“La bottega dei giocattoli” di Angela Carter, Fazi Editore. A cura di Jessica Dichiara

L’estate dei suoi quindici anni Melanie scoprì di essere fatta di carne e sangue

Ecco già a me basterebbe questo. In questa frase con cui parte il primo capitolo di questo romanzo c’è tutta la ricchezza e il tormento di un’età che finisce, bellissima quanto inconsapevole, per fare spazio all’adolescenza.

L’età del cuore che palpita, del guardaroba sempre in disordine, del sangue che scorre caldo e che ha bisogno di soddisfazione, la reclama a gran voce e nel segreto. L’età delle emozioni amplificate, del mai più e del per sempre.

È anche ufficialmente l’età in cui si smette di credere perché gli altri ci hanno imposto di farlo. Ci si sveglia senza Dio come Melanie oppure semplicemente si perde gradualmente interesse per tutto ciò che riguarda la religione, la fede e tutti i riti che gli girano intorno.

Ci appare tutto inutile, comprese le preghiere, vuote e sterili cantilene recitate più per far piacere agli adulti che per reale convinzione. L’apparenza e la realtà si confondono e ad emergere sono i desideri, segreti e tangibili.

I pensieri si fanno audaci nelle notti torride e spensierate, ma quando il destino mescolerà le carte sarà ancora l’immaginazione e la fantasia a tirare fuori dallo sconforto la nostra giovane protagonista che dovrà rimettere in gioco se stessa, i propri progetti, il proprio futuro.

Questo romanzo vibra, è irrequieto, a tratti assordante e sicuramente provocatore. Il linguaggio è sensuale e misterioso, in grado di trasportare il lettore in luoghi impervi, insoliti.

Le pagine ci accompagnano alla scoperta del pieno e del vuoto che viene riempito da maschere e finti sorrisi. Attraverso un tempo che scorre lentamente e che rende pienamente la sensazione fretta e l’ansia di crescere e bruciare le tappe.

Le parole si fanno metafora e vivificano gli incubi che mettono alla prova un coraggio ancora acerbo.

Mi piace quando i romanzi lasciano una porta aperta all’interpretazione, quando non mi spiegano per forza tutto, quando le parole non hanno la pretesa di diventare legge universale ma lasciano spazio ai sensi e si lasciano assaporare senza mai troppo svelarsi.

Mi piace avere una via d’uscita come in questo caso. Poter chiudere gli occhi e immaginare la storia a modo mio. Cercare i miei significati nascosti abilmente e ingegnosamente tra le righe.

E questa storia è così, ricca, abbondante di spunti e di non detti. Esempio di un mondo in un certo senso fantastico perché difficile da immaginare nella realtà. E gli occhi dell’adolescenza aiutano ancora di più a estremizzare le varie posizioni presentate.

Altra sensazione forte trasmessa da questo romanzo è la specificità dei ruoli di tutti i personaggi. Ognuno di loro era lì per un preciso motivo e ognuno di loro viene toccato dal destino in un modo diverso ma mai superficiale.

Angela Carter in poco più di una manciata di pagine riesce a portarci negli abissi dell’insicurezza e della solitudine, facendoci percorrere corridoi disseminati di rimproveri e paura, in cui è necessario camminare cautamente.

Dall’agio, dalla ricchezza, dall’ordine, da una bellissima casa provvista di ogni confort saremo costretti a passare al freddo e al gelo della povertà che viene tratteggiata accuratamente al punto che ho avvertito anch’io da lettrice un inquietante senso di perdita.

Tanti temi forti, su tutti la violenza e la solitudine e quell’aiuto che non arriverà o forse sì… per poterlo scoprire bisogna andare in scena!

Il finale arriverà con una forza devastante a spazzare ogni dubbio. Persino i ricordi si fanno certezze e vanno a rischiarare i segreti. Il proibito. L’inferno. Le fiamme.

Consiglio per la lettura: qui carissimi potrete sbizzarrirvi con la condivisione e verificare che vi saranno in effetti decine di interpretazioni diverse dello stesso romanzo.

L’estate dei suoi quindici anni Melanie scoprì di essere fatta di carne e sangue

Ecco già a me basterebbe questo. In questa frase con cui parte il primo capitolo di questo romanzo c’è tutta la ricchezza e il tormento di un’età che finisce, bellissima quanto inconsapevole, per fare spazio all’adolescenza.

L’età del cuore che palpita, del guardaroba sempre in disordine, del sangue che scorre caldo e che ha bisogno di soddisfazione, la reclama a gran voce e nel segreto. L’età delle emozioni amplificate, del mai più e del per sempre.

È anche ufficialmente l’età in cui si smette di credere perché gli altri ci hanno imposto di farlo. Ci si sveglia senza Dio come Melanie oppure semplicemente si perde gradualmente interesse per tutto ciò che riguarda la religione, la fede e tutti i riti che gli girano intorno.

Ci appare tutto inutile, comprese le preghiere, vuote e sterili cantilene recitate più per far piacere agli adulti che per reale convinzione. L’apparenza e la realtà si confondono e ad emergere sono i desideri, segreti e tangibili.

I pensieri si fanno audaci nelle notti torride e spensierate, ma quando il destino mescolerà le carte sarà ancora l’immaginazione e la fantasia a tirare fuori dallo sconforto la nostra giovane protagonista che dovrà rimettere in gioco se stessa, i propri progetti, il proprio futuro.

Questo romanzo vibra, è irrequieto, a tratti assordante e sicuramente provocatore. Il linguaggio è sensuale e misterioso, in grado di trasportare il lettore in luoghi impervi, insoliti.

Le pagine ci accompagnano alla scoperta del pieno e del vuoto che viene riempito da maschere e finti sorrisi. Attraverso un tempo che scorre lentamente e che rende pienamente la sensazione fretta e l’ansia di crescere e bruciare le tappe.

Le parole si fanno metafora e vivificano gli incubi che mettono alla prova un coraggio ancora acerbo.

Mi piace quando i romanzi lasciano una porta aperta all’interpretazione, quando non mi spiegano per forza tutto, quando le parole non hanno la pretesa di diventare legge universale ma lasciano spazio ai sensi e si lasciano assaporare senza mai troppo svelarsi.

Mi piace avere una via d’uscita come in questo caso. Poter chiudere gli occhi e immaginare la storia a modo mio. Cercare i miei significati nascosti abilmente e ingegnosamente tra le righe.

E questa storia è così, ricca, abbondante di spunti e di non detti. Esempio di un mondo in un certo senso fantastico perché difficile da immaginare nella realtà. E gli occhi dell’adolescenza aiutano ancora di più a estremizzare le varie posizioni presentate.

Altra sensazione forte trasmessa da questo romanzo è la specificità dei ruoli di tutti i personaggi. Ognuno di loro era lì per un preciso motivo e ognuno di loro viene toccato dal destino in un modo diverso ma mai superficiale.

Angela Carter in poco più di una manciata di pagine riesce a portarci negli abissi dell’insicurezza e della solitudine, facendoci percorrere corridoi disseminati di rimproveri e paura, in cui è necessario camminare cautamente.

Dall’agio, dalla ricchezza, dall’ordine, da una bellissima casa provvista di ogni confort saremo costretti a passare al freddo e al gelo della povertà che viene tratteggiata accuratamente al punto che ho avvertito anch’io da lettrice un inquietante senso di perdita.

Tanti temi forti, su tutti la violenza e la solitudine e quell’aiuto che non arriverà o forse sì… per poterlo scoprire bisogna andare in scena!

Il finale arriverà con una forza devastante a spazzare ogni dubbio. Persino i ricordi si fanno certezze e vanno a rischiarare i segreti. Il proibito. L’inferno. Le fiamme.

Consiglio per la lettura: qui carissimi potrete sbizzarrirvi con la condivisione e verificare che vi saranno in effetti decine di interpretazioni diverse dello stesso romanzo.

“Skorpio baby rose” di Sergio L. Duma, Saga Edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Le nuove generazioni si sono persi dei capolavori non solo musicali ma anche televisivi.

Sono pertanto refrattari alla bellezza dell’oscurità quella che dai diamanti non fa nascere nulla anzi il diamante non è che una nostra illusione e spesso certe perfezioni non sono altro:

È come un sasso. Lo sollevi e vedi che il terreno pullula di vermi…

Eh si voi giovani di oggi vi siete persi una serie che a noi, soprattutto a me, cambiò la vita, portando allo scoperto quei “vermi” che non volevamo proprio vedere.

Ci piaceva la perfezione dei nostri favolosi anni ottanta e novanta, l’idilliaca facciata, quella deliziosa maschera usata per nascondere orrore e ipocrisia.

Voi vi siete persi I segreti di Twin Peaks creata dal visionario genio di David Lynch.

I segreti di Twin Peaks fu una serie ideata da David Lynch e Marc Frost ambientata nella fittizia cittadina montana di Twin Peaks, nello stato di Washington, a cinque miglia dal confine tra Stati Uniti e Canada.

Una zona di confine non solo geografico ma soprattutto morale ed etico.

L’apparente serenità anche leggermente noiosa è turbata da un efferato omicidio, della giovane e popolare studentessa Laura Palmer.

Figlia unica di un noto avvocato, bellissima e apparentemente rispettata, la sua morte causa un vero shock che rompe quel silenzio omertoso che tendeva a nascondere la scabrosità nell’apparenza di un paese probo e borghese.

Ed è un agente dell’FBI Dale Cooper, intrepretato da uno spettacolare Kyle MacLachlan che si impegna a far affiorare il lato oscuro del luogo e dei suoi sonnacchiosi e deviati abitanti.

Cosa rese questa serie un fenomeno di culto?

Oltre al genio indiscusso di David che con pochi mezzi, senza effetti hollywoodiani riesce a creare ansia, angoscia e inquietudine, soltanto con inquadrature e grazie a una recitazione che è ormai un lontano ricordo, fu il suo rimestare nel fango, indossando i panni di una volontà etica di tirare finalmente fuori la verità dall’ipocrisia “Borghese” mescolandola con il surrealismo di stampo kafkiano condito con una generosa dote di umorismo macabro.

Tutto condito con leggeri accenni di sovrannaturale e grottesco che non sarebbe sfigurato di fronte a un racconto di Edgar Allan Poe.

Fu un impatto devastante, vedere come dietro la facciata di perbenismo si celi spesso una malattia latente, spesso identificata con il male e con la perversione a esso collegata e che più o meno affascina ogni uomo, e sottolineo ogni uomo.

E’ il dramma della scelta che ogni giorno ci troviamo a dover affrontare se volgere lo sguardo all’abisso o permettere che l’abisso guardi noi.

Perché vi parlo di Twin Peaks?

Perché il genio di Duma lo celebra in questo libro, riuscendo (impresa quasi impossibile) a superarlo e coloralo delle nostre moderne inquietudini.

Anzi dei nostri costanti orrori.

Uno di questi è la volontà di trasgredire, oltre ogni perdizione fino a annullare ciò che resta della propria umanità.

È emblema il male del sesso.

Oramai cosi sdoganato, cosi privato di quel lato “Magico” e “segreto” da essere soltanto un mero atto fisico, una ginnastica che seppur eseguita con perfezione e fantasia non riesce più a stuzzicare la nostra mente.

Privandolo di quel lato oserei dire esoterico e redentivo, diviene solo un bisogno primario. Ma vedete, l’uomo ha sempre bisogno di un qualcosa che attivi il pensiero e la mente, che gli faccia provare un brivido e una sorta di adrenalinica emozionalità.

E in mancanza dell’ovvio che sai fede, amore o solo passione si rivolge a ciò che conosce: la violenza. Ecco il perché le trasgressioni, oggi, divengono di ordine comune e le ritroviamo in ogni libro, in ogni film.

Piano piano, privati di quell’alone di meraviglia ci rivolgiamo alla violenza unica in grado di scuotere, qualcosa dentro di noi, che sia sofferenza, che sia dolore che sia una qualsiasi emozione che ci faccia sentire vivi.

E in Scorpio Baby rose è questo uno degli orrori che ci aspetta, l’assuefazione costante alla brutalità tanto da verla snaturata di quel suo lato malsano e restituendocela quasi purificata dalla sua devianza.

Ma che mano a mano ci lacera dentro:

Più cose scoprivo e più l’umanità moriva.

E non avevo quasi più paura. La malattia penetrava in me, sempre più profondamente.

E cosi che funziona il vero male.

Sembra innocente, sembra quasi un gioco, ma piano paino irrompe dentro di noi e ci mangia ogni speranza, ogni fede e ogni possibilità in un orribile girotondo, una giostra ghignante che si bea di quel tentativo silenzioso di negare.

Eh sì.

Perché la bella e noiosa cittadina di Lacryma alimenta con il silenzio e la complicità il suo male che si diffonde come una malattia proprio in virtù di quel non dire, fingere e negare.

E quella malattia miete vittime innocenti o meno.

Ma come ci suggerisce Duma forse nessuno è davvero innocente.

E non lo è perché nessuno se non il più bistrattato, il più misero il meno degno riesce a togliersi di dosso quelle catene e pensare un modo diverso di vivere.

Perché non è lo scoprire il segreto che ci libera.

È il rifiutare di far parte di quel segreto.

E’ l’incapacità di combattere o scendere a abbracciare l’oscurità della nostra anima.

E così il protagonista fa una scelta disastrosa:

aveva rilevato l’oscurità della sua anima e aveva deciso di non reprimerla.

Eppure il protagonista non è assolutamente solo.

Esiste una divinità primitiva, una che con le sue parole musicate lo mette in guardia, lo guida e lo protegge a suo modo, da un mondo che

il mondo era appunto un inferno dell’anima; e non c’è una via di uscita.

E non c’è via d’uscita semplicemente perché non esiste la volontà di vivere una vita diversa, perché non esiste un esempio pulito, non esiste quasi nessuno in questo libro che riesce a suggerire una strada diversa.

E allora l’unica soluzione è rinchiudersi in un universo personale, un ristretto mondo interiore chiudendo via ogni opportunità di redenzione.

Esiste solo un buio.

E noi siamo solo piccoli, miseri burattini incapaci di trovare una piccola scintilla di luce per spazzarlo via.

Sono così le ipocrisie e le maschere.

Fingi che non esistano.

Ti convinci a convivere con un’apparente perfezione.

Ma quando la vita, beffarda, divinità oscura e al tempo stesso feconda, ti offre anche se in modo brutale di scappare da questo vischioso mondo irreale, creato da un demiurgo folle e malsano, tu non puoi far altro che restare.

Perché davanti alla verità sei annichilito ma anche incapace di lasciare che il marcio sparisca perché è il marcio l’unico latte con cui sei stato nutrito.

E alla fine ti fa comodo.

Ti fa compagnia, ti permette di essere tutto ciò che vuoi senza limiti.

Ormai il marciume mi piaceva, anche se mi stava danneggiando.

Alla fine, chi è cresciuto al suono di menzogne non riesce a staccarvisi, è la malattia di chi teme ma si lascia sedurre dalle lusinghe del male.

E il male non è un’entità oscura è l’incapacità di affrontare se stessi ma di bearsi del proprio infermo e renderlo un posto comodo, sicuro e soprattutto conosciuto:

Ormai lo sapevo, dietro quelle case linde e pulite si nascondeva la malattia. Il nemico che fotteva le menti. Il nemico siamo noi,

Ecco la vera bellezza di Scopio Baby Rose, cosi come di Twink Peaks.

Il male non è un demone cornuto. Non è una qualche presenza oscura.

Il vero unico male siamo e saremo sempre noi stessi. siamo noi a ferirci, siamo noi con i nostri miseri desideri di rivincita, con quelle ferite interiori, quei mondi dell’anima devastati che accettiamo di esibirli come trofei e non come menomazioni.

Siamo noi che desideriamo sempre il sollievo a mai la cura.

Siamo noi a alimentare le perversioni perché incapaci alla fine di accettarci per quello che siamo, di accettare la bellezza dell’imperfezione, della semplicità.

Noi alla ricerca dell’acme di ogni emozione, noi che deturpano le emozioni più belle in cerca sempre di chissà cosa.

E che non facciamo altro che voltare rabbiosi le spalle alla vita cercando di fregarla.

Senza renderci conto che la vita non si fa beffare e alla fine il conto, salato o meno, ce lo presenta sempre.

E pretende il pagamento.

Portami via con te, Scorpio Baby Rose, lontano dalle brutture, dalla realtà orribile di una malattia.

Ma questo pagamento lungi dall’essere una condanna diviene una liberazione, alla fine questo brutto mondo non è che illusione.

E solo attraversandolo, forse, le anime bloccate in una perenne spirale di distruzione possono liberarsi. Ecco che il finale di un testo crudo e duro diviene straordinariamente poetico, di una delicatezza eccelsa che lo avvicina ai meravigliosi racconti gnostici ricordandoci che nonostante il nostro atroce amore per il buio, alla fine abbracciare la luce è la nostra unica salvezza, che sia la consapevolezza o la scelta di chi riesce a dire no all’abisso, o semplicemente una pace infinita:

Una luce abbagliante e calda che mi fa stare bene. E che distrugge ogni cosa orribile, ogni sentimento negativo.

Un libro intenso che è di una bellezza abbagliante.

Che non esito a definire un capolavoro assoluto del realismo magico.

“C’era una volta Lorenzo” di Daniele Naselli, Bre editore. A cura di Alessandra Micheli

Cosa accade a un uomo alla soglia del momento fatale?

Me lo chiedo e mi sento quasi soffocata da un terrificante senso di immensità. Anche io sarò vicino alla soglia, guarderò oltre il velo e qualcosa accadrà.

Cosa ci attende?

Vedrò il mio passato scorrere davanti a me?

Errori, rimpianti e gioie?

O incontrerò altre inquietanti verità, magari incastrando il mio significato di vita con quello di qualche alter ego?

Perché noi non siamo assolutamente tasselli isolati di un grande puzzle.

L’effetto farfalla è qualcosa che, un giorno spero, toccheremo con mano.

In questo testo che è al tempo stesso leggiadro eppure cupo, pesante, una sorta di cappa crepuscolare che pende su di noi, si affrontano tematiche forse scomode e al tempo stesso suadenti, in un universo fortemente distopico e al tempo stesso irreale.

Tutto è onirico.

Dall’evento che da vita a una rocambolesca sequele di immagini, a volte riguardanti l’esistenza di questo strano figuro, di questo Lorenzo che sembra non aver mai avuto davvero presenza reale nel suo mondo, fino a intersecare il ricordo di un esistenza mai davvero vissuta con quella di qualcuno che, invece, al contrario ha morso l’esistenza quasi con rabbia e ferocia.

La passione e la fede divengono quasi solitarie immagini che vagano attraverso le parole come fantasmi.

Un Lorenzo vive in modo evanescente senza mai sentirsi protagonista di un racconto ma quasi sempre comparsa.

E poi un altro Lorenzo, qualcuno che, in un tempo passato ha affrontato invece gli eventi come se a scriverli fosse lui, mai subiti, sempre cavalcati.

Cosa hanno in comune?

Quale sottile filo li unisce, intesse i destini fino a renderli parte dello stesso arazzo?

Non vi svelo certo il finale né il segreto del libro.

Posso dirvi che in quest’avventura strana eppure affascinate, ho compreso come in fondo non siamo altro che riflessi di qualche strana volontà aliena.

Che ci scinde in due personalità distinte, in due segmenti di una realtà che si divide come certe strade di montagna donandoci due bivi.

E quale realtà allora è davvero reale?

La vita proba, regolare e egoistica del primo Lorenzo?

O quella confusa, disordinata e caotica del secondo?

Quale sarà la storia che vi toccherà di più?

Il politico funestato da sensi di colpa distruttivi, che delega la vita all’egregora del potere?

O l’altro Lorenzo, quello che emerge da un passato difficile, violento eppure…ancora capace di tenere stretta a se una passione, un ideale un valore?

E anche se il tempo poi dissolve questi valori come se fosse cenere, nel vento, il rimpianto però di averli avuti, di non aver mai agito in nome della propria anima e sempre in nome del benessere, un po’ pungola e ferisce.

Un libro innovativo, a tratti weird che non può non rappresentare una nota di colore in questo mondo grigio di un panorama letterario che è funestato dal tedio baudelariano.

“Piranesi” di Susanna Clarke, Fazi editore. A cura di Alessandra Micheli.

Surreale è la realtà che non è stata separata dal suo mistero.

René Magritte

Piranesi è uno di quei libri che dividono.

O lo si ama o lo si odia.

E chi lo ama è perché in fondo riconosce lo stesso bisogno di piranesi di vivere in una sorta di dimensione alternativa, quasi una regione dell’anima.

Laddove esiste qualcosa di vivo e al tempo stesso di tangibile che lo ami e lo protegga.

Non un dio distante, quindi, o lontano eoni, assiso su un trono che ci scruta con severità mettendo a nudo ogni nostra debolezza.

Ma qualcosa in cui muoversi, da scoprire e di cui far parte.

Ecco che il mondo uscito dalla penna della Clarke, seppur non originale, è un archetipo che ci colpisce.

Perché il luogo dove noi possiamo essere e non apparire è l’anima.

E’ un luogo per nulla amorevole.

O meglio ci ama, e ci dona bellezza.

Ma la bellezza dello spirito è molto diversa da quella che, qua in questa fallace dimensione ci hanno insegnato ad amare.

E’ la regione del contrasto, delle maree che invadono ogni stanza e che ci fanno conoscere il pericolo e quel senso di appartenenza provato, forse nel regno materno fatto di placenta.

Ci sono statue a ogni porta, che adornano sale ricche di nuvole e stelle, di uccelli che vivono liberi come dovrebbero fare i nostri pensieri, ingabbiati in tante troppe limitazioni.

E le idee rese granito, impossibili da muovere cosi fisse e immobili a ricordarci un po’ quelle che sono le vere certezze, magari erose dalle emozioni ma fisse e sorridenti.

Immobili capaci di sfidare il tempo.

E le statue non solo solo valori, immagini e persino archetipi, sono un po’ quello che dimostra il nostro genio, un genio che non ha forma e aspetta le nostra laboriose mani per urlare la cielo.

E’ la bellezza che resta e ci fa da rifugio quando la notte si ammanta di neve, quando il vento soffia e ferisce la pelle.

Piranesi deve solo rannicchiarsi tra le mani di un gigante di pietra e nulla può minacciarlo.

E abbiamo persino le ossa, quello che ci serve per poter cantare si ricordi, per imparare a venerare e rispetta la nera signora e magari imparare la canzone della donna scheletro, colei che nutrendosi delle lacrime scese dal cuore, riesce a ricoprire di pelle tutto ciò che resta di noi, dei sogni e delle speranze.

Piranesi viaggia con noi attraverso questo strano mondo, che basta a se stesso e però ha bisogno di chi lo racconti perché non svanisce all’alba come fanno certe illusioni.

Ha bisogno di Piranesi, che Piranesi si perda in lui.

Che compatisca i morti, che accarezzi le ossa del tempo che fu, che ammiri le statue e si dimentichi, per un momento o per sempre il suo nome.

Chi è, chi è stato.

E ricomincio come un bambino in fasce a meravigliarsi.

La casa è compassionevole e generosa solo con chi è capace di meraviglia, di tornare solo una potenzialità inespressa, capace di diventare qualsiasi cosa, foglia, stella, albatros, uovo o solo scheggia di marmo.

E pochi, i figli della casa, color che questi viaggi li compiono sempre comprende e apprezza questo libro.

Noi che in fondo sappiamo ascoltare la voce dietro il rumore del mondo.

Che sanno lasciarsi trascinare della maree, non hanno bisogno di un perfetto mondo fantasy.

La casa, quel labirinto in cui si rifugiano quando fuori il freddo taglia la pelle è l’unico vero mondo altro che esista.

Forse non è come lo immaginate.

Ma vi garantisco chi lo sogna ogni notte lo riconosce, e ci si perde volentieri.

Ma attenti.

La casa può rapirvi.

Per sempre.

Può farvi sentire alieni in questo puntino nel vasto universo.

E’ pericolosa proprio perché ti accoglie.

Ma in fondo, vale la pena farci un giretto.

Voi siete pronti?

Piranesi è un libro per i folli, per chi non vuole le cose dritte, per chi sa che la fantasia è un regno oscuro e al tempo stesso luminoso. Che è totalmente storto o sghembo, e per niente capace di venerare le proporzioni, la logica e la coerenza.

Non è realistico, non nel senso che date voi alla realtà e non può essere assolutamente credibile.

La sua forza è nel suo venerare il dio del weird.

Pertanto, se cercate un fantasy in cui la logica domina e innalza pomposi edifici con ogni regola del world building, lasciate stare.

Se invece volete un brivido che profumi di salsedine e poesia, che sia un totalmente insensato, e assurdamente contraddittorio…la casa vi aspetta.

Solo per chi è cosi pazzo da stare seduto su un tetto a suonare il violino sotto un cielo viola.

Se nessuno sente

Suono per me solo

Suono per le stelle

Vecchioni

“Fulgore della notte” di Omar Viel, edito Adiaphora Edizioni. A cura di Alessandra Micheli

RcQuali sono i libri che amo?
È difficile raccontarvelo e farvi conoscere un po’ della mia anima. Molti si chiedono con quali criteri io possa recensire.

Di solito mi limito a raccontarvi il libro e a mostrarvelo attraverso i miei occhi. Apparentemente razionali, apparentemente saggi e antichi.

Apparentemente aperti su un mondo fatto di logica e scienza.

Apparentemente però.

Perché la parte di me più preziosa quella che tento di donarvi con le recensioni, è nutrita dal nettare sublime dell’incanto.

Io vivo con un piede nel mondo del numinoso e da esso traggo sostentamene, piacere e energia.

In quell’universo del fantastico a volte simile a un sogno nebuloso, io mi lascio cadere sparando invisibile agli occhi bramosi della realtà.
I libri che amo sono questi.

Onirici, illogici, assurdamente belli, ma di una bellezza affatto simmetriche, ma quasi crepuscolare ombrosa.

Una bellezza fatta di leggi che sovvertono questo nostro reale, in perfetto equilibrio con un quotidiano che perde il suo grigiore e assume i contorni di un colore impossibile da descrivere.

Un mondo di fate e di esseri magici, in uni un semplice feticcio diviene un tesoro inestimabile eredità di chi al conformismo non sa cedere.

Siamo anime ribelli e questa ribellione non può che lasciarsi cullare dal libro in questione.

Fulgore della notte ha lo stesso sapore del sogno che irrompe quando non deve, quando magari sei a lavoro e ti sembra di vedere una coda spumosa e un sorriso senza volto brillare.

E quella realtà che appare cosi buia, cosi insipida diventa…fulgore.

Il libro di Viel è impossibile da raccontare perché è un testo tattile, un testo che ha la sua voce sussurrata persa nelle rime perfette dei miei adorati poeti (Blake, Keats e Shelley) coloro che conobbero il segreto capace di annullare le distanze tra visibile e invisibile. Ecco che una famiglia si racconta, e le ombre divengono corporee, i misteri danzano allegri in un canto tondo, in un ritmato minuetto dai precisi passi forti eppure leggeri come vento.

Il fantastico irrompe nel testo facendo apparire la trama, tanto cara ai puristi della letteratura, quasi inutile: sono le emozioni, sono gli incanti, sono i segni de numinoso che ti prendono per mano e ti fanno viaggiare a attrarre e ammaliare.

Staccarsi dal libro è perciò impossibile, chi è mai cosi stolto da lasciare un mondo cosi sublime?

Un mondo che ti cattura, che spaventa, che ti bagna come un temporale fino alle ossa fino in fondo al cuore, pompando la sua magia nelle vene:
L’esistenza sembrava tutta euforia ed ebrezza, e lei poteva assaporare la vita nella sua condizione più rarefatta, lontana dal peso dell’immaginazione e dei suoi rozzi emissari. Le fibre nervose che suturavano la coscienza si erano strappate e, all’improvviso, tutto le sembrava possibile, persino l’idea che l’anima avesse preso il volo per vanità.

In questo libro tutto appare possibile, le figure dal soffitto che prendono vita, una tigre che si perde trovando la sua libertà dall’asfissiante circo che mostra come si addomesticano le fiere, la musica che sembra vibrare a ogni passo a ogni attimo di vita che attraversiamo.

E soltanto leggendo che accade il miracolo, la nostra pelle umana si apre e al suo posto nasce qualcosa di straordinariamente diverso:
Quando la gente ci guarda è come se vedesse se stessa per com’è veramente.

Scopre di essere fatta di pelo ispido e zampe caprine e presto si ritrova nell’ imbarazzo di dover mettere in discussione il proprio guardaroba.

Gli uomini hanno la pretesa di essere creature rivolte alla consapevolezza, ma la loro idea di spiritualità consiste nel prendere le distanze dalla sostanza del mondo e questo rende ogni loro sforzo semplicemente ridicolo.
E allora il fatato viene di nuovo respirato e rende liberi i polmoni dallo smog del reale opprimente.

E finalmente si riesce a sentire la leggerezza che accarezza finalmente l’anima.
Ecco cosa deve poter compiere il libro, il miracolo supremo:

“A voi affido il compito di guarire gli uomini dalla loro ignavia. Essi sono smarriti, incapaci di ritrovare la via del corpo nelle catacombe dell’opulenza. Offritegli spettacoli maestosi! Guidateli alla saggezza delle fonti, nelle vaste oscurità della Terra, sul filo tagliente delle rocce muscose!”.

Grazie per avermi fatto di nuovo cadere in quel buco nel terreno ed abbracciare I miei amici di sempre in un folle, pazzo te pieno di non sense e di visioni.

Pieno di assurdità e di oniriche immagini, ma dove io sono la protagonista assoluta di ogni magica azione.

Perché solo quando qualcosa inaridisce la fonte che ci ha nutriti da bambini, con immagini radiose e incantate, allora saremo davvero perduti.

Allora saremo solo stolte marionette in mano del re di turno.

Saziatevi di magia, di bizzarro, di bellezza. Immaginate e lasciate che il fulgore della notte irrompa in voi:
Diventiamo spettatori per saziarci di immaginazione quando abbiamo perduto ogni desiderio di bellezza.

In questo senso, se l’immaginazione è una dotazione umana dal valore evolutivo, lo spettacolo non è che un mezzo particolarmente efficace per alimentare la povertà di spirito degli uomini senza fantasia.