“Le brave ragazze muoiono prima” di Kathryn Foxfield, Newton Compton. A cura di Alessandra Micheli

E’ la notte giusta per scrivere questa recensione.

Mai come stasera sento il mio cuore libero, libero di cantare le sue oscure canzoni senza paura di essere giudicata pazza o assurda.

Sento che qualcosa scivola via, lontano da me.

Un peso nel cuore, una catena che mi stringeva i polsi.

O forse il senso di colpa per non essere mai quella giusta, quella perfetta o quella capace di raccogliere e soddisfare le altrui aspettative.

E soltanto ora, con quel profumo di terra bagnata, il ruggito del tuono in lontananza, quel lampo di rabbia io mi sento davvero in pace.

E le parole scorrono libere, senza paura del giudizio, senza schemi, senza nulla se non la loro disperata forza.

E se un libro riesce a far si che i miei occhi divengano meno aridi e più umidi come quelle gocce che scendono violente sul selciato, allora la magia è compiuta.

E io sono fuori, fuori spero per sempre da quello strano e inquietante lunapark che è chiamato vita.

Vita di apparenze, di doveri e di assurdi tentativo di gridare per farsi sentire.

Di ferirsi ai polsi per poter esistere.

La furia di creare un personaggio e recitare con un sorriso tirato su quel palcoscenico.

Fino a che le mandibole dolgono e fino a che persino quella maschera penetra nelle tue carni e diventa parte di te.

Diventa te.

E forse in quel lunapark si gioca tanto con i nostri sensi di colpa.

Che ci nascono perché imperfetti.

Perché strani.

Perché feriti.

E qualcuno, un mostro, un ombra, o forse il male incarnato, quello che ci spinge a farci male dentro l’anima, ha proprio bisogno di quella disperazione.

Di renderci burattini, e di usarci come brave pedine.

Ci mangia dentro, finché siamo solo svaniti ricordi di un essere umano.

Sussurri alla testa, pronti a spezzarci.

Pronti a rubarci la dignità di ogni sofferenza.

Perché è quello da cui scappiamo.

Quel dolore che ci guarda e chiede soltanto di essere abbracciato.

Quello che ci spinge in fondo a confessare ogni nostro sbaglio.

Che ci fa ammettere di non essere brave persone, di essere soli, disperatamente soli.

Di essere stanchi.

Di non vivere più da tanto, troppo tempo.

E cosi dieci ragazzi, come dieci parti dello stesso umano cosi splendido nella sua caduta e cosi misero nel volerla nascondere, entrano proprio dentro un luogo abbandonato.

Ricco di fantasmi, di colpa seppellite.

Di marcio.

Ma quel lunapark ni fondo non è una vera gabbia.

È semplicemente la loro anima.

Corrotta da troppe menzogne.

E solamente il confessare può davvero liberarli dal gioco crudele di quei mormori soddisfatti.

Di un arconte liberato dalla tenebre remote.

O creato proprio dall’impossibilità di ammettere che..in fondo possiamo essere meravigliosi anche con le ginocchia sbucciate, il trucco rovinato dal pianto.

Che possiamo anche non cedere di fronte alla corruzione di un anima che è relegata nell’inferno.

E cosi dieci ragazzi decidono di partecipare a un gioco.

Entrano nel luogo proibito.

E forse affronteranno l’ultima battaglia.

Un libro che richiama le atmosfere sulfuree di IT, quella crudeli di dieci picocli indiani e persino quella gotiche e maligne del signore delle mosche.

Ma che è al tempo stesso terrificante, attuale e sconvolgente.

Eh si l’ho adorato.

Anche se non guarderò mai più una giostra con gli stessi occhi.

***

Per Jessica che non vede quanta luce ha dentro.

Per Barbara che dietro il sorriso scanzonato ha un anima immensa come il cielo.

Per Ilenia che non ha mai smesso di sognare e di insegnarmi a farlo.

Per Eleonora che mi tiene per mano, mentre insieme guardiamo il nostro dolore.

Per chi si sente in colpa ma sceglie di ridere lo stesso.

Per chi come me sceglie di non piangere più

Semplicemente grazie

“Lo sciamano” di Salvatore Esposito, Sperling e Kupfer. A cura di Barbara Anderson e Alessandra Micheli

A volte un libro ha bisogno di gridare forte.

Più forte.

E per questo una voce sola non basta.

Ne servono almeno due

.Potenti e diverse.

Buon Viaggio

SINOSSI: Christian Costa è un profiler, esperto di delitti rituali. Interpol, FBI, Scotland Yard: non c’è dipartimento investigativo o sezione Omicidi nei cui uffici non si sia evocato almeno una volta il suo nome. Lo Sciamano. È così che tutti lo chiamano per via della sua poco ortodossa metodologia sulla scena del crimine e della sua sbalorditiva percentuale di successo nelle indagini. Un’infallibilità che spesso fa chiudere un occhio sulla ruvidezza dei suoi modi, sulla scontrosità del giovane cresciuto in orfanotrofio, sui silenzi ostinati dell’uomo che si è lasciato alle spalle un passato fatto di dolore e domande rimaste senza risposta. Almeno fino al giorno in cui il corpo di una donna riaffiora tra le onde al largo di Ostia e quello di un’altra, seviziata a morte, viene ritrovato in un’antica villa di Chiaia, a Napoli, dando il la a un’indagine che costringerà Costa a inseguire la verità tra le ombre di oscuri culti iniziatici, e a fare definitivamente i conti con il mistero insoluto che si annida nella sua stessa nascita. Salvatore Esposito, il nuovo volto internazionale del cinema italiano, esordiscenella scrittura di genere trascinando il lettore in una cupa spirale di orrore, sulle orme di un mindhunter contemporaneo difficile da dimenticare

Un diamante grezzo, che emana una luce intensa. A cura di Barbara Anderson

Inutile che io finga di conoscere e sapere poiché non solo non conosco ma nemmeno ho la presunzione di conoscere. Mi spiego, quando è uscito questo romanzo c’è stato una specie di fermento nel mondo letterario; poiché l’autore è un famoso attore cinematografico, il quale ha recitato il ruolo di Gennaro Savastano nella serie televisiva Gomorra. Ovviamente io che vivo all’estero da 24 anni e sono italiana non ho assolutamente visto questa serie e non avevo la benché minima idea di chi fosse questo autore/attore, nel momento in cui mi venne offerta questa lettura. Diciamo quindi che ho avuto un approccio incontaminato su questa sua prima opera letteraria. Scopro inoltre, dopo aver letto il romanzo, che l’autore ha una filmografia non indifferente tra Cinema televisione, serie web, cortometraggi e mi rendo conto che ormai vivendo una realtà straniera io sia completamente dissociata da ciò che accade nel mio paese natale.

Con il senno del poi, alla luce di questa sua esperienza di attore mi rendo conto di come essere capaci di interpretare un ruolo cinematografico possa dare modo ad un attore anche di interpretare un ruolo in una storia, in un romanzo. Ma  saprà scrivere bene? Sarà in grado di accattivarsi un pubblico attento che ama leggere il genere thriller e che potrebbe essere un critico spietato? 

Può un attore “osare” cimentarsi nella scrittura di un romanzo? E perché no? La scrittura è un arte di chi sa usare la magia dell’immaginazione e che sa metterla nero su bianco con parole capaci di lasciare il segno, una firma indelebile che sia una storia e in questo caso forse l’autografo più bello che un fan potrebbe avere. Non un nome su un pezzo di carta, ma una storia, un racconto, un avventura.

Ma merita questa storia?

Beh se lo volete sapere, dovrete leggerla, ma come ho fatto io senza soffermarci troppo sulla professione dell’autore o sul suo background di vita, bensì lasciando al libro il compito di  raccontarvi la sua storia e le sue emozioni e poi dopo solo dopo magari potrete fare un confronto, una valutazione obiettiva e soggettiva su ciò che questo romanzo vi ha trasmesso.

Lo Sciamano, il titolo che poi è il soprannome del protagonista della nostra storia: Christian Costa, esperto in Criminal Profiling, un criminologo di fama internazionale che si occupa di tracciare il profilo dei colpevoli per far sì che si faciliti l’identificazione, non solo con l’obiettivo di assicurarlo alla giustizia ma anche per prevenire ulteriori azioni criminali. Lo sciamano collabora con F.B.I, Interpol, Scotland Yard e tutti i gruppi internazionali di investigazione.

È un duro, dalla personalità forte, tagliente, un uomo a cui nulla sfugge, dalle mani grandi e dal cuore ruvido. Perché viene chiamato lo Sciamano all’interno del suo ambiente? Semplice basta capire il significato della parola: sciamano è un individuo che attraverso un processo di iniziazione che inizia in tenera età. Acquisisce la conoscenza di pratiche di meditazione e di tecniche che gli permettono di raggiungere stati estatici (attraverso anche  musiche o allucinogeni) e diviene un  tramite con le entità soprannaturali come gli angeli, i demoni, le anime dei defunti, con l’ausilio di facoltà taumaturgiche e divinatorie riesce ad identificarsi con  queste entità.

Ovviamente Christian Costa è un uomo dalla forte personalità magnetica, affascinante ma al contempo inquietante. Lui sa come muoversi, sa come entrare in sintonia con l’assassino e sa come scovarlo entrandogli nell’animo oscuro prima di poterlo raggiungere di persona. Lui scava, indaga, nei meandri più oscuri di menti criminali, esperto ricostruttore della psiche criminale, che quando si occupa di un’indagine la percorre come un viaggio esoterico ritornando sempre alla realtà con la soluzione. Un grande nel suo campo, stimato, temuto rispettato e forse anche odiato.

Il thriller psicologico di questo romanzo è veramente accattivante, intenso, forte, tagliente utilizza un linguaggio molto diretto, che non si perde in inutili dettagli ma che riesce a plasmare intorno al lettore un evolutivo corso degli eventi, senza al contempo tralasciare nulla.

Una storia che è carica di magnetismo e carisma pagina dopo pagina.

Come un antico sciamano Christian Costa si troverà a percorrere un viaggio introspettivo su se stesso che lo riporterà indietro fino al giorno della sua stessa nascita e tra esoterismo, riti satanici, folklore che entrano e trafiggono la quotidianità delle nostre vite si cercherà di scoprire chi ha commesso un duplice omicidio. Due donne, una riportata alla luce dalle onde della spiaggia romana di Ostia ed un’altra brutalmente seviziata e uccisa, trovata in un villa Napoli.

La violenza e la crudeltà spietata perpetrata dall’assassino ci viene servita su un piatto d’argento dall’autore senza farci nessuno sconto, senza lasciare nulla all’immaginazione; un thriller che mette agitazione, che mi ha fatto perdere qualche battito cardiaco, che mi ha fatto tirare su sospiri di ansia e che mi ha, a tratti, lasciato senza respiro in una corsa veloce verso il nulla, verso la caccia alle streghe, quelle vere, quelle immaginarie, quelle che son servite nel corso dei tempi a trovare scuse per crimini commessi dagli esseri umani.

La poca esperienza letteraria dell’autore è ciò che rende questa storia ancora più apprezzabile, più genuina e più vera, non pecca di presunzione ma ci consegna un prodotto di qualità. Lo sciamano non ha bisogno di riflettori, lui splende di luce propria, ha una corazza fatta di fama, di esperienza e di coraggio, ci farà scavare nel profondo della sua esistenza in modo non solo da scoprire il colpevole di efferati crimini ma anche da ritrovare quella parte buona che c’è un po’ in ognuno di noi, dietro le nostre paure e quelle maschere che indossiamo per non mostrare il nostro vero volto al mondo. A volte il volto bello come quello di un angelo e altre brutto e disgustoso come quello di un demone.

La competenza dello sciamano è direttamente proporzionale alla sua fragilità che risiede nel grembo della donna che ama.

Salvatore Esposito inietta nel lettore inchiostro di sangue che si coagula all’interno delle nostre vene e ci svela in un delirio estatico, invitandoci ad aprire gli occhi ed entrare in contatto con il dolore e il male.

Non sono in grado di giudicare le competenze recitative dell’autore ma posso senza alcun dubbio complimentarmi con lui per questo esordio in libreria.

Da lettrice di romanzi thriller, noir, gialli posso assicurarvi che questo romanzo ha tutti gli ingredienti necessari per dissetare un lettore esigente.

Lo sciamano ci regalerà sicuramente altre indagini, altre soluzioni e ci saranno ancora altri crimini da risolvere e altre sfaccettature letterarie di un autore che già comincia a suscitare il mio interesse e la mia stima.

Con un finale che resta aperto, che fa da sipario indubbiamente alla prossima storia ma che conclude lo scenario oscuro ed inquietante in cui le pagine ci hanno accompagnato dall’inizio alla fine.

Un noir che mi ha piacevolmente sorpresa e che sorridendo mi fa pensare: Esposito è un attore che sa scrivere bene o è un attore che sa recitare bene la parte dell’autore?

Fatemelo dire è entrambe le cose.

Un diamante grezzo, che si taglia a metà aprendo le pagine di questo libro e che emana una luce intensa.

Buona lettura agli audaci lettori che danno sempre una possibilità ad un esperienza nuova.

Attendo i prossimi due romanzi poiché ho appena scoperto che si tratterà di una trilogia.

Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta. A cura di Alessandra Micheli

Ero molto indecisa se scrivere o no codesta recensione.

E non perché ho qualcosa contro il libro anzi.

E’ entrato nella lista dei miei libri preferiti.

Ma quando il testo non è inviatomi direttamente dalla casa editrice diventa un po’ come il Secret World cantato da Peter Gabriel.

Ossia quel rifugio totalmente tuo, isolato e confortante in cui entri quando sei davvero stressato dal mondo, devastato dalle ossessioni altrui (eh Chang) e desideroso di sfuggire alla fretta inconsulta di questi tempi terribili (piccola citazione letteraria).

E cosi lo sciamano si è presto confermato come uno dei mondi dell’altrove, un altrove concordante con i miei strani canoni, in cui la mia anima trova ristoro e si disseta con l’acqua cangiante del mito, delle emozioni e dell’ombra.

Eh si miei amati lettori.

Lo avrete ormai compreso vero?

Per me l’ombra è l’acqua che lambisce con dolcezza le rive del mio io, spesso aride poiché avvezze a seminare la cultura della razionalità: per rilassarmi, per tornare me stessa non ho bisogno del tipo di fantasia e di immaginario che di consuetudine bazzicano gli altri, altri con anime meno strane della mia.

Ho bisogno di follia, di un universo che mostra la sua magnificenza innalzando la sua infinitezza fino a raggiungere la materia oscura.

Ho bisogno di Shoggot, di tetri anfratti boscosi o si neri abissi in cui sbuca una città dalle forme geometriche che forse non esistono.

Allora la mia anima pulsa e si risveglia.

Allora si sente forse, meno sola e meno sconfitta.

Ecco cosa mi ha provocato la lettura di sciamano.

La stessa emozione strisciante dei miei onirici rifugi.

E per questo non potevo recensirlo, proprio perché b volevo vivermi la solita sensoriale esperienza priva della razionalizzazione che pretende il linguaggio. Eh si.

Quando scrivete, quando comunicate mettete ordine nel disordine, sequenza logica ai simboli e persino una parvenza di logicità a questa oscuri meandri emozionali.

E non sempre ho bisogno e voglia di farlo.

Ma Salvatore Esposito, se mi permettete, un po’ si merita parola capaci di rendere omaggio al suo talento e al significato profondo del testo che ho assorbito ma non razionalizzato.

Non ho permesso si sedimentasse in un qualcosa di coerente, ma l’ho lasciato aleggiare come lo spirito di dio sulla massa informe della creazione, senza dare loro forma e dimensione.

E allora perché dico che si merita parola scritte con senno?

Perché è un attore famoso.

E lo so miei amatissimi discepoli del regno infero che dentro di voi, nei residui logici parietani, dietro la parvenza di civiltà, potrebbero sopravvivere degli edifici fatti di pietra dura, che si ergono a difesa del vostro concetto di talento arginandolo con paletti di un finto rigore logico.

Detta in parole povere potreste essere pieni di pregiudizi sull’arte definendo l’arte secondo una serie di motivazioni che implicano la totale assenza di qualcosa che possiamo definire privilegio.

Esposito, in quanto attore famoso è secondo molti il privilegio reso carne.

E’ il concetto che si manifesta.

Le case editrici si accaparrano il personaggio a discapito, cosi si dice dell’arte. Ma è davvero cosi?

E’ l’atto stesso di indossare panni che non ci appartengono per portare in questa commedia dell’arte un altro mondo, un altro carattere non è esso stesso essenza di quel mondo vasto e colorato che noi ci intestardiamo a definire con canoni stretti e rigidi?

Il recitare, il darsi al pubblico famelico, vampiri che succhiano voraci l’anima non è forse arte?

E cosi chi calca le scene, cercando di portare a noi l’essenza di un libro, di una scenografia, di un testo è forse un menestrello che non usa solo voce e parole, ma anche gestualità, mimica e comunicazione non verbale.

Allora è davvero un privilegiato?

Eh si.

Un po’ come lo sono io che ho la possibilità di raccontare me stessa attraverso il testo.

O voi che a differenza di altri giovani o meno giovani del mondo, potete leggere. Siamo privilegiato quando possiamo vedere un TG senza sentire il rombo delle bombe, quando possiamo ammalarci ma anche curarci, quando possiamo andare felici incontro ai black Friday.

Privilegiati perché per un’enorme botta di culo siamo nati dalla parte “giusta” del mondo.

Quindi mi dispiace ma il privilegio noi lo viviamo ogni fottutissimo giorno.

Allora il discorso va indirizzato sotto un diverso microscopio: un attore può avere il talento anche della scrittura?

E li ecco che lo snob, lo scrittore acerbo, il non amante del libro irrompe con forza tuonano un no grande come una casa.

Lo scrittore rubato allo spettacolo è solo un ladro che toglie la possibilità a altri miseri, piccoli e fragili, di essere notato dalle grandi big.

E’ davvero così?

Se però osserviamo il caso Faletti ci rendiamo conto che, la scrittura deve essere considerata un qualcosa di vivo e senziente.

Che sceglie qualcuno dalle alte regioni dell’iperuranio per poterci donare una storia.

E la storia diventa non solo parte di noi ma del mondo in cui viviamo, definendolo e quindi dando lui l’opportunità del cambiamento.

E allora dobbiamo, di nuovo, riformulare la domanda, oltre la frustrazione privata, oltre i nostri paletti derivanti dal terrore del buio dell’uomo primitivo: Esposito è stato chiamato?

Eccoci allora finalmente alla domanda di stampo graaliano, quella che serve per aprire o far scoprire il castello dove il dono prezioso è stato conservato: lui è stato elargito dal fato di quella chiave che apre il confine chiuso da troppo tempo con l’altrove?

La mia risposta è: si,

in questo tesato c’è qualcosa che fluisce dalle pagine e che persino sospende il nostro spirito critico rapendoci con il suo vischioso tentacolo.

Si chiama ispirazione.

Perché vedete non è solo il racconto di un uomo di mezzo, che fa da spola a due mondi considerati da troppo tempo distanti ossia il pleroma e la creatura.

Ma ci dona anche la consapevolezza che, se si distaccano questi due emisferi parte di una stessa unica mente si creano disastri.

Si divide l’indivisibile e si creano categorie.

Bene e male, buono e cattivo, donna e uomo, credente e blasfemo.

Solo che, vedete non sempre la dicotomia è davvero utile o peggio, reale.

Ciò che noi consideriamo berne è solo una strana maschera del male.

E viceversa.

E in questa storia di superstizioni, dolore e orrore, di magia e occulto, di streghe e vittime, le apparenze fanno sorgere una cortina fumosa che ci allontana dalla verità: è il potere l’unico vero ostacolo perché la dicotomia si risolva in un necessario monismo.

Se la spiritualità si definisce soltanto in funzione del suo rispetto per il sacro.

Se la bontà diventa non più fattore ideologico ma azione.

Non siamo buoni perché abbiamo idee e ideologie.

Ma per come ci rapportiamo verso l’esterno, verso l’uomo.

Siamo buoni perché anteponiamo l’uomo al Sabato.

In questo testo, al contrario, è il Sabato a essere messo sul piedistallo.

A lui si offrono sacrifici che hanno uno scotto: la spersonalizzazione dell’umanità.

Che se è considerata come dominio del Sabato (inteso ovviamente come ideologia, liturgia o ortodossia o persino potere) non ha più importanza se non come suo tributo.

Diveniamo tutti capri espiatori per poter onorare il nostro riferimento di turno. Per portare più denaro, per assecondare istinti, per prolungare il senso di onnipotenza.

Per dominare il nostro reale anche sottomettendo l’altro.

Che sia il diverso, la donna, il bambino.

Ecco che la strega non è più un qualcosa che riguarda solo la donna.

La strega è colei che conserva in se ogni nostro peccato, ogni apparente distorsione, frutto del nostro modo di approcciare il mondo e che è quindi facile da eliminare, come un tributo sanguinoso a chissà quale valore assunto a verità assoluta.

La strega è simile all’eretico, al Cagot dei tempi medievali a ogni essere umano sacrificato sul grande palcoscenico della rappresentazione umana in cui si invoca il potere della discordia.

Ecco che lo sciamano, l’uomo oche redime il ricordo della vittima e aggiusta i torti è il collegamento unico e vero con l’altrove.

E’ lui che può di nuovo instaurare la comunicazione con un buio che diventa non più spaventoso ma rassicurante: è il ventre della terra, la mano compassionevole di un dio o di una Dea che non vogliono da nient’altro che fiducia, fede e amore.

Ecco che questo libro divine prezioso, commovente e non solo agghiacciante.

E’ un viaggio, il nostro viaggio verso l’unico grande dono: conoscere se stessi, accettarsi e accettare anche un po’ di quel buio che in fondo serve per poter vedere la luce brillare.

Salvatore Esposito ha scritto qualcosa di meraviglioso e indimenticabile.

E se è un privilegiato, dio o la Dea o l’intera Enneade benedica quel privilegio che mi ha permesso non solo di emozionarmi ma anche di farmi riflettere.

Un libro serve a questo no?

“L’ultima reliquia” di Miriam Palombi, Dark Zone. A cura di Alessandra Micheli

Quando leggo un libro di Miriam ammetto di avere sempre alte aspettative che ma, e sottolineo mai, vengono disattese.

E questo mi porta a darla per scontato.

Ah si è Miriam, vabbè sarà fantastico come al solito.

E cosi anche scrivere la recensione diviene quasi scontato e non le rendo mai, mea culpa il giusto omaggio.

Quindi cercherò di rimediare mia Regina della notte.

Perché il tuo è un dono e come tale, va celebrato.

Di solito amo i suoi racconti dell’orrore, quelle atmosfere cupe eppure romantiche, come una ninnananna oscura da cui è difficile staccarsi o tornare. Solo da poco ho elaborato la fascinazione di Creepy Tales per esempio.

E tuttora, la notte quando chiudo gli occhi rivedo le pareti di quell’orfanotrofio immerso in un bosco oscuro.

E che dire del suo capolavoro assolto miseri resti sepolti, talmente bello da sfidare l’eternità?

E potrei continuare fino all’esaurimento della vostra pazienza miei amati lettori divagando nel rendervi partecipi di una qualcosa che può definirsi solo come talento.

E non solo per quanto riguarda i regni ctoni della paura più cupa.

Lei riesce a destreggiarsi con abilità e raffinatezza in ogni genere.

Thriller, fantasy gotico, e adesso il mio Amato mistery.

Eh si.

Oggi sono stra orgogliosa di parlarvi dell’ultima reliquia, libro che mi ha provocato emozioni forti, intense e vivide, emozioni che non provavo dal tempo di indiana Jones.

Con la differenza che quel tocco di eleganza non manca mai, rendendo le pagine vischiose come una ragnatela pronta a ingabbiare, per sempre la sua mosca.

Io sono la mosca e la sua arte è la ragnatela.

Ovviamente.

In questo testo ciò che strabilia e conquista è l’apparente semplicità della trama. Un archetipo da sempre presente nelle narrazioni, quell’ossessione che ci immerge nella speranza, un domani, di poter contemplare il divino e di essere ammessi a sbirciare oltre la soglia del consueto.

Li dove dimora Dio, il segreto della nostra esistenza e il mistero della nascita del cosmo spesso viene analizzato alla luce della fantasia più sfrenata, creando scenari, ambientazioni che diventano, a volte, eccessivi e privi di quell’alone di meraviglia capaci di allontanarli dalla banalità del nostro reale.

I libri che narrano dei misteri di dio a volte peccano di eccesso di straordinario tanto da renderli…ordinari.

Miriam ovviamente, scontato dirlo non cade nella trappola.

Affatto. L’ultima reliquia prende i simboli, ci gioca senza mai eccedere, e li mostra senza fronzoli in quella semplicità che è parte del segreto dei segreti: il nome di io, la potenza che ci tocca e la sensazione di essere avvolti da quella strana, crepuscolare luce.

Noi con l’ultima reliquia siamo avvolti dal sacro, lo tocchiamo con mano ma al tempo stesso di esso abbiamo un riverito timore.

Quel libro diviene la porta coeli, laddove troneggia sull’architrave di questa orgogliosa magione la scritta “terribile luogo è questo. E’ la dimora di dio”.

E terribile lo diventa questa narrazione, intrecciando passato e presenta, con grazia e al tempo stesso forza, divenendo non già parola ma porta, appunto in cui osservare ogni evento descritto come se fosse possibile toccarlo, viverlo in prima persona, e esserne parte attiva.

La trama si svolge e tu ne sei catturato, ne diventi protagonista fino all’egregia scena finale che, supera a sorpassa per la sua forza evocatrice, ogni film, ogni testo letto, ogni nostra immaginazione.

E cosi si chiude il sipario.

Lasciandoti stupito, conquistato e ammaliato.

Dalla forza di questa piccola grande donna che ci regala non solo il volto del sacro ma anche un piccolo scorcio di noi stessi.

Noi in cerca di Dio ma cosi terribilmente e incautamente attratti dal peccato.

Basta un gesto, basta l’ardire di chi con prosopopea alza il velo perché l’abisso diventi suadente, molto di più del mistero che ci aveva precedentemente chiamato.

E cosi la fantasia diviene parabola: occhio a voler conoscere senza essere preparati.

Perché puro e impuro, a volte, sono facce della stessa medaglia.

Complimenti Oscura regina.

“Doppleganger. Il maligno” di Maria Elena Cristiano. Golem edizioni. A cura di Alessandra Micheli

La cosa più spaventosa di ogni tradizione religiosa e di ogni superstizione è che in fondo, ma non tanto in fondo, essa parla molto di noi.

Vedete ogni volta che definiamo uno spirito, un santo, un Loa o persino dio noi stiamo definendo noi stessi.

E’ questo il segreto racchiuso in tanti percorsi spirituali.

Possiamo studiare, cercare di comprendere, fare mille esperimenti terrificanti, usare la mente o l’istinto e magari cercare tra le pieghe dell’abisso in una stregoneria che sarà sempre prodotto non del cielo o dell’universo o di qualsiasi energia.

Ma sarà soltanto il riflesso del nostro volto su una calma e limpida disetesa. Immobile e sempre simile a se stressa.

Ecco cos’è l’energia primaria.

Qualcosa di plasmabile, qualcosa che è immutata e immutabile e forse visto che è sempre stata e sempre sarà, cosciente di essere troppi statica.

Che senza il movimento, la passione ogni passione persino l’odio, il rancore, l’ira, la paura e il dolore non riesce proprio a cambiare.

E quindi a vivere.

Ecco che arriva il sogno dei sogni, quell’uomo che forgia perché pensi incessantemente a lui.

Anche se rischia di essere scisso in due tronconi, se rischia di essere frammentato.

Ma intanto l’uno che diviene due inizia a vivere davvero.

E cosi inizia la corsa eterna di morte e vita, quel canto che ci terrorizza e ci affascina.

Noi non possiamo saperlo, o forse non dobbiamo, o non vogliamo sapere di essere parte di questa infinita giostra.

Dio diviene mille pezzetti.

Dio diviene immagine sfumata, crudele, vendicativa, maligna.

O benevola, tenera, compassionevole.

E dall’immagine di Dio beh possiamo comprendere in fondo chi siamo noi.

Se nelle regioni dell’abisso noi passeggiamo felici e meravigliati.

O terrorizzati e crudeli.

Allora sapremo cosa si cela in quell’anfratto oscuro di un’anima che sembra affamata di tutto e di nulla.

Ecco che lo specchio fatto di intrecci diversi, di infiniti sprazzi di luce e buio intrecciati abilmente in una tremenda, perché degna di riverenza, tale noi scopriamo un altro volto, cosi simile al nostro.

Scopriamo sogni dimenticati, persino incubi, volontà di successo, di potere, di rivalsa.

O solo bisogno d’amore.

Ecco che in questo libro, con una delicatezza nascoste tra le pieghe dell’horror, la Cristiano semplicemente racconta il doppio.

Quello che scambiamo per famiglio, spirito guida, per demone assetato in fondo è solo la nostra anima.

Cosi piena o cosi vuota da formare una strana massa che cambia aspetto e varia dal nero alla luce e viceversa.

Oh no, mio amato lettore.

Non prendere sottogamba questo mio scritto.

Il doppio, quello che si cela dentro il cassetto della mente, nell’antro chiamato ombra può essere tremendamente pericoloso.

Può essere un lupo nutrito a calci e botte o a carezze.

E cosi tutto il tuo paese mitico, quel dio in cui credi diventerà a sua volta benevolo o malevolo.

Capisci la responsabilità celata dentro questo libro?

Dietro alla perfetta scenografia da film terrificante, dietro l’abisso, si cela il segreto di ogni percorso sciamanico: sei tu che scegli che dio esisterà nel tuo mondo.

Che paese dei morti potrai avere.

Che finale avrà la tua storia.

Se avrai le mani piene di fiori o di sangue.

Sei tu, il protagonista di questa sceneggiatura, di questo film che non finisce con questa vita.

Finché l’immagine di dio sarà inutile farla vivere perché capirai, alla fine del viaggio che sei tutto e nulla.

Che l’unica cosa che devi tenere stretto a te, curare amare e coccolare sarà il tuo doppleganger.

Che da lui deriverà tutta la sanità, l’equilibrio e la gioia di questo tuo viaggio.

E cosi dietro l’adrenalina, il terrore, l’orrore, quella lieve patina esoterica, quella sua irriverenza la nostra sciamana della parola, la Cristiano, ti darà semplicemente le chiavi per la tua di libertà.
E sarai tu a decidere che doppio vorrai avere.

Se uno con cui andare verso i sentieri della perdizione.

O la semplicità di uno spirito che danza nella notte, fuma con te un sigaro, beve un po’ di rum e sorride.

E ti mostra che in fondo il volto del teschio non è affatto orribile.

“Salmo XXIV” di Lucia Serracca, Le mezzelane casa editrice. A cura di Alessandra Micheli

Cercate la magia’ siete appassionati di esoterismo?

Credete nell’esistenza di mondi paralleli?

E magari volete raggiungerli e camminare tra le vie forse oscure di ognuno di essi.

Potete farlo.

Potete persino chiamare indietro dal tempo che fu ogni divinità, quella dei riti lieti.

Evocando antichi dei e ricordando la vostra origine misteriosa.

E’ possibile.

E senza chissà quale strada particolare e minacciosa.

Basta soltanto la musica.

Essa apre le porte dell’inconscio e forse è il ponte per incontrare i nostri demoni. La musica.

Quella forza assurdamente capace di elevare l’uomo o di portarlo nelle peggiori regioni dell’abisso.

La musica.

Note che ricamano incanti, che tessono arcane fascinazioni, che semplicemente…sono le chiavi per dimensioni sconosciute.

Di musica “diaboliche” ne è piena la storia.

Tanto che alcuni brani sono e restano inquietanti e..pericolosi.

Almeno secondo gli esperti in materia.

Pensate alla fama del trillo del diavolo di Tartini.

O più recentemente alla strana malia che si individua nella famosa canzone degli Eagles hotel California.

Soltanto ascoltandola si è catapultanti in una strana landa deserta, con uno strano hotel e il suo portiere cosi…atipico.

Ed è in quello spartito dove tecnica, matematica e antiche memorie filosofiche si incontrano che si cerca il segreto dell’origine del mondo, nato proprio, cosi are, dal suono.

Ecco che tutto torna.

Il lascito più magico, più esoterico di un filosofo sarà sempre, e soltanto il suono.

Che possa divenire mantra o semplice musica.

Pertanto il dramma della ricerca dell’origine di ogni conoscenza in questo libro parte proprio da un musicista.

Si.

Proprio uno deputato a allietare i cuori a far passare alla corte un oretta di svago.

Proprio la musica racchiude in se mille archetipi e mille segreti.

Mentre noi canticchiamo allegramente, privi di pensieri il significato occulto agisce sui nostri sensi, e si deposita sul DNA preservando…qualcosa.

Ed è quel qualcosa che hanno cercato per secoli gli appassionati.

Qualcosa definito Graal, conoscenza perduta, origine della creazione, chiave di volta.

O semplicemente la porta capace di farci passare dall’altra parte incontro al nostro vero io.

Salmo XIV, quindi, non è solo un thriller ma una vera e propria cerca, o queste come amavano chiamarla i trovatori.

Si entra nel castello del mistero, e si prega perché l’estasi del tutto ci avvolga.

E mentre si prega la musica ci dona un assaggio.

E ci trasforma come un perfetto Athanor alchemico.

Certi brani ci de-costruiscono, per riassemblarci, in maniera forse bizzarra, forse sconosciuta, ma sicuramente più vera.

E quindi chi deciderà di conoscere il segreto del salmo e di Antelami, in realtà cercherà il segreto dei segreti: quello che toglie le maschere, ci fa smettere di recitare a soggetto e toglie il divario tra realtà e sogno, tra scienza e spirito.

E cosi tra omissioni, indizi, musica e perché no, Rosacroce, il viaggio può aver inizio.

E come il buon Rosenkreutz, prima di noi, ci risveglieremo un giorno diversi in attesa del vero matrimonio importante per l’uomo: quello con la Dea Velata.

Purtroppo ora attraverso la dolorosa caduta nel peccato questo eccellente gioiello, il Sapere, è andato perduto, e il Buio e l’Ignoranza sono entrati in questo Mondo, nonostante il Signore Dio l’avesse mostrato e resa manifesto ad alcuni dei suoi amici: così il sapiente Re Salomone potrebbe testimoniare che, con sentite preghiere e desideri, riuscì ad ottenere una tale Saggezza da Dio, e che in ragione di essa sapeva come era stato fatto il Mondo, e comprendeva la Natura degli Elementi, ed anche il tempo, inizio, metà e fine, e l’aumento e il decremento, il cambio delle stagioni, il corso dell’anno, la situazione delle stelle; comprendeva la natura delle bestie, il potere dei venti, e le menti e gli intenti degli uomini, la diversità delle piante e le virtù delle radici, e altre cose ancora non gli erano nascoste. Ora io non credo si possa trovare una sola persona che non desideri e brami con tutti il suo cuore di diventare partecipe di un tale nobile Tesoro.

Fama Fratenitas

“L’ago di Cibele” di Simone Fiocco, Bakemono Lab. A cura di Alessandra Micheli

Vi è mai capitato di non riuscire a staccarvi da un libro?

Siete li intenti a divorarlo, parola per parola eppure incapaci di giungere alla fine.

Proprio nel momento topico vi fermate.

Perché oramai i personaggi sono diventati amici e lasciarli è una piccola sofferenza.

E così è successo per l’ago di Cibele.

Che ha tutti gli ingredienti che riescono a dar vita a un sogno. Nostalgia. Dolore.

Azione.

Indizi.

E perché no, un tocco di esoterismo che non disturba mai.

E personaggi meravigliosi.

Quelli umani imperfetti scomodi politicamente scorretti e tratti cinici, quelli che io profondamente amo perché, in fondo, mi somigliano. Ognuno di noi ha un rimpianto, una sofferenza mai sopita, una ferita che non vuole cicatrizzare mai per paura che il ricordo muoia, disperso fra le pietre della strada.

E quando leggo protagonisti cosi complessi, cosi pregni di sofferenza eppure capaci di ridere di se stessi mi innamoro.

Profondamente.

E senza speranza.

E cosi è successo con il testo di Simone Fiocco, con la sua bravura e con quell’ispettore, Francesco che sembra un Poirot invecchiato e decaduto. Un angelo della ali inzaccherate ma non per questo meno splendido.

E cosa dire di Gabriele l’altro perno del libro?

Un uomo che cerca con tutto se stesso di non lasciare che la distruzione e degrado tronfi con quel ghigno fastidioso.

Ma no.

In fondo non è neanche quello a farmi innamorare.

Forse è la storia, l’eterna storia di un uomo che abusa del sacro, lo deride e lo manipola per fini non nobili.

Un sacro che se maneggiato senza conoscenza cura e rispetto, diviene terribile, cosi come ci ricorda la scritta su certi architravi di certe chiese oscure.

Terribilist est locus itte

Hic domus Dei est et porta coeli

Ma che ci importa,.

Il soldone tintinnante è un suono troppo suadente per ignorarlo.

Ma forse non è neanche quello.

Forse sarà la descrizione della mia amata Roma a colpirmi al cuor. Quella vecchia signora dai vestiti stracciati che tenta disperatamente di restare in piedi.

O l’uso di uno dei parchi più chiacchierati della nostra metropoli.

Altro che Central Park!

Voi che ambientate i vostri libri a New york o nelle lande fredde dei paesi scandinavi, dovreste venire a Roma, alla Caffarella per incontrare il vero orrore.

Un parco con una nomea orripilante, da Jack lametta a orrori indicibili come stupri e cadaveri carbonizzati.

Tanto che quando ci passo mi sento catapultata direttamente a CSI.

Ehi anche noi abbiamo la nostra dose di serial killer.

Non me andiamo fieri ma..e ‘ un modo come un altro per tenere a bada le fiere arroganti di un estremismo di stampo anglofono che tenta di rosicchiare ogni nostra tradizione.

E la stima di un paese dai mille volti, dai mille abissi che però resiste fiero.

No.

Forse non è neanche quello.

Sarò lo stile dell’autore cosi accattivante sospeso tra poeticità malinconica e adrenalina frenetica tipica dei thriller. Con un tocco ironico e grottesco.

Forse no.

Allora cosa rende questo libro bello, ma bello da morire?

Forse la risposta è: non lo so.

So solo che è uno di quei testi che non si scordano.

Quelli che ti lasciano un po’ orfani quando finiscono.

Quelli che rileggeresti mille e altre mille volte.

Quelli che restano preziosi perché scritti con amore e passione.

Pregni di un talento che per molti è solo una parola.

Allora leggetelo.

Magari mi aiuterete a capire perché è diventato per me un capolavoro da tenere dentro il cuore oltre che sotto il cuscino.

Assieme a altri libri che, a prescindere dal genere e dalla trama hanno preso la mia mente e trasportata altrove.

E forse fatto vedere Roma in modo diverso.

Quindi grazie Fiocco.

Perché chi mi regala un viaggio è davvero un artista.

“La macchina anatomica” di Lucio Sandon, Graus editore. A cura di Alessandra Micheli

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Il mio primo incontro con Raimondo di Sangro fu nel 1992, grazie al fumetto di Sergio Bonelli, Martin Mystere.

Lo ricordo come fosse ieri quel fumetto, il principe delle tenebre.

E fu li per la prima volta che assaporai l’odore sulfureo delle sue inquietanti invenzioni, specie le terrificanti macchine anatomiche.

Ma anche la meraviglia della sua cappella fino a lasciarmi sedurre dalla perfezione del Cristo velato di Sanmartino.

E da quell’avventura dell’algido investigatore e del suo assistente Java, ho iniziato a sentire una certa predisposizione per le invenzioni dell’alchimista, dimenticato forse dalla storia, ma cosi presente, come un ombra sulla meravigliosa e solare Napoli.

Raimondo in fondo, è uno di quei personaggi dicotomici, sospesi tra luce e ombre, troppo alieno al suo tempo persino quando esso ammetteva e in fondo incoraggiava, lo studio delle somme arti esoteriche.

Sempre se a condurle si trattava di un uomo, possibilmente nobile e magari membro del clero.

I suoi esperimenti sono oramai il mio pane quotidiano, così decisa a svelarne la realtà dietro ai fumi fiabeschi del mito.

E il mito ammette che la sua cultura chimica (perché l’alchimia in fondo era una sorta di chimica spirituale) arrivò a superare, secondo i detrattori, i limiti della morale, usando come cavie per i suoi esperimenti gente scelta dal popolo, gente la cui sparizione non avrebbe dato mai nell’occhio.

E cosi le macchine anatomiche, divennero modelli in cui studiare perfettamente il sistema arto-venoso, messo in perfetto rilievo da chissà quale macchinoso ingegno.

Un uomo e una donna, in posizione eretta creata, a quanto si sa, dal medico Giuseppe Salerno e pare acquistate dal principe nel 1756.

Tutto quindi nella norma di un secolo, il settecento, che si votava anima e corpo al progresso scientifico e alla scoperta del mistero più importante di tutti ossia l’organismo umano. Esso per troppo tempo fu ritenuto uno scrigno inviolabile, tanto che la medicina imponeva una sorta di riverito timore che limitava eccessivivamente lo studio dell’arte medica.

Finalmente l’intero organismo umano poteva essere studiato, analizzato anche con la folle indecenza che accompagna lo studioso che si pone, in fondo, accanto alla morte accogliendola come compagna e come insegnante, verso il disvelamento della composizione arcana della creatura prediletta di dio.

Fin qui nulla di strano dunque.

Peccato che la leggenda popolare tramanda un altra storia, meno luminosa e sicuramente vicina al regno delle tenebre.

Cosi la superstizione popolare alimenta l’idea blasfema, ipotizzando che Raimondo, non fosse uno scienziato progressista ma un adepto delle più oscure arti.

Sotto la direzione del nostro principe che diventò appunto nero, il medico Salerno oramai alle dipendenze del nostro nobile scienziato, avrebbe inoculato nei vasi sanguigni di due corpi, forse dei servi, una sostanza segreta capace di procurare la metallizzazione.

Questo mito oscuro è stato persino riportato dal nostro Benedetto Croce alimentando cosi la fosca seduzione del male di un uomo oramai senza dio, capace di uccidere due anime innocenti, un uomo e una donna e farli imbalsamare in modo che mostrassero al loro interno le viscere, le arterie e le vene.

E la presenza di un simbolo potente, visto che le due macchine erano originariamente collocate nell’appartamento delle fenice, uccello legato al simbolo della resurrezione e dell’immortalità, convinse i più che le macchine stesse fossero morte nel corpo ma non nell’anima. E quindi perfettamente…vive.

E quindi perfettamente…vive.

Capite il fascino di questa figura?

Medico, scienziato, innovatore ma anche crudele adepto del più maligno dei maligni, colui capace di beffarsi del limite di dio per portare avanti la sua follia, la follia stevensoniana e frainkestiana: diventare pari se non superiore al creatore.

Immaginate la mia gioia, oscura forse, quando ho avuto tra le mani il libro di Lucio Sandon.

Perché vedete il nostro autore racconta in chiave romanzata proprio questa leggenda dandole forma, voce e una certa capacità evocativa. Raimondo e i suoi esperimenti, la crudeltà tipica di chi in fondo venera l’idea più dell’uomo, si intreccia con la ricerca del simbolo assoluto, colui che pregno di gloria divina è in grado di portare avanti ogni esperimento.

E’ l’esoterismo protagonista vero di questo testo, che ci regale le sublimi immagini della cappella di Sansevero con le sue sculture “umane” troppo perfette per essere soltanto di marmo, con le sue macchine anatomiche, frutto di un esperimento incrociato con una vena di crudeltà e un altro mito che permea ogni ricerca spirituale e materiale: il tesoro perduto dei goti.

Anche qua il racconto si intreccia con un altro mito perduto, quello di Rennes rendendo le due città, Napoli e il pesino adorabile nell’Aude, quasi gemelli, custodi di segreti sepolti nelle viscere non solo della terra ma anche tra le pieghe di un tempo sospeso.

Anche a Rennes il tesoro di Alarico fa la sua entrata trionfante, con le sue ricchezze inimmaginabili ma anche la sacralità di alcuni oggetti tra cui la Menorah e addirittura nel caso del gemello della linguadoca ( guai a chiamare Renns località francese) dell’arca dell’alleanza.

I manufatti ebraici così come vengono descritti nella bibbia, non solo soltanto perfette ricostruzioni simboliche in oro e preziosi, sono dei contenitori, dei simulacri in cui una parte del divino viene rinchiusa per scopi religiosi.

Cosi la menorah non è solo un bel candelabro ma è immagine dei setta elementi cabalistici, della natura stessa del creato cosi come raccontato nel libro della Sefer Yetzirah o Libro della Creazione.

E mentre gli scenari si dipanano e il mistero intreccia presente e passato, una presenza sembra illuminare l’oscurità di un mito quello di Raimondo, ma forse è anche capace di spiegare la seduzione di una città stessa che, nonostante i pugni che riceve quotidianamente da una modernità senza spirito del sacro, la fa comunque brillare radiosa. Ecco la presenza di un antica divinità, lontana, perduta nel tempo ma tuttora capace di irretirci con la sua maestosa voce, e capace di sedurci soltanto alzando il velo che le copre il volto: Tanit.

Divinità poco conosciuta la suprema dea di Cartagine, è anch’essa una dea velata ossia riservata ai prodi a chi è capace di sopportarne il volto e ascoltare la voce, tonante per i deboli e leggiadra per i prodi.

Chiamata il volto di Baal ossia sposa di una figura solare, essa era l’altra parte del cielo, la luna, colei che con i suoi flussi donava fecondità al mondo. Ma era anche colei che brillava nella notte, quindi regina dei segreti e della magia tanto che, nell’antica Roma, fu chiamata Caelestis Dea.

Ma era anche colei che brillava nella notte, quindi regina dei segreti e della magia tanto che, nell’antica Roma, fu chiamata Caelestis Dea.

Ma c’è un altro elemento che rende questo libro profondamente imbevuto di suggestioni ancor più intriganti: accanto a Tanit un altra Dea velata fa capolino, una Dea profondamente legata a Napoli, la somma Iside.

Come convivono queste due divinità?

Qua Lucio Sandon fa sfoggio di un erudizione rara per uno scienziato, ma che è tipica di chi al sacro ci crede così tanto da amare tutte le creature. Non a caso il nostro autore è un esperto veterinario, e questo lo spinge a costellare il testo con animali profondamente simbolici la lupa ad esempio e il coccodrillo, che richiama e non può non richiamare, antichi fasti egizi.

Tanit e e Iside, sono legate da una strana coincidenza: il simbolo della divinità cartaginese era un triangolo con una barra orizzontale ed un arco o un cerchio sovrapposto, una forma stilizzata che ricorda (no, non i doni della morte profani che non siete altro!) ma l’ankh egizio.

Non a caso il nostro autore è un esperto veterinario, e questo lo spinge a costellare il testo con animali profondamente simbolici la lupa ad esempio e il coccodrillo, che richiama e non può non richiamare, antichi fasti egizi.

Tanit e e Iside, sono legate da una strana coincidenza: il simbolo della divinità cartaginese era un triangolo con una barra orizzontale ed un arco o un cerchio sovrapposto, una forma stilizzata che ricorda (no, non i doni della morte profani che non siete altro!) ma l’ankh egizio.

E richiama anche alla mente una parente stessa di Iside, la Dea dei serpenti cretese.

Sole e la luna crescente fanno capolino unendo le due divinità in una sola, un culto antico, un culto che si rivela a pochi eletti donandogli una conoscenza senza limiti.

Ruolo che Tanit decide di adempiere fino in fondo donandosi al suo protetto, Angelo, colui capace di trovare il tesoro sacro e di assurgere al ruolo di pupillo della Dea.

Ma forse troppo imperfetto per poterlo sostenere fino in fondo.

Del resto il velo che copre il sacro volto, cosi come ci dimostra il cristo velato, richiede il sacrificio estremo, lasciare il mondo dei mortali e entrare a passo danzante nel consesso delle divinità.

Un libro pieno di meraviglie, cosi come di orrori, pieno di fumi e zolfo, di ombre ghignanti ma anche di arcane meraviglie.

Da leggere, e rileggere e assorbire un po’ del suo magico potere, quello di portarci in una dimensione cosi vicina a noi, quella magica quella del mito, ma che il nostro vivere cosi frettoloso ci nega alla vista.

Riscoprite la magia vicina a voi e siate capaci di sollevare il sommo velo

io sono tutto ciò che è

che è stato

che sarà

e nessun mortale ha ancora tolto il velo che mi ricopre

“Il mistero di Ash” di Victoria M. Shyller, Segreti in giallo edizioni. A cura di Alessandra Micheli

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Mettiamo un villaggio isolato tra le montagne.

Mettiamo sparizioni strane che odorano di zolfo.

Vittime innocenti, per questo capaci di scatenare il nostro più profondo dissenso.

Immaginiamo strani investigatori con capacità quasi, e sottolineo quasi naturali.

Nebbia, tuoni, oscure presenze che osservano, mutilazioni e arcani segreti.

Immaginiamo un villaggio che ma che non ha il coraggio di svelare il segreto.

Rendendolo cosi immenso forse troppo per essere contenuto in un solo luogo.

Rendendolo pari a una nebbia mefitica che rischia di espandersi in ogni anfratto, investendo altri villeggi, altre realtà rendendo l’orrore qualcosa di vivo e tangibile.

Non più un mistero custodito da pochi, ma realtà fatta di demoniaci ghigni, che mano mano riescono a diventare grida sempre più assordanti.

Sono questi gli ingredienti di un libro che sicuramente è capace di suscitare forti suggestioni, che oscilla tra il gotico e l’horror e che, sono sicura non vi lascerà affatto indifferente.

Il ritmo è lento, incalzante quasi come un oscura nenia, ripetuta come un incantesimo oscuro, capace di sciogliere ogni razionale resistenza e parlandovi di ammuffite cripte dove l’orrore vine custodito, di una brutalità arcana ma sempre presente.

Ci parla di sprezzo per la vita e di una strana famelica voglia che ci domina da tanto troppo tempo, quello di uccidere la purezza, a ogni costo.

Un baratto troppo conosciuto da chi come me non teme di scendere nell’abisso e capire cosa davvero si cela dietro il sorriso e l’apparente perfezione di questa strana creatura umana.

Ma cosi capace di meraviglie e di alte filosofia, capace di scrivere poemi o libri cosi belli, eppure cosi attirato da sangue e violenze nascondendo questa demoniaca brama magari sotto l’egida della scienza.

Il Mistero di Ash ci catapulta in una realtà parallela e al tempo stesso di ogni giorno, perché di villaggi come Ash ne ho visti a bizzeffe.

Ognuno con il suo cassetto di scabrosi segreti da tutelare.

Ognuno legato da un patto di omertà impossibile da spezzare.

Ognuno capace di far prosperare il male con il peggiore dei vizi.

Il silenzio.

Ash è al tempo stesso solo un libro eppure la nostra stessa essenza di esseri incorruttibili ma però capaci di farsi corrompere, ogni santo giorno, ogni attimo ogni istante.

E forse leggere quasi con ossessione questi libri è il mio modo per rispondere alla domanda che preme sempre di più nella mia coscienza: perché?

Perché creare realtà in cui il mistero non è altro che complicità?

Perché fingere e voltarsi dall’altra parte.

Perché lasciare che la bellezza dell’infanzia venga usata da tanti troppi senza scrupoli?

Non so se Il mistero di Ash sarà in grado di rispondere alla mia domanda, ma senza dubbio importante è cercare. E avere il coraggio come Delvin di scendere nella cripta segreta…

cosa troverà?

Beh spero di scoprirlo con voi.

Quindi mia adorabile Victoria M. Shyller vedi di non lasciarmi cosi sospesa.

Dall’amore sconfinato che sento per te, posso passare all’odio più cupo!

“Caffè coppede” di Daniele Botti, Alter ego edizioni. A cura di Alessandra Micheli


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Si svegliò, guardò nell’alba e l’alba era lì senza memoria;

camminò la terra ormai da anni senza tempo e senza storia:

e fin dove gli occhi andavano non un suono,

non un fiore rise e raddrizzò le sagome dei suoi alberi in cartone;

strinse in tasca i semi inutili come il torto e la ragione:

nel cervello già sfumava l’ombra e con l’ombra ci viveva…

s’infilò come abitudine l’ago,

quello di ogni sera

e i fantasmi ritornarono per tenerlo vivo ancora.

E’ il nuovo anno che bussa alla mia porta.

E mi invita a guardare la possibilità e le novità che ha da donarmi.

Anche lui vuole essere protagonista della storia.

Magari non con guerre e orrori.

Vorrebbe regalarci sogni e cultura, parole e poesie.

Vorrebbe solo che una musica diversa risuonasse per queste strade deserte, deserte di gioia e sorrisi.

E’ da tanto troppo tempo, che viviamo come morti, zombie comandanti da un Enneade di saggi, che forse neanche ci manipolano, quello lo facciamo benissimo da soli.

Loro sono assisi su troni d’oro intenti a indicarci per noia come vestirci, come pensare, su cosa indignarci.

Ci obbligano a ballare la musica più stridente, spacciandocela per un opera di Paganini.

Balliamo convulsamente la nota del diavolo, in cerca di un oblio o di un emozione che ci faccia sempre sentire il cuore in gola.

E mastichiamo slogan che perdono il peso e il senso della parola.

Perdono la magia demiurga di creare porte per arrivare su altri universi e perdono la capacità di farci ridere delle nostre assurde ossessioni.

La libertà ci è negata, come se fossimo costantemente osservati da un occhio onnipresente e onnisciente, come se vivessimo davvero dentro una città comandata da qualche strana setta.

Allora ho invitato il nuovo anno a entrare cercando di indagare nella sua mente.

Sei davvero un anno che vuole fare la differenza?

O Sei il solito millantatore da cui debbo difendermi?

E allora nel dubbio ho preso il mio libro preferito, Caffè Coppede e l’ho usato come scudo per evitare ogni assalto pericoloso.

Ho aperto quelle pagine che profumano di fiori, di rose e ho iniziato a leggere nuovamente le assurde avventure del mio Saverio Trinca. Sapendo che la risata avrebbe sconfitto le ombre e che il vedere i difetti resi eclatanti dalla bravissima penna di Daniele mi avrebbero aiutato a crescere.

Perché solo attraverso quelle pagine in bilico tra denuncia sociale e irriverente humor nero, posso trovare la chiave per maturare.

Nasciamo tutti come Trinca, impegnati alla ricerca della sicurezza, impegnati a inchinarci fantozzianamente al re di turno.

Impegnati a nascondere la peggiore verità sotto il tappeto del simbolo.

E cosi se un libro vi svela la via della consapevolezza, vi svela che siamo tutti sudditi di potenti che si divertono a giocare a intellettuali o chissà che esoteristi, mentre mangiano e bevono godendosi la nostra servile compiacenza, allora forse una speranza di essere migliori di come oggi appariamo, esiste.

Caffè Coppede, al pari di Forno inferno è il libro che rivela, meglio di un dotto Picatrix.

Migliore di un Corpus Hermeticum.

Svela che l’unico vero esoterismo, ossia ciò che è celato ai più, è quello di un compianto scomparso uomo, che oggi si indigna per le scemenze ma lascia che fatti di cronaca si svolgano sotto il suo sguardo complice.

Vi invito a trovarli in questo testo.

Vi invito a scavare grazie alla risata il substrato sociale che fa da sfondo alle esilaranti e al tempo stesso amare vicende di questa strana setta, che governa Roma, dove in fondo assassini e vittime si confondono in una folla danza carnevalesca.

Cosi come la vita confonde gli indizi e fa passare il truce come un eletto, il brigante come un eroe, il cattivo come il buono di turno.

Che fa passare l’umanità vestita come un clochard il male assoluto mentre la violenza nascosta dietro lo smoking viene quasi invidiata.

E allora Grazie Daniele per spiazzarci, perché ogni risata nasconde una domanda.

E la domanda, anche senza risposta, ci invita a cercare.

E quindi a muoverci e viaggiare.

E chi viaggia non torna mai come prima.

Ogni assurdità, a tratti eccessiva e grossolana ci fa riflettere su che razza di mondo stiamo difendendo.

E magari una volta compreso questo arcano segreto, capiremo che la vera bellezza del grottesco rappresentata dalla stranezza del Coppedè è nell’armonica imperfetta simbiosi di ogni elemento.

Bizzarro e logico convivono.

Assurdo e consuetudine si abbracciano fondendosi in qualcosa di unico e di bello.

Nessuno lotta per primeggiare.

Allora anche l’oscurità, che torna a casa, torna a essere inserita in una complessità che oggi vogliamo solo negare, diviene meno pericoloso.

Perché è isolando ogni elemento del nostro vivere, ogni tassello della nostra anima che rende il mondo una selva oscura da temere.

E’ quindi con la riunione degli opposti, che forse l’etica diventa più umana.

Mentre i grandi discorsi, l’esaltazione della banalità del grande ideale non è altro che un alibi dietro cui si nascondono i potenti.

Ma sono davvero potenti?

Perché in caffè Coppede sono tutti macchiette, sono tutte grottesche caricature.

Sono cosi esagerati da rappresentare loro l’eccezione.

L’uomo è molto di più di cosa leggiamo.

E allora è lo stupirsi l’indignarsi e il ridere di quell’abominevole illogicità la nostra arma di difesa contro il “male”.

Ecco perché visto che non so che anno sei caro 2020 mi difendo da te e dai tuoi eventuali tentacoli, stingendo a me questo prezioso libro.

 

 

“L’uomo di carta” di Sharon Bolton, Newton e Compton editore. A cura di Alessandra Micheli

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Sarà l’età o il particolare momento che sto vivendo, ma il libro di Sharon Bolton mi ha colpito fino in fondo all’anima.

Non è solo un thriller, non c’è solo quel senso di claustrofobia o di orrore davanti alla scelleratezza umana.

C’è molto di più.

Esiste un je t’accuse profondo e pertinente a questi strani tempi che stiamo vivendo.

Tempi in cui tutto è alla portata di tutti, le distanze si annullano, le capacità umane danno il meglio di se instaurando, per ironia della sorte, una specie di dittatura tecnocratica.

E a farne le spese sono i rapporti umani, la comunicazione fatta di gesti e di mimica facciale, sostituiti oramai dalle macchine e dai social.

Le tradizioni ci appaiono obsolete, ingombranti in questo nuovo millennio di sfide superate e di nuove da guardare con arroganza.

La superstizione è relegata nell’angolo oscuro di una mente che ha scelto di credere nella meccanica e mai più alle suggestioni dei sentimenti.

Perfetto direte voi.

Peccato che per quanto ci sforziamo restiamo umani, totalmente umani, in balia degli stessi demoni che oggi rinneghiamo.

E cosi la conoscenza diviene pugno o coltello per incidere sulla carne della nostra socialità e iniziare a servirsene per scopi non proprio luminosi.

L’uomo di carta racconta di questa costante perdita di noi stessi, palesandoci come, oggi alla soglia del terzo millennio, siamo ancora attaccati a stereotipi e tradizioni.

Solo che le capovolgiamo.

Ecco che la strega torna in una forma diversa.

Non più colei che manteneva intatte le speranze di un popolo annichilito dal potere, di chi fungeva da collante per tenere unita una solidarietà contadina lacerata dalle nuove realtà sociali delle città.

Oggi la strega è colei che si oppone alla massa, si oppone al diventare omologata e accettare in modo pedissequo, le leggi oramai legittimate e conclamate dall’alto.

L’uomo di carta è la storia di un mondo che perde se stesso, ma anche la storia di un potere femminile braccato dalla volontà di dominazione rappresentata appunto da chi, alla tradizione, preferisce la finalità cosciente.

In questa storia di colpe e di redenzioni è palese come oggi tutto sia sacrificato al dio business, al dio affare, al dio denaro.

Persino le antiche tradizioni.

Ecco l’urlo di ribellione di quelle donne rese dissidenti perché incapaci di abbassare la testa e di farsi cancellare dalla realtà:

È da tempo ormai che abbiamo smesso di fidarci degli uomini interessati alla stregoneria. Gli uomini vogliono entrare nella nostra congrega per imparare le nostre arti e poi usarle per fini sbagliati».

E questa l’Amara realtà.

Ci chiamano streghe perché non riusciamo e non vogliamo riuscirci a entrare nei loro sordidi giochi di potere.

Ci chiamano streghe e ci bruciano perché tentiamo di rendere reali i nostri sogni, di un mondo dominato dalla cooperazione e mai dalla sopraffazione.

Chi chiamano streghe perché amiamo il contatto con l’essenza di ogni cosa, fuggendo inorridite la costante apparenza.

Che è e resta prigione dei sensi e delle volontà.

Ci chiamano streghe quando non accettiamo di interpretare il ruolo che loro hanno scelto per noi, persino il modello di abito da indossare, il saluto con cui entrare in società, il trucco e la camminata, sempre sui tacchi in punta di piedi per non disturbare.

Ci chiamano streghe perché abbiamo cosi tanto amore per il nostro corpo da impedirci di mostrarlo ai lupi affamati.

Ci chiamano streghe perché immaginiamo vite diverse, immaginiamo e con questo potere plasmiamo realtà.

Ci vogliono al rogo perché rappresentiamo l’alternativa a una vita monotona e standardizzata.

Ci chiamano streghe perché proteggiamo, impastiamo con lacrime e sangue il nostro domani.

Perché il dolore lo abbracciamo e con esso danziamo un ballo tondo, un ballo persino con la morte che davanti a noi si inchina con riverita ammirazione.

Ci chiamano streghe perché sappiamo vedere oltre il velo, sollevarlo con rispetto e rimetterlo a posto, vincendo la tentazione di usarlo per i nostri fini.

Ci vogliono bruciare perché urliamo la nostra indignazione, perché cantiamo a squarciagola, perché siamo scollacciate e a volte irriverenti. Perché l’autorità per noi non è un qualcosa calato dall’alto ma donato dal popolo.

Ma mentre noi bruciamo sui roghi di anni di prigionia, noi restiamo donne.

Voi uomini di carta, cosi fragili che la pioggia vi distrugge.

E mentre scivolate via in rigagnoli di limpido liquido disceso dal cielo, noi veniamo ri-battezzate e ne usciamo diverse.

Credo che le donne battezzate in questo lago cambino»,

La donna che nuota nelle acque torbide degli eventi, non affoga.

Ne emerge diversa.

Non abbiate mai paura del flusso anche selvaggio, devastante della vita. Voi siete parte di quel flusso.

Voi siete l’oggi e il domani.

Voi rappresentate la terra e il cielo.

Non abbiate mai paura di chi vi teme.

L’uomo di carta:

è la storia delle donne e delle streghe. Dei bambini che amiamo e dobbiamo proteggere. E degli uomini che ci temono.