“Il pagliaccio che ascoltava Chopin” di Riccardo Sparapan, In.edit. A cura di Alessandra Micheli

La vita è un banchettoe la tragedia è che la maggior parte della gente sta morendo di fame.

Anhony De Mello

Che bellezza questo nostro oggi!

Abbiamo davvero tutto sapete?

Tecnologia avanzatissima che ti mette in contatto con il mondo intero, con continenti separati da kilometri di distanze.

Possiamo avere tutto a portata di mano con un solo click.

Possiamo sconfiggere persino la morte e malattie che ci terrorizzavano e combattere il tempo che feroce ci minaccia.

Possiamo vivere in buona salute persino fino a cento anni.

E siamo istruiti, tuttologi di ogni branca di una scienza che mai, come oggi, ci appare sempre meno fantasia e sempre più realtà.

E siamo ricchi, non tutti certamente, ma in fondo anche il nostro Weber sosteneva che la misericordia di dio non può essere mica cosi democratica no?

E possiamo comprare tutto, il black friday, il giorno degli sconti, un sacco di bellezza fermata da uno scatto reso eterno dai social.

Possiamo cambiare la nostra natura e non solo interiore, connotati e renderci perfettamente plastificati in sorrisi forse un po’ stantii ma brillanti e dalla dentatura perfetta.

Belli e sempre alla moda, cosi impegnati in questo vorticoso girotondo simile a un colorato lunapark.

E possiamo diventare ciò che vogliamo, perché la conoscenza, lo studio è concesso a tutti.

Non è meraviglioso?

Non è straordinario il progresso?

Allora perché, e lo chiedo a te mio lettore, non vedo altro che volti grigi, spenti senza sorrisi capaci di arrivare agli occhi?

Perché siamo stanchi e demotivati, sempre più automi, corpi vuoti che suonano rintocchi a morte?

Perché abbiamo tutto, tutto ma stiamo morendo di fame.

Stiamo lentamente spegnendo la scintilla che, un tempo, illuminava le notti tetre.

Ci manca Dio.

Ci manca l’anima.

Perché quello che oggi ci offrono in cambio di un accettazione totale di ogni regole è una religione di cartapesta, che si inzuppa e crolla a ogni pioggia battente.

Non resiste ai temporali.

Non si erge fiera e orgogliosa contro gli uragani.

Il nostro oggi è semplicemente opalescente e evanescente, fino a che sparisce e restiamo coi, a guardarci dentro e non vedere altro che materie.

Ci manca il sorriso.

Ci manca qualcosa per cui alzarci la mattina, farci domande e lottare di nuovo. Ci manca il contatto con il dolore, quel senso di estasi che si prova a lasciare andare quel vassoio pieno di fragili bicchieri che ci costringiamo a portare con noi in quel terreno scosceso.

Non dobbiamo mai, dico mai infrangerli pena chissà quale orrorifico anatema. E cosi traballanti su tacchi a molla ci inerpichiamo su terreni scoscesi e alture brulle e difficili.

E’ una costrizione dettata da chissà quale Re crudele assiso su un trono inesistente.

E scordiamo cosi profumi, e la bellezza di quel camminare che è, in fondo, solo il viaggio non il punto di arrivo.

Questa vita e le sue conquiste non è altro che uno dei mille scenari che ci servono per tornare a essere uomini.

Per avere il coraggio di buttarlo quel dannato vassoio, togliersi le scomode scarpe e iniziare a ballare.

Anche se sotto la pioggia.

Anche se dagli occhi scendono lacrime cosi come un pagliaccio triste, cosi felice però di quell’emozione.

E che magari ascolta la dolce nenia di Chopin.

Per ognuno di voi che stringe a se la sua costrizione.

Che ha paura di cambiare o di lasciare la vita vecchia, io consiglio questo viaggio in un luogo dello spirito.

Dove incontrerete volti scottati dal sole, poveri piedi sporchi di polvere…ma anche sei sorrisi, sorrisi come non siamo più abituati a esibire.

E a te, piccolo folletto dai rossi capelli, auguro che il pagliaccio che ascoltava Chopin si risvegli dentro il tuo cuore ferito.

Perché aspetto, e o dio se lo aspetto con tutto il cuore, che inizia a ballare la tua danza e a trovare il tuo luogo dell’anima.

E per tutti voi, che oggi vi sentite perduti, che questo libro sia compagno, amico e perché no maestro.

Perché credetemi la spiritualità è la faccenda più semplice che sia mai stata regalata da quel Dio burlone che consideriamo parte del cielo.

Ma che è invece vicino a voi e trenta con buffe smorfie di attirare la vostra attenzione.

Ecco come mi piace immaginare il creatore del cosmo, come un pagliaccio triste, dai capelli ricci che invece di essere serio e concentrato ride e si emoziona guardandoci.

Anche oggi, che pensiamo di aver raggiunto la luna, ma ci siamo scordati di come si vive in terra

“Viaggio in Cambogia” di Arsenio Siani. A cura di Alessandra Micheli

51pOx9D5+bL

 

Due sono i motivi che mi hanno spinta a leggere e quindi a parlarvi di questo libro.

Primo motivo.

Parla della Cambogia e io lo ammetto ho passato interi anni a studiare la disposizione astronomica di Angkor Wat uno dei siti templari più intriganti del nostro tempo.

Complice il libro lo specchio del cielo di Graham Hancokck il tempio appariva come un sinuoso serpente nelle foto e nei documentari che amavo vedere, pieno di ricami e di mistero.

E all’alba sembra va che il sole muovesse quei draghi e quelle sculture poste come a guardia di un arcano segreto.

E volevo sapere, non tento le teorie sulla motivazione creativa dei lontani costruttori del complesso, quanto le suggestioni di chi, quella meraviglia l’ha vista di persona perdendosi nella sua immensità.

La seconda motivazione risiede nella frase di una canzone di Irene Grandi che mi ha sempre toccato il cuore

prima di partire per un lungo viaggio

porta con tre la voglia di non tornare più

Ho sempre considerato il viaggio qualcosa id fondamentalmente sacrale. Non era solo la voglia di avventura, di emozioni di dare uno sprint a una vita troppo tranquilla e fatta di routine. Ma era davvero la voglia di non tornare, di cambiare radicalmente identità facendo spazio a un io diverso e forse inatteso.

Chi viaggia ha bisogno che ogni spostamento entri dentro di lui e canti nel suo sangue.

E che quella vibrazione si diffonda in tutto il suo DNA mutandolo, radicalmente e alla radice.

Ha bisogno non tanto di una ventata di freschezza o di adrenalina.

Non lo compie per moda o per evidenziare la sua lussuosa posizione di benestante.

C’è e ci deve essere qualcosa che si muove, un po’ sinuoso come il tempo di Angkor dentro di lui.

Una spinta evolutiva che no n ha affatto paura a cambiare volto, nome e persino identità.

Il viaggio lo so che sembra una frase fatta, deve farvi diventare più voi stessi, ma non l’immagine che credete di voler indossare, ma quella che un giorno lontano, qualche dio dal cielo vi ha regalato.

Il viaggio è una lotta, tra fatica e paura, tra stupore e meraviglia.

E’ la nostra lotta contro un dio affinché ci regali un nuovo nome e in fondo ci benedica.

Ecco in questo libro Siani parte con quella stessa voglia di non tornare più.

Torna con un nuovo nome.

Torna capendo che l’importante non è lo spostarsi fisico ma il cambiare prospettiva mentale, modo di percezione della realtà.

Che ci appare più vasta della nostra troppo limitata e comoda.

Viaggiare non è amare in modo quasi tollerante l’altro o la cultura che entra dentro di noi.

E ‘ apprendere da quella stessa un modo migliore di viver,e ripensarla e costruirne un altra.

Perché è nello scambio costante, nella percezione di una differenza e nella volontà di farne tesoro che si affaccia il nuovo.

Allora se non avete il terrore puerile di modificare ogni vostra cellula e persino la vostra anima, leggetelo questo libro e viaggiate con l’autore.

“Il segreto del vicolo delle Belle” di Marika Campeti. A cura di Alessandra Micheli

il segreto del vicolo delle Belle.jpg

 

 

Quando ho iniziato a leggere il vicolo delle Belle, mi sono subito innamorata delle descrizioni.

E ho riconosciuto in esse la mia visita alla splendida città di Terracina, ricca di storia e di magia.

In quei luoghi incantati si sente davvero la mano soave del mito e delle leggende, le cui voci risuonano sia di fronte al meraviglioso tempio di Giove che in quelle distese azzurre, in cui è facile perdersi morire e rinascere.

Del resto non lo raccontava Baudelaire?

E tu sempre amerai uomo libero il mare

Ed è vero.

Chi è davvero libero, libero da se stesso e dalle catene dei proprio impulsi, della rabbia, dall’incapacità di farsi accettare, non può non amare il mare.

In fondo, è l’elemento acqueo che pervade davvero la nostra vita, quella reale, quella interiore, non quella che tanto ci piace oggi e che è tutta dedita all’apparenza.

La questione libertà ha sempre avuto per me una grande rilevanza essendo da sempre, dai 12 anni ( si sono precoce) oggetto di squisite riflessioni filosofiche: cosa significa essere liberi?

Fare tutto quello che i miei vizi mi chiedono?

Essere senza legami?

O semplicemente viaggiare sotto le stelle e con una chitarra raccontare l’emozioni della peregrinazione?

Non è un caso che i miei libri preferiti sono quelli hipster, che il mio vangelo è ancora Pic o sulla strada di Kerouac. Non è un caso il mio amore verso le canzoni country che sapevano di immensi spazi capaci di abbracciare il cielo e quelle distese interiori senza confini o orizzonti.

Poi con il tempo, la mia riflessione si è fatta politica.

Mi sono chiesta come mai l’uomo che dovrebbe amare quella sensazione di vagabondaggio, cosi mutuate dalle vere autentiche idee di Woodstock, fosse stato da sempre incatenato.

Ed in questo caso è nella storia la risposta.

Nei secoli donne, uomini bambini erano considerati meri oggetti di scambio.

E la cosa più drammatica era la coatta accettazione, quasi rassegnata a questo ruolo subordinato, inesistente, e sopratutto NON SCELTO.

E passi per i secoli bui, quelli ammantati da una finta religiosità, da una necessità di porre un freno e di trovare certezze in un mondo in costante cambiamento.

Diverso era il discorso quando si parlava del IX secolo.

Troppo colto, troppo scientifico per porre ancora ruolo cosi rigido a una parte della società.

E troppo profumato di evoluzione per considerare quella parte di società non degna di diritti, ma solo di strani doveri.

Alla soglia del nostro ventunesimo secolo ancora sento parlare di puttane, di femminicidio, di diritti negati, di compravendita del sesso.

E dove sta quindi il nostro progresso?

Il racconto del vicolo di Belle, non è solo quello della riappropriazione del passato per poter vivere e sbrogliare il presente.

Non è solo il racconto mirabile dell’accettazione e della rinascita di una donna che cerca costantemente una definizione che le appartenga e che non fosse elargita dalla società.

Non è solo il racconto scomodo di come l’amore non segua le nostre sciocche regole.

Ma pone due protagoniste vittime delle assurdità di una vera guerra, che sfociò solo in ultimo nel secondo conflitto mondiale.

La vera guerra era quella sociale, quella che cercava di svincolarsi da ataviche convinzioni che ponevano l’altra parte della luna, in condizioni di ignoranza e quindi di sudditanza.

Ragazze vittime delle atrocità di un padre senza coscienza, o vittime di una marito violento perché frustrato.

Vittime di una madre convinta che la sopravvivenza significhi la rottura di ogni remora etica.

E che però si lavava la coscienza andando in chiesa e pregando un dio che lacrimava davvero sangue, vedendo come la sua umanità si prostituiva e non faceva dell’ostacolo stimolo alla virtù.

E’ la banalità del male, perso in piccoli anfratti, in microscopici gesti, giustificati dalla frase e vabbè erano altri tempi, ci stava, era giusto.

Il nostro mondo è un eterna giustificazione continua e patetica.

La nostra società reitera, seppur in altre modalità più occulte, comportamenti che fanno della donna mero strumento.

Di marketing.

Di share.

Di like.

Corpo e mente sacrificati sull’altare del business.

Se prima era difficile per Rosa e Nina pensare a alternative, perché il mondo queste non le voleva, oggi noi donne bestemmiamo le memorie di queste donne reali, vissute in ogni epoca, magari nonne, o zie, o madri, sputando sulle possibilità che abbiamo.

Possiamo studiare, ereditare, farci il culo perché sia ammirata la persona e non una tetta o un culo rifatto.

Possiamo ribellarci fregandocene della morte sociale, perché è cosi vasto il mondo, cosi ricco da poter ricominciare ogni volta.

Eppure non lo facciamo.

Non vogliamo comprendere, superare i limiti a cui siamo abituati, troppo schiavi della nostra cultura, ma sempre capaci di giudicare l’altra.

E Marika ce lo dimostra con la storia di Hussed.

E’ facile condannare il mondo islamico, per le sue mancanze di rispetto. Facile dire io mi sono sottomessa per amore, quando è una vita che ci siamo sottomesse alla storia.

Siamo figlie e nipoti di donne che hanno vissuto le stesse cose, se non peggiori, in periodi neanche tanti cosi lontani.

E’ storia degli anni ottanta quella di Lara Cardella.

Quella bimba che non poteva indossare in pantaloni in una Sicilia cupa, a cui mancava davvero solo il burka.

Allora prima di giudicare, puntare il dito con la strafottenza dello straniero, impariamo a far pace con la nostra di storia.

Magari attraverso l’archetipo eterno di Nina e Rosa.

E magari da quelle macerie iniziare a conoscerci e creare una donna nuova, capace di capire e di piangere sulle ferite.

Perché solo le lacrime sanno curare e solo la vera femminilità sa perdonare, perdonarsi per ricominciare.

Ed è li il vero cambiamento.

Quando il cuore è stanco di soffrire e cerca quella libertà che ho sempre respirato io.

Un libro dai mille significati.

Io vi ho svelato quello che mi sta più a cuore, ma sono sicura che andando a passeggiare nel vicolo delle Belle, troverete anche voi la vostra unica personale essenza.

E magari allora, ricostruite e riappacificate con il nostro essere persone prima che donne, creeremo con il pensiero, un nuovo mondo.

Brava Marika

 

“Viaggio al polo” di Maurizio Corrado, Ianieri Edizioni. A cura di Ilaria Grossi

 

“Non c’è nessun vascello che, come un libro, possa portarci in paesi lontani, né corsiere che al galoppo superi le pagine di una poesia”

Emily Dickinson 1845.

Il romanzo si apre con una serie di lettere che il giovane francese Thèodore scrive alla sua amata, un amore non corrisposto tra indifferenza e freddezza, motiva ancora di più il suo imminente viaggio al Nord.

 

“So che voglio vedere quei luoghi, voglio camminare nei deserti bianchi della mia anima, per avervi ancora vicina”.

Thèodore e l’amico Alden, decidono di partire come marinai a bordo della Tara, assieme alle navi Erebus e Terror, guidate dal capitano Sir John Franklin, alla ricerca del passaggio a Nord Ovest. Un viaggio che in passato non ha avuto esiti positivi ed è costato la vita a molti marinai e avventurieri, che sfidarono la natura imprevedibile e selvaggia del Polo Nord.

Scrivere lettere durante la traversata è come sentirsi ancora legati alla terra, pur intraprendendo un viaggio in mare aperto per giorni e giorni, per non perdersi, per non perdere l’anima.

 

“La vostra assenza mi ha scavato dentro un deserto silenzioso e cresce ogni ora lasciandomi sbigottito di fronte all’oceano che ci divide”.

Tra le pagine del libro, emerge così un viaggio non solo fisico, un viaggio alla ricerca del proprio io, di un legame sempre cercato con il padre di cui custodisce un bastone di legno dalla forma ambigua e un oboe.

Un viaggio che lo porterà dopo un’ingiusta accusa e fuga, tra il popolo degli Inuit, scoprendo usanze e leggende di un popolo autosufficiente, orgoglioso e rispettoso.

Lo stile dell’autore, preciso e ricco di dettagli, con un buon ritmo narrativo, è in grado di immergere il lettore perfettamente nel viaggio che stringe in sé un’avventura immaginaria e una storia vera.

Un viaggio nell’anima, un’esperienza che attraversa paura, timori, scoperta dei propri limiti, scoperta del proprio io e della propria origine e di come dopo tanta sofferenza fisica ed emotiva si arrivi alla conquista della propria libertà.

La descrizione in un romanzo d’avventura è naturalmente un quid portante e fondamentale, è il proiettore che fa girare la pellicola narrativa e il libro con le sue pagine è il grande schermo per seguire Viaggio al Polo.

Se siete pronti a viaggiare con la fantasia e non solo, vi consiglio questa piacevole lettura.

 

Ilaria Grossi per Les Fleurs du mal blog letterario

“Amazzonia io mi fermo qui” di Pietruccio Montalbetti, zona Music book editore. A cura di Alessandra Micheli

 

Leggere un libro con lentezza esasperante affinché possa durare in eterno e non smette di diffondere la sua magia. E avere un puro terrore di essere abbandonata e quindi per evitare di lasciare quella voce amica, cercare di ascoltarla sempre più a lungo, leggendo e rileggendo le parti sottolineate, come un incantesimo affinché si stampi a fuoco dentro l’anima.

Ecco perché amo molto la lettura.

Anche se libri di questo genere non sono così tanti quanto si dovrebbe presupporre. Perché oggi si pensa più alla vendita che al puro talento. Si dimentica l’arte, quella che ti fa uscire da te stesso per abbracciare il cielo e dissetarsi con un sorso di infinito. Leggere è emozione, è immersione totale in un altrui mondo, è la fantasia senza briglie che corre come quei bellissimi cavalli servaggi delle pianure americane. Addomesticarli è un atto blasfemo, perché non si può addomesticare la libertà. È un dannato immondo ossimoro.

Poi, per fortuna, quando meno te lo aspetti e dove non spereresti mai, brillano parole che ti chiamano con voci suadenti come quelle delle sirene di Ulisse:

vieni da me

ti sussurrano;

devo raccontarti una storia.

Ed è una fiaba che ha il sapore della realtà, che è legata ad altre storie simili eppure diverse, tutte con il miglior protagonista del mondo: l’essere umano. E non umano nel senso carnale del termine, ma grondante di quegli attributi che lo rendono sia carne che spirito, sia forma che sostanza, che lo rendono vivo e vibrante.

È strano che quest’emozione sia stata scritta da uno dei miei miti giovanili, il leader di uno storico gruppo che ha alimentato tanti sogni, che ha inciso sulla nostra cultura musicale, che è e sarà sempre protagonista di un’Italia che riscopriva la sua capacità di creare. E creare musica quella vera, quella che rapisce e frusta il volto come un vento selvaggio.

ho già fatto le valigie

e adesso sto scrivendo

questa lettera per te

ma non so che cosa dire

è difficile spiegare

quel che anch’io non so capire

ma fra poco me ne andrò

e mai più ritornerò

io ti lascio sola

Ah! Quando s’alza il vento

Ah! Quando s’alza il vento

No! Più fermare non si può

dove vado non lo so

a me sembra di strappare

qualche cosa dentro me

e vorrei gridare no!

ma se guardo quella porta

io la vedo già aperta

ed ho voglia di fuggire

di lasciare dietro me

tutto quanto insieme a te

di partire solo

Quante volte ho ascoltato la stessa canzone, sentendo davvero il richiamo del vento?

Quella voglia di andare via, di non voltarsi indietro che sposa quel bisogno di muoversi, di non restare mai fermo in un punto, di non invecchiare osservando soltanto la vita che scorre da quell’angusta prospettiva.

I Dik Dik sono questo.

Non i cantanti trasgressivi, ma i poeti di quell’insana e assurda voglia di viaggiare, di cambiare continuamente scenario non fisico, ma psichico. Sono loro i veri ribelli. Non i finti maledetti, pieni di fissazioni e perversioni mostrate con disinibizione sul palco, ma che, in fondo, lasciano una sorta di amaro sapore in bocca. Perché la tua anima, quella veramente indocile, sa benissimo che è tutta una triste recita. È una bella maschera con cui il maledetto conformismo si camuffa attirandoti sempre di più tra le sue spire agghiaccianti.

No, loro erano i nuovi sognatori.

Quelli che cantavano la bellezza di essere sulla strada, incantati non dalla destinazione, ma dai mutati paesaggi che scorrevano veloci, lasciando sempre un segno, un insegnamento o soltanto un effluvio.

Ecco la possibilità di immergermi nel mondo altro, quello sempre più distante eppur vicino alla nostra istintualità, quello più primitivo, meno edulcorato dal politicamente corretto e forse per questo più affascinante per chi come me si sentiva sempre un’eterna esclusa: l’Amazzonia.

Conoscevo molto bene, attraverso racconti e libri, la sua cangiante bellezza, quei paesi abbarbicati al suo ecosistema minacciato, quelle popolazioni così aliene e diffidenti. Le sentivo profondamente unite a me da uno stesso filo. Io a Roma non respiro. A volte mi sento così soffocare da questa città ingombrante, tanto da dover aprire la finestra. Ho bisogno di trovare un albero, un fiore, un insetto. Ho bisogno persino di essere punta e di provare dolore, per reagire al pericolo dell’onnubilamento del mio io, quel pericolo che ogni mondo globalizzato, ogni democrazia che venera l’uguaglianza senza porre l’accento sulle singole potenzialità, ogni civiltà che non coopera ma assoggetta, pone.

Ecco cosa mi soffocava.

La mancanza di empatia, di veri legami, di essere parte sì, di un agglomerato, ma distinta e forse accettata per qualche mia bizzarra capacità, fosse anche quella di creare mondi e di sognare nuovi universi, fino a sentirli così tanto vicini da sfiorarli.

Amazzonia mi fermo qui ha questa straordinaria capacità di restituirmi aria pura. Di riuscire ad assaporare odori sconosciuti e al tempo stesso familiari, di ascoltare voci diverse dalla mia, ma cosi intense da rimbombare con grazia nelle mie orecchie e accendermi quel pensiero affaticato, quasi atrofizzato da una sorta di inedia. Vedere colori nuovi al posto di un grigiore stancante e sentire sulla mia pelle la pioggia fredda, scrosciante, una furia, una tempesta che al pari di quella mia interiore, spazza con brutalità ogni ostacolo, ma al tempo stesso si rivela utile e importante per mantenere rigogliosa la foresta. Quel viaggio intrapreso con Pietruccio è stato, in realtà, un viaggio in quelle emozioni che mi avevano insegnato a temere: la ribellione, la volontà di mettersi alla prova, di dimostrare che gli ostacoli, il dolore, le difficoltà fanno parte di quel ciclo immenso e duro e splendido chiamato vita. E rifiutare anche tutta la civiltà per spogliarsi di ogni orpello, immergersi nel fango e uscirne diversi, magari apprezzando cosa si ha. Ma capendo che in fondo, ogni comodità, ogni conquista, va amata, depurata dalle scorie, così come la nostra civiltà va contestata e rifondata. Ed è quello che accade all’autore.

Capisce che è solo per un bizzarro gioco del destino che è nato nella parte giusta del mondo, quella che, nonostante tutto, ci permette di esprimerci. Magari con fatica, magari senza essere capiti, magari svolgendo il ruolo utile di devianti, ma possiamo farlo. Possiamo lottare e scegliere sia di addormentarci vicino al nuovo iPhone, sia di prendere le nostre possibilità e regalarle al mondo. Che le nostre armi siano una chitarra, una penna, una danza, un pennello, ognuno di coloro che amano e creano l’arte, possono iniziare a vivere nel loro mondo, in modo RESPONSABILE. Ma per farlo dobbiamo confrontarci, dobbiamo scendere dal nostro personale piedistallo e incontrare l’altro, incontrare il nuovo, combattere la tendenza all’assuefazione.

Chiudere il libro è stato triste. Mi sono sentita quasi orfana senza la voce di Pietruccio a narrarmi le sue avventure a raccontarmi le sue riflessioni. È stato un po’ come salutare un amico, abbracciandolo forte e ringraziandolo del dono immenso che ti ha elargito con un sorriso pieno di luce.

Cosa mi ha regalato Pietruccio?

La capacità di pensare, di riflettere attentamente su parole scritte con un sangue distillato direttamente dal cuore. Nelle mie orecchie ora risuona a tutto volume una delle mie canzoni preferite, quella che sembra scritta per me, con quel lieve ritmo da antica e fragile ballata

Lasciò il suo paese all’età di vent’anni

con in tasca due soldi e niente più

aveva una donna che amava da anni

lasciò anche lei per qualcosa di più

Promise a se stesso di non ritornare

al vecchio paese della sua gioventù

dove nessuno voleva sognare i campi d’arare e niente di più

Cominciò così a fare il vagabondo

girando paesi e città

cercò la fortuna in quartieri del mondo

dimenticando la sua povertà

Un giorno in casa di un grande poeta

trovò dei ragazzi che parlavan di pace

di colpo capì che era quella la meta

che aveva raggiunto per esser felice

Ritornò così a fare il vagabondo

girando paesi e città

voleva portare l’amore nel mondo

ma pensò al paese di molti anni fa

Senza un soldo in tasca tornò ancora verso casa

aveva capito cosa conta di più

davanti alla sua porta c’era lei che lo aspettava

tutto come prima e non chiedeva di più

E in queste parole c’è il senso dell’avventura descritta in Amazzonia. Pietruccio non è solo l’avventuriero, l’esploratore, il pazzo che mette quasi a rischio se stesso e la sua incolumità. È l’anima stessa dei Dik Dik, completamente avvinti e intrinsecamente legati al tema del viaggio. Un viaggio che è ricerca interiore, il provare al mondo l’esistenza di un universo segreto, del luogo per eccellenza dell’anima, del Rio abajo il Rio (come racconterebbe la psicologa Clarissa Pinkola Estes), laddove tutto muore e rinasce, il sogno che crea la realtà come nei bellissimi miti aborigeni.

Nel libro c’è un vero tempo del sogno, ossia la capacità di uscire dalle proprie ristrette dimensioni e osare entrare in quelle proibite o ignorate, questa è arte e creazione, questo è il vero profondo significato del viaggio. È un osare varcare i ristretti confini come fece Gulliver, ignaro degli avvertimenti. È la scoperta di Colombo, ignaro delle fobie. È un osare rompere i tabù, quelli che servono per tenerci ancorati a un’unica realtà, impedendoci di sognare e appunto di creare. È la volontà di muoversi, di combattere la stasi, di combattere la forma che resta sempre immobile, sempre uguale e che va contro la nostra stessa essenza di esseri in balia di un’unica legge: l’evoluzione. Perché l’immobilismo è l’antitesi dell’arte, così come l’arte è la nemesi della morale. Ma al tempo stesso l’arte è etica. E Pietruccio non ci regala solo musica che fa da sottofondo a brani intensi e bellissimi come l’isola di Wight o Sognando la California, la sua arte si esprime con mirabolante bravura nel suo racconto facendo commuovere, facendoci arrabbiare, lottando con un’innocenza e una purezza abbagliante, contro i limiti del pensiero umano e i suoi stereotipi. È un pensiero che non si arrende di fronte alle brutture, che si interroga fino quasi a litigare con Dio, per fermarlo, farci a botte e dargli un nuovo nome. Perché siamo noi a creare Dio, non è Dio a creare noi.

E Pietruccio lo plasma accogliendo l’altro, abbracciandolo, dandogli la mano e entrando con rispetto e gratitudine nelle altrui culture semplicemente con la curiosità onesta di un bambino. E non per sfruttarli o per sentirsi migliore, ma per provare ancora compassione.

L’unica regola del viaggio è: non tornare come sei partito. Torna diverso.
Anne Carson

Pietruccio torna diverso.

Torna con una consapevolezza matura di sé stesso e della nostra presunta civiltà superiore. Nulla è superiore alla vita e la vita si manifesterà sempre in mille diverse sfaccettature e avrà volti di sconosciuti che sono parte stessa di un universo interconnesso in cui tutti noi, indios, europei, africani, americani siamo dipendenti uno dall’altro, rendendo ogni nostra più misera azione pregna di conseguenze. Sta a noi decidere se creare paradisi o inferni in terra.

Un bellissimo proverbio indiano dice:

Viaggiando alla scoperta dei paesi troverai il continente in te stesso.

Ecco il vero significato del viaggio di Pietruccio e di ogni nostro vagare. Non una semplice attività ludica, un passatempo di annoiati viziati, ma una soglia arcana attraverso la quale ritroviamo il nostro mondo simbolico, superando barriere, abbattendo con il machete dell’empatia i preconcetti, per tornare pienamente noi stessi.

E io come lui spero che questo libro possa realizzare un grande obiettivo:

A tutti i complici silenziosi dello status quo ho sempre opposto, a modo mio, la mia chitarra, le mie canzoni, il mio modo di stare al mondo, e vorrei che anche le storie dei miei viaggi servissero a questo, perché sono essenzialmente storie d’incontro, che è la vera arte della vita, come diceva Vinícius de Moraes.

“Le tribolazioni di un’italiano in Cina” di Adrea Pasquale, booksprint editore. A cura di Alessandra Micheli

 

Che la letteratura sui viaggi abbia appassionato ogni generazione, compresa la mia è un dato di fatto. Credo che i testi di Salgari, alla scoperta di nuovi luoghi inesplorati, attraverso mari in burrasca e lotte, spesso, crudeli tra galeoni, siano il modo migliore per sposare la propria quotidianità, immergendola in un mondo forestiero. E cosi vale per la bellezza dei testi di Verne, come l’isola misteriosa, o il giro del mondo in ottanta giorni. E vale anche per il bellissimo viaggio del “guascone” Sinbad, così avido di nuovo da spingersi fino ai confini del mondo nella raccolta profumata di spezie e mistero delle mille e una notte.

Ma il libro che più di tutti esemplifica cosa davvero sia il viaggio è senza dubbio Sulla Strada di Keruoac. Questo libro, pubblicato nel 1957 fu il manifesto di riferimento per la beat generation (il movimento beat fu un grido di ribellione anticonformista di un mondo giovanile in rivolta contro la staticità borghese) e contiene una frase che più di ogni altra identifica l’essenza della letteratura di viaggio:

««Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati»

«Dove andiamo?»

«Non lo so, ma dobbiamo andare».

Ecco cos’è il viaggio. È un percorso spirituale, una sorta di profonda iniziazione psicologica e etica che plasma e trasforma il fanciullo in uomo, il borghese il ribelle e l’uomo anonimo o comune in eroe. È il cambiamento che viene discusso, raccontato, spiegato da tutti questi autori appartenenti a diverse epoche e ai più disparati contesati sociali: il cambiamento

In ognuna di queste avventure, di questi spostamenti mai solo fisici, il protagonista cambia letteralmente la percezione di sé stesso e di conseguenza, della società in cui è inserito. E tutto questo, lo ri-sottolineo tramite il necessario e troppo spesso sottovalutato, incontro con l’altro.

Ecco il senso del viaggio:

Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco.

Josef Koudelka

Le tribolazioni di un italiano in Cina fa parte di questa fondamentale letteratura che attraverso una visione scanzonata, ironica e sarcastica della vita, delle nostre piccole idiosincrasie e delle quotidianità che ci appartengono riscopre il valore autentico e universale del confronto. Ed è grazie all’altro, il diverso da noi che riusciamo spesso a uscire da una prigionia molto insidiosa, fatta di abitudini e di arretratezza mentale, che esiste e ci connota, nonostante l’appartenenza alla gloriosa élite di un mondo occidentale in continua evoluzione. Forse ci evolviamo in mero senso tecnologico, forse alcuni a livello economico, ma a livello di schemi mentali facciamo tutti parte di quella descrizione della provincia molisana che è una delle chicche del testo:

 

I cambiamenti tardano ad arrivare e spesso e volentieri non arrivano mai. Non esistiamo per gli altri, ma a noi non è che gli altri piacciano poi così tanto. Non siamo quello che definireste un popolo ospitale. Guardiamo con diffidenza un viso non conosciuto o un po’ troppo diverso

Abbiamo le nostre festività, i nostri riti e le nostre processioni. Li ripetiamo fin dagli albori del tempo. Siamo tutte comari di paese. Ci piace parlare e sparlare di fatti e persone del nostro piccolo mondo

Ognuno ha il proprio metro di giudizio di come la vita dovrebbe essere, come si confà a ogni realtà provinciale che si rispetti.

Non esistiamo, dicevo. Siamo la Contea d’Italia. Ignorati dal resto della Terra di Mezzo. E ci va bene così.

Se leggete questa descrizione perfetta non ci trovate solo una regione italiana ma un intero mondo che appartiene a tutti. Tutti siamo rinchiusi nella nostra “Molise psicologica” dove ci accoccoliamo protetti come nel ventre materno, convinti che sia l’unica realtà possibile, ignorando le voci esterne come inutili e fastidiose, coscienti che l’unica verità è in quella piccolissima porzione di esistenza che mai esiste e mai esisterà. Perché mentre noi piccole formichine operaie laboriose e ottuse costruiamo felici le nostre barriere, tappiamo quei pochi spiragli da cui non sia mai potesse abbagliarci il sole, cosi impermeabile all’esterno troppo bloccata sulle sue abitudini, sulle sue storie, e sulle tradizioni assolutistiche. Sempre suo, mio, loro e mai nostro, mai di tutti, mai della collettività. Un noi e altri così netto e cosi angoscioso che bene rende il senso di chiusura claustrofobica che alcune anime sensibili avvertono.

Parliamoci chiaro. L’essere umano detesta cambiare, qualcosa dentro la sua mente lo spinge a restare sempre nello stesso punto a essere come disse quel dio della forma Jahvè colui che è. E per essere qualcosa non dobbiamo trasformarci mai. Ma per fortuna la Madre natura cosi saggia e cosi amorevole ha inserito un vero e proprio demonio dentro di noi, che ci trasforma da statue e audaci  Eve pronte e mangiare la mela e a dare uno scossone in questa grigia immobilità.

Nel caso di Brute la spinta è data dalla decadenza italiana, da quel sistema cosi marcio che tenta di strappare ai giovani anima, dignità e sogni.

Il libro si apre così, con un ragazzo reso già troppo cinico da una impari lotta per la sopravvivenza contro la sua stessa patria. Una patria che lungi da essere materna e madre diviene aguzzina e crudele. Una patria bella sì, ma persa nei sui miti di potere, persa in quella volontà di sopraffare l’altro, di escludere l’estraneo e di dominare a ogni costo rendendo tutti suoi adorabili burattini. Ecco che l’italiano diviene una macchietta da amara commedia dell’arte preso a combattere con schiavisti, con loschi figuri divenuti quasi legittimati da un potere svuotato di consenso, di senso e soprattutto privato di quel patto che deve necessariamente essere alla base della collettività chiamata stato. Quel patto, oggi in Italia non c’è. Abbiamo una storia quasi nebulosa, vecchia e invecchiata, cosi canuta da non aver più la forza di imporsi. Viviamo di vecchie glorie beandoci di un passato che lasciamo agonizzante in un angolo della mente. Tutto questo mentre il mondo va avanti. E lo scopre Brute quando per disperazione accetta di recarsi per uno stage in Cina. La Cina un mondo diverso alieno, che appare grigio all’inizio di quel disperato viaggio. Cosa usa il nostro protagonista indomito?

L’arte dello sberleffo e del sorriso, scugnizzo nell’animo irriverente Pulcinella che però ha un vantaggio su tutti noi: Brute DEVE viaggiare. Deve sentirsi vivo. Anche se questo lo porta a osservare qualcosa che mette costantemente in discussione le sue convinzioni, alle quali il nostro prode in fondo non crede. E non crede perché in fondo, ha perso tutto ed è pronto a ricostruire. E lo fa osservando l’altro, lo fa con la rabbia dei sogni infranti, lo fa con quella volontà di riscatto che non è frustrazione ma potente voce che si leva contro ogni ingiustizia. In Cina, nel mondo che sta davvero la di fuori di ogni regola sociale, lui inizia a costruire sé stesso, rompendo abitudini, schemi, leggi e morali troppo strette. Per Bruta le Cina è un camminare finalmente a piedi nudi, senza strette scarpe a impedirgli di correre. E cambia. Cambia così tanto che il grigiore diviene bellezza.

E cambia così tanto da poter osservare, finalmente la sua società, la sua amata Italia in modo ancor più disincantato:

 

Se io, Camilla e migliaia di giovani siamo stati costretti a fare le valigie e ad affrontare sfide così ostiche in paesi distanti, è perché il nostro mercato del lavoro è fermo da un pezzo.

E ancora:

 

quanto tempo passerà prima che un Butre cinese non scriva il mio stesso libro, burlandosi della nostra decadenza? Della criminalità nelle nostre strade? Delle infrastrutture che vanno giù con uno sbuffo di vento? Delle verdure velenose che consumiamo ogni giorno e che ci fanno ammalare di tumore? Del razzismo da quattro soldi che infesta il nostro quotidiano? Della nostra TV sguaiata e senza alcun contenuto? Del fatto che ci picchiamo negli stadi ma non per farci ridare indietro il futuro? Di come maltrattiamo le opere e i monumenti più importanti della storia dell’uomo? Di come stiamo diventando tristi, arrabbiati e insofferenti senza avere il coraggio di ammettere le nostre responsabilità? Delle organizzazioni criminali che tengono in ostaggio il paese intero? Della corruzione della politica a tutti i livelli? Della nostra cultura da social network pericolosa e deleteria? Dello stato delle nostre tecnologie? Dei raggiri delle nostre banche?

Vi basterebbero solo questi estratti per convincervi a fare un salto con Andrea Pasquale in Cina. E non soltanto per comprendere meglio il nostro ex bel paese, o quel paese cosi contradditorio che è il sol levante, ma voi stessi:

Viaggiare e guardare le vite degli altri è un buon modo per metterci davanti a uno specchio, e intendo tutti noi:

E cosa aiuta a guardare dentro noi stessi?

Ve lo svela un uomo che non ha scritto soltanto un libro umoristico, intrigante scorrevole e ricco di colori, ma un vero filosofo:

 

Pur trovandole strane e ridendone bonariamente, esse sono la ragione stessa per cui continuo a viaggiare. Mi ha sempre annoiato la compagnia di chi mi dà solo ragione, così come non mi è mai interessata una vita in cui tutto vada secondo piani e convenzioni prestabiliti. Non esagero quando dico che vivere la diversità e vedere cose nuove è la mia personalissima forma di sentirmi vivo e finanche di pregare. Portatemi a vedere un panorama inaspettato e le meraviglie del mondo, oppure fatemi avvicinare a gente che contraddice ogni mio credo, e in quel frangente per me sarà come connettermi al Big Bossin persona.

Ecco cosa ci manca davvero oggi. La fantasia e la capacità di sognare per potere esplorare orizzonti nuovi e realizzare la nostra leggenda personale. ci manca l’altro come confronto, troppo chiusi nelle nostre comode idee. Ci manca la voglia di mettere in discussione, la follia di rompere tutto, di distruggere sapendo che si può costruire. La capacità di salire su un’altezza facendosi beffe del senso di vertigini e comprendere la vastità di un universo davanti al quale noi siamo e resteremo piccoli granelli di sabbia:

È sempre necessario partire?

È sempre necessario sapere quando si conclude una tappa della vita. Se tu insisti a rimanere in quella stessa tappa oltre il necessario, perdi la gioia e il significato di tutto il resto. E rischi di essere rimproverato da Dio.”

Paolo Cohelo

Solo un rimprovero Pasquale. Le lacrime che mi sono scese leggendoti e ridendo fino alle lacrime mi hanno fatto venire le rughe. Sono stata presa per pazza anche dal mio gatto, quando di notte ridevo da sola come una scema.

Non si fa eh.

Un libro indimenticabile che strappa un sorriso ma stimola anche il pensiero. E oramai il sapere, pensare per me equivale a esistere. Anzi non per me. L’ho rubata dal buon vecchio Cartesio.