“Ho vinto il festival di Sanremo” di Marco Rettani e Nico Donvito, La Bussola. A cura di Barbara Anderson

Non neghiamolo.

A noi italiani piace parlare di tutto, piace discutere e fare polemica; ci siamo lamentati del Natale, del Capodanno seppur ci siamo fatti prendere dall’entusiasmo e dall’euforia delle festività, dei regali, delle tavole imbandite. 

Siamo stanchi? 

Ci siamo già ripresi dal tran tran delle festività?

Ovviamente no.

Siamo ancora tutti un po’ storditi e intorpiditi dalle riunioni familiari, dal coma etilico e dalla quantità industriale di cibo che abbiamo mangiato per tradizione. 

E adesso?

E adesso si parla del Festival di Sanremo.

Puntuale come un orologio dal 1951 il festival della canzone italiana entra prepotente nelle nostre case con anticipazioni, con i big, con i giovani, con gli ospiti e con i suoi presentatori. 

Gli italiani si dividono in 4 categorie per quello che riguarda il festival:

Chi lo vede

Chi non lo vedrà nemmeno sotto tortura come se si trattasse quasi di una posizione politica

Chi fingerà di non vederlo ma poi non si perderà una serata

Chi non lo vedrà ma farà di tutto per criticarlo

Tra amore e odio a breve inizierà l’attività più amata dagli italiani: la polemica

Nel 1964 una Gigliola Cinquetti ancora in erba vinceva il Festival con la canzone: “Non ho l’Età

Non aveva l’età per amarlo, per uscire sola con lui…

Oggi nel 2024 io ho l’età invece per parlarne; di chi?

Ma ovviamente del Festival di Sanremo visto e considerato che ci son cresciuta, che ci ho riso, che ci ho pianto, che quelle canzoni hanno accompagnato i momenti più belli, più felici, più divertenti e tristi della mia vita.

Il festival della canzone italiana segna un percorso storico e sociale ma anche personale di chi lo guarda, di chi non lo guarda ma poi ne canterà comunque tutte le canzoni.

Facendo un excursus nel tempio dei ricordi per quello che la memoria mi possa aiutare, nel 1977 Homo sapiens vince con la canzone: Bella da morire.

Presentatore il grande Mike Bongiorno.

Nel 1978 i Matia Bazar con:e dirsi ciao

Nel 1985 i Ricchi e poveri con: se m’innamoro

Nel 1996 Ron e Tosca con: vorrei

Salto astro temporale nel 2023 con due vite di Mengoni.

Sapete la cosa allucinante qual è?

Che per ogni anno di Sanremo che è stato trasmesso io le canzoni le so tutte, ma tutte tutte, nessuna esclusa persino quelle che cantava mia madre. 

Il festival ci segna, ci fa sentire di appartenere a una cultura, a un popolo e per chi come me vive all’estero questa appartenenza diventa un patrimonio necessario per farmi sentire ancora legata con un cordone ombelicale fatto di musica e parole al mio paese natale. 

Alle mie origini.

Quando mi è stata proposta questa lettura ho sorriso perché era un po’ come se la stessi aspettando. 

Come se in cuor mio sentissi che questo momento sarebbe prima o poi arrivato.

Chi legge tanti libri sa che prima o poi qualche libro parlerà anche un po’ di lei.

E i libri questo fanno, ci ricordano la nostra storia attraverso le loro storie.

Questo romanzo ci mostra il festival visto dagli occhi di chi lo ha vinto ma che fa rivivere tanti momenti piacevoli a chi il festival non lo ha vinto ma come me lo ha visto.

Il festival della canzone italiana si tiene a Sanremo, la bellissima città dei fiori dal 1951.

Vi partecipano concorrenti, ospiti, direttori d’orchestra più famosi e unici della musica italiana.

Rappresenta non una manifestazione frivola e leggera ma uno spaccato dell’Italia.

Iniziata come manifestazione canora subito dopo la guerra ci mostra la forza e il potere dell’evasione del dopoguerra: un’Italia che si affaccia alla modernità.

Attraverso la diretta in Eurovisione, divi, stelle, dischi, tormentoni, scandali, polemiche perché come diceva il grande Pippo Baudo: “se il festival non crea polemica, allora il festival non lo hai fatto bene”.

Il festival è la componente del DNA della cultura italiana, passano gli anni e si modifica, cambia adattandosi alla società e al tempo. Ai periodi storici e al linguaggio che anch’esso cambia e si modifica in base all’andamento delle nuove generazioni.

Da Grazie dei fiori allaTerra promessadi Eros, al Non voglio mica la Luna, all’Italia sì Italia no, all’Italiano vero di Cotugno, alle lacrime con Perdere l’amore con cui si sono straziate tutte le coppie lasciate e abbandonate. 

Le canzoni sono fatte di parole e le parole attraverso la musica ci raccontano le emozioni ma anche la storia.

Ascoltando una canzone si attivano modificazioni chimiche nel nostro cervello che favoriscono la produzione di endorfine e di dopamina (ormoni responsabili della felicità).

La canzone ha un enorme potere evocativo; ci permette quella che si chiamaimmedesimazione nel testo. 

Alcune canzoni ci fanno stare bene, ci mettono allegria, ci rendono malinconici, ci danno coraggio, ci mettono tristezza, si trasmette un pensiero, si fa anche una denuncia sociale, ci si ribella, si comunica, si trasmette.

La cosa più bella che fa il festival è quella di mettere insieme generazioni diverse, tenendole incollate agli schermi: giovani e vecchi una sfida difficile e complessa che è nelle mani degli artisti ma anche e soprattutto del direttore artistico del Festival.

Proprio poco fa è stato annunciato il direttore artistico del prossimo festival, confermando Amadeus: un presentatore che agli inizi guardavo con diffidenza e che invece oggi considero degno successore di Mike Bongiorno e di Pippo Baudo.

Un uomo che sa fare spettacolo, che sa tenere spettacolo, che sa far sorridere e che riesce a mantenere integri gli equilibri quando questi equilibri vacillano. Ricordiamoci l’episodio tra Bugo e Morgan.

Questa lettura mi ha fatto fare un viaggio nel tempo a ritroso, facendomi vedere i dietro le quinte del festival; ma anche il dietro le emozioni dei vincitori,alcuni dei vincitori più importanti che hanno segnato la storia del festival.

Si inizia dalla bellissima prefazione di Amadeus dove questo ci mostra come il sogno di una vita diventa realtà.

Per una come me per la quale il festival era stato da sempre Pippo Baudo sentire le emozioni di Amadeus e la sua forza ha aperto una finestra nuova su un mondo che conoscevo da spettatrice.

Il direttore artistico che si assume la responsabilità di uno spettacolo così importante per il nostro Paese è qualcosa di bello, di sano, qualcosa che ti fa sentire libero.

Confesso personalmente che per un periodo di tempo non ho visto il festival vivendo all’estero, i collegamenti complessi, il lavoro, ma ammetto di avere sempre seguito e cercato di recuperare guardando video on line, le parti salienti dei vari festival che non ho seguito in diretta. Conoscendo tutte le canzoni, cantandole.

Ricordo quella sensazione, quel tuffo al cuore quando Diodato cantavae fai rumore. Il momento in cui in un gesto che ricorda Domenico Modugno a braccia aperte canta, urla un’emozione che fa un rumore immenso.

Lì ho sentito un tuffo al cuore, i brividi intensi di una forte emozione.

Le canzoni sono come i libri, catalizzano emozioni e ce le trasmettono con potenza, con forza, senza chiedere permesso, sfondano le porte delle nostre emozioni.

Chi canta al festival si mette in gioco e si mette anche in discussione. Si assume delle responsabilità e accetta dei rischi.

E seppure la canzone italiana sta cambiando il linguaggio, quei sentimenti di base dell’essere umano restano intatti.

Le emozioni sono le stesse e con gli anni si amplificano e fanno anche più male e più bene secondo le circostanze, secondo il valore che diamo alle parole.

L’anno scorso ricordo ero nel mio letto. Collegata via streaming al festival che non seguivo da anni. Contemporaneamente al telefono in chat con le mie amiche più strette Eleonora, Jessica, Alessandra, commentando e facendo battute sui vari ospiti, sui concorrenti, sui presentatori, sugli abiti e lontana da casa mi sono sentita a casa, mi sono sentita parte di un progetto fatto di emozioni condivise ed è stato forse il festival più bello che io abbia mai seguito. Perché non ero lontana e non ero sola.

Perché Sanremo è Sanremo e perché fin da bambina amavo Beppe Vessicchio che mi ricordava un po’ Babbo Natale. 

Il festival rappresenta il cambiamento e l’evoluzione senza mai staccare le sue radici dal passato, è qualcosa di bello che va avanti riuscendo a farti fare qualche passo anche indietro.

Un libro piacevole, interessante, scritto in maniera leggera ma profonda e sincera.

Mi fa strano pensare che io ero una di quelle ragazzine che cantava: Siamoi ragazzi di oggi e oggi invece non sono più una ragazza ma una big. Una big fan della musica, della canzone del suo Paese, delle parole, dell’armonia, della bellezza artistica e delle emozioni.

Il tempo passa inesorabile ma la musica quella bella, quella buona resta.

Buona lettura, complimenti agli autori per averci dato e regalato una fetta del festival di Sanremo attraverso sapori nuovi, grazie a chi il festival lo vedrà, a chi lo aspetta, a chi non vede l’ora di criticare ma grazie soprattutto a chi fa della musica la sua vita e la sua passione.

Grazie a tutte le Emozioni che ci avete fatto provare attraverso la forza e il potere di una canzone.

Prima dal salone delle feste del Casinò di Sanremo e dal 1977 dal teatro Ariston di Sanremo e oggi tra le pagine di un libro scritto con rinnovata passione.

Come disse Pier Paolo Pasolini: “è cominciato ed è finito il festival di Sanremo. Le città erano deserte; tutti gli italiani erano raccolti intorno ai loro televisori. Il festival di Sanremo e le sue “canzonette” sono qualcosa che deturpa irrimediabilmente una società”

La sua disapprovazione non era una forma di snobismo ma spingeva verso una volontà gramsciana; verso il concetto di egemonia secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici intellettuali e morali alla società con l’obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi e soprattutto quelle subalterne.

Il festival non è solo canzonette il festival è politica, cultura, società, religione, è un potere di cui spesso ignoriamo la forza.

Bellissima lettura.

“Come farsi addomesticare dal proprio gatto” di Andrea Mancino, DeA. A cura di Alessandra Micheli

Quando il mio perfido fratello mi chiama “Vecchia gattara” io mi offendo moltissimo. So che non lo dice con cattiveria (del resto io lo appello in maniera peggiore da anomalia terrestre a pista di pattinaggio per pidocchi in pensione) ma è un termine che nella mia mente richiama una serie di grottesche vignette, di single, anzi zitelle che compensano la loro mancanza con l‘amore esagerato per i felini.

E io sinceramente non credo di amare tutti i felini, ma soltanto il mio.

Eppure..

Nonostante le implicazioni pessime che il termine sembra contenere, il mio sciogliermi davanti a ogni batuffolo di pelo, il mio essere affascinata dalla loro somma eleganza, il mio essere attratta dal loro mistero, forse, sottolineo forse, significa che io sono se non una “gattara una suddita di queste divinità che sembrano davvero provenire da un altro universo.

Altrimenti non si spiega come un solo sguardo, un solo fluido movimento della coda, ci riduce a pappamolle, a delle sottospecie di Sogghot di bassa lega, adoranti di fronte a questi spettacoli della natura.

Loro, assisi su un morbido trono fatto di morbidi cuscini, con quel cipiglio orgoglioso e austero, degno soltanto di divinità irraggiungibili, ci onorano con l’alto compito di servirli, lodarli e cantare loro inni in una lingua assurda e molto più complicata di quella dei Grandi antichi.

Canzoncine stonate, litanie ripetute come un un mantra, sotto una specie di incantesimo e noi restiamo rapiti di fronte alla bellezza trascendente di queste perfette creature.

Si, sono gattara.

Si sono totalmente nelle loro mani.

E quando uno di questi perfidi alieni si struscia e mi mostra la pancia, mi sento al pari di Mosè quando ha ricevuto le tavole della legge.

Prescelta tipo.

Perché è questa la magia dei gatti.

Cosi distanti, apparentemente immuni alle emozioni, riescono con un occhiata languida e qualcosa che assomiglia all’amore puro, a sciogliere anche un cuore di ghiaccio.

Tipo il mio.

Che sono notoriamente una persona appellata in vari modi, e anafettiva è il meno peggio.

In fondo, forse mi assomigliano molto.

Io cosi gelosa della mia solitudine, capace di difendere quella torre d’avorio in cui mi richiudo, con le unghie e con i denti, peggio di un Orlando furioso, divento completamente una pallottola di pelo adorabile se qualcuno conquista la mia fiducia. Ok, non esageriamo.

Magari non una pallottola di pelo adorabile, altrimenti sentirete la Anderson ridere fino a sentirsi male, ma almeno meno carogna del solito.

Perché il gatto, cosi morbido, cosi tenero, in fondo non si trasforma: canaglia era e canaglia rimane, ma con una sorta di concessione verso il suo umano preferito.

Ti ama, te lo dimostra, ma una graffio a tradimento lo lascia.

Del resto siamo pronti a donarvi tutto noi stessi ma fino a una certa.

Non esageriamo, troppa bontà noce alla salute.

La nostra.

E questo identificarmi con il gatto che mi porta a volerlo conoscere, scoprire, come se una volta compreso il suo mistero, riuscissi a rendere ineleggibile quel mio io che, ve lo giuro, a volte sfugge anche alla mai comprensione.

Non mi capisco bene anche io, figuriamoci gli altri.

E vivo bene con questo mio sfaccettato essere, che sembra dotato di mille personalità totalmente indipendenti una dall’altra, che però vivono in armonia tra loro.

Un condominio in pratica.

Ma Ferdi, il mio psicanalista ( anche se lui non lo sa) afferma che finché non sento le vocine va tutto bene.

E ora chi glielo dice che le vocine le sento…eccome se le sento?

In questo mio cacofonico essere, è il mio gatto, il perfido Rydy a capirmi perfettamente. Mentre il resto dei terrestri non sa come prendermi, fa corsi di psicanalisi per approcciarsi a me, è terrorizzato persino dal dirmi ovvietà e verità, per Rudy io non sono un granché di problema.

Sono goffa, almeno a parer suo che è agile nonostante i suoi centordici chili ( mentre io mi taglio anche con le forbici arrotondate dei bambini).

Accetta ogni mio sclero, inclinando la testa come a voler dire ma chi te lo fa fare. Prende con normalità anche i miei improvvisati hobbie ( l’ultimo lo adora visto che mentre taglio con precisione maniacale strisce di carta per lo scrapbooking, lui si prepara alla caccia alla carta cosi perfettamente preparata da me).

Accetta persino i miei momenti no, quando tutto il mondo diventa nero, cupo e io mi sento dannatamente incompresa.

E’ lui che mi toglie dai miei magoni ( sempre giustificati tra parentesi) diventato una buffo giocoliere.

Allora capisco che, più passano gli anni e più quel mio condominio di personalità, che guardavo malissimo perché gli altri mi facevano comprendere che ero eccessivamente diversa (la diversità va bene a grammi, che faccio signora lascio o fa niente?) mi diventa familiare, fino a che non considero quasi una casa quel mio sostare nell’interno di me. Perché il gatto in fondo è uguale a noi strani.

Nonostante sia abitudinario è dannatamente curioso e le novità non lo terrorizzano più di tanto.

Convive benissimo con tanti lati di quella sua personalità che cambia repentinamente. Non si fa problemi a essere in un momento il coccoloso è più coccoloso del mondo e un secondo dopo una piccola iena posseduta.

E’ lui.

E si piace cosi com’è.

E allora anche io ho iniziato a pensare che forse, ma forse, non sono io il problema.

Ma sono gli schemi, i pregiudizi, gli stereotipi e la paura del nuovo a crearmi problemi. Che forse non sono i sbagliata ma è sbagliato il contesto in cui insisto a inserirmi.

Ecco che il gatto, che ho pensato di addomesticare più e più di una volta, ha semplicemente cambiato me.

Mi ha mostrato l’altra parte del mondo, quella misteriosa, quella impossibile da rendere inteleggibile, quella che ho visitato nei miei sogni e chiamato Altrove.

Ecco se in queste parole vi siete riconosciuti, questo libro è per voi.

Voi gattari.

Voi che vi sentire sperduti.

Voi che avete un condominio di personalità con cui far amicizia.

Voi che siete curiosi di conoscere, comprendere e riscoprire.

Forse non tutti hanno un angelo con i baffi.

Ma tutti hanno il sogno di essere liberi di esprimesri senza timori, senza paura, senza turbare le altrui aspettative.

E poi ci sei tu amante dei felini.

Che li adori ma non riesci a comprenderli.

In questo libro farai un po’ di chiarezza.

E imparerai il segreto del vivere con il gatto: quello dell’amore.

L’amore vero, maturo, quello che dovrai conquistare ogni fottutissimo giorno.

Ma in quel viaggio, non troverai soltanto gioia e giovamento.

Ma anche la chiava per capire dentro di te.

Perché l’amore, quello che è celebrato dai poeti, non è cieco.

Ci vede benissimo.

Pure troppo.

Allora miao!

Ops, volevo dire buona lettura.

“La tele a Torino”, Aldo Dalla Vecchia, Buendia Books. A cura di Barbara Anderson

Signori e Signore Buonasera.

Oggi la mia recensione inizia proprio così, come gli annunci sui programmi televisivi delle famosissime Signorine Buonasera, ve le ricordate?

Erano sedute, i capelli acconciati perfettamente, un trucco delicato, un sorriso smagliante, sempre vestite in maniera sobria ed elegante, ci guardavano negli occhi rassicuranti, diventavano quasi parte della famiglia, io le ricordo come se fosse ieri e invece pensate un po’… 

La televisione italiana a breve compirà 70 anni.

Ohi ragazzi calma, calma ho un’età ma a 70 ancora non ci sono arrivata; quindi non fate i conti senza l’oste che sono ancora giovincella o quasi.

Però confesso, ricordo la mia prima televisione in casa, era in bianco e nero, un tubo catodico grande come un’automobile, lo schermo piccolo, dai bordi spessi, neri, il bottone dei canali (3) e i due dei volumi. 

Nessun telecomando perché in casa mia il telecomando ero io, che avevo all’incirca 6 anni ed ero stata addestrata al cambio canale e alla modulazione del volume.

Quando mio padre tornò anni dopo a casa con la televisione a colori mi sono sentita come quella pubblicità famosa che diceva: potremmo stupirvi con effetti speciali e colori ultra vivaci, ma noi siamo scienza non fantascienza, noi siamo Telefunken!

Ah la scienza! Quanti progressi ha fatto la nostra televisione?

Da una specie di termosifone gigantesco a schermi sempre più piatti dai colori sempre più nitidi, dalle immagini tridimensionali, ai programmi sempre più di intrattenimento… e pensare che tutto cominciò effettivamente con la radio. `

Ci riflettete mai sul fatto che la prima televisione veniva considerata radiovisione? La tv ha il potere di istruire e comunicare attraverso l’immagine unita alle parole e al suono, il potere di fare del bene o del male altrettanto vasto (Luigi Barmini).

Mi ricordo che la tv era la mia compagna, la mia migliore amica, la mia finestra su quello che accadeva nel mondo, era il tubo catodico che riusciva a far sedere tutta la famiglia davanti a quello schermo per poter vedere e divertirsi insieme: tv, film, spettacoli.

Ricordo Portobello, La Corrida, Lascia o raddoppia, Domenica In, ricordo i film di Bud Spencer e Terence Hill, ricordo il film Bulli, pupi e marinai, ricordo i film di Totò, ricordo i western di John Wayne…

Ricordo le risate con la famiglia, ricordo i pomeriggi seduta a guardare Bim Bum Bam con Paolo Bonolis allora giovanissimo; mentre mamma mi portava le fette biscottate con la nutella.

La televisione mi ricorda il calore della casa, della famiglia, mi ricorda la bellezza della comunicazione e dell’intrattenimento.

E a breve, esattamente il 3 gennaio del 2024 la televisione italiana compirà ben 70 anni.

Pensate a quanti cambiamenti da quel giorno. Fu proprio Mike Bongiorno che fece la prima trasmissione televisiva e da allora la tv ha contribuito a informare, condizionare i consumi, suggerire le opinioni politiche e culturali della popolazione globale.

Abbiamo assistito alla trasformazione delle trasmissioni da quelle a colori all’attuale digitale. Seppur ad oggi in combutta con il grande rivale che è internet, la televisione resta ancora parte integrante della nostra quotidianità.

E pensate un po’ la Anderson non solo la televisione la guardava, ma l’ha anche vista al di là del tubo catodico.

Io da giovane ho partecipato a dieci puntate di un programma televisivo, sono stata dietro le quinte, dietro le telecamere, ho vissuto quell’ambiente dalla programmazione dello show, alla realizzazione, al trucco, ai costumi… ho avuto la fortuna di partecipare a trasmissioni televisive da Domenica In come ospite insieme alle mie allora colleghe allieve infermiere, al Maurizio Costanzo Show, al programma di Corrado Tedeschi…

Pensate che avevo fatto i provini per entrare a Zelig ma l’attività televisiva non coincideva con i miei impegni professionali e scelsi la mia passione per la scienza della medicina piuttosto che quella della televisione.

Pertanto leggere questo libro è stato per me un tuffo nella memoria, nei ricordi, ho incontrato persone e personaggi che ho avuto la fortuna di conoscere di persona o anche virtualmente da spettatrice.

L’autore ci fa fare un excursus davvero bello all’interno dei piemontesi che hanno fatto la tele, quella che oggi ancora guardiamo, nonostante l’avvento di Netflix, di Sky, di Disney Channel, di Prime… la tv ha fatto storia e ha seguito un percorso storico evolutivo rapido e affascinante.

Con brevi capitoli l’autore ci mostra la preistoria sabaudia della tv, raccontandoci i primi esperimenti iniziali di trasmissioni.

Un dizionario di 83 piemontesi che hanno lavorato davanti e dietro le telecamere, che hanno contribuito al successo della televisione.

Piccolo schermo, grandi Signori. Dalle piacevolissime interviste a Raffaella Carrà e ad altri personaggi importanti. 

Ci porta poi all’interno del museo Rai facendoci vedere quanto forte è il legame tra la tv e la città di Torino fino a un piacevolissimo racconto finale.

Era il 1932 quando Mussolini in visita al palazzo dell’Elettricità di Torino si fece inquadrare dalle telecamere della Eiar la quale gli promise che entro 10 anni la tv sarebbe divenuta accessibile a tutti.

Le torri di ferro alte 80 metri collegate con fasci di linee telefoniche di 6 km all’uditorio operante nel palazzo della Sip, da dove nasceva la radiovisione.

L’arrivo della guerra mise in pausa il meraviglioso progetto che riprese poi alla fine della guerra stessa.

Se dovessi nominare un programma televisivo che ricordo e che mi ha dato tantissimo nominerei il primo in assoluto che fu il Mondo di Quark con il grande Piero Angela, autorevole e preparato alla diffusione scientifica, dalla personalità affascinante calma, pacata, un uomo intelligente che sapeva far innamorare della scienza, della natura, degli animali.

Ovviamente ricordo anche tutti i personaggi che l’autore di questa piacevolissima lettura nomina all’interno delle sue pagine ricche di informazioni, di chicche storiche: ricordo i primi talk show, ricordo le show girl, i ballerini, Carramba che sorpresa fino al primo Grande Fratello con Taricone. Proprio ieri sera stavo guardando un nuovo reality che si chiama the squid game challenge (per chi ha visto la serie tv una serie di giochi in cui chi perde muore e chi resta vivo, alla fine uno solo, vince un montepremi milionario) ovviamente qui oggi non muore nessuno ma il gioco ci mostra strategie, inganni, personalità individuali, ci mostra cosa si è disposti a fare per denaro, per amicizia, un esperimento sociale ancora puro, non condizionato dalle volontà ormai manipolatrici degli autori di molti reality show che per far spettacolo creano dinamiche forzate.

Perché leggere questo libro? Perché ci fa sorridere, ci fa ricordare, ci fa scoprire quanti personaggi sono entrati nella nostra vita facendone parte senza che ce ne rendiamo nemmeno conto davvero.

Viene la voglia di far visita al museo della radio e della televisione dove regna la multi sensorialità, dove si abbraccia il presente, si valorizza il passato, ci si apre al futuro.

La televisione arriverà a sorprenderci in futuro con ologrammi, intelligenza artificiale, la possibilità di poter aggiungere un’esperienza olfattiva a quella visiva e uditiva ma cerchiamo di non dimenticare tutti coloro che ci hanno portato dove ci troviamo oggi, ancora affascinati e stupiti davanti a uno schermo che sia piatto che sia tridimensionale che sia una proiezione laser. C’è stato un tempo in cui tutto iniziò proprio in una delle città più belle del Piemonte.

Immaginate ora il carosello che chiude le trasmissioni e anche questa mia recensione.

Ringrazio l’autore che mi ha fatto sentire veramente vecchia (scherzo ovviamente, ma mi ha fatto fare un tuffo profondo nei ricordi) e la casa editrice per avermi dato la possibilità di leggere questo libro e come sempre ringrazio Les Fleurs du Mal che mi da la possibilità di vivere passato, presente, futuro e fantasia attraverso tutte le letture che mi propone di leggere e recensire.

“La nostra storia. Tutto il mondo di Happy Days” di Giuseppe Ganelli e Emilio Targia, Minerva edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Happy Days ha davvero cambiato la storia delle fiction.

Anzi ha fatto di più, ha letteralmente trasceso la realtà stessa, cristallizzando l’ideale in qualcosa di eterno.

E cosa ha mai reso immortale?

Il sogno di ogni uomo, il punto di partenza di ogni idea politica e di stato: l’età dell’oro.

Ogni compagine umana ha, infatti, avuto come punto di inizio di ogni filosofia atta a spiegare l’origine e l’utilità dello stato un ipotetico periodo di eden, graziosa concessione di qualche benevola entità astrale.

E’ la famigerata età dell’oro, che di volta in volta viene raccontata secondo il proprio paradigma ontologico.

Come un periodo di meraviglie e di prosperità.

O come un cupo ricordo da sorpassare con il progresso della scienza, della tecnologia e del pensiero.

E cosi, da Hobbes a Locke l’età mitica viene usata per rendere accettabile il nostro oggi, e al tempo stesso per spiegare le scelte compiute e intraprese dall’umanità.

Anche noi, noi uomini del post moderno, in quest’era di complessità e di sfumature sempre più evanescenti, abbiamo quanto mai bisogno di un riferimento ideale, di una bellezza da rendere imperitura.

Happy Days e i meravigliosi anni cinquanta sono per noi, oggi, e cosi come ieri proprio quel punto di stallo.

Uno stallo che ci fa rimpiangere qualcosa di non reale ne tangibile, in quanto nessun periodo storico può essere davvero definito senza antri bui.

Ma anche capace di ricordarci, se pur nella fallacia dell’agiografica ricostruzione pseudostorica, quei valori che, il post moderno e il cosiddetto progresso ci fa mettere da parte.

In Happy Days si celebravano, pertanto, rimpianti, valori condivisi ma al tempo stesso messi nel cassetto della memoria e persino afflati di bellezza assoluta.

La moda per esempio con quell’idea di eleganza che oggi un po’ ci sfugge.

La musica con quella carica di erotismo e di energia che ci fece in fondo riscoprire il corpo.

E persino la gioventù cosi netta e divisa in settori complementari e interdipendenti: per ogni bravo ragazzo, per ogni Ritchie serviva forse un Fonzie.

Ma la serie TV, cosi amata persino da me miei lettori che resto un po’. Avulsa all’idealizzazione, ha anche avuto il pregio di ricordarci come in ogni contrapposizione netta esiste sempre il confine del grigio.

E cosi Fonzie divenne sempre più il bravo ragazzo, mentre il nostro buon Ritchie tentava di osare una sorta di ribellione accennata.

Questo saggio, finchè, non spiega soltanto il perché Happy Days fu un successo cosi clamoroso capace di superare persino il tempo e le nostre insane passioni moderne, ma persino svela curiosità, aneddoti e lo racconta proprio dall’interno.

Facendoci forse, amare ancora di più questo mondo incantato, ma al tempo stesso parte di una cultura, pop, che oggi è davvero privata del suo autentico valore artistico.

Happy Days resta quindi nei cuori, ma anche esempio di come, a volte la TV e le serie non siano solo diletto e divertimento, ma strumenti di indagine sociologica che in fondo possono abilmente raccontare molto di noi.

“Io sono Darty” di Chiara Vergani, Bre editore. A cura di Alessandra Micheli

Che il cane sia il migliore amico dell’uomo è fatto universalmente appurato. Fedele, completamente innamorato del suo padrone luce e unico senso della sua esistenza.

Sappiamo quando i nostri amici a quattro zampe siano stati rivalutati in questi terribili anni, di ansie e di orrori.

Loro sempre li a coccolarci e a sostenerci chiedendo in cambio null’altro che una carezza.

Lo so, i cani sono animale davvero meravigliosi.

Omaggiati dai libri e persino dai film, dai cartoon che ne fanno delizie capaci di accompagnare la nostra infanzia.

Come non amare la dolce Lilly?

E cosa dire di Balto?

Insomma il cane è il cane.

Ma, permettetemi un ma.

Esiste un altro adorabile batuffolo di pelo che è entrato millenni fa con eleganza e sussiego nelle nostre case.

E che forse non è davvero compreso apprezzato e lodato come il suo fratello canino.

E’ signori miei, il gatto.

Eh si proprio quel nobile parente, alla lontana, dei grandi felici carnivori, eleganti e letali.

Un batuffolo di pelo con espressioni troppo umane definito malvagiamente come egoista, poco affettuoso e opportunista.

Volete un capro espiatorio di ogni orribile difetto umano?

Ecco il gatto.

E nonostante il suo fascino ancora oggi, mi sento dire “ ma come fai a amarlo cosi tanto? Mica ti da l’amore incondizionato di un cane!”

E io che convivo da oramai ben nove anni con il mio regale Rudy non posso che dare loro ragione.

Ebbene si miei amati lettori, il mio gatto, ma sospetto il gatto in genere, non fornisce amore incondizionato.

Nossignori.

Lui ogni giorno, ogni mattina ti sceglie.

Ti mette alla prova se ancora sei degno della sua attenzione, del suo amore e del suo rispetto.

Ti ama, ti ama parecchio ma sempre a patto che tu impari a rispettarlo, osservarlo con meraviglia e a non darlo mai per scontato.

Perché per il gatto il sacrificio vero quello che rende un amore maturo non è nell’immolarsi per l’oggetto dei suoi desideri.

Ma è il porsi in un rapporto paritario con te e chiederti ogni giorno di dimostrarlo quell’amore.

Di renderti degno di tutto quell’affetto.

Una faticaccia sapete?

Ma sono convinta che i veri rapporti, quelli belli sono fatti cosi.

Ci si sceglie ogni giorno.

Ogni giorno si imparano nuove cose e si impara, soprattutto, il rispetto per quei lati nuovi del carattere, che non ci piacciono e che sono cosi differenti da noi.

E in questo libro su questo meraviglioso impavido felino sa raccontarlo.

Molto meglio della sottoscritta che preferisce viverlo il rapporto con il suo felino, sapendo però che se nessuno vi svela quel meraviglioso mondo, che si affaccia in quegli occhi enigmatici, pochi di voi avranno l’ardire, il coraggio di provare a instaurare questo strano ma importante rapporto.

Ogni gatto è un mondo a se.

Darty non è Rudy.

Ma entrambi hanno quella stessa eleganza lieve e quella capacità tutta felina di scivolare attraverso il mondo senza far rumore.

Ma graffiando il tuo cuore affinché quella cicatrice sia il pegno d’amore di quelli che fidatevi, non svaniscono mai.

“Ogni gatto ne va matto” di Luca Giansanti, Newton Compton. A cura di Alessandra Micheli

L’amore della mia vita è adesso accanto a me.

Nel suo cestino, raggomitolato e sembra sorridere.

Ogni tanto muove le zampette e fa strani versi muovendo le sue vibrisse.

Chissà cosa sogna?

Topini o nuove colorate palline?

Ebbene si.

Nonostante io sia oramai famosa per essere la malvagia signora del blog, ho un debole assoluto per i gatti.

E i loro gommini.

E ovviamente il mio unico amore è ..un gatto.

Sinuoso e furbo, adorabile e viziato.

Difficile e complicato.

Un essere senziente con la capacità straordinaria di scegliere.

Se darmi retta o no.

Se assecondare il mio richiamo, se presentarsi, se farsi coccolare o no.

E se questo lo rende un animale strabiliante è anche molto difficile relazionasi con lui.

Troppo distante.

Affatto portato a “ubbidire”.

Molto anarchico.

Capace di farti sudare quell’amore infinito che ti dona.

E che anche se lo dona non è affatto scontato.

Anzi.

Va conquistato giorno per giorno, ogni mattina, ogni sera e ogni pomeriggio.

Avere un gatto, adottarlo o anzi farsi adottare ( perché è quello che accade con un felino) è davvero l’esperienza più completa della nostra vita.

Non riuscirai mai davvero a addestrarlo.

Non ti farei ubbidire e credo che le persone “da gatto” neanche vogliono quello.

E forse non riuscirai mai a comprendere perché se ti mostra la pancia, irresistibile tra parentesi, e un secondo dopo ti morde a sangue.

Ma non è solo difficile comprendere il suo comportamento e quindi interagire al meglio con la sua maestosità.

Ma anche curarlo, farlo felice è un esperienza che varia dall’esaltante al frustrante.

Io ho appreso per tentativi ed errori.

Dopo nove favolosi anni di osservazioni.

Ma lo ammetto avrei voluto davvero un libro simile quando il mio Rudy era un cucciolo di soli due mesi.

Vivace e assurdo.

Avrei voluto leggere questo manuale in tanti momenti di panico.

Quando è stato male ed era solo un ingestione di pelo.

La prima volta che ho dovuto assistere all’espulsione di un orrido verme.

La volta in cui tossiva cercando di espellere la palla di pelo.

Oppure il primo capodanno, quando disperata tentavo di tutto per farlo calmare con quei maledetti botti in sottofondo.

O quanto si stressò, dopo quel terribile lutto che gli causò un terribile stress, tanto da farlo grattare a sangue.

Ecco capire e comprendere l’etologia del gatto, ma anche piccoli indispensabili trucchi per convivere per avere l’esperienza migliore della vostra vita è davvero un opportunità unica.

Luca Giansanti lo spiega in modo semplice e esaustivo.

E aiuterà tutti voi a rapportarvi con quel magico pelosetto dagli occhi di giada, dallo sguardo dole e paravento.

Dal pelo morbido e dall’indubbia eleganza anche nello svegliarvi alle quattro di mattina.

Cosi senza un motivo logico.

Solo per sfotterti stupido inutile ma tanto amato umano.

“Vita da Strega. Da Bewitched alle maghette giapponesi” di Leone Locatelli, Delos digital (Fonte the nerd’s family)

E’ assolutamente impossibile parlare della strega in modo obiettivo e asettico.

Essa è troppo parte del nostro inconscio, sta nascosta nelle pieghe remote della nostra coscienza, si nutre di sogni e i sogni ci regala, anche se troppo spesso li confondiamo con gli incubi.

E essendo la regina di uno strano territorio dell’anima essa conserva tutto ciò che fa sia da nutrimento per l’anima, sia tutto ciò che rischia di distruggerla e sprofondarla nell’abisso.

Strega è il potere e dal potere arriva la contraddizione.

E’ il territorio in cui estasi e tormento si sfiorano, si mescolano e si confondono formando un irresistibile connubio.

E tutti i nomi in cui la strega è identificata, non sono altro che le forme del potere e del dissenso che l’immaginazione considerata una forma della femminilità porta con se.

E strega pertanto richiama antiche memorie di donne guerriere, di fate, di regine e di sacerdotesse tutte coloro che potevano scrivere il destino in modo diverso, che potevano incidere sulla vita divenendo protagoniste e non più comparse.

Proprio per questa carica di ribellione, di sovversivo disordine la strega è stata temuta, odiata e relegata nell’inferno più nero.

Li con i diavoli, con l’avversario minacciando continuamente il corretto svolgimento di una vita in forma gerarchia.

L’uomo probo doveva odiare la maliarda, combatterla e annichilire ogni tentativo di raccontare altre storie con il fuoco purificatore.

E cosi ogni strega è stata descritta attraverso determinati cliché sempre gli stessi, ripetuti con cosi tanta enfasi da essere oramai legittimati.

Potere femminile uguale perturbante, uguale orrore e pericolo.

Il potere femminile minaccia la società, senza fermarsi magari a pensare che la società minacciata non era l‘idea di aggregato umano regolato da leggi, quanto una precisa forma, nata in una precisa epoca storica: il patriarcato.

Film e libri hanno risentito per anni di questo condizionamento facendo diventare strega il tabù per eccellenza, mai evocarla se non a patto di terribili tormenti.

E la libertà, legata all’immaginazione doveva essere oscurata da un velo, da un muro tra il nostro io e la vita di tutti giorni.

E forse poteva arricchire il mondo solo nei sogni, quelli da non raccontare, da non nominare mai nelle ore diurne.

Per fortuna però il mondo cambia e cambiando modifica anche i valori e i paradigmi con cui la nostra percezione descrive il mondo.

E arrivarono gli anni sessanta.

E’ vero, dai telefilm tanto amati sembra quassi di esistere a un’eterna parodia di libertà.

Borghesi ficchi, grigi, fieri dalla loro totale adesione allo status quo.

Eppure questa narrazione è vera per metà.

Sappiamo bene come, quegli anni furono un totale fermento, una sorta di dialettica tra due poli opposti innovazione e conservazione.

E quale periodo migliore per proporre una diversa immagine di lei la strega?

Fu con Bewitched, nata tra il 1964 e il 1972 che assume una connotazione diversa.

Ed è questa sua forza diabolicamente e sottilmente ribelle che il saggio approfondisce, unendo all’innovazione di Bewitched anche le altre interessati narrazioni sulla femminilità ad opera delle meravigliose serie TV giapponesi ( chi si scorda della piccola Sally e di Lamù?).

Ecco che quella sitcom e i cartoon che hanno allietato la mia infanzia, divengono immagini e fotografie non solo di un epoca ma di una diversa e sfumata immagine del potere femminile e di come esso si rapportava, di periodo in periodo, con la società “patriarcale.”

Vita da strega, è straordinaria per molti aspetti. Apparentemente racconta la perdita della propria originalità di una donna magica, Samantha semplicemente per amore.

Eh si sempre il dannato sentimento che ci perseguita.

Ma attenzione.

Questa è l’apparenza diciamo essoterica della storia. Se si esamina la serie a un livello più profondo o nascosto si nota qualcosa di diverso. La stabilità che un amore “borghese” richiede è accettata solo superficialmente dalla nostra eroina.

Lei non rinnega se stessa.

Lei sceglie quali ruoli indossare.

E questa sua libertà totale, interiore più che altra la ravvediamo nel primo tabù che distrugge. Ossia la concezione che alcuni mondi siano totalmente nato tra inconciliabili. Eppure, soltanto leggendo ogni pagina ci rendiamo conto che l‘intelligenza della serie, (molto più innovativa persino della mia amata serie Charmed), è molto sottile e affatto scontata: Samanta non è l’immagine della vittoria del potere borghese sulla fantasia.

E’ il tentativo di una donna libera di decidere fuori da ogni schema e stereotipo, chi poter essere.

Fino a abbracciare con soddisfazione e originalità ogni ruolo, donna, madre, amante, dea, regina e ribelle.

Samanta è la donna capace di unire ogni diversa narrazione del femminile in una sola persona. E divenire perfettamente ciò che lei desidera. Non ciò che la genetica le impone, ciò che la società richiede e che l’uomo pretende.

Un saggio interessante e davvero illuminante. Necessario, specie oggi, in cui troppe sono le sollecitazioni a cui costantemente siamo subissati. E che a volte il doverle ascoltare o assecondare richiede il baratto della propria anima.

“Il linguaggio dell’incertezza. Attraverso la traduzione del film” di Irene La Preziosa, Aproema edizioni. A cura di Patrizia Baglioni

Il LINGUAGGIO DELL’INCERTEZZA di Irene La Preziosa si rivela un saggio molto interessante; il tema dell’incertezza si esplica attraverso tre piani; quello relativo al linguaggio come strumento di comunicazione, quello rappresentato dal film Benjamin e quello relativo all’atto della traduzione.

Partiamo da quest’ultimo.

Irene La Preziosa con questo lavoro originale ci mostra come la traslazione da una lingua all’altra preveda un’insicurezza di fondo, non sempre infatti le lingue combaciano, i modi di dire, le regole grammaticali e gli intermezzi del dialogo diretto, prevedono un’interpretazione del testo.

L’espressione linguistica risente infatti dell’ambientazione, del periodo storico e, nel caso di un film, dello stato d’animo dei protagonisti.

Per effettuare un’opera di traduzione oltre che corretta, completa, che rispetti l’intento dell’autore, è quindi necessario capire, entrare in empatia con il testo e sperimentare e l’autrice ci spiega la modalità corretta.

“Benjamin” è un film del 2018 diretto da Simon Amstell ed interpretato da Colin Morgan, distribuito nei cinema inglesi nel 2019 e mai arrivato in Italia, eppure il suo potenziale, in relazione al linguaggio dell’incertezza, è altissimo.

L’autrice traduce i dialoghi del film e i messaggi che arrivano mettono in evidenza la difficoltà di esprimersi di Benjamin, regista in crisi sia dal punto di vista professionale che personale.

Dopo il successo del suo ultimo film, Benjamin vive con apprensione l’uscita della sua nuova opera, torna continuamente sulle sue scelte e alla prima proiezione paga il prezzo della sua indecisione.

Anche dal punto di vista sentimentale Benjamin non sa moderare la sua ansia, mette continuamente in dubbio le intenzioni della coppia creando un clima di sfiducia.

Interessante a tal proposito l’analisi linguistica effettuata nel saggio dove il protagonista si esprime con frasi tronche, sospensioni frequenti e messaggi ambigui.

I dialoghi a tal proposito mancano totalmente di decisione ed equilibrio.

Benjamin inoltre, proprio a causa di questo modus operandi, si lascia trasportare da chi è più determinato e resta implicato in situazioni che lo mettono ulteriormente a disagio.

Il linguaggio dell’incertezza è esaminato in ogni sua sfumatura all’interno di una ricerca comunicativa che riporta al quotidiano.

Ogni individuo sperimenta inavvertitamente una capacità espressiva verbale e non verbale, il corpo a volte esprime più della voce, insieme le due forze di comunicazione costruiscono un’immagine definita di noi.

Questo saggio ci insegna a riconoscere la cifra dell’indecisione nell’altro e in noi stessi e di conseguenza, per antinomia, quella della fermezza e della comprensibilità.

Un lavoro interessante, scritto con linearità e linguaggio semplice, scorrevole, accessibile agli addetti ai lavori e non solo.

Perché la comunicazione riguarda tutti così come IL LINGUAGGIO DELL’INCERTEZZA.

“Labirinto Bosè” di Giovanni Verini Supplizi. A cura di Alessandra Micheli

Ci sono musiche che raccontano la nostra anima.

Istanti congelati per renderli immuni al tempo che passa feroce.

Momenti che stringiamo a noi, stretti affinché non possano mai andare via.

E restino come pietra miliare di sogni ormai lontani, fumo che sale nel cielo. Ecco per me Bosè è proprio cosi.

Una musica che oggi, mi ricorda della ragazzina che ero, sognatrice e decisa a non arrendermi mai, a non abbassare la testa.

Eppure cosi sicura che l’orizzonte fosse una meta da conquistare.

E oggi che questi sogni non sono altro che vetri infranti, capaci di ferire le mie mani che tentano di raccoglierli, sono qua a cercare di descrivere non tanto un personaggio famoso, ma un intero ethos.

Miguel è sicuramente un simbolo prima che cantante, attore e artista.

Era lui capace di narrare un istante, di quelli che non tornano più.

Istante fatto di mille colori, suoni e persino dori che lampeggiavano in quelle movenze sensuali e in quel passo da giaguaro.

Lui che tramite quella vita cosi variopinta ci regalava stelle luminose e sogni, sogni che spandeva a piene mani.

E cosi questo libro ripercorre con somma grazie un po’ tutta la sua vita, un labirinto nel quale orientarsi non è facile, ma che al tempo stesso rende il perdersi una meravigliosa avventura.

Istrionico.

Talentuoso.

Terribilmente bello con quel sorriso che sembra quasi un inno all’enigma della Monna Lisa.

Capace di immedesimarsi in ogni ruolo.

Capace di raccontare il mondo dell’arte in ogni sua strana sfaccettatura. Labirinto Bose è riscoperta per me che lo ricordo in quella canzone simbolo, di anni perduti come Bravi Ragazzi.

Ma diviene anche scoperta per quei ragazzini che oggi avvertono ogni ripetizione come la somma trasgressione ribelle di un mondo giovanile che inventa ex novo.
No miei adorati.

Nessuno dei vostri miti sta inventando.

Piuttosto omaggia qualcosa che ha segnato profondamente ognuno di noi.

Noi che tutt’oggi

Camminiamo sul filo, nel cielo
A più di cento metri dall’asfalto
Siamo un punto là in alto
Bandiere nel vento di città

Restare in piedi è quasi una magia
Tra tanti imbrogli, tanta ipocrisia
Andiamo avanti senza mai guardare giù
Tornare indietro non si può più

E in fondo, nessuno di noi nel labirinto Bosè sogna di tornare indietro.

“Infodemia” di Patrizia Gazzotti. A cura di Alessandra Micheli

Le epidemie ci mettono davanti a un dato essenziale: siamo fragili.

Per quanto molti filosofi e addirittura scienziati hanno sperato nella scoperta del secolo: l’immortalità fisica, non dell’anima.

Ma ahimè, siamo mortali.

Dannatamente mortali.

Ma a differenza di tanti altri membri del ciclo naturale e cosmico, capaci di accettare la caducità non come una condanna ma come un opportunità, siamo troppo arroganti per ammettere di aver paura.

Paura della morte, paura di avere il tatuaggio invisibile di una sorta di data di scadenza.

Ed è la superbia a tenerci equilibrati.

Noi con la nostra intelligenza e con il dono di un codice di informazione fatto di parole, regole e suoni.

E tramite quello, creiamo slogan, determiniamo la realtà, la manipoliamo e addirittura la rendiamo legittima.

Ci fa sentire un po’ come Dio.

La possibilità che la parola possa costruire, ferire o modificare persino un assetto politico è un sorso di potere a cui difficilmente rinunciamo.

Come disse il buon Pellico, la parola crea più danni di una guerra.

E questo perché veicola non solo messaggi pratici tipo ho fame, sonno, sono triste, ma una serie di valori evidenti e esoterici, che appunto il buon Pareto chiamava residui.

E sono questi, più che gli ideali scritti e tramandati a dare quel particolare ethos a ogni epoca e a ogni società.

Ethos che diventa, lo sappiamo bene, quasi una prigione rigida.

Ecco perché per i mistici di ogni tempo, il caso e l’abisso sono importanti, sono veicoli di risveglio.

Proprio perché quest’illusione di essere Dio e non parti di dio, lacrime partorite da occhi onniscienti non ci fa affatto bene.

Ci rende troppo spavaldi, troppo egoisti, troppo concentrati su noi stessi e dei bisogni fallaci che non portano certo alla salvezza.

Le pandemie, non sono solo il prodotto naturale dell’ambiente.

Ma possono diventare anche insegnati capaci di mostrarci la nostra natura non solo mortale ma anche si perfetti esempi di cibernetica, capaci cioè di trovare il proprio equilibrio attraverso aggiustamenti, modifiche e una propensione alla flessibilità, che noi dimentichiamo.

E nonostante il virus sia un insegnante severo, che arriva a dirci forse è ora di cambiare lo schema mentale, una parte di noi, del nostro io rifiuta l’evoluzione connessa con i disastri.

Li avvertiamo come perniciosi, come il male incarnato.

E cosi nell’uomo, questo strano essere convivono in lotta continua due parti diverse eppure complementari: la resistenza e la forza che va oltre, identificati spesso dai mistici come due diverse divinità.

E se vince una perde l’altra e quest’alternanza influisce su un dato essenziale: ossia la comunicazione.

Chi vive le pandemie, i disastri, ogni evento traumatico come uno sprone per abbandonare il vecchio io non ha certo bisogno di nessuna manipolazione della comunicazione atta a offuscare la realtà tramite le comode bugie.

Ma chi invece fa predominare la conservazione immobile dello status quo, cosi come di ogni percezione allora deve per forza distorcere l’informazione.

E crea un grosso danno all’intero sistema se supponiamo che Gregory Bateson avesse ragione e l’informazione non è altro che l’acquisizione di una differenza. Se quindi l’informazione, veicolata dal messaggio che è parte della comunicazione (ossia il processo con cui essa viene messa in moto) ha il senso profondo della consapevolezza che, all’interno del linguaggio avviene qualcosa che ci indica come in questo istante è una differenza a incidere su qualcosa uno stato biologico, in uno stato mentale, o un comportamento, comprenderete bene come usarla per mantenere una statica stabilità non faccia altro che mandare in tilt l’intero sistema organismo.

Pensiamoci.

Ogni volta che dobbiamo comunicare invidiamo su uno stato: le sinapsi per esempio comunicano che è avvenuta o deve avvenire una modifica.

La mia voglia di parlare con qualcuno crea una differenza rispetto all’attimo in cui io resto muto: tipo ho fame presuppone che il mio stato subisca una modifica, o inneschi la differenza con lo stato precedente.

Infodemia, dunque, ha l’obiettivo di raccontare la comunicazione in modo sano, eliminando ogni scoria possibile capace di frapporsi tra noi e il cambiamento che questo momento ci spinge a effettuare: non sempre come una perdita crudele ma appunto, come opportunità.

La pandemia ha acutizzato questo atavico senso di conservazione dell’uomo spingendolo a rifugiarsi in ogni illusione che non lo possa indurre in discussione.

Covid, vaccini, provvedimenti dello stato, tutto contribuisce a raccontare, anzi a narrare quello che accade non solo fuori ma anche dentro di noi.

E cosa emerge?

Che il senso critico è azzittito da una omologazione verso una determinata presa di posizione.

Forse a causa proprio della paura che sia del contagio o della perdita del precedente sistema di vita.

In ogni caso a guidarci non è affatto una sana curiosità quanto un ideologia paraocchi.

Ecco io credo che questo libro possa aiutarci a ritrovare un po’ di coraggio nel prendere non una posizione, ma la coscienza che siamo corpo e mente, ma soprattutto, mente.