tramite i social. Il social prima lo usavamo nei momenti liberi quando tornavamo a casa, dopo il lavoro o dopo le uscite serali, ora nei momenti liberi (ammesso che ci siano) cerchiamo di dedicarci alle persone. Sì, si è capovolto il mondo, il modo di socializzare. Ho voluto raccontare all’interno del mio libro questo cambiamento perché lo trovo davvero un fattore caratterizzante di quel periodo e di una generazione che è cambiata senza accorgersene. Laura non aveva la benché minima curiosità nell’usare uno smartphone, le bastava mandare un SMS per essere in contatto con i suoi amici. Follia, un SMS probabilmente molti non sanno nemmeno cosa sia. Sembra strano dirlo, mi sento come mio padre mentre mi racconta degli anni ‘70 o ‘80 e di come ci si divertiva con poco. I cambiamenti però non vengono mai per nuocere, lo dico sempre, basta solo saperli prendere e farli nostri. Magari oggi vediamo la tecnologia come un mezzo che ci tiene distanti, io la vedo come un modo invece per tenermi sempre in contatto con chi magari non posso vedere per via delle distanze. Anche se non deve essere un deterrente da preferire a chi ci circonda.

A.M.: Ogni scrittore immette nei fogli qualcosa di sé, eventi che hanno segnato la vita o semplici passioni. Ad esempio Fernando Pessoa ha creato un vero e proprio mondo popolato dai suoi eteronimi. Leggendo la tua biografia non si può non restare colpiti dalle “coincidenze” fra te e Laura. La protagonista è una sorta di tuo alter ego letterario?

Francesco Delvecchio: Beh effettivamente solo un occhio parecchio attento può notare il legame tra Laura e la mia biografia. Scherzo, però ci tengo a dire che Laura non è Francesco Delvecchio. Sicuramente ha molto di me, perfino alcune esperienze sono uguali alle mie per esempio: come Laura ricordo ancora il grido di paura della mia collega che si propaga, grazie all’interfono, in tutto il negozio a seguito dell’assurda caduta di una bambina dal secondo piano dello stesso. Oppure ricordo ancora la frenesia che animava il negozio e che mi caricava per il turno che stavo per iniziare. Però Laura ha sviluppato nel romanzo una vita propria, fatta di scelte differenti dalle mie per alcuni aspetti. Trovo che lei sia una ragazza coraggiosa seppur apparentemente fragile, io sto imparando da lei per certi punti di vista. Di base però effettivamente il suo personaggio mi appartiene particolarmente dall’università abbandonata alla passione per la moda fino ad arrivare all’amore per la scrittura. Non è stato molto semplice scrivere di lei. Comunque riprendendo Fernando Pessoa lui ha creato un mondo di eteronimi, proprio come dici tu ed infatti in questo romanzo c’è molto di me ma non solo in Laura ma in quasi tutti i personaggi. Nel modo di fare sono un po’ Sergio e un po’ Daniele anche se i due sono molto diversi fra loro, parte della frustrazione di Carlo e Laura l’hanno ereditata da me oppure il modo di vedere l’amicizia come fanno Clara o Laura, selettiva, anche quella è una mia peculiarità. Tutti però hanno in comune una caratteristica che se vogliamo li accomuna, ovvero, il modo di affrontare le cose. Trovo che abbatterci sia fisiologico in alcuni momenti, solo che non deve essere uno status ma un momento di riflessione. Si di riflessione con noi stessi, riorganizzarsi e rimetterci su una strada alternativa per continuare dritti verso ciò che davvero si vuole. Quindi ammetto che questa fra tutte le caratteristiche che ho donato ai miei personaggi è quella che mi rende più orgoglioso.

A.M.: Nel tuo sito personale si legge in maiuscolo il motto: “Vivi la tua vita sempre come vuoi, con libertà e con audacia, anziché farla vivere agli altri”. Laura l’ha dovuto imparare con una dura battaglia ma non sempre le persone accettano di “conoscersi”. Qual è il motivo?

Francesco Delvecchio: Hai ragione, hai detto bene, non sempre le persone accettano di conoscersi. Laura inizialmente è l’ombra di se stessa se vogliamo, trova più semplice dire “sì va bene lo faccio, faccio come vuoi tu” piuttosto che prendere una decisione per se stessa. Il motivo? Probabilmente uno dei motivi potrebbe essere la paura di osare, di sbagliare, insomma di fare quell’errore che crede irrimediabile. In un vecchio film con Hilary Duff, ad un certo punto, appare una frase su un muro che recita: “Non lasciare mai che la paura di perdere ti impedisca di partecipare”.

Quanti di noi compiono questo errore? Ma soprattutto, quanto tempo ci mettiamo prima di mettere in pratica il concetto di questa frase che alla fine sembra solo una frase fatta, una frase ad effetto? Beh ognuno ha i propri tempi, è la risposta che mi sento di dare. Laura, per esempio, ci è arrivata dopo aver preso un sacco di batoste da “amici”, uomini e perché no anche colleghi. Le sue avventure alla fine sono propedeutiche, se vogliamo, alla formazione di quello che sarà il suo nuovo punto di vista, il modo in cui inizierà ad affrontare le vicende e le vicissitudini che la riguardano. L’università sbagliata, il fidanzato sbagliato, gli amici sbagliati sono tutte tappe (non necessariamente obbligatorie, non mi azzarderei mai di dire questo) che alla fine vanno a influenzare, a cambiare le persone che siamo. Laura che queste cose le ha provate tutte lo sa bene, non a caso il titolo del romanzo inizia con “Cronache”. Una semplice esperienza come può anche essere un viaggio da soli ci può segnare in modi che nemmeno ci aspettiamo. E per ricollegarmi alla frase che hai citato nella domanda, quella che rappresenta l’insegna del mio blog, ci tengo a sottolineare che vivere la propria vita non deve essere solo un atto di coraggio, ma anche un gesto di libertà e di rispetto a quella vita che infondo ci siamo guadagnati.

A.M.: Riporto un estratto dal libro: “«Mio padre non è molto tollerante, non tollera i ragazzi effemminati, i ragazzi che fanno cose da donna, i gay. Capisci bene quindi che per me è parecchio difficile dirgli come sono.» Trasse un sospiro, volgendo nuovamente lo sguardo all’amica. «Mia madre è mia madre, sono sicuro lo sappia, mi fa sentire a mio agio. Nemmeno a lei ho avuto il coraggio di dirlo però. Non ho voluto caricarla di un peso da tenere per sé.»” Un breve dialogo fra Daniele e Laura che rispecchia perfettamente il timore di molti ragazzi (e ragazze) per la cosiddetta confessione dell’orientamento sessuale ai propri genitori. Ricordando che il romanzo è ambientato nel 2012, secondo te, oggi qualcosa è cambiato oppure non ci si è mossi dalla preoccupazione di poter ferire i genitori? Prima della tua risposta devo elogiare la profondità del tuo ragionamento nel sottolineare il modo in cui Daniele preserva la madre dall’incombenza di venire a conoscenza di una confidenza (un segreto che conosce già ma di cui non si è parlato) che potrebbe mettere in difficoltà il rapporto di coppia con il padre.

Francesco Delvecchio: Che dire?! Questo è uno dei miei capitoli preferiti. La referente della mia casa editrice (Albatros il filo) lo ha definito una “pausa nella trama”, trovandolo interessante, io invece lo definirei come “un momento essenziale” nella storia dei protagonisti. Sì, perché fondamentale qui Laura capisce che anche un ragazzo così “libero” e senza peli sulla lingua, come Daniele, abbia delle difficoltà ad esprimersi per di più con i suoi genitori che dovrebbero essere il suo porto sicuro. Daniele invece “forte”, allegro e di carattere (l’opposto di Laura, tranne per l’essere allegro) si ritrova a mostrare la sua parte più fragile, il suo tallone d’Achille, la sua vita vissuta a metà. Nel 1800 come nel 1900 e come anche nel 2000 i ragazzi e le ragazze che sentono di avere un orientamento sessuale diverso da quello che solitamente si definisce “tradizionale” o “normale” tendono a tacerlo soprattutto negli ambienti intimi come le amicizie strette e soprattutto le famiglie. Si è vero negli anni 2000 si è fatto passi da gigante ma lo stigma esiste ancora, purtroppo aggiungerei. Una persona non riesce a fare quell’“agognato” e probabilmente necessario coming out per svariati motivi. Uno può essere sicuramente la paura di far mutare il rapporto che si ha con le persone più care, amici e parenti appunto, di essere visti in modo differente seppur “accettati”. È difficile da spiegare ma un genitore in molti casi, dopo una rivelazione del genere, cambia la visione che ha del proprio figlio o figlia, la/o vede più fragile, da proteggere dalle “avversità del mondo etero e bigotto”. Ma un figlio o una figlia non chiede questo, non chiede compassione, non chiede protezione, chiede solo “normalità”, la stessa che c’era prima di dirlo. Un altro dei motivi invece, come nel caso di Daniele, è quello che riguarda la preservazione del rapporto famigliare. Sì. perché molto spesso si hanno genitori di ampie vedute (come sua madre) e genitori con vedute più ristrette (come suo padre) e si crede che dirlo possa rappresentare l’inizio di diatribe famigliari, nate a causa di questo modo di essere, quindi si preferisce fare silenzio, omettere. Una persona omosessuale preferisce, oggi, il più delle volte, rendersi spontaneo di fronte agli estranei senza creare quella rete di bugie e omissioni che si è costretti (da sé stessi o dal contesto in cui si vive) a tenere in piedi piuttosto che dirlo in casa, almeno non si rovinano le aspettative e si dà vita ad un rapporto limpido, senza ombre e segreti. Prima ho detto che anche con gli amici si tende a tenere il segreto, soprattutto con quelli stretti, con quelli che fanno finta di non saperlo. Il motivo? Perché fanno finta di non saperlo! Alle volte il tacito assenso non fa altro che provocare lassismo nella persona in questione (dico persona perché non solo i ragazzi/e hanno queste difficoltà) e quindi è meglio lasciare il rapporto così com’è, a metà. Non esistono dei momenti per dirlo, esiste solo l’accettazione di se stessi che renderà naturale farlo. Per questo mi sento di dire assolutamente che accettarsi e volersi bene è il primo passo per non vivere più a metà, per vivere liberi. Questo momento può arrivare all’improvviso o anche dopo l’aiuto di chi davvero sa ascoltare senza far aprire bocca, in questo Laura è stata formidabile.

A.M.: Hai ricevuto qualche critica costruttiva dai tuoi lettori su uno o più personaggi secondari a cui avresti dovuto dare più spazio?

Francesco Delvecchio: A dire il vero sì. Una delle recensioni che più mi ha colpito è stato da parte di una ragazza che si è rivista nel personaggio di Laura, nelle sue difficoltà e nelle decisioni non prese. Mi ha detto di essersi commossa addirittura. Io credo che arrivare al cuore anche di una sola persona sia il traguardo più bello e unico che uno scrittore, un cantante, un attore, un artista in generale possa mai raggiungere. C’è chi ha ammirato la figura di Marianna “la Tedesca” per il suo essere così sicura, autorevole e indomita. C’è chi mi ha scritto per dirmi: “quanto vorrei un’amica come Stella da tenere sul comodino di casa, sempre pronta a consolarmi col suo fare materno”. Anche la cattiveria e le maniere poco carine di Caterina non sono passate inosservate: “… ho una Caterina uguale anche io a lavoro, la mia solidarietà a Laura.”.

Qualcuno mi ha detto che non ho dato molto spazio alla storia di Daniele, di non aver approfondito a dovere la sua situazione. Io ho accettato questa critica ma al contempo ho risposto semplicemente che questa non è la storia di Daniele, ma che probabilmente un giorno la potrei affrontare più dettagliatamente e più in profondità. C’è chi ha ritenuto troppo perfetto Sergio per essere vero. Posso assicurare che ho avuto il bellissimo piacere di conoscere persone anche come lui, quindi posso affermare che esistono. Molti personaggi hanno dei caratteri e delle storie alle spalle che li rendono “da scoprire” e magari è proprio questo quello che volevo, che non ci si affezionasse solo a Laura, ma anche a tutto il contesto di questi ultimi che la circonda, di quelli che animano il microcosmo di “Cronache di un numero brillante”.

Io credo che i personaggi migliori, in generale, siano quelli che prendono le sembianze delle persone per le quali proviamo un qualsiasi sentimento, che possa essere, rabbia, stima, odio, amore o semplice affetto. L’ispirazione che ci dà una persona è da tenere sempre preziosamente conservata, a prescindere da quale sia il sentimento.

A.M.: Hai in programma delle presentazioni del libro nei prossimi mesi tra primavera ed estate? Se sì, dove potremo seguire le date?

Francesco Delvecchio: Ho qualcosa in mente, ma sicuramente lo renderò pubblico quando sarà più concreto, e per questo consiglio di visitare il mio sito nel quale poter seguire gli sviluppi e le novità di Cronache di un numero brillante (troverete tutti i social in cui sono presente, Instagram, Facebook, Tik Tok, Twitter).

Comunque sia questo percorso è iniziato con una prima presentazione il 31 febbraio 2023 alla Feltrinelli di Bari. La cosa che mi ha emozionato più di tutte era vedere, sicuramente amici e parenti accalcarsi per ascoltarmi, ma soprattutto cogliere l’interesse di passanti, di estranei che occupavano le poche sedie rimaste vuote per sapere di più sul mio romanzo. Quella serata, quella prima volta, la posso descrivere con una sola parola, incredibile. Il relatore inoltre, Francesco Valente, mi ha aiutato a rendere magico quel momento, non potevo chiedere di meglio. Poi è arrivato il 19 maggio 2023 data in cui ho partecipato al Salone del libro di Torino. Il mio primo Salone del libro, per di più come autore, indimenticabile. Un’esperienza unica, sono convinto che almeno una volta nella vita ci si debba andare anche se non si è dei grandi lettori. Andarci significa vivere una vera e propria esperienza. Mi ricordo ancora il momento in cui ho varcato quei cancelli e in cui ho trovato sullo stand della casa editrice, con cui ho pubblicato, il mio libro esposto in bella mostra. È assurdo per me pensare come sia stato possibile l’avverarsi di un tale sogno. Continuerò sicuramente a portare in giro la storia di Laura, a raccontare di lei e del suo pazzo mondo, quindi vi invito con gioia a seguire tutti gli sviluppi di questo percorso appena iniziato.

A.M.: Ci puoi anticipare qualcosa riguardo alle tue future pubblicazioni? Stai scrivendo una nuova storia oppure è già terminata e chiusa in un cassetto?

Francesco Delvecchio: A questa domanda mi fa sempre piacere rispondere. Sì c’è un piccolo progetto nel cassetto che sto iniziando a mettere in moto, la scrittura non l’ho mai messa da parte, anzi quando posso cerco di articolare quest’ultimo sempre al meglio. In questo momento, però, sto dedicando le mie energie a “Cronache di un numero brillante”, una creatura appena nata che sta iniziando a mettere i suoi primi passi al mondo, quindi per il momento sentirete parlare solo di Laura Milani.

A.M.: Salutiamoci con una citazione…

Francesco Delvecchio: Per rimanere in tema con la storia di Laura e l’insegna del mio blog nessuna citazione è più giusta di questa di Oscar Wilde: “La vita è troppo breve per sprecarla a realizzare i sogni degli altri.”

A.M.: Francesco ti ringrazio per aver dedicato così tanta cura nelle tue risposte, si nota la tua passione e la sincerità nella condivisione delle tue scelte di vita. Invito i lettori a conoscerti meglio attraverso il tuo sito web e social media e saluto prendendo in prestito le parole di Carl Gustav Jung: “Pensare è molto difficile. Per questo la maggior parte della gente giudica. La riflessione richiede tempo, perciò chi riflette già per questo non ha modo di esprimere continuamente giudizi.”

Written by Alessia Mocci

Info

Visita il sito di Francesco Delvecchio

https://www.francescodelvecchio.com/

Fonte

Alessia Mocci intervista Emanuele Martinuzzi: ecco la raccolta L’idioma del sale (Fonte Oubliette magazine)

Ogni piccola poesia che si scrive, anche poche parole distrattamente lasciate su un foglio, sonoun’alleanza e una ricerca col senso nascosto delle cose. La storia di ognuno di noi diventa tangibile ogni volta che viene scritta, niente è veramente vissuto senza che il segno della scrittura porti l’esistenza ad una doppia esistenza.” – Emanuele Martinuzzi

La poesia è alleanza e ricerca, il poeta vive il mistero delle cose, della creazione, non solo della vita e del suo continuo tramutarsi ma anche della realizzazione dei pensieri. Le parole vengono pensate con coscienza oppure vengono udite? Che cos’è che spinge – talvolta con costrizione – a scrivere? Ad imbrattare la carta con segni a cui è stato dato significato?

Emanuele Martinuzzi si interroga sul bisogno di poesia percependolo come un’urgenza. “L’idioma del sale”, edito dalla casa editrice Nulla Die, è un amalgama di parole, coesione di piccole poesie tracciate su qualsiasi supporto, cartaceo o digitale, in momenti diversi della giornata. Frasi dell’immediato, sentite riecheggiare nella mente e trascritte senza alcuno scopo letterario che, invece, a distanza di anni, sono diventate pagine di una silloge poetica.

L’autore, classe 1981, ha conseguito una laurea in Filosofia a Firenze ma già in tenera età si è occupato, tramite la poesia, di indagine sull’essere umano percorrendo una strada solitaria di dialogo continuo.

Nella pienezza del Non” (Ilmiolibro, 2010), “L’oltre quotidiano – liriche d’amore” (Carmignani editrice, 2015) “Di grazia cronica – elegie sul tempo” (Carmignani editrice, 2016) “Spiragli” (Ensemble, 2018) “Storie incompiute” (Porto Seguro editore, 2019) “Notturna gloria” (Robin edizioni, 2021) sono alcune delle sue precedenti pubblicazioni.

Mi sono intromesso nell’ombra/ di una quercia trapassata/ in gergo popolare/ con il soffio missionario/ delle mie ipotesi di dolore,/ aspettando scrollasse/ dai suoi rami di realtà/ tutta la mia invisibile/ resina o paura della vita.”

A.M.: Salve Emanuele, l’anno scorso abbiamo presentato ai lettori “Notturna gloria” (Robin Edizioni), una raccolta di ventuno poesie associate ad altrettante illustrazioni del Maestro Gianni Calamassi. È stata una pubblicazione che ha avuto maggior “fortuna” nel pubblico dei lettori oppure in quello dei critici letterari?

Emanuele Martinuzzi: Ciao a tutti. Sembra passato molto più tempo. Sarà il periodo della pandemia che dilata e deforma il trascorrere dei mesi in modo innaturale. Comunque proprio in questi giorni ho ricevuto comunicazione che “Notturna gloria” ha ottenuto un ulteriore riconoscimento, la Menzione d’Onore al Premio Letterario Internazionale “Molteplici visioni d’amore – Cortona Città del Mondo”. Questo dopo aver già ottenuto il Premio Speciale della Giuria al Concorso San Domenichino dell’anno scorso. Sinceramente non mi aspettavo questi piacevoli e prestigiosi riscontri di apprezzamento. Mi è capitato poi di parlare con alcune persone che avevano letto la raccolta e che mi esprimevano le loro impressioni ed emozioni intense rispetto a quello che avevano fruito in questo lavoro illustrato. Quindi alla luce di questi esempi non saprei cosa rispondere esattamente. Direi che in modo imprevisto ha avuto buoni effetti sia sul pubblico dei lettori che su quello dei critici o degli addetti ai lavori. Sinceramente non me l’aspettavo, perché questa raccolta dal mio punto di vista rimane di non facile accesso e fruizione, sia per la natura criptica dei suoi contenuti, sia per le atmosfere che evoca nel loro lontano simbolismo. Infatti mi viene da pensare ancora, nonostante questi apprezzamenti, che non sia stata assimilata completamente nei suoi messaggi e nelle sue inattuali prospettive. Il fatto che sia un viaggio di discesa verso gli inferi di ciò che è in stato di abbandono, o distrutto dalla storia e dal tempo, nel suo essere violentemente innocente e inesorabile, oppure in ciò che è immaginario e abitante della sola fantasia, mi fa pensare che non possa e debba essere una lettura priva di ostacoli o barriere comunicative. La sofferta riflessione sul tempo cronico, distruttivo delle cose, delle civiltà e dei suoi valori, considerati come dati, scontati, spesso privi di una prospettiva storicistica che li renda relativi e non assoluti, credo sia in contraddizione rispetto a una moderna cultura, che invece tende a considerare e cristallizzare opinioni, giudizi e valori, privi di uno spessore storico, protesa più a cancellare l’evoluzione dei fenomeni nella storia, piuttosto che a farsi carico del loro essere mutevole, cioè legati a un determinato contesto socio culturale di riferimento. Questa raccolta è un viaggio che mostra come le rovine de tempo cancellano ogni cosa e emozione, rendono tutto ombra, però allo stesso tempo non cancellano la storia e la sua tormentata epopea, piuttosto ricercano attraverso la poesia, di riesumare ciò che c’è di eterno in questo continuo passaggio di costruzione e distruzione. Poesia e storicismo, simboli e rovine, fortuna e destino, vita e morte, spiritualità e silenzio.

A.M.: “L’idioma del sale” è il titolo della tua recente pubblicazione, “sale” compare nella silloge: nella citazione di apertura nella quale riporti i versi della lirica “Noi non sappiamo quale sortiremo” del poeta Eugenio Montale ed in due tue liriche, la prima cita “Naufrago in questa/ spiaggia senza vanità,/ nomade pausa, crampo/ nell’idioma del sale.” e la seconda più lunga di cui cito tre versi: “[…] In questa paralisi di ardore/ nessun racconto di sale/ più ci accompagna tra le zolle,/ […]”. Dal “sale greco” di Montale si passa all’“idioma del sale” ed al “nessun racconto di sale”. Quale concetto hai voluto indicare con il sale?

Emanuele Martinuzzi: “L’idioma del sale” è una raccolta che mette insieme le poesie, le frasi e le parole scritte, prima della pandemia, su fogli sparsi, quaderni, smartphone, pc, etc., ovunque insomma avessi modo di gettare nero su bianco la mia ispirazione del momento, i miei dubbi, la mia voglia di esprimermi in libertà. Una specie di diario poetico delle mie emozioni e pensieri, gioie e tormenti, alti e bassi, a dimostrazione che la poesia sa accompagnare tutti i momenti della vita, in qualsiasi frangente, e sa tradurre i suoi sentimenti, profondamente. Un grande poeta del passato Archibald MacLeish scriveva che “la poesia non deve significare ma essere”, infatti ogni volta che la poesia è, le cose si arricchiscono di nuovi significati, la realtà viene manifestata e liberata da convenzionali interpretazioni. La poesia è il sale della terra e dell’umanità, parafrasando il Vangelo, perché sa dare sapore e spessore ai vissuti, sa trasformare aridi momenti in nuove rinascite, sa trasfigurare le cose per mostrarne i volti e significati nascosti. Le poesie sono piccoli grandi granelli di sale, messaggi dall’abisso di amore, pace e speranza, che si librano sopra le contraddizioni, le oscurità e le assurdità del mondo. Questo lavoro altro non è che un omaggio allo scrivere poesie, a farle entrare nella propria vita di tutti i giorni, comunque e ovunque, a fare questa cosa così apparentemente inattuale, ingenua, sublime, di affidare alle parole scritte il nostro sentire più inascoltato, fragile o misterioso. In questo caso, differentemente dal precedente lavoro di cui si parlava, questa raccolta diventa una testimonianza della mia storia personale, queste poesie o queste parole sono la testimonianza della mia relazione con l’atto dello scrivere e della mia scrittura con l’esistenza. Come il sale nell’Antico Testamento, nel Levitico, è citato come un mezzo simbolico che garantisce l’alleanza tra il popolo e il divino, così la poesia sancisce quel misterioso legame tra un essere chiamato all’esistenza e l’incognita della vita. Ogni piccola poesia che si scrive, anche poche parole distrattamente lasciate su un foglio, sono un’alleanza e una ricerca col senso nascosto delle cose. La storia di ognuno di noi diventa tangibile ogni volta che viene scritta, niente è veramente vissuto senza che il segno della scrittura porti l’esistenza ad una doppia esistenza. Così le cose, le emozioni e i vissuti acquistano quel sapore che sa di significato, senso, miracolo, sale. Inoltre il sale nell’impero romano era usato anche come elemento distruttivo, dopo aver annientato Cartagine, i romani sparsero il sale sul suolo della città al fine di renderlo sterile per sempre, così come nella Bibbia si racconta che abbia fatto Abimelech dopo aver espugnato la città di Sichem. La poesia in questo senso gettata sull’esistenza trasforma ciò che nel vissuto trattiene il nuovo, ciò che arresta l’evolversi inevitabile della storia e trasfigura queste rovine lasciando il posto affinché giunga la rinascita, il rinnovamento, l’illuminazione inscritta nel linguaggio. Quindi mi piaceva l’idea del sale perché queste comunque sono poesie scritte già per essere scarti, lasciate a casaccio nei fogli, il puro piacere della scrittura, l’abbandonarsi al mistero della vita attraverso i segni della poesia. Ciò che apparentemente è solo una parola che rimanda a un tuo sentire di un momento, che può essere considerato come insignificante, assurdo o inascoltato, in realtà è il sale della terra e della vita, l’essenza che la poesia custodisce e pronuncia per essere compresa, per dare il giusto peso e sapore alle piccole immense cose.

A.M.: Ogni parola, partendo dall’etimo e risalendo nella storia del suo utilizzo, ha una variegata ramificazione. Dal sale possiamo passare all’illusione: “Quello che resta dei miei occhi,/ disciolti al patibolo dell’illusione,/ […]”. La radice della parola illusione proviene dal latino ludere con il significato di “giocare”. Ombre/a è un altro vocabolo che si nota ne “L’idioma del sale”. Per non estendere troppo questa domanda citerò solo il verso in cui compare: “ombre intrise di ali”. Gli esseri umani hanno un rapporto particolare con l’ombra, ma il poeta in particolare ne esalta la sua esistenza, quasi che la sagoma nera sia la prova più evidente della luce. Il poeta è fortemente connesso all’oscurità come momento di massima ispirazione ed è proprio in questa condizione che si possono ammirare le stelle. Troviamo la parola “stelle/a” in alcuni passi della raccolta tra cui: “nella traversata di una stella verso l’umano”. Dall’ombra proiettata verso il basso, verso l’interno, la stella è ciò a cui tendiamo, ciò che sta in alto e ciò che luccica.

Emanuele Martinuzzi: Non solo l’etimologia di ogni parola che entra nella fitta trama di una poesia si mostra come un viaggio speleologico nei meandri delle sue forme e nella storia della sua evoluzione, ma anche il significato stesso di ogni parola non è più dato come stabile o univoco, come viene considerato quotidianamente nello scambio e nel dialogo tra persone. Ogni senso entra in quell’avventura affascinante che permette di vedere le varie sfumature possibili, le varie strade che ogni parola può prendere nel labirinto dei contenuti che la compongono, apertamente o anche in modo sibillino. E poi non è solo questo, non è un mero gioco linguistico, semmai più un gioco di ombre e di luce come nella caverna di Platone. La scrittura ti permette di creare un tuo universo di spirito e materia, instabile e cangiante come le tue emozioni, plasmando le ombre e la luce che le attraversano e che provengono da un non ben imprecisato altrove, che a volte assomiglia al mondo esterno, a volte agli abissi del tuo cuore e altre volte a un qualcosa di assoluto che abita l’esistenza. Chi scrive poesie in qualche modo crea nel vero senso della parola, perché come il Fanciullino pascoliano dona per la prima volta un nome alle cose e in questo modo crea le cose stesse, le sue cose, uniche e irripetibili, in quell’armonia miracolosa che è un animo umano, in questo suo specchio, ingiudicabile e bellissimo, composto di versi e silenzi. Leggere una poesia è abbracciare una sensibilità del tutto sconosciuta, scoprire una civiltà sepolta sotto alla forma delle parole e al suo senso più comune, per lasciarsi trasportare in prospettive e orizzonti desueti, fuori dalle proprie caverne, fuori nella luce della bellezza, della libertà, dell’umanità e del mistero. Il fatto che tutto questo non sia solo un’illusione, o un mero artificio, lo si sa osservando come la poesia sappia costruire emozioni di pace, sappia faci avvicinare al mistero con gentilezza, sappia svuotare le nostre pulsioni più distruttive in una catarsi creativa. La poesia è una stella da seguire per realizzare i propri desideri più fondamentali, che riguardano l’interiorità.

A.M.: Il poeta è fortemente connesso agli elementi del cosmo e della natura come momento di massima ispirazione, ma non è solo dalla contemplazione dell’universo che riesce a trarre fervore, egli infatti è connesso a tutta la produzione precedente di poesia. Quali sono i poeti che, nel corso degli anni, ti hanno emozionato maggiormente?

Emanuele Martinuzzi: Mi viene da pensare alle mie prime letture di adolescente. La mia scoperta dei simbolisti francesi fu davvero una rivoluzione copernicana per me e per il mio modo di intendere, non solo la scrittura della poesia, ma anche il rapporto di chi la ama e la scrive nei confronti del resto della cultura e della società, non solo in termini di opposizione o differenziazione, ma una via unica e contraria di ricerca e sperimentazione, anche personale, dei propri vissuti, che diventano parte integrante del fare poesia. Come non pensare alla poesia “L’albatro” di Charles Baudelaire dai suoi “I fiori del male” dove appunto canta il suo essere “esule sulla terra, al centro degli scherni,/ per le ali di gigante non riesce a camminare”. Un altro amore è stato Arthur Rimbaud, tutta la sua opera e la sua vita sono state illuminazioni poetiche, battelli ebbri di bellezza e alterità. Ovviamente sempre nel simbolismo francese “I canti di Maldoror” del Conte di Lautreamont, pseudonimo o nome reale di Isidore Ducasse, mi hanno traghettato nella crudeltà sublime di una poesia, lasciata libera di essere se stessa e diversa da sé. Potrei continuare con Mallarmé, Verlaine, Corbiere. Ovviamente non posso tralasciare l’ispirazione senza fine avuta dalle letture dei grandi della letteratura italiana come il simbolismo di Pascoli, il suo fanciullino eterno e creativo, i “Canti orfici” di Dino Campana, il suo folle errare senza meta con la sola destinazione della chimera poetica, gli immensi Montale, Ungaretti, Quasimodo, Luzi, che mi hanno davvero fatto scoprire continenti di poesia, in cui confluiscono oriente e occidente, passato e futuro, ermetismo e canzone, secolari tradizioni di poesia e biblioteche di emozione. Poi essendo un lettore molto discontinuo e curioso, ho davvero letto di tutto e di più in questi anni, tra i grandissimi e i minori, contemporanei o antiche voci, dagli haiku giapponesi alla poesia africana, dal classicismo alle avanguardie, dall’imagismo americano alle poesie dei migranti, dai Novissimi del gruppo ’63 alla Beat generation e potrei continuare ancora. Non c’è mai fine alla possibilità di scoprire qualcosa di nuovo nel passato, il passato in un certo senso è il nostro futuro, sono state scritte tante di quelle pagine di arte, poesia e letteratura, che possiamo veramente trovarci di fronte a qualche novità che non conoscevamo, tesoro pronto per essere scoperto e rivitalizzato. Detto questo spesso non ho una grande memoria e quindi molte cose lette sono state non proprio dimenticate, bensì direi metabolizzate dentro di me, la loro atmosfera evocativa è entrata a far parte del mio animo e della mia sensibilità. Poi dopo tante letture quello che penso è che anche quello che si vive sia in qualche modo letteratura, il discrimine tra la forma letteraria e la vita vera è molto labile. Nel bagaglio di esperienze che si fanno e che arricchiscono, con la gioia o la sofferenza, c’è un legame invisibile e misterioso con i versi che possiamo leggere degli autori sopracitati o anche altri. Alla fine i nomi della letteratura, le definizioni, i movimenti, le classificazioni e le etichette svaniscono per lasciare il posto alla bellezza e alla passione della quintessenza della poesia, che travalica i linguaggi e i vari universi di significato. Ungaretti non è più Ungaretti, ma un’emozione del nulla, che si traduce nella vita tra un fiore colto e l’altro donato, nello sbocciare di un attimo che illumina d’immenso la tua vita. Così vale per qualunque autore, grande o piccolo che sia, siamo tutti interconnessi, letteratura e vita, filosofia e poesia, conoscenza e ignoranza, tutto è un miracolo che contribuisce all’enigma dell’esistenza. Più procedo in questa passione della poesia e della scrittura, più abbandono un atteggiamento critico o intellettuale, che già non mi appartiene spontaneamente, per abbandonarmi, forse in modo ingenuo e naïf, all’avventura primordiale e bellissima di lasciare segni misteriosi sul foglio bianco, di viverli attraverso le esperienze della vita, tutti i giorni, nelle piccole grandi cose ed emozioni. Si potrebbe anche dire che più si ama la scrittura e più anche i momenti della vita in cui non si scrive, per una qualche ragione, sono anch’essi una forma del poetare. Anche se non scrivessi neanche più un verso, la poesia continuerebbe ad accompagnarmi con la sua ombra, sempre in ascolto e in attesa delle sue epifanie, continuerei a sfogliare gli attimi della vita osservandone con occhi nuovi i segni impressi.

A.M.: Qual è il target di pubblico de “L’idioma del sale”?

Emanuele Martinuzzi: Ogni poesia inserita in questa raccolta è stata pensata, ideata e scritta a casaccio come ho detto, non c’è una struttura comune o una tematica prevalente, sono emozioni e pensieri che seguono il flusso discontinuo delle mie emozioni e dei miei pensieri, ovunque capitasse di provarne e di osare poi a trasfigurarli in forma di poesia, senza nessuna volontà di pensarle e ordinarle in una raccolta, prima almeno che avessi l’idea qualche mese fa, un po’ per omaggiare la scrittura della poesia, la sua importanza in generale, per il piacere di pubblicare un libro, ma anche più semplicemente per ricordo. Una testimonianza per me di questo ultimo periodo di scrittura, uno spaccato del mio passato tradotto in poesia, che credo e spero possa parlare a chiunque, a chi ama la poesia, a chi non la conosce o apprezza molto o anche a chi la evita. Certamente alcune poesie possono sembrare oscure per il simbolismo e le immagini che sembrano nascondere più che svelare, lo sono anche per me visto che quando si scrive non sempre si è del tutto coscienti di ciò che la cosiddetta ispirazione ci sta regalando. Mi auguro però che chi abbia modo di leggerle provi ad abbandonare le naturali resistenze razionali e si affidi con ingenuità al senso non-senso della parola, le guardi come un bambino che osserva per la prima volta le cose e si chiede cosa vogliono dire, il loro perché, emozionandosi per le risposte che vengono alla mente. Scrivendo principalmente per passione in piena libertà, sinceramente non mi sono mai soffermato sul tipo di persone che possono apprezzare quello che scrivo. E poi la parola target è usata in ambito commerciale, ammesso che questo libro abbia una diffusione tale da poter fare questo tipo di valutazioni, non sono interessato comunque a considerare la poesia come una merce, almeno non come tutte le altre merci. Spero invece che possa spronare qualcuno a scrivere, poesia o prosa non importa, ma a scoprire il valore immateriale non consumabile e profondamente umano, di esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti, le proprie idee, anche soltanto a sé stessi, in un diario. Spero che i miei amici, poeti o non, abbiano modo di leggere questa raccolta e di confrontarmi con loro su cosa ne pensano. Alcuni l’hanno già fatto e non nascondo il piacere di condividere le impressioni, confrontarsi, leggersi a vicenda, con simpatia e leggerezza.

A.M.: In una tua intervista hai espresso il senso che dai alla “meraviglia” con: “Credo che la meraviglia faccia parte dell’umanità, della sua parte più fragile, misteriosa e creativa, in cui la ragione si abbandona al sogno, in cui l’infanzia viene custodita in tutta la sua mitologia e la sua creatività. In ogni epoca e in ogni persona c’è sempre un dialogo, uno scontro se non proprio una lotta tra le intenzioni della meraviglia e quelle del cinismo, del disincanto e della perdita dell’incanto con cui guardare alle cose.” La troviamo, come parola all’interno della raccolta “l’idioma del sale” in questi versi: “sull’abisso filtra la meraviglia”, o “l’ossario delle ultime meraviglie”. Possiamo dedurre che, anche in questa silloge, la meraviglia è per te contrapposta al funereo, all’abisso?

Emanuele Martinuzzi: Scrivere poesie è sempre una scommessa sulla meraviglia, l’incanto, il miracoloso rispetto al cinismo, i nichilismi e la fredda materia. Una scommessa conveniente come direbbe Pascal a proposito dell’esistenza divina, cioè conviene sempre rischiare qualcosa di finito, come la mera vita materiale, quando la posta in gioco è l’infinito, la bellezza e la poesia. Si tratta di un lavoro intenso quello di custodire un afflato infantile, innocente e aperto a meravigliarsi anche delle piccole cose, in modo da distillare dall’esperienza quella che può essere considerata come la quintessenza della poesia. Un verso nasce casualmente, o per destino, ma ci sono credo tutta una serie di condizioni interiori che permettono all’animo di elaborare i sentimenti e vissuti per poter costruire una frase che in modo misterioso li rispecchi. Per la filosofia greca antica la meraviglia è all’origine della conoscenza filosofica e sappiamo quale tipo di relazione ci sia tra il Mythos poetico e la sua evoluzione in Logos filosofico. Nella narrazione mitologica e poetica della realtà c’è sempre una componente discorsiva e razionale come nella conoscenza filosofica, e viceversa. La meraviglia ha bisogno della ragione e la ragione ha bisogno della meraviglia, perché la ragione non è un calcolo elementare e la meraviglia non è un’insensatezza. Entrambe si confrontano con semplicità con l’immensità che appartiene alla vita, ai suoi ideali, alle emozioni autentiche, alla spiritualità in senso più ampio possibile. Ogni uomo è un abisso, in cui finito e infinito si incontrano e scontrano, in cui vivono le contraddizioni e da cui si creano tutte le potenzialità. Mi ricordo che la poesia di cui parlavi nella domanda e che recita “sull’abisso filtra la meraviglia” mi è venuta in mente mentre ero seduto sul divano a riposare in montagna come molte altre volte, verso sera. La finestra era aperta e si intravedevano i monti fitti di boscaglia. Un’atmosfera vissuta altre volte. In quel silenzio, tutto a un tratto, si alza il vento che proviene dai boschi e un’anta della finestra aperta incomincia a oscillare, mentre cala l’imbrunire. Ecco in quel momento, questa situazione, ai miei occhi è stata vissuta come unica, c’era uno strano equilibrio tra silenzio e movimento, e con meraviglia quei luoghi così familiari, mi sembravano apparire nuovi, osservati e vissuti come per la prima volta. Da lì le parole sono venute da sole, traducendo in poesia questo sentire profondo, che riguardava la scrittura, il paesaggio, le cose e il mio animo, e lo scrivere ha potuto magicamente dare voce a questa estasi, composta da piccole grandi cose.

A.M.: Per il mese di maggio e per i seguenti mesi estivi hai già in mente delle presentazioni in presentia del libro?

Emanuele Martinuzzi: Non ho ancora programmato niente di preciso. Credo che mi lascerò trasportare dalle possibilità che verranno fuori. Sicuramente mi farebbe piacere partecipare a letture collettive o presentazioni in presenza, più che altro per leggere le poesie de L’idioma del sale e anche di Notturna gloria, ritrovare quella dimensione libera di condivisione, ascolto e riflessione. Leggere in pubblico mi emoziona sempre tanto e da un lato mi manca, è un modo di sentire prendere vita quello che si è scritto, avvertire le reazioni viscerali o ragionate degli ascoltatori, superando le barriere della propria riservatezza. È anche una specie di introspezione, scendere dentro se stessi, leggendo le parole che sono state trovate nel proprio animo in precedenza. Al di là degli eventi spero comunque di aver modo di leggere le mie poesie ad altre persone, anche in contesti esterni alla logica della presentazione o del reading. Leggere casualmente a qualcuno una propria poesia e donargli anche solo una piccola emozione o un pensiero nuovo è sempre un grande evento.

A.M.: Salutiamoci con una citazione…

Emanuele Martinuzzi: Vi saluto con la citazione che apre questa raccolta: “E un giorno queste parole senza rumore/ che teco educammo nutrite/ di stanchezze e di silenzi,/ parranno a un fraterno cuore/ sapide di sale greco.” (Eugenio Montale)

A.M.: Emanuele ti ringrazio per la spontaneità delle tue risposte, è stato un vero piacere colloquiare sul tuo nuovo libro a cui auguro di essere letto ed assorbito. Ti saluto con le parole di Blaise de Vigenère che nel suo “Trattato del fuoco e del sale” scrisse: “Cos’è il sale? Si chiese uno dei filosofi chimici. Una terra arsa e bruciata, e un’acqua congelata dal calore del fuoco potenziale racchiusovi. Il fuoco d’altro canto è l’operatore di quaggiù nelle opere d’arte, come il sole o fuoco celeste è in quelle della natura.”

Info

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FONTE

Alessia Mocci intervista Sergio Messere: ecco la raccolta Fibre di possibilità ( Fonte Oubliette magazine)

Considero la poesia non propriamente una forma d’arte, quanto una “proto-arte”, in quanto è un qualcosa di profondamente viscerale che si origina nell’Uomo prima della nascita della scrittura e del linguaggio stesso. Cosa è scattato nel primo Uomo che ha sentito l’esigenza di commemorare i propri cari?” – Sergio Messere

Domandarsi sull’origine, sia del pianeta Terra che ci ospita sia della nascita dell’esigenza di commemorare i propri cari, è un atteggiamento nobile con il quale condurre la propria esistenza. Nobile ed inevitabile perché le domande avvengono, accadono ed, anche se in una parte della propria vita si sceglie di non ascoltarle, ecco che queste riemergono come ostinati semi che, con il germoglio, tendono verso la luce.

Fibre di possibilità”, edito da LFA Publisher nel 2021, è suddiviso in sette capitoli che principiano con una tela od uno schizzo dell’artista Pietro Tavani. L’autore, Sergio Messere, diplomato in elettronica industriale lavora dal 1991 come tecnico di settore in un centro di coordinamento e supervisione di reti Mediaset ed altre emittenti private. Appassionato lettore di romanzi classici, paranormale e fantascienza, pratica running e si diletta in cucina.

Ha esordito nel 2013 con il romanzo “Generazione oltre la linea” (Prospettiva Editrice), alcune poesie sono state pubblicate su antologie quali “Forme liquide” e “I glocalizzati” (deComporre Edizioni 2014); il racconto “Lo Scrigno di Santa Rosa” nell’antologia “Tardomoderno immaginario” (Limina Mentis 2015). Nel 2015 ha vinto la sezione di poesia della prima edizione del contest “Radici, impulso e rivoluzione” con l’opera “Il manifesto dell’iconoclastia”.

Sergio Messere si è mostrato molto disponibile nel rispondere a qualche domanda sulla sua silloge “Fibre di possibilità” così da sviscerare il suo mondo poetico. Si augura buona lettura!

A.M.: Ciao Sergio, ti ringrazio per il tempo che hai voluto dedicarmi, sono lieta di poter presentare ai lettori la tua nuova pubblicazione “Fibre di possibilità”. Il tuo esordio in editoria è stato nel 2013 con il romanzo distopico “Generazione oltre la linea” edito da Prospettiva Editrice, ci puoi brevemente racconta la trama?

Sergio Messere: Buongiorno a tutti. Nel romanzo che hai citato, narro l’esperienza a dir poco stravagante di un gruppo di diciotto ragazzi nell’anno 2040, nell’immaginaria metropoli di Sìagora, sui lidi dell’Alto Lazio. Qui, un misterioso uomo navigato di nome Gabriel, di origine armena, tiene una sorta di scuola di vita chiamata “Istituto del pieno sviluppo delle risorse di gioventù”. Saranno giorni molto intensi: amore, amicizie, ma anche alleanze e scontri duri; esperienze di tornei sportivi, dibattiti e altre esperienze borderline che non voglio svelare. Qual è il vero obiettivo di questo ambiguo maestro?

A.M.: Quando è nata in te la necessità di scrivere in versi? Romanzo e poesia sono andati all’unisono oppure ci sono stati momenti in cui hai scritto solo in versi?

Sergio Messere: Ho iniziato da piccolo scrivendo brevi storie. Successivamente, a partire dai vent’anni, ho iniziato a comporre istintivamente poesie. Dopo diversi lustri, sono riuscito a completare il romanzo “Generazione oltre la linea”: un lavoro, vi assicuro, che mi ha assorbito non poche energie, essendo maniacale e dovendo documentarmi sulle materie più disparate e approfondire svariati personaggi caratterizzati. Del resto, un romanzo corale nasconde sempre molte insidie, rischiando di seminare confusione nella testa del lettore.

Ritornando alla poesia, in “Fibre di Possibilità” sono confluiti tutti i versi di un trentennio; quelli che non ho inserito è perché sono stati stracciati nel tempo. Come hai già evidenziato nella tua analisi, sono contenute poesie eterogenee, le condizioni di fasi di vita così lontane si sono riflesse giocoforza nelle pagine assai diverse per l’ispirazione stessa, i contenuti e lo stile. Considero la poesia non propriamente una forma d’arte, quanto una “proto-arte”, in quanto è un qualcosa di profondamente viscerale che si origina nell’Uomo prima della nascita della scrittura e del linguaggio stesso. Cosa è scattato nel primo Uomo che ha sentito l’esigenza di commemorare i propri cari? E perché, a un certo punto, si è iniziato a rappresentare le scene di vita quotidiana – come la caccia e altro – sulle pareti di grotte? Per non parlare delle prime forme di religione, in cui si veneravano le potenze primordiali della Natura.

C’era già tutto in noi, doveva solamente – come ricorda Telmo Pievani – scattare l’innesto giusto per il decollo dell’intelligenza e della stessa civiltà umana. Mulina a intermittenza un pensiero che mi fa venire i brividi: “C’è stato un momento in cui eravamo grandi e noi non lo sapevamo.”

Riguardo al titolo, il passato, il presente e il futuro – come ci insegna la fisica quantistica con il concetto di entanglement; le correlazioni fra gli astri, le specie, i popoli e gli individui stessi, sino alle particelle subatomiche, orbene, per me ogni cosa è intimamente collegata al Tutto, a una ipotetica intricata e sterminata “rete di possibilità”…

A.M.: Nel capitolo Vibrazioni troviamo la lirica “A Laura”, nome che riporta alla memoria un personaggio di Generazione oltre la linea, una ragazza che il protagonista Dani incontrerà in un ottobre del 2040.

Sergio Messere: Parto da lontano e farò una sintesi. All’incirca quando avevo venti anni, durante il servizio militare, una figura di donna si impossessò a poco a poco della mia mente. Quando iniziai a “fantasticare” nel parlare con lei, già di fatto il volto e quelle sembianze mi erano dinnanzi in ogni dettaglio: viso tondo, occhi grandi e lineamenti regolari, capelli quasi neri raccolti a cipolla; idem per la corporatura rotonda ma non molliccia. In seguito, negli anni, si delineò il quadro che era una studentessa di medicina, molto preparata e scrupolosa, e, a un certo punto, ne erano sempre più chiari le movenze e i gesti peculiari. L’ho sempre considerata mia coetanea e profondamente intelligente e seria. Negli anni, in ogni momento di difficoltà/spaesamento (sono estremamente fragile, o meglio, per metà forte e per metà fragile), mi sono rivolto a Lei – o è apparsa spontaneamente Lei, fate vobis. Insomma, quando posso mi ci aggrappo moralmente in modo spudorato! Mi conforta senza se e senza ma: una presenza discreta, assolutamente non carnale, del tutto coerente.

E non a caso le ho trovato un posticino di assoluto primo piano nel mio romanzo, dove però si presenta in una veste differente: austera, a tratti acida con la voce narrante Dani, e distante dalla Laura spirituale della mia realtà, in cui è assurta a tutti gli effetti a una figura di spirito-guida. Nei miei viaggi mentali, non ho ancora capito che specializzazione di Medicina stia frequentando, né sono riuscito mai a incontrarla nei sogni notturni, nonostante i bizzarri propositi e desideri…

A.M.: Nel capitolo Scorci leggiamo nella poesia “1980”: “[…] … i tempi/ dell’adolescenza/ alla scuola media:/ i primi brividi soffusi/ alla vista/ di seni acerbi/ in espansione/ per una risata/ o per un saltello;/ e le battaglie/ a “pallaguerra”/ nel cortile grigio/ tra occhi obliqui/ e figure flessuose.// […]”. L’Io racconta della giovinezza ai tempi della scuola media descrivendo dei “giovani felici/ ma ignari”. Ci vuoi raccontare la genesi di questi versi?

Sergio Messere: Una poesia del ciclo luminoso, realismo puro. Un affresco e al tempo stesso è un omaggio agli anni Ottanta, che considero, al pari dei Sessanta e Settanta, un decennio meraviglioso e pullulante di fermenti, gioia di vivere, condivisione, spensieratezza, innovazioni continue. Una poesia che è lo scrigno dei ricordi della mia giovinezza, dai giochi di cortile alle escursioni con gli scout, dai primi sussulti delle Medie alle giornate sui banchi dell’istituto industriale. Ricordi indelebili che mi tormentano, che sprigionano una nostalgia all’ennesima potenza, perché custodi di un qualcosa che non potrà più tornare – anche se è giusto così. Tuttavia è troppo più forte di noi: abbiamo sempre bisogno di ritornare ai nostri anni verdi, di cui – curioso a dirlo – serbiamo un ricordo più nitido, in genere, delle esperienze positive. Riguardo questa nostalgia, quando rivedo in particolare una vecchia foto di una giornata in classe (l’ho già postata su Facebook) una certa commozione mi pervade: un po’ come Odisseo quando sente narrare le sue (loro gesta) contro Ilio molti anni dopo.

Discorso a parte merita la dedica di 1980 al mio compagno dell’Industriale. Un amico speciale e sensibile che ha interrotto il proprio viaggio anzitempo.

A.M.:L’ultimo capitolo di “Fibre di possibilità” è intitolato Psicoalchimie e coni d’ombra, troviamo qui “Il ministro dell’Ordine” nella quale scrivi: “[…] Mi avvicino./ Una colonna azzurra/ mi aspira./ Rifulgono e mi chiamano/ magnetici/ i tuoi globi algidi,/ errante siderea;/ cedo alle tue lusinghe…/ le tue voluttuose tenaglie/ mi serrano…/ o NO!/ Necessito solo/ di Ordine.// […]”. Che significato dai alla parola “psicoalchimia”? Ed in che cosa consiste l’Ordine?

Sergio Messere: Per “psicoalchimie” mi riferisco alle “variazioni di stato” all’interno del teatro della nostra mente (prendendo spunto grossolanamente dagli alchimisti medioevali che sostenevano di trasmutare alcuni metalli in oro). Per le “variazioni di stato” mi sono ispirato agli insegnamenti del maestro Gurdjieff (si rimanda la lettura ammaliante di “Frammenti di un insegnamento sconosciuto”, del discepolo Petr Uspenskij).

Secondo il suo pensiero, sussistono sette livelli di crescita dell’essere umano: dall’Uomo n° 1 che è quello più comune e vive prevalentemente nella materia, si passa poi al n°2 (tipo emozionale), al 3 (intellettuale), quindi il 4 (gli yogi e i mistici sufi), il 5 (l’Uomo della consapevolezza, seppure non costante), il 6 (Uomo che è riuscito a raggiungere il suo centro), sino ad arrivare al rarissimo Uomo n° 7 (Buddha). Occupandosi l’ultimo capitolo di esperienze al di fuori dell’ordinario, mi riferisco a “coni d’ombra” in quanto ci si viene proprio a trovare in una zona grigia della coscienza, protesi verso una dimensione separata dalla nostra, una dimensione altra.

Nella poesia in questione, il protagonista si viene a trovare in un bizzarro caso di abduction e, l’intimo contatto con l’“errante siderea”, indubbiamente traumatico, lo porta a essere manipolato in quegli istanti, da qui la sua dipendenza assoluta e necessità di Ordine, ovverosia la sottomissione a un nuovo codice etico e il raggiungimento di una condizione di coscienza alterata, non umana, presumibilmente superiore.

A.M.: Sono svariate le liriche in cui tratti della molteplicità del tema amoroso, come se esistessero varie forme d’amore. Puoi farci qualche esempio?

Sergio Messere: L’amore è un qualcosa di potentemente complesso, molteplice, molto più di un sentimento come l’odio. Quando ci riferiamo all’amore che abbiamo provato o proviamo tuttora verso un altro essere, cosa s’intende precisamente? Siamo in grado con un semplice termine di racchiudere questo microuniverso?

Ecco quindi la genesi di versi variegati: si passa dall’amore spirituale verso Laura a quello sofferto e quotidiano di Nervi di nylon; dall’amore che ci sussurra i misteri d’Oriente di Zeila o sconfina nella dimensione subatomica di Colata, a quello leggero, inebriato dai vapori del “santo mosto” di Melodie di ottobre; dalla forma senza regole e senza un domani di Anarchia d’amore a quella consistente e rassicurante di A casa, Simbiosi, La tua voce, Ritorno e Amicizia.

E poi ancora, il tema amoroso ecumenico, universale, verso il mondo dei versi di Espansione, Scintilla e Vitae; il tema di stampo fiabesco del Mondo nuovo e, all’opposto, la forma animalesca e conflittuale di Amore barbaro; la forma caotica, collettiva, degenerata e sintetica di Hypnotica.

Infine, una menzione speciale a due poesie a cui sono particolarmente affezionato: Idea e Lo scivolo della mente. Nella prima, siamo al cospetto di un amore potente, siderale, oscuro – che slitta da una prospettiva all’altra – paragonato ora a una “schiera di angeli su destrieri”, ora a una costellazione poco visibile (Macchina pneumatica), ora a un viaggio da pendolare in metropolitana, ora al trionfante epilogo onnivoro di un buco nero. Nella seconda, impera la forma prettamente cerebrale, dove a poco a poco, scivolando “sulle pareti di un cono rovesciato”, si perviene all’utopia che vede due menti fondersi in una.

A.M.: Sabato 21 maggio sarai ospite presso lo stand di LFA Publisher al Salone del Libro di Torino dalle 16:00 alle 17:00. Che cosa ti aspetti da questa partecipazione?

Sergio Messere: Non penso al numero di copie vendute e firmate, nel senso che per me questo deve essere nient’altro che un “effetto collaterale”. Vorrei semplicemente godermi quelle giornate col massimo della vitalità, parlare con chiunque, dagli addetti ai lavori ai semplici passanti che si avvicinano curiosi ai libri sui tavoli, gustarmi un cappuccino con una brioche iperfarcita in compagnia, guardare negli occhi i malcapitati che mi chiedono una firma per la silloge. Insomma, il solito Sergio. Però posso anticiparvi che, qualche giorno prima, il 19 maggio alle 10:40 sarò ospite nel programma letterario di Radio Dora.

A distanza di otto anni dalla mia prima apparizione al Salone, vorrei ringraziare, per l’opportunità avuta, l’editore Lello Lucignano della LFA Publisher e tutto il nutrito staff che, giorno dopo giorno, ci mettono passione e qualità in questo lavoro-vocazione. Mi piace pensare all’editoria come una vera e propria “Officina del libro”.

A.M.: Oltre al Salone del Libro hai già organizzato altre presentazioni del libro? Puoi anticiparci qualcosa?

Sergio Messere: A breve organizzerò, con l’ausilio di Serena Piergotti, un evento di letture della silloge presso la nuova biblioteca del comune dove vivo, Fonte Nuova. Questo reading poetico è stato inserito nel maggio dei libri 2022. Ne darò comunicazione su Facebook e sugli altri social, come anche per i futuri eventi letterari, compresa la partecipazione alla Fiera del Libro di Roma a dicembre.

A.M.: Salutiamoci con una citazione…

Sergio Messere: Avendo già accennato all’inizio ad un maestro armeno, come non concludere con un pensiero di Georges Ivanovič Gurdjieff?

L’illusione suprema dell’uomo è la sua convinzione di poter fare. Tutti pensano di poter fare, ma nessuno fa niente. Tutto accade.”

Grazie, Alessia, per la disponibilità e un salutone a tutti i divoratori di libri! Spero di vedervi numerosi e schizzati al Salone di Torino.

A.M.: Sergio, ti ringrazio per come hai affrontato questa intervista, sei riuscito a citare svariate tue liriche donandoti completamente al lettore che, penso, gradirà. In chiusura seguo la tua scia e cito Jeanne de Salzmann, allieva di Gurdjieff: “Cercate per un momento di accettare l’idea che non siete quello che credete di essere,/ che vi stimate troppo, dunque che mentite a voi stessi./ Che vi mentite sempre, ogni momento, tutto il giorno, tutta la vita./ Che la menzogna vi governa a tal punto da non poterla controllare./ Siete preda della menzogna./ […]”

Written by Alessia Mocci

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Alessia Mocci intervista Alessandro Cortese: ecco il romanzo La mafia nello zaino (Fonte Oubliette magazine)

Ricordo che ero davanti la tivvù e che d’un tratto si interruppero le trasmissioni su tutti i canali. Ricordo la cronaca. Le scene dei film di guerra che erano però verità e non finzione. Io di quel pomeriggio mi ricordo tutto e lo conservo gelosamente… perché quell’evento ha contribuito a farmi diventare la persona che sono e io amo moltissimo la persona che sono. Se avessi mai scritto un romanzo sulla Sicilia, inevitabilmente, avrei dovuto raccontare dell’omicidio di Paolo Borsellino.” – Alessandro Cortese

Un palazzo della memoria, le fondamenta de “La mafia nello zaino” sono i ricordi personali dello scrittore siciliano Alessandro Cortese (Messina, 1980).

Edito nel 2022 da Il ramo e la foglia edizioni con copertina dell’artista palermitano Giulio Rincione, “La mafia nello zaino” è un romanzo che s’addentra nella buia realtà della Sicilia, quella menzionata nel titolo: la mafia.

Con la voce e le aspettative di un ragazzino di appena dieci anni, Alessandro Cortese amalgama ricordi della propria infanzia all’invenzione letteraria per ricordare persone uccise in modo atroce come Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, padre Pino Puglisi, ed il ladro Nino Sboto.

“La mafia nello zaino” è la storia di un bimbo, di un nano e di un assassino: ogni personaggio recita al meglio la sua parte cercando di assecondare il Fato.

Alessandro Cortese si è mostrato molto disponibile nel rispondere ad alcune domande non solo inerenti alla sua pubblicazione ma anche sulla sua vita e sulle sue esperienze. Buona lettura!

A.M.: Salve Alessandro sono trascorsi otto anni dalla pubblicazione del romanzo storico “Polimnia” e devo ammettere che mi hai sorpresa con “La mafia nello zaino” perché dai toni aulici sei passato al colloquiale e regionale siciliano di un picciruddu di dieci anni. Che cosa è avvenuto in questi anni di silenzio editoriale?

Alessandro Cortese: Ciao Alessia, risponderei volentieri che sono andato a letto presto, ma non sarebbe nulla di più falso… ho perso il conto delle ore di sonno non goduto negli ultimi anni: non sono una persona che rimane ferma, piuttosto ho quell’inquietudine che mi spinge a fare. Così fino al 2017 ho scritto… ho portato avanti molti altri lavori letterari, soprattutto di notte e di mattina presto, nelle ore che non dedicavo al lavoro retribuito, e per me scrivere è sempre stata una forma di autoanalisi o, se preferisci, è sempre stato lavorare su me stesso. Dopo ho effettivamente smesso di farlo… “La mafia nello zaino” è un romanzo del 2015 e a rivederlo oggi, che se ne va per la sua strada, mi sembra una vita fa. Oggi rimango circondato da appunti su storie lasciate incompiute che, mi piace pensare, prima o poi concluderò. E mi capita di riflettere sul fatto di non aver più scritto… magari ho semplicemente raggiunto un equilibrio che prima non avevo e, senza una ricerca personale, anche le mie storie sembrerebbero prive di forza.

Tu lo sai, le mie storie hanno sempre vissuto di una forza incredibile. Con quella forza Lucifero si è ribellato contro il regime, in Eden, e si è rialzato dal fondo del baratro, in Ad Lucem. Con quella stessa forza, Leonida e i suoi spartani, insieme ai greci, hanno resistito alle cariche dell’invasore persiano in Polimnia. Poi quella forza l’ho data alla curiosità di un picciriddu, piccolo ma grande, per provare a capire cos’è la mafia, ed è vero che il mio registro stilistico è cambiato completamente: Eden, Ad Lucem e Polimnia lavorano sul mito e il mito pretende epicità… e non saprei essere epico senza essere aulico.

Ne “La mafia nello zaino” racconto una storia inventata usando elementi autobiografici… inutile dirti che un picciriddu siciliano bravo a passare da un’avventura all’altra restando per strada non parla in modo aulico ma, piuttosto, è già tanto che usi un po’ di italiano in mezzo a tutto quel siciliano.

Aggiungo che ho sempre saputo scegliere i registri nelle mie narrazioni e in realtà non per merito mio: sono sempre stati i personaggi delle mie storie che, venuti a trovarmi, hanno sempre parlato in un certo modo. Io li ho semplicemente ascoltati.

A.M.: La copertina del romanzo è stata curata dall’artista palermitano Giulio Rincione, un’illustrazione che riporta in modo preciso alcuni dettagli importanti, come ad esempio la presenza delle duemila lire nella tasca dei pantaloni del picciriddu ed i fumi neri che traboccano dalle torri cilindriche della raffineria. Come hai conosciuto Giulio?

Alessandro Cortese: Hai presente quando immagini le cose? Se hai un’immaginazione come si deve, capita che quanto hai immaginato tu ce l’abbia davanti agli occhi, come fosse qualcosa di concreto.

Io ho sempre avuto le idee chiare, su cosa ci dovesse essere sulla copertina dei miei libri, e così è stato anche per “La mafia nello zaino”. Sapevo che poteva funzionare soltanto un’immagine che fosse cartoonesca ma non troppo, seria ma non troppo, e ho pensato ci fosse una persona soltanto capace di realizzarla, un artista che è stato la mia unica scelta e l’unico che ho contattato: Giulio Rincione.

Giulio è uno degli illustratori più importanti del mondo, ha uno stile assolutamente unico e, soprattutto, è siciliano. Potrà anche sembrare campanilismo, il mio, ma non lo è: certe cose nel mio romanzo potevano essere veramente colte soltanto da un siciliano… e questo dissi a Giulio, quando lo contattai. Gli dissi che ero convinto che solo un altro siciliano avrebbe saputo raccontare il mio romanzo con un’immagine e basta. E così è stato: nessuna prova, nessun bozzetto. Giulio ha letto il libro e ha illustrato la copertina perfetta.

La sua copertina sarà, probabilmente, uno dei motivi che mi faranno gioire sempre dell’idea di essere tornato nel mondo letterario, dopo averlo abbandonato. Basta guardarla per capire quanti dettagli trovino posto perfettamente all’interno della cornice: le due mila lire in tasca al picciriddu, ad esempio, che vengono rubate dalla borsa di Raffaella all’inizio del romanzo, o la raffineria sullo sfondo del teatrino dell’Opera dei Pupi. Nessuno ha suggerito a Giulio cosa disegnare, è tutto frutto della sua visione artistica… ma se avessi suggerito qualcosa, gli avrei chiesto di mettere in copertina la raffineria: la Sicilia ha sofferto, e soffre, per la presenza dei molti petrolchimici che ne hanno devastato tanto il territorio quanto la salute pubblica; nella Valle del Mela, dove si erge il “mostro”, la raffineria di Milazzo, ci sono zone limitrofe in cui ogni famiglia ha un malato di tumore in casa, eppure è tutto normale, sia per lo Stato che per le autorità ambientali; vivere in Sicilia significa anche questo: si baratta la propria salute pur di avere in cambio uno stipendio sicuro.

A.M.: “La mafia nello zaino” è un romanzo di finzione letteraria che riconduce ad eventi accaduti nella realtà, uno di questi è centrale nel libro e nella vita del protagonista, cioè la presenza del giudice Falco Di Giovanni e del suo collega Paolo, esempi di persone oneste che cercano non solo di aiutare a ristabilire una sorta di ordine ma anche di tagliare i fili del “puparo” che manipola i cittadini come se fossero marionette. Era tua intenzione palesare l’omaggio a Paolo Borsellino e Giovanni Falcone perché sin da subito li hai presentati come tali, dunque, ti chiedo perché un siciliano di Messina sente il dovere di ricordare episodi accaduti nel 1992?

Alessandro Cortese: Ho scritto “Il bimbo, il nano e l’assassino” (inizialmente il titolo era questo, “La mafia nello zaino” è stata una fortunata intuizione dei miei editori, Giuliano Brenna e Roberto Maggiani de Il Ramo & e la Foglia, NdA) nel 2015, di getto. In 5 mesi. Per me era un periodo particolare… a tutti gli isolani, andati via dall’Isola, succede che a un certo punto della vita si voglia tornare a casa. È il richiamo della terra ed è il richiamo del sangue o, se preferisci, è il canto della sirena. Davvero ho pensato di tornare a casa, nel 2015… ma chi va via non può più tornare. Non davvero. Ho quindi voluto farlo ma non fisicamente, l’ho fatto in modo a me più congeniale, costruendo un palazzo della memoria.

Nel mio palazzo della memoria, il paese è diventato simbolo dell’intera regione: la Sicilia inizia quando entri in paese e uscire dal paese significa uscire dalla Sicilia. Ho usato precisi riferimenti geografici non badando al fatto che non fossero poi corretti nel contesto locale, perché a me interessava costruire una Sicilia fatta di ricordi. Sono gli splendidi ricordi di quando ero un ragazzino che correva, con gli amici, in BMX rossa ogni pomeriggio. Sono i ricordi che mi porterò fino a quando sarò vecchio, perché mi ricordo ogni minuto di quei pomeriggi e ogni avventura vissuta in posti che, in Sicilia, sono esattamente uguali e come erano più di trent’anni fa, quand’ero quel bambino.

Ho smesso di essere quel bambino quando uccisero Paolo Borsellino: l’omicidio di Falcone fu per me più distante… mi giunse la notizia ma non vidi servizi ai telegiornali, fu come se mi avessero riferito la cosa ma non ci rimasi davvero a pensar su.

Per Borsellino fu diverso. Ricordo che ero davanti la tivvù e che d’un tratto si interruppero le trasmissioni su tutti i canali. Ricordo la cronaca. Le scene dei film di guerra che erano però verità e non finzione. Io di quel pomeriggio mi ricordo tutto e lo conservo gelosamente… perché quell’evento ha contribuito a farmi diventare la persona che sono e io amo moltissimo la persona che sono. Se avessi mai scritto un romanzo sulla Sicilia, inevitabilmente, avrei dovuto raccontare dell’omicidio di Paolo Borsellino.

A.M.: “«La mafia?» lo sentii ripetere. «E che è?». […] «Persone» gli risposi. «Che fanno cose cattive». […] «Ma chi t’ha insegnato questa parola?» volle sapere mia madre […] «Il giornale. L’ho letta». […] «E sai perché non hai visto la mafia?». […] «Perché la mafia è come Colapesce. È una leggenda che si sono inventati in televisione, per raccontare qualcosa ai vecchi che non lavorano più e restano a casa tutto il giorno. I vecchi guardano i telegiornali, che gli raccontano qualcosa vera e qualcosa no. La mafia non è vera».” Il nostro piccolo eroe, il picciriddu, è incuriosito da questa entità – la mafia – di cui in paese non si vuole parlare; l’argomento diventa appassionate e si rivolge ai genitori la cui risposta lo lascia ancora più disorientato. Ritengo che questo breve dialogo sia come il taglio dell’occhio nel film di Luis Buñuel, una cesura netta con il passato che apre al caos. Quand’è stata la prima volta che hai sentito la parola “mafia”? Hai usato elementi autobiografici per scrivere il dialogo sopracitato?

Alessandro Cortese: Non saprei dire quando ho sentito per la prima volta la parola “mafia”… probabilmente a scuola, o da qualche adulto che ne parlava, magari da qualcuno che voleva fare una battuta o in televisione, visto che quand’ero bimbo andava sulla Rai la fiction de “La Piovra”. Sinceramente non saprei dire, con certezza, quando ho sentito per la prima volta questa parola. Mentre posso dire con certezza, invece, che quel dialogo sulla mafia tra il mio picciriddu e i suoi genitori sia uno degli eventi incredibili che la scrittura sa regalare: sono sempre rimasto convinto che, quando inizio a scrivere di loro, i miei personaggi vivano di vita propria; dire che io non gli ho mai messo in bocca le parole che dicono può sembrare inverosimile, ma davvero io resto in ascolto di ciò che hanno da dire… la sensazione che ho spesso provato è di scrivere sotto dettatura, facendo attenzione a cogliere ogni parola, un po’ come mi capitava all’università quando prendevo appunti a lezione, solo che ascolto gente che non esiste davvero, non in questo mondo almeno.

Ma per quanto quel dialogo non sia autobiografico, sono moltissimi gli elementi che lo sono invece… Giulio il ladro, il ragazzo ucciso all’inizio del mio libro, è in realtà Nino Sboto e davvero a lui hanno tagliato le mani perché rubava; allo stesso modo, la scena dell’omicidio fuori dalla sala giochi è il racconto esatto di quanto successe quel pomeriggio, io stavo giocando ai videogames e ammazzarono a colpi di pistola un tizio a 50 metri di distanza.

Come dicevo, questo mio romanzo è un palazzo della memoria e le fondamenta di questo edificio sono i ricordi personali che probabilmente non potrò mai dimenticare, per il carico emotivo che sono stati capaci di concentrare. Il resto è il racconto di personaggi nati tra quei ricordi, che usano alcune cose del mio passato per dire al lettore di loro.

A.M.: “«Ma non è colpa mia!» iniziai a pigghiari p’avanti per non restare indietro. «La mafia m’ha fatto venire questi dubbi!». E quando pronunciai la parola mafia, l’espressione di padre Pippo tornò uguale a quella che gli avevo visto fare davanti all’avvocato Cantarò coperto dal lenzuolo, quindi prese una sedia e s’assittò, come se le gambe gli fossero invecchiate di colpo e non ce la facesse a reggersi.” Padre Pippo è accostabile a Falcone ed a Borsellino come personaggio positivo ma non solo perché, anche in questo caso, ci troviamo davanti ad un caso di cronaca bensì perché anche se il suo “mestiere” lo inserisce nei “segreti di mafia” si adopera per aiutare i giovani togliendoli dalla strada. Uno dei personaggi “negativi” che instaurerà un rapporto con il picciruddu è presente anche nel sottotitolo del libro: il nano e più precisamente “Antonio Izzo ’ngiuriatu Ninu u nanu”. Anche il nano proviene dalla realtà?

Alessandro Cortese: Padre Pippo è il mio ricordo di padre Pino Puglisi. Io vengo da una realtà cittadina nella quale i Salesiani rappresentavano, per noi bambini, il posto in cui crescere lontani dalla strada. Ai Salesiani ho giocato a pallone e pure a scacchi, ho mangiato qualche buon gelato, ho conosciuto gente che mi ha insegnato come ascoltare la musica che mi avrebbe fatto compagnia per il resto della vita, ho litigato con altri ragazzi, fatto la corte a qualche ragazza, pregato e bestemmiato. Per me i Salesiani hanno rappresentato esperienza di crescita da ogni punto di vista, e i preti dei Salesiani mi hanno dato altrettanto.

Quando padre Puglisi fu ucciso, ricordo che pensai nessuno potesse salvarsi da un proiettile, neppure uomini che hanno il favore di Dio. Ma pensai pure che a morire non fosse solo un prete, che non si fosse sparato solo a una persona… era come se avessero sparato allo spirito dei Salesiani e al loro essere alternativa alla strada.

I Salesiani del mio paese non hanno salvato tutti ma hanno salvato molti, esattamente come fece padre Puglisi a Palermo. Celebrare padre Pino Puglisi, nel mio romanzo, significava per me fare un omaggio a quel senso di protezione che i Salesiani hanno sempre saputo darmi.

Non è ispirato a nessun personaggio reale, invece, Ninu u nanu, il boss mafioso con cui il mio picciriddu si misura per tre volte nella storia: la prima volta è “iniziazione”, la seconda è “consapevolezza” e la terza è il “finale”, quindi il viaggio di crescita del mio piccolo eroe passa tutto attraverso il nano che, simbolicamente, è la mafia. La mafia può essere una persona minuscola, nella realtà, ma quella persona minuscola può diventare un gigante, quando accresciuta dal potere che riceve. Io sono fissato con il simbolismo, ‘ché tutto è simbolo me lo ha insegnato Carl Gustav Jung e, se ti fermi a guardare, i simboli ti circondano… non so scrivere senza usare i simboli e anche “La mafia nello zaino” è un romanzo mio, da questo punto di vista.

A.M.: Il romanzo è anche un inno alla Sicilia da parte di un siciliano che da più di vent’anni vive e lavora nella penisola; durante la lettura oltre a scoprire chi è l’assassino vengono raccontati miti come il già citato Colapesce, Scilla e Cariddi prorompono nell’immaginazione del bambino che gira festosamente nelle strade del paese con la bicicletta. Vengono descritte le Eolie, lo Stretto di Messina, il bellissimo promontorio costiero di Tindari, i campi pieni di fiori, il teatro dell’Opera dei Pupi, l’odore di fritto della vostra cucina tipica. Forse questa non è una domanda ma un complimento perché chi – come me – ha avuto modo di visitare Milazzo per i riferimenti geografici (ma il ragionamento vale per qualsiasi luogo dell’isola se si prendono in considerazione altri elementi del libro) viene catapultato negli occhi del picciriddu che guarda l’arcipelago o verso ovest “il verde delle colline […] l’azzurro cristallino […] con sullo sfondo il promontorio di Tindari e il grande santuario della Madonna Nera”.

Alessandro Cortese: Per un isolano, l’Isola sarà sempre casa. E per un isolano non c’è forse rimpianto, e colpa, più grande di aver lasciato l’Isola. Nel corso degli anni, qualcuno mi ha rimproverato di essere andato via dall’Isola, di non aver dato all’Isola quel che ho dato altrove, di non aver provato a restare con maggiore determinazione. Chi mi rimprovera sembra dimenticare che io, per laurearmi, ho fatto ogni genere di lavoro sottopagato mi si presentasse e, da laureato, poi mi proposero di lavorare, gratis e per due anni, in un laboratorio per “imparare il mestiere”. In pochi sanno che io, oggi, sono tra gli insegnanti più famosi d’Italia, grazie alla mia attività online di insegnamento, e che la stessa attività proposi di farla a siciliani magicamente spariti quando si sarebbe dovuto parlare di compenso.

A me la Sicilia ha insegnato tanto e tolto molto più di quanto mi abbia dato: ha tolto il lavoro a mio padre e sono cresciuto in mezzo a mille difficoltà, ad esempio, e mi ha anche quasi ucciso, quando a 17 anni sono stato pestato a sangue da parte di un gruppo di una decina di ragazzi, al centro della piazza del mio paese e sotto gli occhi di amici che non hanno mosso un dito. Me ne sono andato con piacere e lo rifarei ogni giorno. Ma nonostante tutto la Sicilia è dove sono nato, dove sono cresciuto, dove ho imparato e dove sono diventato io. Amo la Sicilia tanto quanto profondamente la odio… e credo che in questo romanzo siano perfettamente bilanciati l’odio e l’amore che io provo per casa mia.

Non avrei voluto nascere da nessun’altra parte e non avrei voluto fare esperienze diverse da quelle che la Sicilia mi ha permesso di fare. La amerò sempre e per sempre l’avrò nel cuore… ma non ci tornerei mai.

A.M.: In chiusura una domanda leggera: hai intenzione di organizzare delle presentazioni del libro in Sicilia?

Alessandro Cortese: Ogni libro che ho pubblicato ha avuto una o due presentazioni in Sicilia, mi sembrerebbe assurdo non farne adesso che ho scritto un libro sulla Sicilia. Le farò e so che, come sempre accaduto anche in passato, saranno occasione per rivedere vecchi amici e per fare nuove amicizie. Ora ne ho in programma una nella mia città, Barcellona Pozzo di Gotto, e un’altra a Messina, ne farò una a Montesilvano dove vivo in Abruzzo e forse ne farò una a Roma, città dei miei editori, e a Milano, dove sono nato editorialmente grazie a Eden e ArpaNet.

Dopo tanti anni, addirittura otto, tornare in libreria a presentare un mio romanzo non so cosa possa significare per me… un po’ mi spaventa, non lo nego, perché non so se sono ancora capace di farlo. Non ho più le energie di un tempo, non ho neanche la voglia di un tempo, ma mi è sempre piaciuto mettermi e rimettermi in gioco, e scrivere per me è sempre stato un gioco meraviglioso. Vediamo come andrà.

A.M.: Salutaci con una citazione…

Alessandro Cortese: Beh, mi sembra obbligato citare uno scrittore siciliano e il suo omaggio ai palazzi della memoria: “Penso che se uno potesse correre più presto della luce e sopravanzarla e fermarsi ad aspettarla in qualche stazione di stella, vedrebbe replicarsi per intero tutto il rotolo del passato”. È Gesualdo Bufalino che, con la sua “Diceria dell’Untore”, mi ha insegnato che gli scrittori sanno anche andare più veloce della luce.

A.M.: Alessandro ti ringrazio per il tempo che hai dedicato all’intervista, ti ringrazio per la sincerità che ogni volta dimostri e questo non è mai scontato. Ti seguo nella scelta di un siciliano e cito lo scrittore di Girgenti Luigi Pirandello: “Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”

Written by Alessia Mocci

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La rubrica interviste letterarie presenta “Incontro con l’autore. Lucia moreschi si svela”. A cura di Alessandra Micheli

Adam è un perfetto thriller psicologico.

E’ Tosto, difficile complesso.

Questo ha reso felice il mio lato da lettrice ma resa ardua la strada per la recensione.

Eppure in questo viaggio ho scoperto tanto, molti di me stessa, del mondo che mi circonda e persino dei miei ghignanti demoni interni.

E grazie a Adam essi apparivano meno minacciosi.

E’ solo una delle sfaccettature di quest’arte fatta a forma di libro.

E noi oggi, con la sua valente autrice vogliamo sollevare ancora di più il velo che ci separa dalla sua totale comprensione.

E Cercare, provare di osservare questa scrittura nella sua interezza.

A. Cosa significa per te Adam?

L. Adam è la storia di un dolore e di un riscatto. Di come anche nell’abisso più profondo possa filtrare un po’ di luce. Questo vissuto emotivo mi accompagna da tempo, ha scritto parola per parola la mia vita.

Se c’è una cosa che ho imparato è che toccando le profondità più impervie di noi stessi si possono scoprire risorse che non potrebbero essere sollecitate se non attraverso la sofferenza.

Adam è la rivincita di un dolore profondo che però mantiene quel sapore amaro in cui si può trovare qualcosa di dolce, con la certezza che la dolcezza sia a tratti un’illusione, a volte un desiderio, altre un sentire autentico.

A. Quanto è difficile scrivere un thriller psicologico?

L. Credo che la parte più difficile dello scrivere un thriller psicologico sia quella di caratterizzare ogni personaggio. Non basta dargli un volto e un nome. È necessario costruirgli una personalità, un portato emotivo, un bagaglio di esperienze che l’hanno reso quello che è. È fondamentale renderlo tridimensionale.

Siccome tutto parte da me, ho sempre trovato estremamente divertente creare questi uomini e donne, a tratti simili, a volte molto diversi, con modi differenti di vedere la vita.

È come trovarsi davanti a uno specchio e dirsi: “Oggi chi vuoi essere?”

Mettere quindi in scena ogni parte in un gioco di proiezione in cui si può essere tutto e fare di tutto.

Giocare con i conflitti, che in un thriller psicologico devono essere soprattutto interiori, per poi riversarsi nella storia e tra i personaggi in un crescendo di suspense.

Non è facile, soprattutto all’inizio, ma ci sono momenti in cui mi sento loro, assumo la loro identità, li sento dentro. E scrivere è semplicemente un modo per dar loro voce.

A livello di stile che tecniche bisogna usare per creare il giusto pathos?

L. Prima di tutto è fondamentale avere ben chiaro cosa si vuol comunicare con il proprio romanzo. Quale sia, in definitiva, la premessa narrativa. Questo vale per qualsiasi lavoro di scrittura.

Nel mio caso, con “Adam” volevo raccontare di un dolore e di come potesse sfociare in qualcosa di pericoloso che venisse percepito anche come estremamente dolce. Volevo che passasse il messaggio che non esistono confini netti tra bene e male e mi premeva che il lettore comprendesse ogni punto di vista recitato da ciascun personaggio, anche quelli più sconvenienti e marginali.

Sulla base di questa premessa ho costruito la storia, immaginando prima di tutto i personaggi, la loro tridimensionalità, i loro forti conflitti interiori, lo sfondo in cui ambientare le vicende.

Come tecnica di scrittura uso sempre lo “Show don’t tell”, ovvero il mostrare la scena che sto immaginando senza descriverla troppo, dosando le percezioni sensoriali, i cosiddetti cinque sensi, in modo che il lettore veda, senta, si emozioni e si trovi esattamente all’interno della scena. E, cosa non da poco, possa trarre conclusioni che in realtà gli vengono suggerite ma mai esplicitate.

Quando voglio mostrare emozioni intense e aumentare la suspense, utilizzo il “Ritmo sincopato”, una tecnica che consiste nello scrivere frasi brevi e ad effetto, rendendo il ritmo della scrittura incalzante.

Per il resto, saper osservare è alla base di una buona predisposizione all’essere scrittori. Non la considero una tecnica, ma un accompagnamento essenziale per dar vita ad ogni storia.

Osservando la realtà che abbiamo intorno si scoprono elementi importanti da romanzare e trasferire in un libro. Le persone sono la chiave di tutto: anche un solo elemento del carattere, del modo di fare, può bastare per ricamarci un personaggio. Per garantirgli quell’unicità che cattura l’attenzione e fa di lui qualcosa di speciale.

Lo stesso vale per l’ambiente in cui si svolge il romanzo. Osservando il vento che scuote le fronde degli alberi o la luna che splende alta in cielo la mente può correre ad un parco nel caos cittadino o ad una notte di luna piena alle spalle di un oceano calmo e rilassato.

A. Il vero protagonista del libro sembra essere la città, perché questa scelta.

L. Ho amato e amo New York come se fosse una parte di me.

È stata più una scelta istintiva che ragionata.

Mi ha da sempre attratto la sua natura di metropoli irraggiungibile, quasi invivibile, dove gravitano pulsioni morbose, buoni intenti e vite ordinarie. Dove l’esistenza di ognuno trova il suo angolo di sopravvivenza senza mai sentire di appartenere a niente.

New York è una madre fredda e distante che però accoglie tutti e guarda ognuno dall’alto della sua indifferenza, sfondo complice di ogni vicenda.

L’ho resa protagonista perché ha una natura noir che ben si addice ad un thriller che scava nelle profondità della mente umana. La sua frenesia è la stessa che troviamo in alcuni personaggi.

I protagonisti cercano il suo amore senza trovarlo mai, si sentono abbandonati perché rifiutati da questo amore, come bambini in cerca dell’accudimento materno. E la desiderano, come fosse un’ideale irraggiungibile, una meta a portata di mano ma impossibile da conquistare.

New York, città di ombre e di grigio, li priva dell’amore e di loro stessi, ma allo stesso tempo li ospita e li accoglie nel caos imperante che riesce a plasmare anche la loro anima.

A. Successi e insuccessi sembrano plasmare la vita dei protagonisti. Sono davvero quelli a scrivere il nostro destino?

L. No, assolutamente. Direi piuttosto che quelli determinano il modo in cui i protagonisti si sentono rispetto a loro stessi e nel rapportarsi al mondo. La visione che voglio dare è sempre interiore. Per rendere la narrazione più facile ho utilizzato successi e insuccessi esteriori che avessero un peso nel sentire psicologico dei personaggi. Che potessero farli star bene o male a seconda dei casi. Ma spesso anche chi ha un successo puramente materiale può sentirsi vuoto e spinto a cercare stimoli sempre più intensi, al limite dell’estremo (vedi il personaggio di Victoria Williams).

A. Nel libro è affrontato il tema dell’ombra junghiana. Quanto è importante per la vita di ogni individuo?

L. Nella nostra vita abbiamo a che fare con parti di noi che rappresentano spesso ciò che non vogliamo vedere né mostrare agli altri. L’ombra che nasce dalla tradizione junghiana non è altro che una di queste parti. Nessuno ne è esente.

Esiste però un grado di consapevolezza che ci differenzia. Ed è quello che distingue un individuo cosciente di sé da un altro totalmente inconsapevole dei suoi processi mentali e delle trappole spesso causate dall’ego.

Prendere coscienza del proprio lato oscuro, integrarlo nella “luce” della vita che viviamo e amiamo esibire è un passo importante per la risoluzione di parecchi conflitti interiori. Per un essere umano che si può dire completo prima di tutto a sé stesso e di conseguenza agli occhi di chi lo osserva.

A. La disillusione sembra trasparire dalle pagine del libro. Cos’è per te?

L. La disillusione è il tema centrale del romanzo. Come il dolore e il suo portato.

Se dovessi dire cosa rappresenta per me direi che è come una vecchia amica con cui sedersi a bere un caffè mentre si parla di come va il mondo. Un’amica che sa togliere maschere e facili illusioni, che mostra istantanee reali, a volte crude e impregnate di dolore, della nostra vita di esseri umani.

Immagini ed emozioni che nascono da un vissuto e da una visione del mondo senza filtri, spietata.

La mia visione, che non è quella di tutti.

La disillusione, che mi ha spesso ferita mostrandomi però una strada alternativa da percorrere.

A. Il successo, l’apparenza, le vittorie, il dominio sono tutte maschere per camuffare la sconfitta e la perdita. E’ davvero il crollo totale del grande sogno americano e mondiale?

L. Quando ho scritto di personaggi pieni di successo ma vuoti dentro non pensavo al sogno americano. Pensavo a come rendere l’idea di un grande apparire esteriore accompagnato da un sentimento di dolore e mancanza. Mettere in scena tutto questo in una delle città simbolo del sogno americano ha dato ancora più enfasi al gioco di contrasti.

Tendiamo a mitizzare l’esempio americano artefice di un ideale forte, indistruttibile, dominante, privo di fragilità, ma in realtà il fatto che si presenti così estremo e senza difetti lo rende già irreale.

Vedendola in questo senso il successo che maschera la perdita rappresenta senza dubbio il crollo del sogno americano e mondiale.

A. Nel testo non sembrano esserci confini netti tra vittime e carnefici. Come mai?

L. Perché penso che non esistano mai confini netti tra ciò che è “sbagliato” e ciò che non lo è. Per il fatto stesso che siamo noi a stabilire il lecito e il non lecito a seconda dei modelli culturali, della moralità e dell’etica.

Sono convinta che anche nella persona più ripugnante ci sia un lato da ammirare. Come il contrario, in un viso angelico si possano nascondere pulsioni sadiche e poco edificanti.

Vale sempre il discorso dell’ombra: se la sappiamo integrare non riusciremo a dividere il mondo in buoni e cattivi. Ma in persone che scelgono di agire in uno o nell’altro modo attirando gli sguardi e i giudizi della gente, che sono le vere tifoserie su cui si basa la mia opera di scrittura: consapevole di suscitare emozioni in chi legge ed empatia per vittime o carnefici.

A. Che emozioni speri susciti il libro nel lettore?

L. Mi piacerebbe suscitare compassione, rabbia, comprensione per ogni personaggio, per i suoi limiti e pregi.

Vorrei risvegliare in ognuno quel portato emotivo profondo che un thriller psicologico riesce a far emergere. Credo ci sia chi riesca ad identificarsi in un personaggio e magari inizi a sentire come lui. In questo caso è facile provare le sue emozioni, fare il tifo per la sua salvezza o volere la fine del o dei suoi nemici.

Ogni storia è fatta di contrasti e di una visione duale della realtà. Cerco sempre di contrastarla mischiando i confini tra i personaggi, ma mi devo arrendere all’evidenza che viviamo in un mondo duale. E anche le emozioni sono duali: felicità – tristezza; rabbia – compassione; dolore – gioia.

Quindi lascio che ognuno leggendo “Adam” provi l’emozione che più gli si addice.

A. Quale pubblico speri raggiunga Adam?

L. Un pubblico consapevole, non “leggero”. Un pubblico adulto e conscio della vita e delle sue difficoltà. Che ama andare in profondità, scavare nella complessità dei processi mentali e trarne insegnamento e forza.

A. Perché la scelta di ambientarlo a New York?

L. Perché New York è volubile. A volte è una signora rivestita di elegante indifferenza, altre è una carnefice spietata o una Escort che tutti desiderano senza avere denaro per comprare i suoi servigi.

Ma alla base rimane sempre un elemento comune: New York non si concederà mai a nessuno perché non è di nessuno.

È lo scenario ideale per una storia tormentata.

A. Progetti futuri

L. Ho in mente un’altra storia, un altro thriller in chiave psicologica. È come se non riuscissi a farne a meno.

L’ambientazione sarà diversa, quello che dirò non sarà facile dirlo, ma spero di riuscire a rendere l’emozione di questa importante sfida che sarà soprattutto con me stessa.

A. Lasciaci con una frase del libro.

L. La neve, ormai, copriva ogni cosa, insegnando che ci si può muovere anche senza far rumore. Ellen la definì un’autentica lezione di stile. Nel silenzio tutto sembrava essersi fermato per compiere un’azione che nessuno riusciva a fare da tempo: ascoltare.

***

Grazie Lucia per essere stata nostra ospite.

E a te lettore non resta che prendere in mano Adam e lasciarti suggestionare dalla sua voce.

E che un po’ di malinconico rimpianto scenda come neve sulle strade di New York, omaggio a una promessa oramai infranta

Quando la promessa è spezzata continui a vivere

Ma ti occorre qualcosa che ti venga dall’anima

Come quando viene detta la verità e non fa alcuna differenza

Ma qualcosa nel tuo cuore si raffredda

Ho seguito quel sogno per tutto il sud ovest

E nei vicoli ciechi che finiscono in bar da due soldi

E quando la promessa fu spezzata ero lontano da casa

Bruce Springsteen

Alessia Mocci intervista Teresa Stringa: ecco la silloge poetica Pensieri. A cura di Alessia Mocci ( Fonte Oubliette magazine)

“Quel tempo furioso/ mi vide distratta./ Il futuro era solo un profumo,/ e fremeva la vita/ che il mio sguardo/ non poteva fermare./ Poi arrivò lei/ impetuosa avversaria,/ schiacciava il volere/ e ogni azione fermò./ Così, dall’anima nuda/ ogni cosa riappare:/ tutti i miei ieri ritornano veri:/ sono inerme e sorpresa/ dello sbadato vissuto./ […]” – dalla lirica “Risveglio

“Pensieri” è una raccolta poetica edita nel 2021 dalla casa editrice Tomarchio Editore.
L’autrice, Teresa Stringa, è nata nel 1960 e fin da piccola, sia per dote innata sia per influsso degli amati genitori (il padre pittore e la madre amante della poesia e delle lettere), ha manifestato attitudini di estrema sensibilità nella scrittura in ogni sua forma. Apprezzare la bellezza divenne uno stile di vita che ha portato avanti nonostante gli studi tecnici.
“Pensieri” è frutto di riflessioni sul buono della vita ma anche su quelle situazioni difficili a cui siamo chiamati a rispondere: una malattia improvvisa che ostacola il futuro immaginato, la morte di una persona amata che trafigge di dolore le giornate.
Il ricordo interviene per sanare la perdita come ringraziamento di ciò che si è potuto vivere. Così la poesia, come la memoria di un pomeriggio d’estate, elude spazio e tempo e trasporta tutti i suoi amanti altrove.


“[…] Lo specchio di oggi/ ogni cosa rivela:/ i capelli di cenere/ e la bocca già triste./ Eppur mi stupisce/ l’improvviso risveglio/ sul finir della strada/ che a lungo/ m’ha visto sfilare” – dalla lirica “Risveglio”

A.M.: Cara Teresa sono lieta di poter presentare ai lettori di Oubliette Magazine la tua nuova pubblicazione intitolata “Pensieri”. Qual è il primo ricordo che hai della tua inclinazione verso la poesia?
Teresa Stringa: Alessia ti ringrazio e sono piacevolmente lusingata per questa intervista. Dunque, iniziamo. Fin da bambina ho respirato arte, mio padre Ugo è stato uno stimato pittore, un artista puro; mia madre Augusta amava la poesia, la leggeva e la scriveva, ma anche quando conversava esprimeva la sua dolce indole.
Già alla scuola elementare capirono che non avevo acquisito doti pittoriche ma, per non dispiacere papà, mi davano lo stesso la votazione minima! Avevo invece attitudine alla scrittura, la scoperta della poesia avvenne molto presto e la mamma mi abituò a “fermare” i versi, scrivendoli. Così, diceva, le emozioni diverranno immortali!

A.M.: Ci racconti come è nata l’idea di questa raccolta poetica?
Teresa Stringa: L’idea della raccolta poetica nasce dalla necessità di riassumere emozioni, appunto: “Pensieri, Subbugli, Coccole” in una unica pubblicazione che potesse rimanere nel tempo e nella memoria tangibile di chi mi vuole bene. Ho suddiviso la raccolta in tre settori poiché il Cielo ha voluto che, malgrado la malattia, io potessi cogliere consapevolmente sì le situazioni “ostiche” (Subbugli), ma anche il buono della vita (Pensieri e Coccole).

A.M.: Nella copertina del libro troviamo il dipinto “Sapore d’estate 1979” dell’artista Ugo Stringa. Vuoi condividere con noi un aneddoto riguardante il soggetto dell’opera?
Teresa Stringa: “Sapore d’estate” rappresenta per me l’emozione legata a un ricordo indelebile, che voglio condividere con voi.
Giugno era giunto alla fine, io mi ero inoltrata nel parco secolare nel quale era immersa la nostra grande e storica casa (nata nel 1200 come fortezza di difesa, e trasformata in villa dai conti Tadini nel 1500, per poi, dal 1800 passare di mano in mano a svariati proprietari, diventando, nel 1970, la dimora della nostra famiglia: papà pittore, mamma dolce e “titolista”, e noi figli, eccitati e curiosi), dopo aver raccolto succose e dolci ciliegie dall’albero dei duroni, ritornai verso lo scalone centrale posto a sud della casa. Mentre mi avvicinavo vidi papà e mamma chiacchierare serenamente, come erano soliti fare nei pomeriggi estivi. Li salutai, papà mi venne incontro e, con un sorriso che rapiva, prese dalle mie mani gelose tre ciliegie e poi, con una espressione di urgenza ispiratoria, sparì!
Noi eravamo abituate a queste sue “urgenze”, e a nessuno sarebbe mai venuto in mente di distoglierlo. Aspettammo un paio d’ore, quando tornò, appoggiò l’opera appena creata, su una sedia bianca, in ferro battuto, ce la mostrò (ero io con i duroni!) e disse: “Cosa ne dite eh, che sapore d’estate…!” Mamma annuì con un sorriso di approvazione e dolcemente gli disse che, secondo lei, dati i miei capelli-spaghetti, mancava qualcosa sulla testa. Papà capì subito, non disse nulla ma sparì di nuovo per raggiungere lo studio grande al piano superiore, che odorava di colori a olio e acquaragia. Non passò neanche mezz’ora che ricomparve: sulla mia testa, prima disadorna, aveva dipinto un adorabile cappellino rosso!

A.M.: La prima lirica che si incontra è intitolata “Meteora”: “L’Umanità?/ Una moltitudine di solitudini/ che brulicano nel mondo/ convulso e saturo./ Uno sciame fluente/ con un puntino/ luminoso, e un po’ ribelle,/ qua e là fuor di scia/ che talvolta lascia/ di sé/ una soave nota di gloria/ nell’immensità della Storia”. Perché hai deciso di iniziare con una domanda così rapida e complessa?
Teresa Stringa: Vedo l’intera Umanità, noi, come uno sciame caotico e velocissimo che non può e non vuole fermarsi. Ma talvolta, qualche talento artistico, scientifico… riesce a fermare l’incessante fluire, consegnando alla Storia, con la sua opera, un confortante sentore di eternità.

A.M.: La seconda parte “Subbugli” vede come incipit la lirica “Opulenta ingordigia” che recita: “C’è chi, in malafede/ carpisce la generosità/ dei buoni./ La grossa pancia piena/ non è mai sazia:/ arraffare, arraffare/ senza fine,/ parola d’ordine/ di occhi torvi e finti./ […]” Perché se i buoni sanno dell’esistenza di questa grossa pancia mai sazia continuano a compiere del bene?
Teresa Stringa: Il far del bene è una propensione individuale, essa si esprime “a prescindere”, a volte però chi lo riceve lo ingoia con ingordigia, pur sapendo di non meritarlo, ma non si sazia mai ed escogita strategie, a volte strategie balorde, per poter divorare il più possibile dalla sua vittima buona che, non per questo, perderà il vizio di far del bene, poiché lo ritiene un valore umano e morale, sempre e comunque arricchente.

A.M.: “Pensieri” termina con un “Discreto Commiato” grazie alla lirica “Viaggio Caduto” nella quale si legge: “Nella Farsa della vita/ ogni attore/ ricerca affannosamente,/ e un po’ smarrito,/ il proprio ruolo./ Allorché lo trova:/ s’illude, si rode, s’allieta/ recita/ governato dall’incauta/ illusione di eternità./ […]” Perché il poeta è quell’attore che pur sapendo della farsa continua la ricerca verso l’eternità?
Teresa Stringa: Il Viaggio caduco è la vita stessa, essa ci racconta ogni tipo di emozione, e noi, soprattutto negli anni di massima energia, ci illudiamo che la farsa non avrà fine (l’eternità delle emozioni). Ma quando arriva l’imbrunire della vita, certe illusioni cambiano forma, la natura stessa ci indica quale sarà il percorso, trascinandoci verso un sipario che inevitabilmente si chiuderà.

A.M.: Recentemente “Pensieri” è stato inserito in alcuni contest letterari come premio ai vincitori ed alle vincitrici. Ti è piaciuta come esperienza?
Teresa Stringa: La recente esperienza del Contest letterario, ove ha trovato posto Pensieri, come premio ai/alle vincitori/vincitrici, mi ha consentito di condividere e assaporare molte emozioni e di entrare nell’intimo sensibile delle parole. Ritengo che ricevere in premio un volume di poesie, sia un buon omaggio alla poetica individuale, profonda e accurata.

A.M.: Come ti trovi con la casa editrice Tomarchio Editore? La consiglieresti?
Teresa Stringa: Nella casa editrice Tomarchio Editore ho trovato una accoglienza attenta e amichevole. L’attenzione alla persona, da parte tua e dell’editore Rosario Tomarchio, ha rafforzato la mia stima. Inoltre, competenza e serietà sono state presenza costante e ora irrinunciabili. La consiglio vivamente!

A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Teresa Stringa: “Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera” (Salvatore Quasimodo)

A.M.: Teresa, ogni nostra conversazione mi procura nuove riflessioni sulle tematiche che spesso mi attraversano la mente. Concordo pienamente con quanto hai espresso sull’ingordigia di alcune persone che non vogliono (o non riescono ad) entrare a far parte di una società che tende al bene. Ti saluto citando l’ultima quartina della lirica “Cantato a piè delle Alpi” del poeta tedesco Friedrich Hölderlin: “Ma ama restare nella casa, chi in fedele/ Petto serba il divino, e libero voglio, finché mi sarà/ Concesso, voi tutte, o lingue del cielo!/ Intendere e cantare.”

Written by Alessia Mocci

Info
Acquista “Pensieri” di Teresa Stringa
https://www.tomarchioeditore.it/2021/08/04/pensieri-teresa-stringa/
Fonte
https://oubliettemagazine.com/2022/01/29/intervista-di-alessia-mocci-a-teresa-stringa-vi-presentiamo-la-raccolta-poetica-pensieri/

Alessia Mocci intervista Antonietta Fragnito: eccovi la raccolta La rosa, la cosa, l’anarchia del verso (Fonte Oubliette magazine)

Da sempre sento che le parole, e non solo in poesia, sono le mie stanze e le stanze, si sa, hanno angoli bui.” – Antonietta Fragnito

Parole come stanze i cui significati simboleggiano gli angoli bui. Con questa riflessione Antonietta Fragnito ci fa immergere nel suo stato mentale di “contenitore di significati” nel quale le parole vengono centellinate e selezionate accuratamente così come un pittore, nella sua tavolozza, cerca di giungere alla gradazione di colore di cui ha immagine solo nella mente.

Fare il pane/ Impastare il pensiero/ Addomesticare le cose// La credenza mi rotola nel palmo/ Una capinera fugge da una canzone/ e mi salta in petto// Mia madre che ricama nel cimitero” – “Il pane”

La rosa, la cosa, l’anarchia del verso” è stato pubblicato a gennaio 2022 dalla casa editrice Tomarchio Editore ed è ormai prossimo a seconda ristampa. È la seconda raccolta poetica dell’autrice, risultato di un premio assegnato dalla casa editrice siciliana per la migliore poesia nella Seconda edizione del Contest Free Poetry.

Antonietta Fragnito si è mostrata molto disponibile nel rispondere ad alcune domande non solo inerenti alla sua pubblicazione ma anche sulla sua vita e sulle sue esperienze. Buona lettura e buona poesia!

A.M.: Ciao Antonietta, sono lieta di poter dialogare con te per presentare ai lettori la raccolta poetica “La rosa, la cosa, l’anarchia del verso”, ma prima facciamo un passo indietro: quando hai sentito la necessità di scrivere in versi?

Antonietta Fragnito: Ciao Alessia, grazie, mi fa davvero piacere presentarmi e presentare i miei versi. La mia necessità di scrivere è venuta alla luce a seguito di un evento molto doloroso: la perdita del mio amato marito. È stato allora che la scrittura si è presentata a me, mi ha preso in braccio, mi ha offerto lenimento. Ora posso affermare che le mie ere esistenziali sono due: la prima senza poesia, la seconda assieme alla poesia. Quando ho iniziato a scrivere ho sentito che mi veniva offerta una possibilità, ed è vero perché in questi anni di immersione nella scrittura, ho potuto conoscere la fibra più nascosta della parola. Questa presa di coscienza ha generato un rivoluzionario cambiamento in me. Io sento che la parola ha il potere lenitivo del canto, specie quando si aggrega e genera poesia. L’essenza della poesia è in questo: la scrivi, la leggi, la rileggi e poi magari la consegni ad un libro. Il libro ingiallisce, il verso no! Il verso intriso di lirica rimane giovane per sempre. Tornando agli esordi del mio scrivere, essendo una persona riservata, mi risultava assai difficile espormi sulla pagina. Ma poi è successo! Ho preso coraggio e ho scavalcato il cancello. Da quel momento è iniziato il mio viaggio nell’abisso della bellezza, non tanto per la mia personale ispirazione, quanto per l’apertura ad un processo di nutrimento artistico che evolve anche tramite la rilettura dei poeti del passato e la conoscenza di attuali e validi artisti del Web.

A.M.: Nella prefazione del libro racconti del titolo che originariamente avresti voluto dare alla raccolta: “Lievito padre”. Che cosa rappresentava per te quel titolo e che cosa rappresenta invece quello che poi si è scelto?

Antonietta Fragnito: Il primo titolo “Lievito padre” esercita su di me ancora oggi molto fascino perché sono convinta che l’amore genitoriale abbia svolto nella mia infanzia la funzione che ha il lievito nell’impasto. Non a caso, alcune poesie del mio libro sono una sorta di pagine epiche celebrative di mia madre e mio padre, delle loro gesta contadine, tanto simili ai voli bassi delle api operaie! Aprendosi poi il libro a numerose altre mie note intime, ho capito che il titolo non era più quello a lungo agognato, che in me ne era germogliato un altro, con un nome nuovo, fascinoso, onirico, poeticamente delirante: “La rosa, la cosa, l’anarchia del verso”. Queste parole un giorno mi sono balzate in mente di colpo ed io mi sono precipitata ad appuntarle per non disperderle. Il titolo definitivo di un libro comunque ha sempre insito lo stesso accorato turbamento che accompagna la decisione del nome da dare al proprio figlio. Un figlio lo vuoi felice, aperto al bello, ma anche ancorato alla terra e soprattutto lo vuoi libero. Questo libro ha in sé questo stesso genere di manifesto: è votato all’estasi, alla filosofia tattile e ideale, al volo anarchico della poesia.

A.M.: In apertura troviamo una citazione di Pier Paolo Pasolini di cui si celebrano proprio quest’anno i cento anni dalla nascita; i versi che hai scelto sono: “Tu sei come una pietra preziosa che viene/ violentemente frantumata in mille schegge per poter/ essere ricostruita di un materiale più duraturo di/ quello della vita, cioè il materiale della poesia.” Come mai proprio questi versi?

Antonietta Fragnito: La citazione che ho scelto costituisce per me il quadro della naturale simbiosi tra poesia, vita e amore: tre elementi che impregnano fortemente anche la mia scrittura. Di forte impatto lirico, nella citazione, è il parallelo donna, poesia e pietra preziosa, come pure assai affascinante è la metafora della poesia che ricompone la frantumazione. Nel variegato insieme delle diverse produzioni artistiche di Pasolini bisogna convenire che un posto di rilievo ha la poesia. Mi piace qui riportare queste frasi che danno la misura del rapporto poeta poesia. Pasolini afferma: “… ho cercato lo scandalo che sempre dà la poesia, attraverso lo scandalo che può dare la sincerità…” E ancora: “… per essere poeti, bisogna avere molto tempo: ore e ore di solitudine sono il solo modo perché si formi qualcosa, che è forza, abbandono, vizio, libertà, per dare stile al caos…” La scelta di allacciare la figura di Pasolini al mio libro credo stia nel sentire intensi alcuni palpiti del Poeta, specie quelli dolorosi a me un po’ consanguinei! E certi moti di ribellione per certe incongruenze del reale che pure mi appartengono. Nel leggerlo, penso alla mia solitudine affollata nel rapportarmi a schemi vuoti e limitativi, a rituali sociali, a situazioni imposte che non condivido. Di Pasolini amo tutto: in primis la sua poetica, ma anche il suo ecclettismo. Sento di volerlo qui omaggiare, ricordando che egli fu scrittore, poeta, regista, pensatore, filosofo, profeta del degrado sociale e ambientale del suo tempo e di quello a venire. Denunciò con forza il consumismo imperante e pressante, l’alienazione di certi ambienti lavorativi, lo sfruttamento dei deboli e del sottoproletariato. In lui si fusero arte e realismo e, in quanto cineasta, rappresentò scenicamente la vita come se la pellicola nelle sue mani potesse divenire lo specchio della realtà. Nella scrittura, come pochi, attuò la rivoluzione del linguaggio, proteso sempre sul piano di una comunicazione diretta, scevra da maschere e dissimulazioni. Il suo viaggio nel mondo è stato troppo breve rispetto alla sua arte! E la tragedia che lo colpì, così efferata, lo rende tragicamente stanziale nel mio cuore e nel ricordo di tutti.

A.M.: Nella poesia “La stanza” si legge: “Non sto pensando alle parole/ Le parole sono stanze/ Penso invece ai miei fantasmi/ Sono una che frequenta il buio dell’anima/ Ogni poeta è un aldilà”. Che cos’è “il buio dell’anima”?

Antonietta Fragnito: Da sempre sento che le parole, e non solo in poesia, sono le mie stanze e le stanze, si sa, hanno angoli bui. È questa una lirica di segno esistenziale, dove metto in atto un tentativo di esplorazione dell’inconscio. In parole più esplicite, qui io immagino la mente come un grattacielo con infiniti piani, con la massima tensione verso l’alto, però giù in cantina rimane appostato il buio. Per buio intendo l’ombra, non solo quella che governa gli istinti e i bisogni primordiali umani, ma anche l’altra, quella proiettata dal grigio delle illusioni occultate, quella dei sogni leciti negati, censurati dalle convenzioni, dalle mistificazioni, dai divieti ideologici e sociali. Sono certa che l’uomo sarebbe un essere assai più felice se potesse estrinsecarsi liberamente, al di fuori di tanti muri innalzati. Credo che troppe volte siamo costretti a ricercare luoghi interiori più confortanti per sfuggire a una realtà avara, di dover riparare in dimensioni intime dove poter trovare qualche forma di conciliazione con i nostri fantasmi. Credo poi che alcune parole – stanze – possono essere pura geografia di luminosità o di nero, all’interno delle quali brancoliamo o ci confortiamo. Si sa che l’ingerenza dell’ombra in noi è una costante, data la nostra imperfezione. Il poeta cerca di sorvolare i luoghi soffocanti dell’anima e si fa costruttore di squarci di paradiso nella declinazione del verso. Tale presa di coscienza mi ha portato ad affermare che ogni poeta è un aldilà.

A.M.: “Succede spesso/ di tramutare qualcosa in qualcos’altro/ Come sostituire il gesto alla parola/ O il pensiero all’azione/ […]”: con questi versi principia“Spettinata”. La poesia prosegue con la traccia di una relazione d’amore tra un uomo ed una donna. Perché, secondo te, l’essere umano ha la facoltà di “tramutare”, può essere anche una sorta di dissimulazione?

Antonietta Fragnito: In questa poesia viene visitato il luogo del travestimento mentale, delle dissimulazioni che usiamo quando viviamo momenti emozionali forti che si possono manifestare tramite le illusioni, la personificazione di luoghi e oggetti, i desiderata, i sogni. Per descrivere, esprimere tali stati intimi, questa poesia si colora di folcloristiche immagini esemplificative di tali processi. Ne consegue che delle magie accadono nei suoi versi. E succede di telefonare senza apparecchio a tutte le ore, di compiere gesti sostitutivi di una qualche intenzione, come avviene quando i due amanti si danno appuntamento seduti in poltrona in due case differenti. E viene proiettata l’immagine di lui che si aggiusta la cravatta solo a pensarla la donna e quella di lei che si trucca di tutto punto per non farsi sorprendere discinta nell’incontro fantasma con l’uomo. Una poesia questa acrobatica, apparentemente scissa dall’oggetto esterno, ma ad esso fortemente allacciata oniricamente.

A.M.: Com’è stata l’esperienza con la casa editrice Tomarchio Editore? La consiglieresti?

Antonietta Fragnito: Voglio parlare dell’esperienza con la casa editrice Tomarchio Editore partendo da un racconto. Era una sera un po’ noiosa. Stavo sfogliando distrattamente Facebook, quando mi apparve l’annuncio della seconda edizione del contest “Free Poetry” promosso da Oubliette Magazine. Apro, vedo che è gratuito e mi dico: “Perché no? Ora mando qualcosa!” Cerco fra i miei scritti, poi di colpo mi ricordo di questa poesia che amo molto:

Ho steso un fazzoletto di te sull’erba

Ti ho perduto in una tazza di terra

Ora le margherite ti allacciano le scarpe”

Faccio il copia e incolla e invio.

Dopo qualche mese, un’amica, tramite Messenger, mi dà notizia della mia vittoria al Contest! Avevo perfino scordato di aver partecipato! Da quel momento mi si è aperto davanti un mondo. In pochi mesi è nato questo mio secondo libro di poesie, frutto del premio, della meritocrazia perseguita dalla Casa Editrice. Elaborare la raccolta è stato semplice e perfetto perché un lait motiv emozionale mi ronzava in testa come un tam tam! Questa avventura di scrittura, questa acrobatica rincorsa ad afferrare la mia poesia interna più vera e ancestrale è stata supportata e rinforzata dalla umana presenza, dalla genialità e serietà mostrata da te Alessia, persona di grande competenza editoriale. Mi hai affiancato con partecipazione nella realizzazione dell’opera. A te va il merito dell’avermi indirizzata e della scelta della romantica copertina!

La rosa, la cosa, l’anarchia del verso” sta riscuotendo tra i lettori un’attenzione viva e inaspettata che mi riempie di gioia! Ringrazio tutti coloro che hanno richiesto e chi ancora vorrà ricevere la mia raccolta di poesie. Mi è spontaneo aggiungere che la Tomarchio Editore è una Casa Editrice che assolutamente consiglio: per l’affidabilità, per la promozione fattiva delle opere, non ultima per la cura, la qualità della veste editoriale delle sue pubblicazioni.

A.M.: Salutiamoci con una citazione…

Antonietta Fragnito: “Il sogno è una costruzione dell’intelligenza, cui il costruttore assiste senza sapere come andrà a finire.” – tratta daIl mestiere di vivere” di Cesare Pavese

A.M.: Antonietta ti ringrazio per la profondità che hai mostrato in queste risposte e ti saluto anche io con Cesare Pavese con una citazione tratta da “Dialoghi con Leucò” e precisamente dal dialogo “L’isola” che vede come protagonisti Calipso ed Odisseo: “Immortale è chi accetta l’istante.

Written by Alessia Mocci

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Intervista a Emanuele Martinuzzi: vi presentiamo Notturna gloria. A cura di Alessia Mocci (Fonte oubliette magazine)

Le mie prime raccolte, che non ho quasi più riletto se non alcuni estratti, provenivano da tutt’altra considerazione personale della poesia, il senso che davo al poetare era molto nitido dentro di me, la ricerca della poesia si sposava perfettamente con la riflessione e la conoscenza di se stessi e del mondo, era un fatto che davo per scontato, quei lavori risentono di queste e altre illusioni che avevo sulla vita, la cultura letteraria, la poesia e me stesso.– Emanuele Martinuzzi

Sulla via che percorriamo e che denominiamo vita capita, talvolta, la possibilità di guardarsi allo specchio in modo diverso, con uno sguardo interiore che disprezza la menzogna. Se, in quell’occasione, l’essere umano – il poeta – è disponibile all’ascolto si può accedere alla porta con quella consegna di chiavi che permette l’ingresso in un mondo altro, grazie al quale si ha l’abbandono di ‘alcune’ illusioni che impugnavano le redini del cocchio. ‘Alcune’, già, perché oltre all’imprevedibilità della corsa dei due cavalli anche il paesaggio che incontriamo potrebbe imbastire una nuova tavola nella quale l’arrogante desiderio ci fa tramutare le vivande in oro.

Emanuele Martinuzzi (Prato, 1981) si è dedicato ai versi sin dalla tenera età ed, anche, dopo la laurea in Filosofia ha continuato una strada solitaria di dialogo incessante. Dalla prima pubblicazione con “Nella pienezza del Non” sino al canzoniere di cui si tratterà in questa intervista, Emanuele si è prodigato nell’indagine sul perché della scrittura come necessità “costruttiva affidata al verso”.

Notturna gloria” edito da Robin Edizioni nel 2021, con prefazione di Adua Biagioli Spadi, è una raccolta di ventuno poesie associate ad altrettante illustrazioni del Maestro Gianni Calamassi. L’opera presenta un differente concetto di gloria che per l’appunto è notturna, è oscura, infernale. Il canzoniere è suddiviso in tre parti, nella prima trovano spazio le città in stato di abbandono, nella seconda città storicamente esistite e nella terza ed ultima parte luoghi immaginari.

[…] Fuggo cavo di me stesso nelle caverne/ del sentire, spigoloso mi dicono i vocaboli/ di seta delle rocce, rime vaganti in questa/ eco arretrata alla morte// […] – “Aufugum”

A.M.: Benvenuto Emanuele, è un piacerti poter presentare ai lettori la tua novità editoriale. Anni fa ci siamo incontrati con tre tue sillogi: “Nella pienezza del Non”, “Anonimi frammenti” e “Dopo il diradarsi, la nude”. “Notturna gloria” è in comunicazione diretta con questi titoli citati oppure percorre un’altra via?

Emanuele Martinuzzi: Un vero piacere poter parlare con te ancora una volta del mio ultimo lavoro letterario. In effetti è trascorso tanto tempo dalla mia prima autopubblicazione “Nella pienezza del Non” che venne alla luce nel 2010, più di dieci anni fa, mi sembra passata una vita. Già allora fu un cambiamento non da poco, dopo che per tanto tempo, da quando avevo dodici anni, avevo vissuto la poesia in modo intimo, scrivendo solo per me stesso, mettendo in un cassetto le mie poesie, percorrendone i sentieri in solitaria e allo stesso tempo in liberissima ricerca, leggendo e dialogando solo con gli autori del passato e con le mie emozioni più profonde. Da un lato sento che tra i primi lavori pubblicati, tra cui appunto “Anonimi frammenti”, “Dopo il diradarsi, la nube”, “Polittico” e questo ultimo canzoniere c’è una sottile comunicazione, anche ideale, per ponti misteriosi, accomunati dalla mia sensibilità che nel tempo si rinnova certamente ma permane, dall’altro sinceramente parlare anche solo dei miei primi lavori e di conseguenza del me di allora mi pare addirittura di evocare le reminiscenze di un’altra vita, letteraria anche, e rispetto ad adesso è come ci fosse un burrone di differenze non più avvicinabili, né colmabili neanche dal ricordo, che non riesco a mettere a fuoco del tutto. Le mie prime raccolte, che non ho quasi più riletto se non alcuni estratti, provenivano da tutt’altra considerazione personale della poesia, il senso che davo al poetare era molto nitido dentro di me, la ricerca della poesia si sposava perfettamente con la riflessione e la conoscenza di se stessi e del mondo, era un fatto che davo per scontato, quei lavori risentono di queste e altre illusioni che avevo sulla vita, la cultura letteraria, la poesia e me stesso. Non li rinnego assolutamente fanno parte di quello che ho scritto, sono lì a testimonianza di qualcosa, anche se non so più bene cosa in realtà o meglio sono semi germogliati e lì accetto per come sono o non sono. Quella fiducia costruttiva affidata al verso, quel senso filosofico della poesia sono prospettive in cui non mi riconosco più così in modo entusiasta e privo di tentennamenti. Quel percorso si è evoluto fino alle mie due raccolte “L’oltre quotidiano – liriche d’amore” e “Di grazia cronica – elegie sul tempo”, edite da Carmignani editrice, che in un certo qual modo sono l’apice del mio intendere la poesia come forma interiore, una via primigenia del filosofare, strutturate per temi, portatrice di significati criptici ma netti, essenziali, cioè l’una l’amore come archetipo del femminile, l’altra il tempo come archetipo del maschile. Dopo per me c’è stata la diaspora dei saldi pensieri, la perdita di quel centro di gravità permanente che si rifletteva nelle mie poesie. La vita mette sempre in discussione tutto, porta ombra dove si crede ci sia solo luce, o fa apparire il chiaroscuro in ciò che si chiamava sole. In questo senso è più originale e fantasiosa di qualsiasi autore. Un lungo e confuso periodo contrassegnato dal cosiddetto blocco dello scrittore è stato capace di esiliare i miei punti di riferimento interiori, cambiarmi, vedere diversamente la poesia, anzi forse vedere per la prima volta come non la vedessi, che fosse qualcosa di sfuggente, incomprensibile, forse una passione che non capivo profondamente, che mi illudevo di controllare, pur traghettandomi in territori di estasi e tormento, senza neanche sapere come e perché. In questo periodo di ripensamento ho pubblicato altre due raccolte “Spiragli” edita da Ensemble e “Storie incompiute” edita da Porto Seguro editore, che apparentemente possono sembrare poesie ermetiche, di ispirazione orientale, con l’intenzione di tendere verso l’essenziale, ma che in realtà si compongono di scritti nati incompiuti, epigrammi manchevoli, frammenti e spiragli segnati da una voce interrotta, ossia sono ciò che ho saputo tirare fuori da un’ispirazione disorientata, senza largo respiro, che veniva fuori a tratti, gettata sul foglio bianco senza più il solito e passato labor limae, ma così come un gesto al di là del senso, un comunicare a prescindere, un bisogno di cuore e pancia, senza più troppa mente o riflessione. In questo contesto ho incominciato a fare viaggi alla ricerca di luoghi abbandonati, siti archeologici, monumenti d’arte, chiese antiche e altre architetture del passato, all’inizio per diletto e poi per seguire una strana esigenza ancora non ben compresa. Poi dai territori fisici mi sono spostato nei territori letterari, cosiddetti inattuali, remoti, lontani, a me sconosciuti o in quelli della fantasia, complice anche un periodo di problemi personali, che non mi permettevano di spostarmi agevolmente. Girovagando trovavo pace e meraviglia in questi spazi dalle molte dimensioni, incurvati nel silenzio, e venivo a volte asserragliato da parole e frasi che trascrivevo e componevo via via, formando così quelle che poi sarebbero diventate le 21 poesie del mio ultimo lavoro poetico. Così è nato piano piano, viaggio dopo viaggio, ombra dopo ombra, eco dopo eco, dubbio dopo dubbio, lettura dopo lettura, dal 2017 al 2019, questo canzoniere illustrato intitolato “Notturna gloria” edito da Robin edizioni. Ancora non so cosa e se ho trovato qualcosa, ma la sensazione del viaggiare mi ha fatto avvertire la possibilità di nuove radici ed elaborare il lutto in un certo senso, trasfigurando quelle perdute.

A.M.: Nella prefazione de “Notturna gloria”, Adua Biagioli Spadi scrive: “Il viaggio intrapreso dal poeta, quasi una sorta di ricordo dantesco, è un addentrarsi fisico e mentale nella fragilità delle cose e del suo stesso io: egli stesso coglie l’inizio dell’ombra per risalire a una luce fiduciosa che sa di avere un luogo, da qualche parte, una destinazione tutta da ritrovare.” Ombra e luce, viaggio e casa: perché il poeta trascorre la sua esistenza in viaggio?

Emanuele Martinuzzi: Tutta la prefazione della poetessa Adua Biagioli Spadi è riuscita davvero a farmi comprendere meglio che cosa avessi comunicato agli altri, che cosa potessi capire meglio del mio scrivere e nuove sfumature non preventivate né calcolate nella stesura, a cui abbandonarsi così senza riserve. Ha impreziosito sicuramente il tutto dando uno sguardo tagliente e profondo, dove si doveva e poteva, per osservare nell’invisibile. Comunque non solo i poeti, siamo tutti in viaggio in qualche modo, anche senza uscire dalla propria casa o dalle proprie emozioni. Siamo abitati da luoghi, o meglio non-luoghi, utopie che ci attraversano, desideri che ci lacerano e che spesso non vengono ascoltati, si passa una vita a viaggiare magari fisicamente senza fermarsi ad osservarsi, inseguendo il cambiamento, gustandone l’ebbrezza o irretiti dalla fretta, senza sentire più cosa rimane invece immutato e morto dentro di noi, o magari una vita trincerati nella propria casa, impauriti e protetti dall’esterno, illudendosi di rimanere sempre gli stessi, di poter controllare il cambiamento, il divenire delle cose e di ciò che siamo e non siamo o non sapremo mai. Nello spaesamento che vivevo, viaggiare, spesso nella mia amata Toscana alla scoperta di luoghi bellissimi e poco conosciuti, se non dimenticati, è stato un rispecchiamento continuo nei tormenti di ciò che non osavo più chiamare, né evocare attraverso le disperse parole della poesia. Nella mitologia antica è un classico che l’eroe, il poeta o il mistico debba attraversare il guado della vita più misteriosa, intraprendendo la sua catabasi, la sua discesa nell’oltretomba che fuor di metafora può essere la sua immersione nelle ombre della propria anima, per recuperare l’amore fuggito o disperso, la propria Euridice da salvare, o incontrare Beatrice, solo mezzo di salvezza per vedere faccia a faccia la scintilla di senso che ci abita, al di là del deserto in cui ci troviamo a peregrinare a volte. In questo caso discendere nelle ombre di ciò che è abbandonato o spopolato, nella voragine di ciò che è distrutto o scomparso o nella vertigine del sogno, è stata sia la catabasi che l’anabasi, sia un perdersi che ritrovarsi nella scrittura di queste poesie, in una straniante forma di rispecchiamento e perdizione. La poesia è salvezza e dannazione, una benedizione e un labirinto. Non si può prescindere dal vivere le contraddizioni se si vuole leggere, scrivere, vivere le proprie poesie, la poesia.

A.M.: Ogni poesia è compagna di una speculare illustrazione, opere del Maestro Gianni Calamassi. Com’è nata questa collaborazione?

Emanuele Martinuzzi: Man mano che buttavo giù le frasi e che le poesie si materializzavano sotto ai miei occhi continuavo ad avvertire quella sensazione di imperfezione e manchevolezza, che mi aveva accompagnato e che aveva contraddistinto le mie due raccolte precedenti, “Spiragli” e “Storie incompiute”, ciò che scrivevo nella sua vaghezza e nel suo personale simbolismo mi pareva non riuscire a dare corpo a quei luoghi interiori, a cui volevo dare nuova vita. Ho pensato che fosse una cosa che non avevo mai fatto, ma un esperimento interessante in cui imbarcarsi quello di associare ad ogni poesia un dipinto o disegno o illustrazione, in modo che le linee e le forme giungessero dove la mia voce mi sembrava arenarsi. Ho pensato subito di proporre questa cosa al Maestro Gianni Calamassi, che stimo molto umanamente e artisticamente. E lui con generosità e amicizia devo dire che non solo ha accettato subito, ma si è affidato alle mie decisioni e sensazioni, pur avendo più spessore e maturità artistica. Mi ha dato un insegnamento importante, dando fiducia alle mie scelte estetiche, instaurando un creativo connubio tra diverse generazioni e sensibilità, in cui si è ritrovato con lo spirito di sperimentarsi ancora una volta. Addirittura ha disegnato appositamente per questo lavoro tutta la serie delle città abbandonate o spopolate, prendendo spunto da mie fotografie fatte nelle mie peregrinazioni, in uno stile figurativo. Mentre per le città scomparse o distrutte ha donato le sue opere astratte e minimaliste e per le città immaginarie alcuni suoi lavori figurativi con ascendenze simboliste e surreali. Quello che mi onora è che chi avrà modo di leggere questa raccolta potrà fare un interessante excursus nella produzione artistica di questo Maestro fiorentino, con opere che vanno dal 1970 al 2019. Credo già questo esalti di per sé le mie poesie e davvero integrino le loro possibilità espressive con orizzonti insperati.

A.M.: Qual è la città a cui sei più legato?

Emanuele Martinuzzi: Non ho una città a cui sono più legato e non potrei averla per come è nato ed è stato costruito questo libro. Ogni città raccoglie e custodisce un flusso di pensieri, ricordi, emozioni e luoghi sia fisici che interiori, che le lega tra loro in un continuo indistinto. Ogni città evocata dalla poesia e dall’arte in realtà non è solamente quel luogo particolare. Questa raccolta è una sinfonia di linee e parole, silenzi e forme, è venuta fuori così spontaneamente. E poi ogni luogo è associato a una persona, a un gesto a me caro e non potrei scegliere tra questi istanti così importanti dentro di me. Sterlingo, città immaginaria, è per esempio il nome storpiato nei racconti mitologici di mio nonno della collina dove vivevano i suoi avi mezzadri e dove lui tornava spesso a visitare quei verdi paesaggi, in una dimensione per me bambino che ascoltavo queste favole, ancora adesso a metà tra il sogno e la realtà. Perla, città immaginaria citata nel libro “L’altra parte” di Alfred Kubin, è anche il nome della persona a me cara, che mi è stata vicino per diverso tempo e che mi ha raccontato di questo enigmatico scrittore austriaco. Aufugum è la città scomparsa e distrutta, su cui è sorta la città calabrese in cui è nato mio padre e in cui abita ancora una parte importante della mia famiglia e quindi della mia storia personale, legata alle passate generazioni. Luni, antica e importante città distrutta dell’antica Roma, citata da Dante nella Divina Commedia e da cui è sorta la bellissima Lunigiana in cui ho girovagato alla ricerca di bellezze naturali o borghi spettacolari come il borgo medievale di Bagnone. Per esempio le città abbandonate o spopolate che ho visitato personalmente, che hanno ispirato i versi di queste poesie, in realtà non tutte sono citate, mi viene da pensare a Villa Saletta dove è stato girato il film La notte di San Lorenzo dei Fratelli Taviani, o Castiglioncello a Firenzuola, oppure la Chiesa di San Michele Arcangelo che sorge all’interno dell’antico borgo fortificato di Castel di Nocco, sul valico della vecchia strada che ancora oggi unisce Buti e Vicopisano, e così tante altre. Ognuno di questi luoghi con la loro magia ha contribuito ed è presente in questa raccolta, pur nella loro assenza, attraverso l’ispirazione e le parole da essa nate. Anche la tripartizione che si è consolidata nell’evoluzione naturale di questo viaggio, tra città abbandonate o spopolate, città scomparse o distrutte, infine città immaginarie, ha un senso non assoluto, le une sconfinano metaforicamente nelle altre, l’ispirazione dei versi di una città può essere nata dall’incontro di più luoghi fisici o letterari. Il tutto crea un viaggio misterioso e sfumato tra concretezza e sogno, tra interno ed esterno, tra natura umana e storia personale.

A.M.: In “Alba longa” si legge: “[…] È come un filo sottile l’attesa che cuce tra loro/ passanti di nebbia in città future, guance/ di notturni che si coricano nell’altra metà della neve/ come un bisbiglio, un’eresia.// […]” Perché l’anima è una piazza deserta?

Emanuele Martinuzzi: Questo e altri versi non smettono di emozionarmi e tormentarmi ogni volta che mi ricapita di leggerli. C’è un’oscura simmetria in alcune frasi di questa raccolta, completata nel 2019, rispetto alla tragica vicenda della pandemia e delle sue conseguenze per tutti noi. Assolutamente non perché penso che vi sia un afflato profetico in questi versi, sono un semplice e umile amante della poesia, il dono della profezia non mi appartiene, è già tanto se so cosa mi accade nel presente, figuriamoci ben altro. Però credo che la poesia possa sempre parlarci sia del passato che del futuro, in quanto per sua natura, indipendentemente da chi la scrive, si staglia in un orizzonte di senso universale, in cui convergono il cuore, la pancia e la mente dell’umanità e così le sue dimensioni temporali e i suoi spazi interiori. Aver viaggiato in questi luoghi spopolati in tempi ancora immuni da questa assurda vicenda, rende più ancora interessante secondo me la lettura di “Notturna gloria”, perché permette un ripensamento ed elaborazione del presente alla luce del passato, con la speranza di un futuro di ricostruzione. C’è uno spopolamento dei luoghi e uno dell’anima, non-luogo delle utopie, dei sogni. In effetti queste poesie che cosa non cercano di fare se non ricostruire con la bellezza e l’arte luoghi destinati dalla natura e dalla storia all’oblio. La forza della cultura spesso è un opporsi alle forze incontrollate della natura o della violenza. L’anima è una piazza deserta, quando discende negli inferi delle proprie ombre, le figure che passano sono passanti senza volto destinati a una nebbia che non si dirada, in cui la città perde i suoi connotati per scomparire assieme all’individuo. Mi viene in mente anche la poesia Umbriano, su questa città abbandonata immersa nei boschi della bellissima Umbria, che così canta: “[…] gli steli stanno insieme e disuniti, / non per il vento che li urla”. Nel testo si ripete ossessivamente questa frase, stanno insieme e disuniti, e nel rileggerla non posso non immedesimare tutta la sottile e taciuta sofferenza per una necessaria distanza realmente vissuta da tutti noi, si spera più temporanea possibile, in cui solo il vento urla ciò che il cuore non osa dire, attanagliato dalla paura. C’è sicuramente una distanza che rende estranei perfino nella vicinanza, ed è l’indifferenza, la mancanza di empatia. Questo per dire come la poesia dia voce alle ombre del cuore, agli anfratti della mente sofferente o speranzosa, questo è il suo viaggio da sempre.

A.M.: In “Fedora” si legge: “[…] In ogni gesto sembra quasi vivano ancora/ i frammenti di una fragranza antica, la meraviglia/ della campagna che tace nei ricordi, un aroma amaro/ di dolcezza, l’infanzia dei perché.// […]” Perché, oggi, noi esseri umani siamo così distanti dalla meraviglia?

Emanuele Martinuzzi: Credo che la meraviglia faccia parte dell’umanità, della sua parte più fragile, misteriosa e creativa, in cui la ragione si abbandona al sogno, in cui l’infanzia viene custodita in tutta la sua mitologia e la sua creatività. In ogni epoca e in ogni persona c’è sempre un dialogo, uno scontro se non proprio una lotta tra le intenzioni della meraviglia e quelle del cinismo, del disincanto e della perdita dell’incanto con cui guardare alle cose. Viviamo in un’epoca storica, che per svariate ragioni e su molti aspetti è connotata da questa dialettica imperfetta, tra la follia del nichilismo e le ragioni del sogno, della speranza, dell’umanità. Dove il futuro e l’umanità sembrano venire meno la sfida è ancora più interessante e più grande per coloro che, affidandosi alla propria piccola sensibilità come a una fiammella nelle tenebre, decidono di procedere attraverso le tenebre o le incertezze o certe dinamiche anti-umane, affrontando prima di tutto dentro se stessi il nichilismo che pervade il proprio momento storico. Mi viene in mente la bellissima scena del film Nostalghia di Andrej Tarkovskij, girata nelle piscine di acque termali di Bagno Vignoni. Detto ciò questa raccolta con tutti i suoi limiti, che in realtà sono anche i suoi pregi, avverto sempre più nitidamente sia un esempio, non sempre di semplice accesso o immediata lettura, di ricostruzione della meraviglia nei sepolcri della storia. Ci vuole tempo per addentrarsi in queste ombre, è un libro che deve sostare sulla scrivania o sul comodino per molto tempo, riprenderlo, abbandonarlo, darsi tempo e farlo assorbire assieme al proprio vissuto, giorno dopo giorno. Lo si può amare o detestare, a una prima impressione. Un libro del tempo che sedimenta dentro il proprio spirito con lentezza. Una lettura diversa, da donare agli altri. E appunto viene raccontata nei versi e nelle immagini di Notturna gloria la possibilità che l’arte, la poesia e la bellezza possano infondere vita e senso in ciò che apparentemente sembra non averne più, destinato ad essere cosa o maceria, in balia del tempo e delle contraddizioni della natura. E anche che se il tuo tempo storico non soddisfa i tuoi bisogni interiori o risponde alle tue domande più profonde, c’è sempre la possibilità di guardare al passato, riscoprire territori non più calpestati né letti da secoli per guardare le cose da inattuali prospettive. La verità non è data una volta per tutte solo dall’oggi, ma ci abita e accompagna con molti nomi, a volte misteriosi e sconosciuti come i nomi delle città remote di questo canzoniere, a cui va ridato nuovo spessore e nuove vie interpretative. Si può dialogare con ciò che sembra morto e nel dialogo miracolosamente si affaccia una nuova esistenza.

A.M.: Devo confessarti che tra tutti questi borghi solo uno mi è familiare: Erto. Di sicuro avrai intuito il perché… Che cosa significa perdersi “ad ascoltare timbro paterno del vento”?

Emanuele Martinuzzi:La scelta di inserire Erto nelle città abbandonate o spopolate mi sembrava doverosa, non solo per ricordare il disastro del Vajont e di quella tragedia su cui sono stati fatti numerosi dibattiti, processi e opere di letteratura, su cui molti scrittori e uomini di cultura hanno speso le loro idee e il loro ricordo, come per esempio Mauro Corona nel libro Vajont: quelli del dopo, ma ancheper fare un viaggio nel tempo, una sorta di flashback nella Erto abbandonata e spopolata di allora, appena dopo l’avvenuto disastro, ripercorrere quelle emozioni, ridare spessore a quel vuoto allagato di violenza. In quella atmosfera sospesa, in un tormento nuovo e assurdo, comunque spirava il timbro paterno del vento. Nella solitudine più tragica mi piace pensare si possa avvertire lo stesso vento come una voce vicina che ti rincuora, che nel lambirti ti dice sei ancora qua, sei vivo e puoi ricostruire, dare testimonianza. Comunque non solo Erto è uno dei borghi che ci può essere direttamente familiare, ma anche Craco, un bellissimo paese fantasma in provincia di Materna, conosciuto attraverso le immagini che i molti film che sono stati girati là hanno immortalato e reso presente al nostro sguardo, ne cito solamente alcuni “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, “La Passione” di Mel Gibson, “Cristo si è fermato ad Eboli” di Francesco Rosi.

A.M.: Causa pandemia le presentazioni letterarie non sono state praticabili ma ho notato che in tanti hanno ben pensato di utilizzare i social network e la modalità video come alternativa.

Emanuele Martinuzzi: Personalmente ho continuato ad usare i social come ho sempre fatto per la diffusione e condivisione della mia passione per la poesia, la scrittura e la cultura in genere, anche quella più frivola o da intrattenimento, attraverso il mio blog e le mie pagine Facebook e Instagram. Per le presentazioni seguendo un po’ la mia indole e la mia timidezza ho preferito per adesso aspettare a osare facendo presentazioni video on line. Non escludo in futuro che possa sperimentarmi anche in questa cosa. Per adesso complice la bella stagione, il fatto che mi sia vaccinato per la mia e altrui sicurezza, e la situazione che va pian piano migliorando riguardo la triste situazione pandemica che stiamo vivendo, dovrei presentare in presentia per la prima volta “Notturna gloria”, durante una rassegna artistica e letteraria nelle colline della mia amata Toscana. Bello è sempre visitare i luoghi, portare la propria poesia e magari riuscire a toccare il cuore degli altri, di amici vecchi e nuovi. La poesia ci mette in contatto gli uni gli altri e con l’invisibile che ci abita.

A.M.: Salutaci con una citazione…

Emanuele Martinuzzi: Non mi viene in mente nessun’altra citazione se non il bellissimo verso di Montale che chiude la sua poesia Casa sul mare, inserita in Ossi di seppia, e che ho voluto porre all’inizio del viaggio di “Notturna gloria” prima della poesia che apre la raccolta Monte Kronio di Sciacca, come a voler significare che questo viaggio di ricostruzione e riconciliazione con le proprie ombre inizia da un approdo sulle sponde dell’antico mare di Sicilia, com’è stato per la colonizzazione greca d’Occidente nella Magna Grecia, per la spedizione dei Mille o lo sbarco in Sicilia degli Alleati.

Il cammino finisce a queste prode/ che rode la marea col moto alterno./ Il tuo cuore vicino che non m’ode/ salpa già forse per l’eterno.”

A.M.: Emanuele ti ringrazio per le numerose riflessioni che hai espresso e ti saluto con le parole di Aristotele: “Se non esistesse nulla di eterno, neppure il divenire sarebbe possibile.”

Written by Alessia Mocci

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Blog Emanuele Martinuzzi

https://andthepoetry.blogspot.com/

Acquista “Notturna gloria”

https://www.ibs.it/notturna-gloria-libro-emanuele-martinuzzi/e/9788872748381

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Intervista di Alessia Mocci ad Emanuele Martinuzzi: vi presentiamo “Notturna gloria”

Intervista di Alessia Mocci a Laure Gauthier: vi presentiamo kaspar di pietra

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Intervista di Alessia Mocci a Laure Gauthier: vi presentiamo “kaspar di pietra”

“Ogni epoca ha i suoi pericoli, la nostra è in una determinata fase della crisi del capitalismo, esiste un’“atrofia dell’esperienza” («Verkümmerung der Erfahrung»), come la definiva già Walter Benjamin, e davanti a questa svalutazione dell’esperienza, si esalta il linguaggio, si usano continuamente iperboli oppure all’opposto continuamente eufemismi. Siamo in un periodo di inflazione e anche di svalutazione. Ci infervoriamo in ogni campo, scriviamo senza sosta per mostrare che esistiamo. Penso che sia necessario accettare di “mettersi da parte”, il senso della perdita, lasciar riposare i testi, continuare a fare esperienza delle cose, a costo di rovinarsi, a costo di “perdere tempo”.”

Laure Gauthier

A costo di perdere tempo. Le virgolette utilizzate dalla poetessa Laure Gauthier sono un avvertimento per il lettore: un segno grafico che dovrebbe far sostare l’attenzione sul concetto di perdita collegato al tempo.

Nella società in cui viviamo, costantemente connessa ed in continua competizione per la velocità (per una notizia, per una fotografia, per un post, per il conteggio dei like), l’atto di lasciar riposare una riflessione – un verso – è considerato una perdita di opportunità; invece è proprio saper occupare il tempo cercando il silenzio – meditazione – ciò che potrebbe far comprendere che sì esistiamo come individui ma, esiste anche un sistema complesso nel quale interagiamo e ci rapportiamo. Saper aspettare, mettere da parte la fretta dell’ego di mostrare: il consiglio del poeta è e sarà “regola” e riporta ad un discorrere antico e sempre valevole.

Laure Gauthier vive a Parigi ed insegna Letteratura tedesca e cinematografia all’Università di Reims. La prima opera, pubblicata nel 2013, è in lingua tedesca (successivamente tradotta in francese) “marie weiss rot/ marie blanc rouge”. Due anni dopo per la casa editrice Châtelet-Voltaire viene diffusa la silloge “La cité dolente” che nel 2017 vedrà la traduzione in lingua italiana per Macabor Editore. Nello stesso anno per la casa editrice francese La Lettre volée presenta “kaspar de pierre/ kaspar di pietra” e Bonifacio Vincenzi decide di scommettere nuovamente sull’autrice proponendone una traduzione per la collana I fiori di Macabor.

Il Dottore di Ricerca in Linguistica francese Gabriella Serrone è stata un aiuto valente per la comunicazione con Laure Gauthier e per la traduzione che ha permesso questa intervista in due lingue, italiana e francese. Un ringraziamento necessario e durevole alla sua competenza ed alla sensibilità d’interpretazione e musicalità, dote non scontata.

In ultima si vuole avvertire il lettore di un particolare: quando si legge “Kaspar” con la maiuscola ci si sta riferendo a Kaspar Hauser, mentre quando lo si trova con la minuscola ci si sta riferendo al libro.

A.M.: Buongiorno Laure, la ringrazio per la disponibilità che ha mostrato per questa nostra intervista e mi complimento per l’entusiasmo con il quale è stata accolta in Italia e per la nuova pubblicazione “kaspar di pietra”. Come prima domanda mi piacerebbe trattare del compito del poeta nell’era digitale.

Laure Gauthier: Grazie a lei dell’ospitalità: la letteratura è viva anche grazie a riviste che ne parlano! Bisogna far attenzione a distinguere tra le interviste, come questa, che chiariscono versanti nascosti o profondi della scrittura e dall’altra parte un tipo di comunicazione che può girare a vuoto sui social, dove si comunica continuamente, e sviare l’attenzione su fatti e gesti un po’ popolari, un po’ di tendenza, che mirano a ricevere un like e dove la scrittura passa in secondo piano. Se i codici e i mezzi per occupare la superficie sono cambiati, invece, il fenomeno non è nuovo.

Per quanto mi riguarda, non ho lasciato carta e penna, poiché scrivo su taccuini, penna alla mano, scrivo a mano anche i miei libri; nei margini dei libri che leggo, scrivo qualche verso o frase. La versione scritta al computer è l’ultima versione del testo, quasi definitiva.

Non vedo né i social network né l’informatica come un pericolo, ma come uno strumento. Ogni scoperta tecnica è multiforme. Credo si possano aggiungere opportunità tecniche senza diventarne schiavi, un tipo di rapporto tra scrittura e tecnologia analizzato da Magari Nachtergael nel suo saggio Poet against the machine, cosa che non vuol dire rifiutare e ignorare, ma per me l’essenziale non è il processo. Questo non mi impedisce di usare uno zoom audio 3-D per registrare ciò che definisco “transpoemi”, componimenti estratti da varie situazioni e che possono essere trasmessi alla radio o applicati su installazioni multimediali; poi, pubblico su Internet, mi interesso alla voce esterna e spazializzata, al ruolo dell’immagine al di fuori del testo ecc., alla creazione digitale e a tutte le nuove opportunità che accompagnano la scrittura oppure rivolgono domande a quest’ultima. Tuttavia, queste opportunità devono necessariamente essere associate ad una riflessione sullo spazio-tempo della poesia, sulla necessità di lasciar migrare la scrittura verso altre forme.

Da ciò che vedo, il pericolo reale è quello della “comunicazione” su tutti fronti, dell’autopromozione costante che riguarda tutti, persino i poeti. Nei progetti scientifici chiamati d’eccellenza, ci si deve definire eccellenti ancora prima di aver realizzato il progetto. Ogni epoca ha i suoi pericoli, la nostra è in una determinata fase della crisi del capitalismo, esiste un’“atrofia dell’esperienza” («Verkümmerung der Erfahrung»), come la definiva già Walter Benjamin, e davanti a questa svalutazione dell’esperienza, si esalta il linguaggio, si usano continuamente iperboli oppure all’opposto continuamente eufemismi. Siamo in un periodo di inflazione e anche di svalutazione. Ci infervoriamo in ogni campo, scriviamo senza sosta per mostrare che esistiamo. Penso che sia necessario accettare di “mettersi da parte”, il senso della perdita, lasciar riposare i testi, continuare a fare esperienza delle cose, a costo di rovinarsi, a costo di “perdere tempo”. Se ciò che caratterizza la modernità dal romanticismo è una “coscienza della perdita”, forse occorre accettare di perdere per far fronte alle varie catastrofi in un altro modo.

La poesia rimane più che mai il genere letterario di cui più abbiamo bisogno ed il più politico per il lavoro continuo, incessante, estenuante sulla lingua che porta avanti. Che ci si occupi di prosa poetica o di versi! La differenza sostanziale tra prosa e poesia consiste nel fatto che nella poesia l’essenziale di ciò che accade avviene tramite la lingua. Dunque, raramente, un’epoca ha permesso che la lingua fosse svalutata così tanto: bisogna far fronte ad espressioni estremamente rigide, anche molto povere, molto funzionali o strapiene di iperboli vuote, ecc. Scrivere poesia significa affrontare gli attacchi diretti contro la lingua, provocare piccole scosse per farci prendere coscienza che la povertà della lingua è povertà di pensiero e di azione. Dunque, la realtà è spaventosamente complessa e la lingua della poesia può essere, forse con l’aiuto della psicanalisi, ciò che ci riporta non ad un escapismo post-romantico, ma alla realtà nella sua complessità fulminante. Da questo punto di vista, possiamo essere contenti che l’atteggiamento del grande poeta post-romantico lontano dal mondo non esista più.

A.M.: In “Maison I” si legge: “[…] Mi avete tatuato tutti i messaggi,/ son diventat la vetrina/ delle vostre mancanze/ Poi sono venuti i poeti ad imbiancare,/ fintamente rupestri,/ le loro voglie su di me; a rotolarsi nelle mie ceneri/ per avvicinare ciò che la natura potrebbe ancora dettare loro,/ santo cielo, l’esotismo!””. Una verace critica verso l’esotismo come fenomeno che investì l’Europa e che dette inizio alla “trasvalutazione di tutti i valori” del vecchio continente. Tutto ciò che non è conosciuto diventa elemento di indagine così Kaspar Hauser diviene una ossessione. Perché il poeta subisce il fascino di Kaspar?

Laure Gauthier: La storia di Kaspar Hauser è stata a lungo oggetto di predilezione di poeti e più in generale di scrittori. In kaspar de pierre la cancellazione del pronome «io», sostituito da uno spazio bianco, aperto come una ferita, presenta uno sguardo critico sul sensazionalismo, la stampa scandalistica, il gusto per le notizie di cronaca e sull’idealizzazione poetica tipica della società moderna. Rappresentava una sfida per me scrivere nonostante tutto anche un racconto poetico “contro” l’idealizzazione poetica di Kaspar Hauser. Questo vale naturalmente per lo stato della nostra società moderna due secoli dopo quella di colui che è stato soprannominato “l’orfano d’Europa”, per lo stato della poesia e per il suo rapporto con la realtà e con la lingua. Ho solo cercato di avvicinarmi a lui, non per appropriarmene, lasciandolo in un movimento di attraversamento. Il mio libro non è né una decostruzione della pressione sociale della società positivista come il Kaspar di Peter Handke, che insiste sulla socializzazione obbligata attraverso l’apprendimento rigido della lingua, né una ballata neoromantica che idealizza Kaspar Hauser, come il poema di Verlaine “La Chanson de Gaspard Hauser”, che ne fa un’immagine del poeta moderno: io mi approccio diversamente alla notizia, senza imitare il modo di esprimersi di questo giovane adolescente vittima di un trauma e prigioniero per 17 anni. Rovino leggermente il suo modo di parlare, da oggi, cercando soltanto di avvicinarmi alla voragine della sua vita, non per parlare con compiacimento dei maltrattamenti che ha subito, né per osannarlo come immagine del poeta, ma per presentarlo come singolo individuo che non aveva doti speciali e non era neppure poeta, ma era un bambino vittima di abusi, che ha sperimentato la violenza dell’inizio del mondo moderno intorno al 1800. Da questo passaggio, si aprono questioni sia irrisolte sia represse e quindi importanti. Credo nelle immagini dialettiche di Walter Benjamin, che si possono trovare nel passato, non le rovine ufficiali, ma elementi dimenticati o ignorati che nascondono germogli di ciò che verrà. L’approccio poetico permette di far cogliere certi tratti della Storia che costruisco con diversi spazi e tempi. Non è una biografia, anche se ho consultato molto gli archivi, ma ho situato la voce di kaspar leggermente fuori campo rispetto ai documenti biografici in altri spazi e tempi che sfiorano quelli che ha realmente vissuto. Mi sembra sia un altro Woyzeck, il soldato omicida, vittima di meccanismi sociali e uno dei casi di studio dell’irresponsabilità penale. Ciò che mi interessa è capire perché (mentre Woyzeck, un altro fatto di cronaca, è portato in scena più volte, a teatro, all’opera) Kaspar H., a parte rari film, non è rappresentato, ma lasciato ai giornalisti e ai poeti, quindi alle opere scritte.

Quindi, c’è innegabilmente qualcosa di trasgressivo nella cronaca, ma è necessario che i poeti si avvicinino al reale in modo diverso. Mi interessava sfiorare ciò che la poesia non aveva mai trattato: il tema dei maltrattamenti su minori è l’ultimo tabù della nostra società, che comincia solo da poco a parlarne. La violenza sul corpo dei bambini non è “plastica”, ma sostanza da usare per cronaca, giornali e anche per un tipo di poesia che idealizza. Necessario è deviare attraverso il linguaggio per allontanarsi dalla violenza sui bambini. Da questo punto di vista, kaspar de pierre è la continuazione degli altri miei libri che provano tutti a esplorare le modalità di violenza privata e sociale del mondo contemporaneo.

A.M.: In “Abandon I” e, successivamente, verso la fine del libro troviamo una domanda ripetuta: “quante volte si può ristrappare un lenzuolo/ ?”. Laure, quante volte? Oltre a porre la domanda ha dato anche una risposta? Quanti lembi di personalità si possono ancora strappare? E quando si finisce di strappare che cosa resta?

Laure Gauthier: A questa domanda non posso rispondere. Posso solo porla. Cerco diverse prospettive che compongono la realtà. A volte, adotto il punto di vista di una nuvola, delle pietre, cito la terra, ma a volte, bisogna cercare di avere, come al cinema, un punto di vista soggettivo: partecipare, per un attimo, alla tema, per poi porsi interrogativi che riguardano ogni individuo. Ponendo la domanda, inventando appositamente una lingua, ci si protegge dal vuoto e la poesia, se ha una dimensione politica facendoci stare all’erta, possiede anche una dimensione rassicurante, ci permette di proteggerci dagli attacchi sia privati sia collettivi. Troppo spesso, la gente ascolta una canzone per consolarsi dal mondo e non legge più poesia. Eppure la poesia è, come dice Philippe Beck nel suo saggio omonimo, Ninnananna e Tromba, quindi consolatoria e vigile, un richiamo.

Chi è troppo affranto, troppo lacerato, sfortunatamente, sa, cade, in senso clinico (e non romantico) nella malinconia, grave forma di depressione… senza desiderio e senza voglia “oltre la vita”, come scrivo in kaspar. Esistono così tante forme di violenza sociale, affettiva, tante difficoltà causate dalla perdita di un punto di riferimento e la situazione è aggravata dalla crisi sanitaria attuale, che molte persone non trovano il proprio modo di esprimersi per sperimentare il reale. Credo che la lettura permetta di vedere che diversi brandelli formano un mantello che può essere solido in una società che, a forza di vantare positività ed efficacia, diventa portatrice di morte…

A.M.: Un’altra domanda mi ha colpito fortemente. È presente nella lirica “Résumons-Nous”: “Ma perché la cronaca non racconta che mi son/ perdut nel giallo?” Che cosa significa perdersi nel giallo? Domanda connessa ai versi successivi: “delle schegge di tutti gli/ scheggiati”.

Laure Gauthier: In apertura del testo, la sequenza “marche” (“marcia”) presenta punti di contatto con l’arte povera, con una forma di materialità primaria, originaria: la terra ritorna incessantemente. Un’ossessione per la terra, per le pietre, forse come per la coreografa Pina Bausch. Qualcosa si muove danzando, una forza vitale, nonostante le violenze del mondo. È così che immagino kaspar, sia “di pietra”, una combinazione di elementi, in un io disciolto, sia in una relazione originaria con il mondo. A parte Werner Herzog, che ha ripreso l’uscita dalla sua prigione, in modo abbastanza “realistico” in questa sezione, non esiste opera che cerchi di affrontare cosa significa vedere le nuvole e toccare la pietra dopo 17 anni di prigionia senza parlare. A furia di idealizzare eccessivamente la poesia, a volte, vengono trascurate questioni essenziali ed essa diventa insipida.

Il giallo citato in questo passaggio è la speranza di vivere, sono i girasoli, il campo di girasoli che kaspar attraversa. Certamente, non si tratta di un dato biografico, è un’immagine ed è appena suggerita. “perdermi nel giallo” è allora la versione condensata di “perdersi in un campo di girasoli”. Tuttavia, tralascio volontariamente il senso preciso, a volte non termino i versi o le frasi, lascio che il senso si apra.

A.M.: Saprà di sicuro che in Italia persevera una vera e propria inclinazione verso i poeti francesi, soprattutto di quel fortunato Ottocento parigino. Charles Baudelaire, fra tutti, desta maggior interesse ed ogni anno i critici si cimentano in analisi nuove e reiterate. Ed in Francia? È stato perdonato per quei versi così poco amichevoli nei confronti dei parigini?

Laure Gauthier: Baudelaire è ancora uno dei rari poeti ad essere ancora letti e insegnati. Diverse opere critiche sono state pubblicate su di lui negli anni 2000 e ancora nel 2010. Penso ai saggi degli universitari Pierre Brunel o Antoine Compagnon, ma anche di altri autori come Yves Bonnefoy o Nathalie Quintaine, che hanno studiato la sua poesia e il suo radicamento nel reale. In Baudelaire, la tensione tra poesia in prosa e il sonetto è molto importante per me, poiché la mia poesia si basa sempre su un’alternanza tra verso e prosa poetica. Condivido pienamente l’analisi di Walter Benjamin che lo considera come primo poeta della modernità in Francia, che esprime la crisi di senso, la perdita dell’aura. Quindi, sì, la critica degli autori canonici è ancora viva, quella su Rimbaud e quella su Baudelaire, ma ci sono fortunatamente anche molte critiche ed universitari che dedicano le proprie ricerche alla densa e variegata creazione poetica contemporanea.

Per quanto mi riguarda, sebbene io sia francese, sono state soprattutto la poesia e la letteratura tedesca ad avermi segnata molto. Ho vissuto dai 18 ai 27 anni ampiamente in Germania e mi sono formata molto nella letteratura germanofona: Hölderlin, Novalis, Celan hanno segnato il mio percorso, ma in particolare anche Nelly Sachs e Ingeborg Bachmann ed i prosatori Elfriede Jelinek e Thomas Bernhard. Per il resto, non ho una “classifica”, leggo di tutto ma rimango ancorata a figure ai margini che riflettono sul loro tempo, come François Villon o ancora Antonin Artaud.

C’è un’incredibile vivacità e diversità nella poesia nella Francia odierna. Siamo in una strana epoca, dove è innegabile ci sia una sovrapproduzione di opere di poesia, anche di libri informi, dove ci si chiede ancora cosa abbia da dire il verso libero e cosa sia la poesia, ciò che chiamiamo poesia. E al contempo, ci sono autori e autrici particolarmente intensi, innovatori che pensano la nostra società tramite la lingua della poesia che accompagnano, pensano e rinnovano. Leggo soprattutto quegli autori e quelle autrici per cui scrivere dice qualcosa sotto una forma intrinsecamente legata a ciò che avviene politicamente: apprezzo molto poeti come Philippe Beck, Pierre Vinclair, che abbinano ai loro versi un pensiero poetologico critico, e anche la poesia e la prosa solerti di Lucie Taïeb, che tra l’altro pubblica anche saggi, così come le opere di Mariede Quatrebarbes e di Christophe Manon tra racconto e poesia, di Jérôme Game, i cui testi riconfermano il ruolo dell’immagine, ma la leggo anche Katia Bouchoueva, Séverine Daucourt, Pascale Petit, Perrine Le Querrec, Sandra Mousempes, Dominique Quélen e tanti altri ancora.

A.M.: La casa editrice Macabor, oltre ad aver pubblicato “kaspar di pietra”, ne 2018 ha scommesso sulla sua poetica con “La città dolente”. Che cosa ha pensato per questo interesse rinnovato? Considera Macabor Editore come una casa editrice con la “capacità di sguardo”?

Laure Gauthier: Ricordo che era uscito da pochissimo in Francia il mio libro e Luigia Sorrentino ha pubblicato qualche estratto sul suo blog (in francese con la traduzione in italiano), poi ho ricevuto un messaggio di Bonifacio Vincenzi, in cui mi comunicava il suo interesse per il testo. Qualche settimana dopo mi ha proposto di tradurlo e mi ha messo in contatto con la traduttrice, Gabriella Serrone! Naturalmente, devo tanto al coraggio editoriale di questa casa editrice e del suo editore, del suo impegno nel tempo, alla fiducia per il mio lavoro sin dall’inizio. Spero ovviamente che questa casa editrice continuerà a rimanere aperta all’estero e a battersi per la poesia contemporanea.

Inoltre, ho avuto la fortuna di incontrare altri poeti, in particolare Marco Vitale, che ha scritto la prefazione di kaspar, ma anche Eleonora Rimolo, che mi ha invitata a pubblicare nella sua bella rivista web Atelier o ancora Carlo Pulsoni per la rivista Insula Europa e anche il Festival di Poesia Ambientale anche con Marco Fratoddi. Inoltre, ho partecipato ad una performance on line al MAAM di Roma. La collaborazione duratura con la traduttrice Gabriella Serrone è ugualmente un bel regalo della vita, che ha aperto un dialogo poetico e amichevole e lei ha già tradotto estratti del mio prossimo libro les corps caverneux. Devo molto al suo grande talento di traduttrice!

A.M.: Salutiamoci con una citazione…

Laure Gauthier:“le armi che mi hai dato sono efficaci,

ma non sono le mie:

mi batterò a modo mio

con due o tre sassi e una fionda.”

(Charles Reznikoff, Inscriptions, tradotto dall’inglese da Thierry Gillyboeuf, casa editrice: Nous)

A.M.: Laure ringrazio vivamente per le riflessioni lanciate come pietra sull’acqua, il mio augurio è che possano portare il lettore a divenire cerchio. Indico uno dei “rari film”: “La leggenda di Kaspar Hauser” diretto da Davide Manuli; e per ribadire la tematica del maltrattamento la saluto con le parole di Simone Weil: “È criminale tutto ciò che ha come effetto di sradicare un essere umano o d’impedirgli di mettere radici.

Written by Alessia Mocci

Translated by Gabriella Serrone

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Intervista di Alessia Mocci a Zoe Tami Kirsten: vi presentiamo il linguaggio del romanzo Trycia – Orrore a Tower’s Bridge

Lo sceriffo sapeva qualcosa, che presumeva dovesse riguardare Trycia, che fino ad allora aveva tenuto nascosto a Robert per timore che lui potesse agire d’impulso, compromettendo l’indagine. Gli agenti della squadra che aveva mandato sul luogo dell’incidente lo avevano informato subito di aver trovato i segni delle ruote di una motocicletta impresse nella terra, oltre il ciglio della strada, proprio accanto all’auto guasta di Robert.– “Trycia – Orrore a Tower’s Bridge”

Zoe Tami Kirsten è nata nel 1991 negli USA. Dopo aver brillantemente concluso gli studi universitari in Storia contemporanea e Letterature moderne comparate, da circa due anni e mezzo vive in Italia.

Ha lavorato prima come correttrice di bozze poi come redattrice e traduttrice per varie case editrici statunitensi e, per un breve periodo, anche nel Regno Unito.

Trycia – Orrore a Tower’s Bridge” è il suo primo romanzo, edito a gennaio 2021 dalla casa editrice SensoInverso edizioni nella collana AcquaFragile. Una storia di intrecci, una donna scomparsa, un gruppo sociale che vortica seguendo i propri moventi, morti violente, ambiguità, corruzione e tutti quei meccanismi che deturpano l’esistenza: “Trycia – Orrore a Tower’s Bridge” è un giallo-thriller che si diverte a cambiare registro letterario per mostrare quanto il linguaggio possa e debba manifestarsi come “creazione”, libera immaginazione; capacità di astrazione, direbbero alcuni.

Zoe Tami Kirsten, in questa intervista, ha presentato la sua opera narrativa e ha motivato la scelta di non mostrare il volto come autrice. 

A.M.: Buongiorno Zoe, la ringrazio per la disponibilità che ha mostrato per questa nostra intervista e mi complimento per la recente pubblicazione “Trycia – Orrore a Tower’s Bridge”. Per iniziare mi piacerebbe discutere sulla scelta dell’anonimato. Perché un’autrice (ed un autore) sceglie di pubblicare con un nome d’arte?

Zoe Tami Kirsten: Buongiorno Alessia, la ringrazio anch’io per la sua attenzione e per i complimenti che spero di poter meritare. E la ringrazio anche per questa bella domanda! In realtà, non so perché una donna, autrice, oggi, possa scegliere di pubblicare con un nome d’arte. Posso fare delle ipotesi, ma mi riesce ancora più difficile mettermi nei panni di un autore uomo. In ogni caso, come lei sa il mio non è un nome d’arte: Zoe Tami Kirsten è il mio vero nome. La mia richiesta di discrezione non riguarda il mio nome ma notizie della mia vita, che non voglio pubblicizzare, come anche della mia fisionomia, se non quelle che sono esposte sul retro di copertina del libro: sono una giovane scrittrice americana che vive in Italia… Per tornare alle ragioni dell’anonimato in letteratura, i casi sono tanti, così mi vengono in mente Louisa May Alcott e Stephen King miei grandissimi connazionali e scrittori di epoche differenti e lontane tra loro che, per alcuni libri hanno usato un altro nome… Se ci penso, credo che vi siano varie motivazioni alla base del desiderio di celare il proprio nome: di solito, ma questo vale solo per noi donne, si tratta di esistenze vissute in società retrograde (ma parliamo forse di un passato ormai remoto) nelle quali alle donne non era concessa la libertà di scrivere libri, considerando che quelle donne spesso erano ostacolate anche nell’istruirsi; in altre situazioni, si tratta di donne e di uomini che hanno vissuto in società che non consentivano le manifestazioni di un pensiero divergente da quello ufficiale se non mantenendo la segretezza sull’identità dell’autore. La storia ci dice che gli uomini non avevano motivazioni di ‘genere’ per cercare l’anonimato, ma solo ideologiche (o, altre volte, del tutto personali, come per Alberto Moravia il cui vero cognome non è appunto Moravia ma Pincherle). Per le donne, invece, come sempre, è stato tutto più difficile (in qualsiasi ambito della vita sociale, politica e culturale): per questo, molte scrittrici prima che il proprio lavoro fosse ufficialmente riconosciuto per il suo valore hanno dovuto utilizzare nomi d’arte, a causa dei pesanti pregiudizi della società maschilista e patriarcale in cui hanno vissuto. Vorrei sottolineare, però, che in realtà, le grandi donne, quelle che hanno contribuito alla crescita collettiva non sono soltanto le donne diventate poi famose, ma sono quelle ben più numerose e allo stesso modo importanti che non si nominano mai perché ancor oggi sono perfette sconosciute, in ogni tempo e in ogni luogo, ma alle quali dobbiamo molto, tutti, perché sono queste ultime, con i propri gesti quotidiani di silenziosa ribellione a un ordine precostituito oppure con la loro efficace e ordinata presenza che, nei secoli, ci hanno rese consapevoli dei nostri diritti. Ma non voglio sembrare così radicale, non lo sono affatto!: io amo la vita in tutte le sue sfumature, e so che è tutto molto naturale e che – abbandonando l’ambito lavorativo o politico – i rapporti interpersonali tra donna e uomo non dovrebbero essere governati da rivendicazioni di ‘genere’ né da una parte né dall’altra, altrimenti, seppure nella consapevolezza delle nostre nature, non parliamo d’amore ma di qualcos’altro. Certo, per chi crede nell’amore… io sì, ci credo!

A.M.: Troviamo come incipit del libro una bellissima citazione tratta da “Lezioni americane” di Italo Calvino: “Sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”. Ho riportato la citazione in prosa, mentre sul libro è in versi, sarebbe interessante sapere se è stata lei a metterla in versi – con tagli sagaci – oppure se è stata una scelta del suo editore. La citazione, comunque, richiamando l’importanza del linguaggio, sembra invitare anche a prestare attenzione allo stile di scrittura che lei ha utilizzato nel libro. È così?

Zoe Tami Kirsten: Come lei ha ben intuito non è un caso l’inserimento all’inizio del libro di quella frase di Italo Calvino: io adoro Calvino, conosciuto e molto apprezzato, e le sue opere studiate in diversi importanti atenei nel mondo. Anch’io l’ho conosciuto studiandolo all’università, negli USA. Così, ho trovato che quella particolare citazione potesse indicare uno degli aspetti più importanti del mio libro. Penso, infatti, che anche oggi ci troviamo nella situazione descritta in quei pochi righi dallo Scrittore italiano: la malattia del mondo contemporaneo non poteva non colpire anche la parola e il linguaggio con un’epidemia pestilenziale che, poi, non per un puro caso, credo, coincide in questo periodo con un’altra virulenta pandemia che sembra proprio giungere come un corollario all’attuale perdita della nostra capacità di comunicare. Oggi siamo, mi sembra, in un tempo in cui l’incomunicabilità è imperante (la medesima situazione si è verificata nei primi decenni del Novecento: ho in mente Pirandello, per esempio) e si manifesta anche nell’uso approssimativo del linguaggio. Si tratta forse di un dato ricorrente ad ogni inizio di un nuovo millennio? Anche all’inizio dell’Anno Mille i popoli erano ammutoliti: si avvertiva un cambiamento di cui non si conosceva ancora il contenuto né la portata… Anche oggi, mi sembra, stiamo vivendo in un clima di cambiamento davvero profondo. L’intuizione di Calvino, che risale alla metà degli anni ’80 del Novecento, è quella per cui è necessario che il linguaggio metta le ali, così come deve farlo il pensiero e che si smetta di ridurre il linguaggio alla semplice urgenza del comunicare che oggi produce spesso, aggiungo io, il degrado della lingua parlata e scritta, anche letteraria. Come dice lui stesso, lo stile e il pensiero devono, invece, accordarsi a «una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte». Scrittura come conoscenza. Io, con umiltà, ho cercato di rispettare questi che ritengo veri e propri insegnamenti per chiunque voglia prendere consapevolezza della scrittura nella sua funzione comunicativa e in quella letteraria. Ho utilizzato per questa ragione, nella narrazione della storia di Trycia, diversi, molteplici registri linguistici, per tentare di corrispondere, infine, anche all’ultima raccomandazione di Calvino: valorizzare – di fronte alla mortificante approssimazione odierna nell’uso del linguaggio – la ‘capacità immaginifica’ della parola (altrimenti si è in assenza di una visione). Riguardo alla forma con la quale è stata inserita la citazione nella prima pagina del libro, è stata decisa congiuntamente da me e dall’Editore, SensoInverso, un editore molto competente e brillante. Infine, voglio sottolineare che sono molto grata alla traduttrice Costanza D’Alletra che mi ha aiutato con maestria a restituire in lingua italiana (nonostante io conosca abbastanza bene la vostra lingua madre) tutte quelle più piccole sfumature delle parole essenziali alla scrittura di questo romanzo. E anche riguardo a questa intervista!

A.M.: Tower’s Bridge, laddove è ambientato il romanzo, non può che far venire in mente il famoso ponte mobile situato sul Tamigi. Come mai ha scelto proprio questa denominazione?

Zoe Tami Kirsten: Perché volevo richiamasse solidità e stravaganza: quelle due torri centrali del Tower Bridge sono straordinarie, secondo me, nell’accostare con eleganza il volume massiccio dei bastioni con la leggerezza delle loro guglie, nello stile vittoriano… Quel ponte, per la sua particolare fattura ha anche il pregio di far scattare l’immaginazione, la visione, che è quello che anche mi interessava… non è un caso credo che proprio questa sua particolare forma, con quella passerella sopraelevata, abbia convinto alcuni intrepidi personaggi (ma questi episodi non hanno a che fare col libro, sono eventi realmente accaduti, a Londra) a passare pericolosamente in aereo proprio nel mezzo del ponte!… un’evoluzione liberatrice che è anche, un po’, come un mettere le ali al pensiero, no? Anche quel ponte è una metafora: ricorda il personaggio del professore nel film Dead Poets Society che in Italia è noto come “L’attimo fuggente”, interpretato dal bravissimo e compianto Robin Williams?… Il suo gesto di salire in piedi sulla cattedra e di invitare i suoi studenti a fare la stessa cosa, significa proprio sollecitare a guardare il mondo da un’altra prospettiva, così come può fare il linguaggio quando scopriamo che si può aprire in molteplici direzioni, e ci eleva, sulle sue ali…

A.M.: Nel primo capitolo del romanzo si presentano Robert e Brandon, mentre Trycia compare nel secondo capitolo o forse dovrei dire “scompare”…

Zoe Tami Kirsten: In realtà, Trycia compare e scompare fin dai primi dieci righi del romanzo. Nell’incipit, Robert, suo marito, la lascia nell’auto in panne, in mezzo ad una strada di campagna, mentre lui va a cercare aiuto… Fino a questo momento la donna è una presenza anonima, poi apprenderemo che si chiama Trycia e che di lei si sono perdute le tracce misteriosamente. Ho deciso così di portare subito il lettore in medias res, come si dice, nel vivo degli eventi. Non preparo gradualmente il lettore a questa strana sparizione ma lo porto immediatamente di fronte al fatto compiuto e alle conseguenze che esso provoca, nei comportamenti del marito, l’avvocato Robert Dalyne, e di tutti gli altri personaggi del libro che ci seguiranno fino alla fine della storia. Come lo stesso Brandon, un umile agricoltore che, però, proprio per non cadere in un’abusata convenzione, non descrivo come la figura innocente ritratta da certa letteratura di maniera. Piuttosto come una delle tante vittime dell’ambiente perverso in cui vivono i personaggi della narrazione.

A.M.: Verso metà romanzo leggiamo: “Ma quanti altri roghi, sinistri roghi nella Storia!… E quante libbre di carne l’intervento di un giudice da pantomima non ha potuto evitare che fossero smembrate! E quanto è finito in cenere nel mondo senza aver ricevuto neppure… il privilegio del genio letterario?!… Oh! L’elenco è lungo, e lugubre… in epoca contemporanea, non solo noi Ebrei, Marystella… prima ancora, ma dimenticato da tutti, il genocidio degli Armeni… e poi quello degli Ucraini dell’Holodomor, e dei Cambogiani… carneficine ovunque… nel Bengala e ancora nel Biafra, nel Rwanda e il massacro dei Musulmani Bosniaci a Srebrenica… e le violenze indicibili perpetrate contro le loro donne, per quella che i persecutori assassini chiamarono pulizia etnica… e in Sudan, nel Darfur… o in Somalia e ancor prima la caccia spietata a Giuliani, Istriani, Dalmati… le foibe… e giunge fino ad oggi… e sempre vite umane… e… libri…” È il professor Joseph Loëwenthâmm che spiega a Marystella i roghi di libri e di esseri umani, all’interno di una storia che scopriamo molto ben articolata nel presentarci, seppure nella forma di un avvincente romanzo, eventi reali che cambiano le nostre vite… Chi sono questi due personaggi?

Zoe Tami Kirsten: Loëwenthâmm è un anziano professore che ha subìto esperienze di una crudeltà assoluta ed è uno dei docenti universitari di Marystella alla quale racconta la sua storia. Ma è soprattutto un uomo che reagisce con dignità e fermezza di fronte alle malvagità del mondo, anche di quelle più attuali delle quali pure scrivo nel libro, perché è la storia che stiamo vivendo tutti… come del povero Giulio Regeni, barbaramente assassinato, e Patrick Zaky detenuto in carcere senza ragione, e dei quali non dobbiamo mai dimenticarci perché quelle vicende dolorosissime ci appartengono più di quanto si possa pensare, e del terrorismo… Loëwenthâmm richiama al significato dell’unità indissolubile tra Uomo e Libro, ed è il richiamo alla coscienza di ogni essere umano, come dice Borges… Marystella… non posso dire, qui, chi è Marystella, perché nella narrazione non si scopre subito… ma ha un ruolo primario nella vicenda. In realtà, poi, nessuno dei personaggi ha una funzione secondaria: tutte le loro vicende si intrecciano, sono parte di un disegno misterioso, in una metafora del mondo. Posso dire che Marystella è una giovane donna che affronta un percorso di formazione tra esperienze di diverso tipo. Ma il personaggio più complesso è Trycia, lei è l’eroina (positiva? Negativa?…) della quale però non posso aggiungere altro perché, come per Marystella, è bello scoprirla nelle pagine. Non voglio dire altro se non che la storia pretende che si presti attenzione anche a come è stata scritta, ai significati che spesso si celano nelle parole quando non si dà ad esse il senso che hanno, come per esempio anche all’intervento, nel libro, dell’umorismo che, in fondo, permea tutto il libro, un umorismo a volte amaro, a volte dirompente. Intorno alla narrazione degli accadimenti che riguardano Trycia, poi, si articolano, intrecciandovisi, appunto, altre due vicende che sono proprio ‘storie nella storia’.

A.M.: Fra le pagine di “Trycia – Orrore a Tower’s Bridge” scorriamo il nome di tantissimi grandi autori come Jorge Luis Borges, William Shakespeare, Pablo Neruda, Julio Cortázar, Gabriel Garcia Márquez, etc. Sono questi gli autori che hanno sostato nel suo comodino e che le hanno fatto compagnia in questo viaggio chiamato vita?

Zoe Tami Kirsten:Quelli che lei cita sono grandissimi scrittori che, credo, chiunque ami i libri abbia letto; sono classici della letteratura mondiale che non possono mancare in nessuna biblioteca, neanche nella mia, insieme, però a tanti tanti altri, tra i quali molti illustri italiani, ma non solo di epoca contemporanea o moderna. Io poi sono curiosa di natura e quindi leggo molto, di tutto. Io, Alessia, sono qui in Italia, da due anni e mezzo circa, e mi sto accorgendo che anche le mie letture di scrittori e uomini di cultura italiani, condotte prima da studentessa e poi da appassionata di letteratura, mi porgono visioni e interpretazioni del mondo che mi nutrono letteralmente di bellezza. E di conoscenza. Scrivere, in questo senso, per me è anche un omaggio a tutti questi grandi intellettuali che mi hanno dato il privilegio di conoscere le loro opere, i loro libri (anche per questo nella storia si accenna alla sciagura dell’incendio dei libri…).

A.M.: Salutiamoci con una citazione…

Zoe Tami Kirsten: D’accordo, però, considerato che sarebbe davvero impossibile eleggere un solo autore a questo compito, la citazione la traggo dal mio libro, che è anche il mio primo romanzo! Che spero possa piacere ai lettori che con la loro presenza danno un senso alla nostra esistenza di scrittrici:

«(…). Invaso da una sleale e immensa malinconia, chiedersi dove la sua donna fosse finita era come domandarsi in quale luogo lui stesso si fosse nascosto, dove avessero abbandonato la propria anima, dove fosse la sua dimora nella quale si poteva pensare che sopravvivesse se ora era lei, l’anima, a interpellarlo chiedendogli di rivelarle la ragione ultima dell’inquietudine che lo attanagliava. (…)»

(da “Trycia, orrore a Tower’s Bridge”, di Zoe Tami Kirsten, pagg. 98-99, SensoInverso edizioni, 2021).

A.M.: Zoe la ringrazio per l’attenzione con la quale ha voluto presentare il suo romanzo e per le riflessioni sulla società, concordo con lei sull’importanza del superamento del concetto di genere per riuscire a vedere il mondo abitato da esseri viventi, ognuno con diritto di vita e di manifestazione del sé. A tal proposito la saluto con l’Epigramma del ventunesimo Emblema dell’Atalanta Fugiens di Michael Maier: “Il maschio e la femmina divengano per te un cerchio/ Da cui sorga il quadrato dai lati uguali./ Trai da ciò un triangolo, che in ogni parte/ Si muti poi in una sfera: allora la Pietra nascerà./ Se cosa tanto facil non subito afferra la tua mente,/ Pensa alla dottrina del Geometra, e tutto saprai.”

Written by Alessia Mocci

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