Un gradito ritorno…La nostra boss oggi ci parla di “Una lady molto intrigante” di Sarah Ferguson, Harper Collins. A cura di Alessandra Micheli

Ma ben trovati miei amati lettori!

Eccomi tornata a voi dopo una doverosa pausa vacanziera.

No, non vi preoccupate.

Non sono stata affatto in crisi, ne priva di idee.

Ne decisa a abbandonare questo mio rigoglioso viaggio attraverso i libri. Semplicemente, la bellezza che assorbito era necessaria affinché fluisse poi da una penna troppo avvezza a non notarla più.

E se diventa invisibile ai miei occhi interiori, beh non può certo parlare attraverso la mia umile mano.

E cosi, con dita nervose che fremono per accompagnarvi in un altra tappa di questo nostro percorso letterario, eccomi a voi.

E stavolta iniziamo con delicatezza.

Vi aspettavate forse la recensione di un crudo thriller o di un perfido horror vero?

E invece no.

Dispettosetta come sono, ho deciso di regalarvi un altro tipo di esperienza, non meno entusiasmante però.

E’ un po’ come mettere alla prova non già le vostre argute sinapsi, quanto la capacità, che spero avrete appreso con noi, di andare oltre le apparenze e immergervi totalmente nella voce del libro.

Che noi del blog, forse indegnamente rappresentiamo.

Oggi siamo assieme alla mia amata Duchessa di York.

Elloso.

Ho una sfrenata ammirazione per quella rossa che è cosi allergica alle regole e all’etichetta.

Ma al tempo stesso con uno sguardo fiero che mi ricorda un po’ la protagonista di Brave.

Ecco a me le donne che sotto vestiti eleganti lasciano libera la loro coda di lupe selvatiche, mi piacciono un botto.

Ma tanto tanto.

E questo sapete cosa significa?

Che in ogni libro ci sarà un po’ di quello spirito indomito capace di risvegliare la Loba di pinkoliana memoria in noi.

E questo comporta qualcosa di davvero rivoluzionario: noi non accetteremo mai più e mai totalmente le imposizioni di nessuna, e sottolineo nessuna morale societaria.

Perché vedete, come dico sempre noi siamo sicuramente fortunate.

Oh se lo siamo.

Possiamo indossare i pantaloni senza passare per “bottane”.

Possiamo sposare chi amiamo e persino lavorare.

Possiamo votare cavolo.

E persino ambire a diventare personaggi pubblici o entrare in politica.

Ma tutta questa libertà spesso ha un costo: lasciare il nostro spirito selvaggio in un cassetto, perché ogni conquista ha un prezzo e spesso il prezzo che noi paghiamo è davvero troppo alto.

Dobbiamo rinunciare forse ai nostri sogni.

Alla spensieratezza.

Alla voglia di fare follie.

All’immaginazione senza limiti.

Dobbiamo diventare accorte, responsabili, pavide e educate.

Eh proprio cosi.

Questo prezzo, l’accettazione dei vari dogmi societari di ogni tempo, lo subiscono un po’ tutti i cittadini.

Ma mai alto come una donna.

Che e’ ancora inesorabilmente schiava di tante troppe etichette.

E allora una lady molto intrigante parla un po’ al cuore di tutti noi.

Tutte noi vorremmo scappare dal ricevimento in corso e provare a ballare su una balaustra incuranti dell’abisso la sotto.

Che tutti ci dicono che deve farci paura.

E che a volte, troppe volte, invece ci affascina.

E cosi ancora una volta la mia amata duchessa ci regala qualcosa id più di un romanzo d’amore.

Qualcosa di più profondo di un momento sognante.

Ci regala un modello.

Dissonante ancor più perché ambientato in un periodo storico dove la dissonanza veniva pagata cara.

Molto cara.

E cosi tra indagini la nostra adorabile lady diventa sempre più indipendente. Sempre più decisa a fregarsene delle convenzioni.

Sempre più libera di raccontarsi.

Persino di amare.

Ma sapete chi ama davvero Mary?

Se stessa.

E questo comporta che tutto quell’amarsi, stimarsi,imparare a conoscersi per poterlo fare, la porta addirittura a trovare…l’altra parte di se?

Oh no.

Lei è già bella completa cosi.

Semplicemente se la tua mano sa che non è solo aria ciò che stringe, ma essenza vitale, può benissimo trovare spazio persino per un altra mano.

E questo, credetemi, vale più dell’oro.

Graze Sarah.

Per ogni libro.

Per quel messaggi oche non ti stanchi mai, e sottolineo mai di ricordarci.

Noi siamo esseri discesi dal regno dei cieli.

Amati cosi tanto da una mente creatrice affamata di bellezza.

Ma cosi fallaci nello scordarci di casa nostra.

E tu, invece riesci a donarci la strada per tornare, li dove ogni persona è un dono e un miracolo.

Grazie.

“Segreti e bugie” di Brooke Blaine & Ella Frank, Triskell edizioni. A cura di Ilenia Bernardini

«Non potevo credere che tu fossi mio quella notte.» Ryder deglutì quando quegli enormi occhi azzurri incontrarono i miei. «Quella notte, stanotte, domani e anche tutte le notti successive , se mi vorrai.» Sospirai e gli accarezzai la guancia. «È una promessa importante per una persona che sta ancora decidendo il suo percorso.» Ryder appoggiò la sua mano sulla mia. «Alcuni percorsi sembrano essere predestinati.»

Inizio la recensione con una citazione di questo libro meraviglioso e vi regalo una pillola di conoscenza su di me.

Prima di abbandonare tutto, ero una fan sfegata di Grey’s Anatomy. Una frase che mi ha segnata in particolar modo (e che, se solo riuscissi a vincere la fifa blu, mi tatuerei) la recita Mark Sloan alla piccola Lexi Grey. Non puoi morire perché siamo destinati a stare insieme. We’re meant to be.

Ecco.

Questo libro mi ha ricordato quella scena.

Perché se sei fortunato, se la ruota gira nel verso giusto, il destino porta sul tuo cammino la tua persona.

Colui per cui sei certa di essere creata per amare fino alla fine dei tuoi giorni.

Sì, sembra più una minaccia, ma io sono quella che vede tutto rosa e cuori.

Non importano le differenze.

Non importa se la società non ti vuole insieme.

O se siete lontani.

Quando incontri quella persona che dà un senso alla tua esistenza, tutto si annulla. Il dolore è meno pesante da affrontare, le difficoltà sono condivise.

Il buio fa meno paura perché c’è chi allungherà la mano verso di te.

E allora veramente, a chi importa delle differenze?

Un amore vero è meno forte se provato da due persone che abitano a 300 km di distanza?

O se ci sono molti anni di differenza?

Io sarò di parte, vuoi per l’animo romantico o per vita vissuta.

Ho conosciuto mio marito per sbaglio, una richiesta su Facebook nel lontano 2009.

C’erano troppi km di distanza, eppure ci siamo trovati.

Abbiamo scoperto di completarci, di essere fatti per stare insieme.

Poi, dopo due mesi di conoscenza, abbiamo scoperto di avere dieci anni di differenza.

La me ventenne si è sentita dire che era sbagliato, che non sarebbe durata, e non avete idea di quante altre castronerie.

Quattordici anni dopo, siamo ancora qui.

Perché abbiamo creduto in quel batticuore.

In ogni singola farfalla nello stomaco.

Nei brividi e nell’eccitazione, nella voglia di sentirci vicini.

Perché quel sentirci destinati l’uno all’altra faceva sembrare facile tutto… anche quando non lo è stato.

Soprattutto quando sembrava tutto nero.

Io mi auguro che ogni persona in questo mondo possa provare, almeno una volta nella vita, quello che sto vivendo io.

Quel sentimento che lega Ash e Ryder.

Perché dona nuova linfa all’esistenza.

E spero che chiunque possa avere lo stesso coraggio, la stessa voglia di mandare al diavolo i canoni di una storia d’amore.

Bisogna buttarsi, credere in ciò che c’è nel nostro cuore.

Se così non fosse, Ash e Ryder non avrebbero avuto modo di conoscersi, di amarsi, di lottare contro i mulini a vento sul loro cammino.

A chi ama.

A chi spera di essere amato con forza.

A chi ha perso.

Questo romanzo è per tutti.

Questo libro è un inno all’amare con convinzione.

Questo libro è una carezza… e nel mondo ne servono sempre di più.

“Una lettera da Monaco” di Meg Lelvis, Vintage editore. A cura di Jessica Dichiara

Può una lettera cambiare le sorti di un’intera esistenza o anche di più esistenze?

Jack Bailey inaugura questa nuova collana Vintage War della Vintage Editore che con abile maestria prova a coniugare la piccola e la grande storia in un intreccio che spesso vediamo nei romanzi ma raramente sperimentiamo nella vita reale.

Siamo storia cari lettori, anche noi camminiamo dentro la pancia di questa Grande Madre, padrona del tempo e delle idee, maestra di vita, ci hanno insegnato. Ma un insegnante può dirsi bravo se i suoi allievi continuano a fare imperterriti gli stessi errori?

Il caporale John Bailey in servizio a Dachau, città tedesca nel Land della Baviera, a circa 20 km da Monaco, che vede il suo nome legato al primo campo di concentramento nazista, modello per tutti i campi organizzati successivamente, scrive delle lettere.

Sappiamo bene che era usanza dei soldati scrivere e che la corrispondenza era spesso l’unico modo che avevano per sopravvivere emotivamente ad un lavoro, un compito, una missione che li vede vittime e allo stesso tempo protagonisti della grande storia.

Non sempre è la scelta a determinare l’uomo e il fronte in cui ci si ritrova a nascere è spesso causa di immotivati e gravissimi errori. Quante volte me lo sono chiesta. Se fossi nata in Germania nei primi anni del ‘900, da una famiglia implicata con l’esercito. Se avessi ricevuto un’istruzione in stile “lavaggio del cervello”. Sarei stata comunque in grado di riconoscere l’orrore negli occhi e nelle menti dei miei educatori? Sarei stata capace di ribellarmi?

Alcuni lo hanno fatto è vero, ma gli altri? La maggior parte?

Se i cortili del mio quartiere fossero pieni di fiori sbocciati, di splendidi fiordalisi blu. Se mio padre fosse stato uno di quelli che ti raccontano le fiabe prima di andare a letto. Se ogni famiglia intorno a me avesse avuto cibo e vestiti a sufficienza e i bambini avessero avuto i giocattoli dei loro desideri.

Se i treni fossero arrivati in orario

Se ci fossero tanti posti di lavoro per tutti (o quasi tutti)

Pochi giorni fa discutevo e concordavo con il mio boss Alessandra Micheli sul fatto che non è la cattiveria il male dei popoli ma l’ignoranza. Ignoranza intesa come vero e proprio handicap dovuto alla carenza o alla totale assenza di conoscenza e di chiavi di lettura efficaci per interpretare in maniera sana la realtà.

Jack Bailey, figlio di John, trova una lettera datata 14 luglio 1946, una lettera che fa da ponte fra il presente di quest’uomo e un passato che ogni volta urla una musica diversa seppur ugualmente tragica.

È un romanzo storico? Forse, in parte. Quando un romanzo ha una precisa collocazione storica dovuta al tempo e al luogo è difficile non collocarlo “tra quelli che parlano della seconda guerra mondiale”. Eppure sarebbe riduttivo e anche molto secondo me.

È un romanzo che racconta di come la vita possa riscattarsi anche dopo la morte. In cui la possibilità di redenzione risiede anche nelle scelte degli altri.

Un figlio può scegliere di accettare i comportamenti di un genitore pur non comprendendoli pienamente. Oppure può rifiutarsi. O infine può provare a scavare nel passato per trovare delle risposte.

Scavare nel passato di un genitore diventa allora un modo per guadagnare o perdere tutto, una roulette davanti alla quale non possiamo fare previsioni.

Andrà bene o male per il nostro Jack? E per noi come andrà? Riusciremo a farci piacere questa chiave di lettura.

Personalmente ho amato questo romanzo in ogni sua parte. Nel capitoli brevi. Nella prosa musicale e a tratti quasi poetica. Nelle emozioni dosate. Nelle lacrime trattenute e in quelle che inevitabilmente hanno finito per bagnare la carta.

Nessuna eredità è così ricca come l’onestà

Ne sono convinta oggi più che mai dopo aver letto questa piccola perla che consiglio a ogni lettore che sia mai inciampato sul mio cammino. Vi farà male leggerlo ma farà bene alla vostra anima e di riflesso all’umanità intera.

Grazie a Vintage editore per questo piccolo gioiello che ha donato all’Italia. In questi giorni in particolare ne abbiamo proprio bisogno.

Consiglio per la lettura: se avete un portico vi consiglio di leggere all’aperto, così quando vi beccheranno con gli occhi rossi potrete dare la colpa all’allergia, al sole, al vento, a un insetto e nessuno sospetterà cosa sta succedendo dentro di voi.

“Il ribelle D’Irlanda” di Pitti Dichamp. A cura di Jessica Dichiara

Eccomi a scrivere di un romanzo lontanissimo dalla mia zona di confort e di esperienza eppure vicino a tante letture già fatte per il linguaggio storico e gli spunti sociologici che esso inevitabilmente provoca.

L’identità irlandese e i contrasti con la corona inglese non sono sullo sfondo ma animano in maniera intelligente questo romance che vuole essere uno spazio di evasione e al contempo lasciare al lettore la possibilità di parteggiare ora per uno, ora per l’altro protagonista. 

L’Irlanda è storicamente una terra di lotta e di ribelli, ma anche terra di desideri e di passioni forti, un terreno fertile su cui poggiare una storia d’amore.

Un luogo che il tempo ha modellato intorno a spazi incontaminati e inospitali, con un fortissimo sentimento identitario che rivive nelle leggende di antichi culti.

È un contesto reale quello che ci viene presentato senza paura dall’autrice che sfodera le sue abilità di ricerca per regalarci dettagli importanti che entrano di prepotenza nel sangue dei personaggi principali e non.

Sean, protagonista maschile è arrabbiato, stanco, deluso e represso, con il sangue irlandese nelle vene ma costretto ad essere inglese – sei nato irlandese Sean, ma ricorda che per avere successo nella tua vita, dovrai essere inglese ancora più degli inglesi, gli ripeteva suo padre.

Segnato dal passato e dalle rinunce che lo hanno reso fortemente contraddittorio.

Costretto a tornare in patria per gestire i propri affari confida di riuscire presto a lasciare una terra di cui sembra aver paura perché porta con sé ricordi che neanche il tempo è riuscito a cancellare.

Si sente inadeguato e fa fatica a ad ascoltare il richiamo del sangue e della terra e questa frase ricorre nei suoi incubi e nei momenti di preziosa lucidità.

Potrebbe essere causa di qualche imprecazione perché la sua caratterizzazione volutamente antipatica fa si che si debbano sopportare alcuni atteggiamenti prepotenti pur percependo sempre il sostrato della sua sensibilità.

I pensieri in questo caso, tutto ciò che in sostanza non viene detto ad alta voce, assumono un’importanza fondamentale perché ci permettono di scavare l’anima del personaggio e di comprenderne le azioni.

E poi cos’altro?

A sì, ovviamente Sean è affascinante, possessivo, travolgente e coinvolgente proprio come deve essere un protagonista romance.

Aoife, protagonista femminile, amore giovanile di Sean, è un’ogogliosa irlandese che si batte per difendere i diritti dei cattolici contro i protestanti.

Donna forte, come l’oceano e il cielo d’Irlanda, come la roccia delle scogliere e la fede, pura, libera nei pensieri e incatenata dalle emozioni, dedica la propria vita alla causa e finisce inevitabilmente per apparire cieca agli occhi di chi non può capire, ostinata, tenace e determinata a perseguire il proprio ideale.

Forse fra i due avrei preso più volte a sberle lei perché la sua ostinazione le farà compromettere le relazioni con gli altri spingendola verso situazioni che avrebbe potuto tranquillamente evitare, ma in effetti se le avesse evitate io dopo cosa avrei letto?

Insomma come accade spesso nei romance si finisce anche qui con il parlare con i personaggi, accalorarsi e deprimersi.

L’identità è ciò che divide in questo caso perché Sean se ne vergogna mentre per Aoife è motivo di orgoglio.

Lui asseconda gli inglesi, lei li combatte. Lui si conforma alle regole dei “potenti” lei le infrange tutte ripetutamente.

Entrambi testardi vi trascineranno in un vortice di passioni non solo amorose che coinvolgono ogni aspetto della loro vita.

Una storia di ribellione in cui l’energia del testo trova espressione nella musica adatta a due spiriti irrequeti, il ballo diventa qui testimonianza diretta di libertà in cui con il corpo si riesce ad esprimere il proprio assenso o il proprio dissenso.

È una trama lenta, adatta a una lettura immediata da poter fare in ogni luogo perché si riesce facilmente a trattenere l’evoluzione.

Consiglio per la lettura: una buona dose di camomilla accompagnata da biscottini ripieni di crema di mele.

“La sposa di Valleargentina” di Giovanna Barbieri, Land editore. A cura di Barbara Amarotti

La condizione delle donne è un tema controverso ancora oggi, ma come poteva essere la vita di una donna nel 1494?

Claire è la figlia di un nobile, cresciuta tra arte e lettere non conosce altro all’infuori del castello del padre.

Lei è l’incarnazione perfetta della donna “privilegiata” dell’epoca, il cui unico pensiero è di essere data in sposa a qualcuno che non sia troppo vecchio.

Una condizione che a noi può sembrare una costrizione orribile, in fondo per noi il matrimonio è d’amore, non certo d’interesse.

Ma com’era allora la vita per chi non era nobile?

Le popolane erano più fortunate, potevano evitare il matrimonio d’interesse, ma se la loro condizione non era delle migliori finivano a fare le cortigiane e no, non c’è nulla di nobile in una cortigiana del 1494.

La vita tranquilla di Claire finisce però alla morte del padre, quando il fratello ripudia lei e la madre e così la giovane si trova in una Milano sull’orlo della guerra insieme alla madre che è costretta a diventare, appunto, una cortigiana onesta.

Il destino della ragazza sembra ormai irrimediabilmente segnato da quello della madre, ma un incontro fortuito con un soldato di ventura la salverà da una simile disgrazia.

Guglielmo è il figlio bastardo di un signore di campagna, costretto dalle circostanze a entrare in una compagnia di ventura con il nome di Valleargentina.

Ho odiato Guglielmo, lo avrei preso volentieri a calci per tutta la prima parte del libro: rozzo, violento e incline alla rissa è l’esatto opposto della dolce Claire.

Ma si sa che l’amore fa miracoli e alla fine ho apprezzato la sua crescita personale.

Tuttavia, è Claire il vero fulcro del romanzo, una giovane nata e cresciuta nella bambagia che riesce a non soccombere alle difficoltà, un carattere di ferro capace di sopportare tutto pur di ricongiungersi con il suo Guglielmo quando la guerra li separa.

Un personaggio che cresce insieme alla storia, dimostrando che le donne sono forti, molto di più di quello che la loro epoca possa far pensare.

La Sposa di Valleargentina è un rosa storico, ma, soprattutto, un romanzo di formazione con personaggi moderni eppur fedeli al proprio tempo e che, grazie agli incontri di Claire, ci fa fare un ripasso sui personaggi che hanno realmente vissuto in quell’epoca.

“Silfrida, la schiava di Roma” di Isabel Greenwood, Delos digital edizioni. A cura di Alessandra Micheli

 

Quello di Isabel Greenwood è un interessante progetto che cerca di creare un armonico connubio tra due generi apparentemente distanti, il rosa (da oggi in poi userò questo termine al posto dell’anglosassone romance) e lo storico.

Sottolineo apparentemente, perché creare uno storico non significa eliminarne il lato sentimentale; amore e sesso esistono dai tempi della creazione umana, addirittura fu, secondo il libro di Enoch, uno dei responsabili della strana e straordinaria mescolanza di Angeli e umani. Fu l’amore a generare eroi che poi contribuirono alle gesta epiche, quelle su cui fu possibile in seguito impiantare i capisaldi della cosiddetta società civile.

Fu l’amore, anzi la passione, la primaria guida per le azioni di tanti uomini illustri, da Teodorico a Napoleone, da Mussolini a Peron, oppure di tanti scempi splendidamente raccontati nel saggio 101 donne più malvagie della Storia, di Stefania Bonura. E laddove la pazzia fomentava un pozzo oscuro di odi e rancori esacerbati da imitazioni dovute ai pregiudizi di un’epoca, qua in Silfrida la passione fa da cornice a eventi profondamente violenti, che cercarono con la loro metodologia priva del self control vittoriano, di dare una “sistemata” alla scacchiera variegata e caotica del mondo di Teodosio.

Un brevissimo excursus storico. Teodosio, o Flavio Teodosio,  fu imperatore romano dal 379 fino al 395 d.c. Fu l’ultimo imperatore a regnare su un impero unificato che fece del cristianesimo non soltanto la religione unica e obbligatoria ma soprattutto un collante capace di tener assieme le diverse parti. Una compagine variopinta e variegata in cui sopravvissero quegli antichi culti che sarebbero poi giunti fino a noi e condannati come diabolici.

Durante il suo regno, le regioni orientali rimasero tranquille ma i Goti (popolazione germanica con una cultura affatto barbarica), insediatisi stabilmente nei Balcani, crearono un motivo di allarme e di possibile turbamento della quieta imperiale. Una tensione che costrinse addirittura l’imperatore associato, Graziano, a rinunciare al mantenimento del controllo delle provincie illiriche passando l’arduo compito a Teodosio, che portò avanti le operazioni militari. Queste condussero, nel 382, a un trattato che li autorizzava a stanziarsi lungo il corso del Danubio, precisamente nella Tracia, e di godere di ampia autonomia. In seguito molti avrebbero militato nelle legioni romane apprendendo gli usi e i costumi e persino abbracciando la nascente religione. Alarico I, protagonista di questo romanzo, partecipò alla campagna che Teodosio condusse nel 394 contro il rivale Eugenio.

Ed è qua che si incentrano le vicende amorose di Silfrida.

Divisa tra due appartenenze, una quasi imposta (quella romana) e una da ritrovare, Silfrida ha nel DNA una certa autonomia e una sorta di mentalità che la rendono estranea. Di conseguenza possiamo dire che in questo romanzo Silfrida rappresenti la vera emigrante divisa tra la volontà di trovare la sua cultura originaria, ma piena di quegli assunti culturali in cui inevitabilmente è cresciuta. È una donna mediatrice, partecipe di entrambi gli ethos e che al tempo veniva considerato un vero abominio. Pertanto, seppur collocata in un preciso sistema ontologico, Silfrida se ne distacca, ricordandoci le splendide eroine di Marion Zimmer Bradley, in particolare Elena (madre dell’imperatore Costantino)  nella Sacerdotessa di Avalon.

La genialità dell’autrice è anche quella di sottolineare, senza interrompere una gradevole narrazione, alcuni punti focali di un epoca: il primo, individuare la grande debolezza dell’impero del tempo, ossia la pratica di arruolare contingenti tra le popolazioni barbare e farli combattere contro altri barbari spesso etnicamente e socialmente affini. Questo comportava un’ideale utilitaristico che si individuava nel cambio repentino di alleanze verso la miglior offerta, contribuendo all’instabilità politica di quel periodo storico. L’altro punto è di aver dato una definizione realistica di barbaro epurando il termine dall’antica connotazione dispregiativa.

Il termine barbaro, infatti, era la parola onomatopeica con cui gli antichi greci indicavano gli stranieri che non erano di cultura greca e non parlavano il greco. Era quindi la modalità con cui si etichettavano colore che si ponevano come estranei e dissidenti all’interno di una precisa entità sociale. Ma i barbari (Vandali, Unni Visigoti, Ostrogoti e Celtici) non erano privi di una loro cultura, anzi, la cultura in esame è oggi rivalutata, piena di interessanti concetti politici e innovativi tanto da aver ispirato il lavoro di Tacito.

Barbaro era una cultura altra, spesso incomprensibile e denigrata non per la sostanza ma per il pericolo che orde di estranei rappresentavano per una società in fermento, in cambiamento, e perché no, diretta verso la decadenza.

Leggendo il romanzo, quindi, vi troverete di fronte una storia d’amore posta in un preciso quadro storico con tutte le limitazioni e le consuetudini dell’epoca sospesa tra cultura romana e cultura autoctona. E sarà evidente, che l’onestà intellettuale dell’autrice dovrà renderla viva, attraverso scelte linguistiche (come i nomi in latino) e narrative che per nulla appesantiranno il testo.

Un ultimo dettaglio. Vi ritroverete accennata anche una critica sociale sulla condizione delle donne che, spero porterà il lettore curioso ad approfondire con un testo specializzato.

Un libro scorrevole, elegante, ben strutturato, che come i grandi testi fa rivivere il sogno e l’orrore di un’epoca spesso dimenticata e che raccogliendo l’eredità della Bradley, allieterà le giornate o le notti con uno stile impeccabile.