“Cenerentola è una stronza” di Shannon Helth e Beau Nelson, Libreria Pienogiorno. A cura di Alessandra Micheli

Se non fosse stato per una mia carissima amica, non avrei mai davvero compreso il valore di questo acuto saggio.

Diciamocelo dai.

Il percorso raccontato qua fa parte della mia evoluzione da circa 24 anni.

Ventiquattro anni dio mio.

Tentativi e errori, dolori immensi e rabbia.

Tutto per poter rialzare la testa e sfidare con fierezza quella gabbia che mi imprigionava da tempo.

Fiabe o soltanto modi d’essere che mi stavano stretti e soffocavano ogni mio afflato all’infinito.

Sono schemi che mi proponevano con voce suadente, modelli comportamentali che tentano a nascondere, come direbbe Clarissa Pinkola Estes, la coda di lupa selvaggia, sotto le elaborate vesti alla moda del mio tempo.

E con molta fatica mi sono piano paiano avvicinata alla liberazione. Non ho certo superato ogni limite.

Affatto.

Ancora oggi, alla veneranda età di quarantotto anni certi pensieri mi arrivano alla mente, di notte, quando le difese mentali sono abbandonate e io sono in una fase di completa fragilità.

Allora ricordi di come si debba amare, come debba essere una donna, rivivono e si insinuano lungo i solchi di una mente stanca di combattere.

E iniziano a logorare tutto il castello che ho innalzato con orgoglio. Piano piano, con una ferocia assoluta.

In quel momento mi chiedo se sia davvero valsa la pena indossare una diversa identità, sicuramente più vicina alla mia originale essenza, quella discesa dalle lacrime della Sophia perduta.

Anche io subisco la tentazione di mollare.

Semplicemente gli anni di impegno, di lotta, le esperienze e persino le ferite e il dolore provato divengono la mie armi.

Un armatura ricca dei no che ho detto lungo quell’addestramento che mi ha resa coriacea e forse completante integra, nonostante la mia fragilità tutta umana.

E allora sorrido.

E i pensieri che tentano di ingabbiarmi di nuovo, sono soltanto nuvole, nuvole che non possono offuscare lo splendore che mi promette l’orizzonte.

Ecco la differenza tra me e ogni donna di oggi non è la tentazione. Quella è lecita e deve esistere perché mette alla prova ogni volta la volontà di abbracciare la colonna del rigore in attesa di essere sfiorati dalla compassione.

La differenza è la resilienza.

Quella che non allontana certo la seduzione dell’omologazione, la bellezza di usare un trito modello per poter vivere in pace con i miei simili.

Semplicemente conosce le lusinghe e le smaschera facendo si che l’idea di amore, l’idea di donna appaia soltanto nella sua oscena realtà: non certo una principessa, ma un cadavere putrescente, capace soltanto di insozzare la tua anima con effluvi di morte.

Ecco perché mi sono chiesta se davvero oggi ci siamo donne che quel velo non sono riuscite a sollevare.

Che pensano di liberarsi, ma che sostituiscono soltanto una dipendenza con un altra, più elegante, più nascosta e al tempo stesso feroce nello stesso modo.

Mi sono davvero chiesta se quei consigli, se l’esperienza ovvia che ho letto e che riconosco come valide perché l’ho oramai assimilata, bevuta con la stessa sete di un bimbo in cerca del latte materno, sia davvero necessaria.

Ho peccato di arroganza sapete.

Io ho oramai anticorpi verso ogni idea malsana su come una donna deve vivere.

O amare.

Altre no.

E negli occhi di questa ragazza dalla chioma ribelle, ho compreso come la sindrome di Cenerentola, non sia del tutto distrutta.

Noi che cresciamo con storie in cui è la sottomissione a far da padrone.

Con l’idea di essere brave, buone e zitte, belle e ubbidienti, e che questo ci regali quel briciolo di serenità elargita con sussiego come un gesto misericordioso.

Non è quella la compassione che ci serve, quello di cui abbiamo bisogno.

Compassione è ben diversa.

Connessione.

Quel sentirsi finalmente parte di un tutto che non ci limita ma ci rende importanti in tutta la nostra specifica bellezza.

Siamo unici pezzi di un mosaico e assieme formiamo un disegno. Ma se manca un pezzo, allora non esiste nessun disegno.

Ecco che è quel nostro essere unici, diversi, importanti per la nostra strana forma a creare il mondo.

Un mondo che ci appartiene.

Un mondo che è a immagine di quel potere latente che abbiamo, quello di creare, rendere viva un idea, di saper morire e di rinascere. Come fa la natura.

Come fa la Madre Terra.

Come fa la vita stessa.

Noi fasi della luna, capaci di sentire i flussi della marea.

Costrette a servire, a indossare scarpette di cristallo per poter essere scelte da un coglione che crede di conoscerci soltanto perché sa il nostro nome.

Un deficiente in calzamaglia che ci fa sto regalo di ingabbiarci un un alta torre, pretendendo la libertà in cambio di vestiti, onori e un amore di plastica.

Che amore potete provare se dovete sforzarvi di assecondare un irrealistica immagine per ottenerlo?

Cenerentola non grida.

Non urla.

Non dice parolacce.

Non da schiaffoni alle sorellastre.

Non impreca.

Non sogna di essere qualcosa a prescindere dall’identità del proprio compagno.

Cenerentola è soltanto ballo ,scarpetta.

Non pensiero, azione e sogni.

E’ questo modello che ci ha funestato per tanti troppi anni.

In in vetrina, confezionare apposta per attirare il miglior compratore.

Noi vilipese ogni volta che tentavamo di imporci,scendendo dal piedistallo e desiderando ardentemente di correre in modo scomposto.

Noi che alla dipendenza avremmo preferito la complicità.

Noi che non vogliamo ne stare avanti, ne indietro all’uomo, ma affianco, cosi come racconta il simbolo della costola.

A fianco dell’uomo.

Camminando sulla stessa linea.

A guardare lo stesso orizzonte.

Cenerentola è sempre un passo indietro.

Evanescente.

Irreale.

E capace di esistere soltanto se imbellettata.

L’amore cosi raccontato non è altro che una bella trappola sapete?

Nessuna discussione.

Perché l’amore arriva in un attimo, ti mozza il respiro e ti incendia. Perché se si trova un amore simile, si deve rinunciare a tutto.

Anche alla propria anima.

E invece l’amore è simile alla terra.

Per far crescere qualcosa dovete scavare, dissodare il terreno, seminare, annaffiare.

L’amore è il pane da cuocere nel forno sacro, da poter essere usato nel convitto di dio.

L’amore è fatto di farina colta dal grano seminato da un contadino fiducioso, capace di sfidare temporali e caldi asfissianti.

Cresce e deve essere poi falciato, con mano ferma e decisa.

Va separata la pula dai chicchi.

Impastato con acqua di sorgente fresca e cristallina e mani amorevoli ma forti.

L’amore è come la salita verso la cima di una montagna immersa nella magia delle nuvole.

Faticoso il viaggio.

Spezza il respiro la salita.

Ma con sudore e una punta di gioia si continua a inerpicarsi sempre più su, mano a mano che gli occhi si abituano alla bellezza e non ci si accorge che si è arrivasti in cima.

E dalla cima si scopre quanto sia vasto l’orizzonte e quanto sia vicino il cielo.

Non sono balli.

Non sono certamente i giochi proibiti.

E’ carnale e spirituale.

E’ fatica e meraviglia.

E pianto e sorriso.

Ed è per te, ragazza dai rossi capelli che vuoi davvero amare senza più stare in vetrina.

Per te che non ammetti mai di aver bisogno di aiuto, perché il modello della donna forte è troppo presente.

E che invece non sai che nel silenzio, qualcuno accarezza i tuoi sogni.

Anche se non si fa vedere.

Per ogni ragazza che oggi si sente perduta, per te che senza un uomo accanto ti senti incompleta.

E per te che oggi scopri te stessa grazie alla consapevolezza del potere femminile..è ora di mandare proprio a cagare Cenerentola.

Fatelo assieme a Beau e Shannon.

Fatelo e non ve ne pentirete

Parola di una vecchia zia che ha sempre preferito il te con il Cappellaio matto a quella sfigata con la scomoda scarpetta di cristallo.

Quando si lotta per qualcosa di importante bisogna circondarsi di persone che sostengono il nostro lavoro. È una trappola e un veleno avere intorno persone che hanno le nostre stesse ferite ma non il desiderio vero di guarirle.”

Clarissa Pinkola Estes

“Nella valigia di Sigmund Freud”, di Alessandra Falasconi, Queen Kristianka Edizioni. A cura di Barbara Anderson

Mi ha personalmente sempre affascinato la preparazione della valigia, quando dobbiamo partire per un viaggio. 

Mettere tutto ciò di cui abbiamo bisogno all’interno di un oggetto che ci limita nelle dimensioni e nelle quantità, costringendoci a selezionare ciò di cui abbiamo bisogno e piacere che venga con noi.

Quando ho letto questo titolo ho pensato all’importanza che hanno gli oggetti che decidiamo di portare con noi e le motivazioni a cui il portarle è legato: che si tratti di necessità, di comfort psicologico o di portare con sé qualcosa che ci faccia sentire a casa anche quando siamo lontani, qualcosa che ci rappresenti o che descriva in qualche modo la nostra personalità.

Alessandra Falasconi fa questo esperimento di scrittura che ho trovato assolutamente interessante e capace di alimentare la mia instancabile curiosità; mostrandomi un modo nuovo per poter scoprire il volto e la personalità di un personaggio che viene considerato il Padre della psicoanalisi: Sigmund Freud.

Uomo di grande prestigio e talento che ha fondato le basi della psicoanalisi con le sue ricerche, i suoi studi e le sue teorie straordinarie utilizzate ancora oggi, teorie su cui ancora ampio studio è necessario fare perché non si finirà mai di scoprire i meandri segreti della psiche umana.

Come Freud cercava di entrare nella testa dei suoi pazienti per capirne le dinamiche e le patologie, così noi entreremo nella sua valigia come se fosse un magico portale che ci mostra il suo vero Io, l’Es e il Super Io dell’uomo della psicanalisi.

Proprio Freud asseriva che il comportamento umano è influenzato da ricordi, da pensieri e impulsi inconsci.

Ognuno di noi ha un Es (istinti primordiali), il Super Io che contiene il senso della moralità e un Ego che cerca di bilanciare, equilibrare, l’Es e il Super Io.

Ogni oggetto ha un aspetto e una funzione psicoanalitica (per oggetto non intendiamo solo le cose materiali ma anche l’oggetto come persona, come soggetto vitale che fa parte della nostra vita, l’oggetto e gli oggetti con cui interagiamo e di cui ci circondiamo e siamo circondati.

L’autrice cosa fa quindi con questo romanzo?

Utilizzerà proprio gli oggetti per raccontarci gli affetti di Sigmund Freud, mostrandoci l’altro volto di Freud, quello più interiore, più intimo.

Attraverso una prosa semplice, piacevole, leggera, cerca di spiegarci il lavoro svolto da Freud in maniera comprensibile ma soprattutto coinvolgente, toccando argomenti delicati e importanti con sensibilità e rispetto.

Come la psicoanalisi muta nel tempo, evolve, camminando al passo del pensiero scientifico, così lei ci permette di muoverci a piccoli passi nei concetti di base della psicoanalisi, facendoci diventare esploratori, ricercatori, archeologi del passato di Freud. 

Quando ci riferiamo agli oggetti dobbiamo immaginare la loro dinamica che sta contrapponendo l’oggetto al soggetto. Per oggetto ci riferiamo anche all’oggetto sessuale, alle pulsioni, considerando le correlazioni tra questi poli e il legame che si instaura tra l’oggetto e il soggetto e viceversa.

Abbiamo tutti un personale rapporto con le cose, con le persone, oggetti su cui proiettiamo le nostre ansie, le nostre paure, perfino le nostre speranze, i nostri desideri.

Ci sono oggetti che ci fanno sentire bene, sereni, altri che ci ricordano situazioni dolorose e tristi. Altri ancora che ci riportano alla felicità.

Un saggio indubbiamente per un pubblico curioso; Freud era un uomo felice? Era un uomo fatto di successi e di fallimenti come tutti del resto.

Pensate che negli anni 80, lo studioso Jeffrey Masson riuscì ad accedere ai documenti clinici e inediti di Freud e al suo archivio personale. Immaginate la preziosità di quelle carte, di quegli studi, di quei casi clinici.

Tra le carte furono ritrovati anche degli oggetti come un planisfero trafitto da spilli rossi con cui come in un risiko atavico Freud evidenzia i territori originari della psicoanalisi. 

Freud agiva come se fosse il conquistatore delle terre inesplorate della mente, così si comportava nelle sue ricerche, esplorava, scavava, ricercava per conquistare un altro pezzo della mente umana e per comprenderne il significato.

Pensate alle abilità della mente che riesce perfino a cercare di ingannare se stessa bypassando, rimuovendo i contenuti per riuscire ad aggirare la censura della mente; tanto da arrivare a noi attraverso il sogno. Anche questo ampiamente esplorato dal grande Freud.

La psicoanalisi è un edificio a multistrati che va costantemente esplorata tanto che ad oggi essa deve interagire con altre discipline come ad esempio la neuroscienza.

Gli oggetti, le cose, le azioni, le decisioni che prendiamo sono messaggi, sono segnali che vogliamo inviare a chi ci guarda e a chi ci è accanto.

Basta pensare al tatuaggio e al piercing per esempio come dei rituali che vogliono dire al mondo che il passaggio dal bambino all’adulto è avvenuto, l’assumersi la responsabilità del proprio corpo, di decidere di fare qualcosa di permanente e duraturo che rappresenti un’eternità mentale, che si rispecchi nel sociale. Il tatuaggio ci dà la sensazione di essere forti, ci fa sentire protetti e ci fa pensare che chi ci guarda ci veda come persone coraggiose senza paura. Ed è un pensiero inconscio.

Tra i vari oggetti nella valigia virtuale di Freud ce ne saranno molti che rappresentano non solo il suo stato mentale, affettivo ma anche quello sociale e il suo rapporto con se stesso: un anello, simbolo della fratellanza con i suoi esimi colleghi, prestigio, appartenenza, gli oggetti che indossiamo assumono sempre un valore allo sguardo di chi ci osserva.

Un pianoforte, un microscopio, il famosissimo divano…

Pensate al divano della psicoanalisi, pensate alle stanze sterili e asettiche degli studi medici; trovare un divano o una poltrona fa associare alla nostra mente un abbraccio, il conforto di qualcosa, di un oggetto che ci metta a nostro agio, che ci rilassi e ci permetta di affrontare la seduta medica con più serenità, un oggetto che riesce ad adattare uno stato mentale a se stesso e viceversa.

Troverete numeri, statue che sembrano rappresentare metafore dell’occhio e che Freud collezionava e teneva senza un apparente ordine così come fa la mente con i nostri pensieri, i nostri ricordi e le nostre emozioni.

Vi consiglio di approcciarvi a questa lettura con il cuore leggero, la mente curiosa e non potrete evitare alla fine di pensare quali siano i vostri oggetti all’interno della valigia della vita, quali oggetti vi rappresentino davvero.

I miei oggetti forse sarebbero il mio lettore kindle, il mio cellulare, uno stetoscopio, una penna, un quaderno, un rossetto, una fotografia e un libro che mi ricordi il rumore dei sorrisi delle persone che amo.

E voi?

Quali sono gli oggetti che sentite mostrino la vostra pura e intima essenza?

Sono certa che Freud avrebbe davvero apprezzato questo lavoro e questo mostrare le sue cose e ciò che queste hanno rappresentato nella sua vita.

Un uomo che ha studiato tanto le menti altrui non avrebbe avuto nessuna remora a permettere al mondo di ricercare nella sua testa e nella sua valigia.

Un’idea originale, davvero interessante, che mi piacerebbe vedere applicata anche ad altri personaggi importanti della storia, dell’arte e della scienza.

Grazie all’autrice per avermi permesso di esplorare il territorio della psicoanalisi attraverso ciò che rappresentano gli oggetti, i pensieri e le persone.

Bellissima e piacevolissima lettura.

“Il dio del rock è severo ma giusto”. Racconti e deliri sui Guns n’Roses. Autori vari. Les Flaneur Edizioni. A cura di Barbara Anderson

Li sentite questi colpi violenti? 

Quelle urla attutite dal muro del suono, dal muro della mia stanza e da quello del mio menefreghismo?

Ebbene sì, io nella mia stanza con la musica rock a tutto volume e mia madre che sbraita e che urla prendendo a pugni la parete e la porta per farmi abbassare il volume.

Più lei alza la voce, più io alzo il volume.

Il rock ti spacca i timpani ma sempre meglio di chi ti spacca… ben altro.

Sei giovane, sei piena di energie e di rabbia e il rock è tutto quello che ti fa stare bene, che dà sfogo alle tue emozioni, alle tue delusioni, ai tuoi desideri.

Chiusa nella mia stanza io, qualche peluche impolverato, una marea di poster delle mie band preferite, lo stereo a tutto volume e il dio del rock.

Il dio del rock è severo ma giusto, sapete?

Lo si capisce meglio osservando la storia e le vite delle più famose band rock; di come dal nulla, sono diventati qualcuno, di come hanno scalato le vette del successo, come spinti da una forza superiore che li ha tirati fuori dall’inferno facendoli vivere in terra come se nel peccato ci fosse il segreto del paradiso.

Sesso, droga e rock and roll era lo stile di vita di ragazzi inglesi e americani sbandati, che erano cresciuti nel degrado, nell’abuso, anche nella violenza. Intorpiditi dall’alcool e dalla droga ma che avevano un talento straordinario per la musica. Quello che chiamiamo il dono; un dono dato chissà da quale dio.

Se ci fate caso anche ai nostri giorni avrete forse notato come la fama di personaggi famosi tenda a dargli tutto ma anche a togliergli tutto, come da una fortuna immensa poi sussegua una serie di sfortune che vanno dalla malattia, alla morte giovane, alla perdita perfino della propria mente. Sembra come se tutti avessero fatto un patto con il diavolo per avere tutto dalla vita e debbano poi pagarne lo scotto alla fine.

Una fine che per alcuni personaggi del rock arriva anche quando sono molto giovani.

La passione per la musica, la passione per la vita e per i suoi piaceri, viaggiano a braccetto, uno accanto all’altro.

Quando siamo giovani la vita sembra eterna, abbiamo pulsioni, desideri e quel senso di rivolta, di ribellione contro un mondo che ci sta stretto, che non ci rappresenta, che non ci fa sentire accettati e di cui non vorremmo fare e nemmeno parte.

Il dio del rock è magnanimo e ci accoglie tutti con la sua forza, con la sua musica, con il suo essere severo ma giusto.

Gli autori di questo romanzo sono stati capaci di fare un enorme onore a una delle band più popolari di ogni tempo, i Guns n’Roses.

Suonavano una musica semplice ma piena di grinta, erano dei ragazzi oscuri, squallidi, sporchi ma anche onesti e sinceri. 

I ragazzi dell’hard rock americano che esplose come un’epidemia su tutto il globo. Il loro essere così ribelli e selvaggi; una band che sembra essere stata allevata all’inferno e allattata a suon di colpi di sofferenze e di dolore, ragazzi che si sono trovati come se fossero stati scelti da una forza superiore per divulgare qualcosa di unico, di potente di immenso.

Ricorderete sicuramente anche la canzone di un altro grande del Rock: Bruce Springsteen, dancing in the dark

You can’t start a fireYou can’t start a fire without a sparkThis gun’s for hireEven if we’re just dancin’ in the dark

Non puoi accendere un fuocoNon puoi accendere un fuoco senza una scintillaQuesto fucile è in affittoAnche se stiamo solo danzando nell’oscurità

Per ogni fuoco ci vuole una scintilla, qualcosa che crei quella condizione che sia la causa che origina il fuoco e proprio tra queste pagine, in ogni racconto c’è uno “sparkle”, un elemento narrativo che alimenta e ravviva quel fuoco fatto di rock, di musica, di droga e di storia di un gruppo di ragazzi straordinari, che si sono sempre mostrati per come sono senza filtri, senza menzogne.

La scintilla sarà innescata dalla prima storia dove due dita mozzate, Thor, uno zio, un nipote, faranno prender fuoco a questo romanzo mentre la musica dei Guns ‘n Roses vi rimbomba nella testa attivando ogni ricordo di un tempo in cui eravamo giovani, ribelli e anche un po’ incazzati.

Arrabbiati lo siamo ancora, giovani un po’ meno, la ribellione si sta spegnendo e forse non ci farà male leggere questi 25 racconti. Ognuno a modo suo ci mostra la vita, la storia di questa band, ma soprattutto ci mostra le storie degli autori stessi, di come hanno vissuto questo gruppo e di come la loro musica abbia in qualche modo cambiato il corso della loro vita senza che in quel periodo se ne fossero nemmeno resi conto.

La musica ci aiuta, ci solleva dalle sofferenze, ci abbraccia nei momenti del dolore ma ci fa anche metabolizzare la vita e quello che la vita stessa rappresenta. Laddove abbiamo tanti dubbi e poche certezze il rock ci scuote da dentro, ci fa muovere, ci fa urlare come se fossimo anime dannate e intrappolate altrove.

5 ragazzi che negli anni 80, tra cocaina, alcool, e sesso, fondarono questa band che diventò immensa per raggiungere le vette del successo fino al tracollo. Perché tutto ciò che si innalza al cielo prima o poi dal cielo tenderà a cadere di nuovo in terra.

Ma ragazzi, il viaggio verso l’alto è spettacolare, affascinante. Sembra casuale seguendo la vita di questi ragazzi ma poi ci si rende conto che non era stato un caso ma sicuramente un piano divino.

Il cantante Axl Rose

Il chitarrista Tracii Guns

Il chitarrista ritmico Izzy Stradlin

Il bassista Ole Belch

Il batterista Rob Gardner

Suonano un mix di rock classico, di heavy metal, blues e punk. Sono selvaggi, sembrano cattivi ma sono dei bravi ragazzi che hanno una vita sbandata che viene tenuta in piedi solo dal talento e dalla loro voglia di suonare e di cantare.

La musica diventa quella sostanza che gli scorre nelle vene che li vedrà crescere, emergere, fino al loro tracollo.

La causa del loro successo e della loro sconfitta. Perché la vita è bella ma dolorosa e per alcuni ragazzi il dolore è quello che fa scattare la scintilla del successo.

Le storie sono scritte in maniera così coinvolgente e realista che ci fanno tornare davvero indietro nel tempo, ci fanno rivivere momenti del passato accanto a questi ragazzi mostrandoci chi sono, chi erano prima del successo, e quanta fatica, quanto veleno, quanta roba hanno dovuto ingoiare per arrivare al successo, ma soprattutto quanta forza e quanta determinazione in ognuno di loro.

Ci mostrano anche chi siamo stati noi, i loro fans impazziti, sfegatati, che cantavano canzoni, imparando l’inglese attraverso le loro parole.

Gun rappresenta la violenza e Roses la purezza. Il nome li rappresenta in ogni loro sfumatura.

In quegli anni il sesso, la droga e il rock divennero uno stile di vita, quello esagerato degli artisti di successo.

I guns di questi autori diventano i protagonisti delle loro vite così come lo sono stati della mia. Compagni del tempo in cui fummo adolescenti.

È una bellezza vedere come i giovani di oggi stiano ancora scoprendo questi grandi della musica, li ascoltino affascinati senza nemmeno sapere quanto essi abbiano fatto parte della nostra vita in cui ci ribellavamo attraverso la musica.

I 25 racconti che leggerete in questa raccolta vi mostreranno non solo un mito ma anche un tempo in cui questo mito era essenziale e necessario. Dai fan impazziti, allo zio che racconta al nipote chi erano i Guns come se fosse la missione della sua vita.

Scavare nel passato di questi ragazzi, scoprire la storia, le sofferenze, le vite tormentate e maledette seguendone il percorso con entusiasmo ma anche con attenzione perché per diventare grandi nella vita bisogna ingoiare terra ed escrementi, bisogna scavare nel fango, nella melma, bisogna farsi anche del male o averne subito.

Un’antologia che sembra un delirio ma che è come il rock: scorre veloce, ha vibrazioni potenti che ci scuotono da dentro, si sente la puzza di muffa della loro sala prove, quella dell’alcool e della droga ma soprattutto si sente il potere del talento, di come anche dal niente si può diventare davvero qualcuno. Senza nemmeno comprenderne il significato perché per chi ama la musica, per chi fa musica, tutto quello che conta è il suono, il rumore, il messaggio che urlano a voce alta e rauca, verso il cielo, come se fosse una preghiera verso un dio superiore.  In fondo la musica ha origini divine, la musica è l’arte delle muse.

E chi l’ascolta può in un attimo salire in paradiso o sprofondare all’inferno e entrambe le esperienze saranno qualcosa di incredibilmente fantastico.

Complimenti a questi autori davvero straordinari che con stili e talento diversi ci hanno portato a vivere la purezza essenziale della musica dei Guns a colpi di pistola e carezze da petali di rosa.

Complimenti davvero perché mi avete fatto tornare indietro nel tempo ascoltando tutta la playlist della band. 

Apro la porta della mia stanza, non c’è più mia madre a urlarmi di fare meno rumore, non c’è più mio padre a dirmi che ascolto una banda di drogati sbandati. 

Non c’è più nessuno 

Forse non ci sono nemmeno più io; se non quello che resta della musica che ancora oggi, 44 anni dopo risuona nella mia testa al ritmo di questo stanco folle cuore.

She’s got a smile that it seems to me
Reminds me of childhood memories
Where everything was as fresh as the bright blue sky
Now and then when I see her face
She takes me away to that special place
And if I stare too long, I’d probably break down and cry

Whoa, oh, oh
Sweet child o’ mine
Whoa, oh, oh, oh
Sweet love of mine

Per un po’ mi sono sentita grande e capita attraverso la loro musica, oggi conoscendone la loro vita li sento ancora più vicini. Il loro grido non era di rabbia, forse era solo una ricerca di amore.

“Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive dappertutto” di Ute Ehrhardt, Libreria Pienogiorno. A cura di Barbara Anderson

Inutile fingere che non sia così, le donne devono ancora oggi combattere muri di ostacoli e resistenze per raggiungere gli uomini in ogni settore.

Veniamo al mondo partendo da una posizione sociale di “svantaggio”. Siamo femmine, e come femmine veniamo catalogate, allevate, trattate e anche modellate nel modo in cui la società, da anni sotto il potere del patriarcato, ci vuole.

E non importa quanto siamo donne sicure di noi stesse, cadere negli schemi imposti dalla società è veramente più facile che uscirne fuori.

Questa psicologa, terapeuta tedesca, in questo scritto che appare come un saggio, ci parla appunto delle “cattive ragazze”. Cercando di aiutarci nel percorso difficile e colmo di ostacoli a ritrovare i nostri valori individuali e soprattutto la consapevolezza in noi stesse.

Voler accontentare tutti è l’ingrediente per l’insuccesso.

Siamo donne, quindi dobbiamo comportarci in uncerto modo, dobbiamo parlare con un certo linguaggio, con un pacato tono della voce, dobbiamo essere gentili, dolci, ubbidienti, modeste dobbiamo vestirci in un certo modo, frequentare solo determinati ambienti.

E questi preconcetti ci plasmano, e modellano a immagine e somiglianza di quello che vogliono gli altri. Fare le brave forse è più facile che fare le cattive ma sappiate care lettrici che a fare la brava ci si rimette perché la gente tende a prendere quella bontà d’animo e di gesti come debolezza e se ne approfitterà.

Confessiamo, è capitato a tutte di essere troppo buone, troppo gentili, troppo comprensive. Ogni tanto bisogna anche dire NO e bisogna anche urlare BASTA!

Ci stiamo provando noi donne moderne, a imporci con le nostre idee, opinioni, con le nostre scelte, proviamo a far valere i nostri diritti solo che poi inevitabilmente tendiamo perfino a sentirci in colpa.

I nostri mariti devono tornare a casa dalla donna perfetta, curata, magra, bella, la cucina che profuma di buono, i figli sistemati e puliti, devono accogliere i loro uomini e trattarli come se fossero dei re in un castello che diventa prigione.

Con questo scritto l’autrice ci mostra come diventare cattive ragazze e perché farlo non sia una cosa sbagliata ma giusta, come mantenere lo sguardo fiero. Come comportarci per far sì che il linguaggio del corpo non ci faccia apparire vulnerabili quando ci confrontiamo con le altre persone, come convincere prima di tutto noi stesse a capire cosa vogliamo veramente fare ed essere.

Mai mostrare sottomissione abbassando lo sguardo o facendo un passo indietro quando si viene messe davanti a un confronto.

Diventare cattive ragazze non incita a essere malvagie o aggressive o rabbiose ma a spogliarci dei ruoli che ci hanno messo addosso gli altri.

Essere sempre disponibili, vittimizzate, succubi, dipendenti dall’opinione degli altri; disposte anche a subire umiliazioni fisiche e psichiche perché forse ce le meritiamo, perché quei colpi diventano carezze, quell’odio diventa quasi amore ma di fatto non lo è e non lo sarà mai.

Il primo amore della vostra vita dovete essere voi stesse, se non avete stima di voi stesse sarà impossibile che un altra persona possa averla di voi.

Dovete abbracciare la vostra essenza, i vostri desideri, i vostri sogni e impugnare i vostri diritti e farli valere.

Non siamo nate per essere agnellini sacrificali, né per fare le casalinghe o per mettere al mondo i figli, la vita è nostra quanto degli uomini; il mondo è nostro quanto loro e se vogliamo raggiungere un livello di eguaglianza tra i sessi è giunto il momento di alzarci in piedi e di dire anche quei no che sono necessari nell’educazione perfino dei bambini. Far capire quali sono i limiti, i confini che gli altri non hanno il permesso di varcare.

Le generazioni vanno rieducate, gli uomini vanno rieducati, le donne e anche la società e il cambiamento deve partire da tutte noi, all’unisono.

Le brave ragazze vanno in paradiso e, mi duole ammetterlo, è anche vero, basta guardare ai femminicidi che non smettono di avvenire, le brave ragazze che non denunciano i loro compagni, mariti, ex, aguzzini, che subiscono, che abbassano la testa, finiscono tutte in paradiso, chi prima, chi dopo.

La paura di denunciare, la consapevolezza che denunciando spesso si viene giudicate, non ascoltate e che quegli abusi e quelle violenze in casa diventeranno poi anche peggiori.

La paura e la sottomissione ce l’hanno iniettata nel DNA, non c’è nulla da fare. Le lotte femministe delle donne degli anni 90 iniziarono una battaglia che non è mai finita.

È giunto il momento di riappropriarci della nostra dignità e affermazione, smettiamo di diventare donne infelici intrappolate nella depressione e nella paura.

Fare le cattive ragazze non significa diventare selvagge, violente, libertine significa prendere una posizione e mantenerla, significa prendere coscienza dei propri diritti, la cattiva ragazza non obbedisce alla cieca a ogni ordine, si ribella. 

Quella ribellione scatenerà il dissenso di moltissime persone, non piacerà nessuno, ve lo dico in tutta sincerità. La svalutazione della donna è accettabile dalla nostra società e va rifiutata, ripugnata da tutte le donne e se alcune di noi non cominciano a dare il buon esempio diventando cattive allora non ne usciremo mai.

Ho imparato sulla mia pelle che preferisco la disapprovazione che la mia infelicità, che do valore alla mia affermazione prima che a quella degli altri e me ne infischio se alla gente non piace quello che dico, quello che faccio o come vivo; se sembro un arrogante, arrivista, esaltata. Io sono io e intendo essere e rimanere quella che sono.

Ho lo stesso diritto di vivere la mia vita, libera di essere ciò che voglio, di fare quello che sento, senza nessuna imposizione o obbligo di ruolo. Prima di essere donna sono un essere umano ed esigo il rispetto di tutti.

E se qualcuno mi dà uno schiaffo, spiacenti non porgo l’altra guancia io vado subito dai Carabinieri a denunciare.

Preferisco morire per libertà che vivere in attesa di essere uccisa da quello che alcuni definiscono amore.

Il potere del no è immenso, impariamo a usarlo e vedrete che troverete anche uomini che vi sapranno amare per la persona fantastica che siete e non per quella che vorrebbero che diventiate.

Leggendo i dettagli di questo romanzo ho identificato perfino in me gli errori che nella vita ho fatto inconsapevolmente; perché i miei atteggiamenti erano risposte condizionate come quella di Pavlov con la salivazione dei cani. Rispondevo agli stimoli esterni secondo ciò che mi era stato inculcato nella testa e nel cuore, ma per fortuna ho un’anima ribelle e quella non fa passare più nessuno.

Assolutamente una lettura che resta attuale. Che ci fa riflettere e che ci fa ritrovare quella forza che abbiamo dentro di noi, tenuta incatenata da preconcetti e anni di educazione. La chiave per sciogliere quelle catene è un semplice NO.

Ricordiamoci che abbiamo anche noi il diritto di commettere errori e il diritto di poter ricominciare anche da capo.

Il luogo dove dovete andare è dentro di voi, la persona che dovete amare siete voi. 

Tutto il bello verrà, perché quando la vita vi vedrà finalmente sorridere non potrà fare a meno di innamorarsi di voi. 

Siate libere siate forti.

Soprattutto ricordatevi che siamo tutti responsabili di noi stessi e dobbiamo cominciare a essere responsabili dei nostri comportamenti.

Non fate nulla che non sia ciò che volete fare.

Seppur questo scritto ha oltre 20 anni e alcune situazioni non sono quelle di oggi, rimane rilevante e significativo perché basta guardare i notiziari per comprendere che ancora molto c’è da cambiare per poter vivere senza la paura di essere sopraffatte, umiliate e uccise.

Inutile dire mai più e basta ogni volta che ascoltiamo la triste storia di una delle vittime del femminicidio: il basta, il no, il mai più, dobbiamo gridarlo in faccia a chi si sente in diritto di prendere il sopravvento sulla nostra esistenza.

La responsabilità è di tutti. Iniziando dall’educare i nostri figli al rispetto di tutti, mostrando ai figli maschi che non esistono responsabilità di ruolo e alle nostre figlie femmine che hanno un mondo di possibilità come tutti nello studio, nel lavoro, nella vita affinché scelgano sempre di fare e di vivere in vista di ciò che amano e non nella speranza di essere amate, a costo anche di perdere completamente se stesse.

Ancora un viaggio lungo ma in una strada sulla quale non ci è permesso di sostare, dobbiamo continuare a correre verso i nostri diritti. Sempre.

E io invece come sono? 

Sono una cattiva ragazza che spesso lotta anche contro se stessa perché la brava ragazza che ho dentro ogni tanto cerca di prevalere sull’altra e spesso devo dire no perfino a me stessa.

Lettura che ogni donna dovrebbe avere tra le mani ma che sarebbe opportuno far leggere anche gli uomini.

“Apollo, Pan e Dioniso” di Georg Junger , Le Lettere edizione. A cura di Alessandra Micheli

Avrei voluto scrivere questa recensione in modo cosi colto, da far impallidire persino un accademico.

Potrei farlo sapete?

Potrei impegnarmi e raccontarvi ogni aspetto di questa straordinaria filosofia incuneandola nel suo tempo.

Perché sicuramente la riflessione di questo uomo dimenticato dalla cultura odierna lo merita.

Però, non sarebbe stata la recensione per me.

Non quella che mi fa andare a dormire soddisfatta, quasi svuotata.

E io ho bisogno di scrivere e di leggere o per questo.

Per diventare vuoto.

Ma non quel vuoto che fa paura, ma quello che aspetta di essere colmato dal fiume della vita.

Noi siamo troppo pieni sapete?

Di egoismo, di egocentrismo, di convinzioni, paure e idee rigide.

Siamo cosi pieni e cosi convinti che andiamo con una sicurezza pericolosa incontro a un destino che non è certo qualcosa da domare e conquistare, ma fa parte del mistero dell’esistenza.

In quel cosmo cosi profondo, cosi impossibile da raccontare, non siamo altro che puntini in un universo impossibile da delineare.

Infinito.

Ancora sconosciuto a noi che per sentirci degni di tutto questo immenso dobbiamo quasi fare a pugni con lui.

E con Dio, perché dio e la materia sono indissolubilmente legati.

Per quanto vogliamo negarlo, arriverà sempre un punto della nostra vita, in cui la scienza non potrà assolutamente darci la fiducia che serve per intraprendere questo ultimo passo, verso il nostro destino.

E allora, invece di accettare questa verità, accettare una natura nostra che forse è fatta davvero di semi di stelle, siamo guidati da una strana ossessione.

Conquistare una perfezione che non può esistere in questa dimensione.

Noi seppur nati da un respiro di energia, dobbiamo essere imperfetti.

Non ho mai capito perché fino a adesso è soltanto la sporcatura che ci fa ambiare nuovamente il cielo.

Che ci fa propendere e allungarci vero l’infinito.

La perfezione invece ci obbliga a abbassare lo sguardo, a concentrarci in una sorta di voyeurismo pernicioso.

Noi siamo il centro del mondo, e non più parte di esso.

E da questa diversa prospettiva che impariamo a interagire con tutto ciò che ci circonda persino con l’altro.

E da questa prospettiva creiamo miti, idee, ideali e poi in azioni.

Che possiamo raggruppare cosi disgregatorie quando mettono le parti di un tutto una contro l’altra o semplicemente di unione, quando ci accorgiamo di non essere altro che pezzi insostituibili certo, ma che contribuiscono a creare un immenso meraviglioso meccanismo.

Noi siamo le rotelle di un orologio che scandisce le ere, che macina tempi, che tritura vecchi ideali facendone farina pronta per essere il pane di dio.

E lui che lo assapora non fa altro che farci tornare all’origine di tutto.

Vi spaventa quest’immagine vero?

Lo so.

Tutti quelli che hanno bisogno di essere unici, di essere al pari di dio o della bellezza del cosmo, non parti del cosmo soffrono nel pensare a se stessi come parti di qualcosa. Meglio disgregare.

E tutti i malanni che vengono dalla separazione, tra noi e la natura, tra pleroma e creatura, vengono attribuiti non alla disfatta di una percezione limitata ma a un male esterno.

All’altro.

Al nemico.

Alla minaccia di un integrità o di una purezza che non può appartenere.

Perché solo chi si sente mancante di qualcosa e quindi imperfetto alza gli occhi la cielo e sente che dietro le scapole spuntano ali.

Junger lo aveva capito.

In un mondo che crollava a picco, che veniva demolito con un piccone feroce, pezzo per pezzo era la purezza e la tecnica a salvarci.

È peccato che se tecnica e ideale rigido si uniscono non fanno altro che definirci come oggetti sacrificabili sull’altare del signore della Guerra.

Non fanno altro che allontanarci dalla terra, da noi stessi e da quella voglia matta di osservare il celo, la via lattea e sentire con nostalgia che la vera nostra casa è davvero altrove.

Ecco questo saggio, reazione a un nazismo che non aveva nulla di bello, ne magico, ne utile non fa altro che utilizzare archetipi che ci appartengono per riportarci a casa.

Perché anche oggi la solitudine, la tecnologia, la ricerca della perfezione, di una fantomatica purezza originale non fa altro che renderci soltanto dei fantocci. Nell’introduzione che ho letto come fossi assetata, la spiegazione del dramma della modernità è sicuramente molto più approfondita di queste mie parole.

Nate in una sera in cui anche io mi sono sentita soltanto un ingranaggio della macchina del cielo.

E per un istante ho avuto il cuore che si innalzava e ho sentito ali candide puntarmi dietro la schiena.

E mi sono sentita cosi vicina alla verità anche se non potrei mai definirla.

Lei Sophia che ha il volto radioso di Apollo, quello allegro e giocondo di Dioniso e il profumo di bosco di Pan mi ha preso il volto tra le mani.

E mi ha promesso che nonostante ogni orrore che l’uomo schiavo della sua arroganza sta compiendo, io un giorno tornerò tra le sue braccia.

E la natura selvaggia assieme alla luce alla seta di vita, inizia a scorrere dentro di me.

E mi porta dentro la mia essenza perduta, quella che si nascondeva dietro una vecchia quercia, perché sapeva che prima o poi l’avrei ritrovata.

Ho sempre pensato che l‘uomo sia simile a quel prometeo capace di violare le leggi divine.

Ma oggi, grazie a Friedrich so che l’uomo non è altro che immagine di una natura che non deve sottomettere.

Ma abbracciarla, reintegratala dentro di se e liberarsi da quella soggettività fanatica che sembra dominare questo postmoderno decadente.

E se anche voi riuscirete a diventare soggetti liberi, indipendenti da ogni fallace schema pronti a contemplare con apollieno ardore la Madre Terra e scoprire che il timore riverenziale non è altro che il riconoscimento della nostra appartenenza alla sua natura, beh il saggio avrà compiuto la sua azione.

Vibrate all’unisono con la vita.

Non tentate di inserirla in schemi che la feriscono e l’allontanano da noi.

Terribilis est locus iste!

Hic domus Dei

Est et porta coeli

“Ho vinto il festival di Sanremo” di Marco Rettani e Nico Donvito, La Bussola. A cura di Barbara Anderson

Non neghiamolo.

A noi italiani piace parlare di tutto, piace discutere e fare polemica; ci siamo lamentati del Natale, del Capodanno seppur ci siamo fatti prendere dall’entusiasmo e dall’euforia delle festività, dei regali, delle tavole imbandite. 

Siamo stanchi? 

Ci siamo già ripresi dal tran tran delle festività?

Ovviamente no.

Siamo ancora tutti un po’ storditi e intorpiditi dalle riunioni familiari, dal coma etilico e dalla quantità industriale di cibo che abbiamo mangiato per tradizione. 

E adesso?

E adesso si parla del Festival di Sanremo.

Puntuale come un orologio dal 1951 il festival della canzone italiana entra prepotente nelle nostre case con anticipazioni, con i big, con i giovani, con gli ospiti e con i suoi presentatori. 

Gli italiani si dividono in 4 categorie per quello che riguarda il festival:

Chi lo vede

Chi non lo vedrà nemmeno sotto tortura come se si trattasse quasi di una posizione politica

Chi fingerà di non vederlo ma poi non si perderà una serata

Chi non lo vedrà ma farà di tutto per criticarlo

Tra amore e odio a breve inizierà l’attività più amata dagli italiani: la polemica

Nel 1964 una Gigliola Cinquetti ancora in erba vinceva il Festival con la canzone: “Non ho l’Età

Non aveva l’età per amarlo, per uscire sola con lui…

Oggi nel 2024 io ho l’età invece per parlarne; di chi?

Ma ovviamente del Festival di Sanremo visto e considerato che ci son cresciuta, che ci ho riso, che ci ho pianto, che quelle canzoni hanno accompagnato i momenti più belli, più felici, più divertenti e tristi della mia vita.

Il festival della canzone italiana segna un percorso storico e sociale ma anche personale di chi lo guarda, di chi non lo guarda ma poi ne canterà comunque tutte le canzoni.

Facendo un excursus nel tempio dei ricordi per quello che la memoria mi possa aiutare, nel 1977 Homo sapiens vince con la canzone: Bella da morire.

Presentatore il grande Mike Bongiorno.

Nel 1978 i Matia Bazar con:e dirsi ciao

Nel 1985 i Ricchi e poveri con: se m’innamoro

Nel 1996 Ron e Tosca con: vorrei

Salto astro temporale nel 2023 con due vite di Mengoni.

Sapete la cosa allucinante qual è?

Che per ogni anno di Sanremo che è stato trasmesso io le canzoni le so tutte, ma tutte tutte, nessuna esclusa persino quelle che cantava mia madre. 

Il festival ci segna, ci fa sentire di appartenere a una cultura, a un popolo e per chi come me vive all’estero questa appartenenza diventa un patrimonio necessario per farmi sentire ancora legata con un cordone ombelicale fatto di musica e parole al mio paese natale. 

Alle mie origini.

Quando mi è stata proposta questa lettura ho sorriso perché era un po’ come se la stessi aspettando. 

Come se in cuor mio sentissi che questo momento sarebbe prima o poi arrivato.

Chi legge tanti libri sa che prima o poi qualche libro parlerà anche un po’ di lei.

E i libri questo fanno, ci ricordano la nostra storia attraverso le loro storie.

Questo romanzo ci mostra il festival visto dagli occhi di chi lo ha vinto ma che fa rivivere tanti momenti piacevoli a chi il festival non lo ha vinto ma come me lo ha visto.

Il festival della canzone italiana si tiene a Sanremo, la bellissima città dei fiori dal 1951.

Vi partecipano concorrenti, ospiti, direttori d’orchestra più famosi e unici della musica italiana.

Rappresenta non una manifestazione frivola e leggera ma uno spaccato dell’Italia.

Iniziata come manifestazione canora subito dopo la guerra ci mostra la forza e il potere dell’evasione del dopoguerra: un’Italia che si affaccia alla modernità.

Attraverso la diretta in Eurovisione, divi, stelle, dischi, tormentoni, scandali, polemiche perché come diceva il grande Pippo Baudo: “se il festival non crea polemica, allora il festival non lo hai fatto bene”.

Il festival è la componente del DNA della cultura italiana, passano gli anni e si modifica, cambia adattandosi alla società e al tempo. Ai periodi storici e al linguaggio che anch’esso cambia e si modifica in base all’andamento delle nuove generazioni.

Da Grazie dei fiori allaTerra promessadi Eros, al Non voglio mica la Luna, all’Italia sì Italia no, all’Italiano vero di Cotugno, alle lacrime con Perdere l’amore con cui si sono straziate tutte le coppie lasciate e abbandonate. 

Le canzoni sono fatte di parole e le parole attraverso la musica ci raccontano le emozioni ma anche la storia.

Ascoltando una canzone si attivano modificazioni chimiche nel nostro cervello che favoriscono la produzione di endorfine e di dopamina (ormoni responsabili della felicità).

La canzone ha un enorme potere evocativo; ci permette quella che si chiamaimmedesimazione nel testo. 

Alcune canzoni ci fanno stare bene, ci mettono allegria, ci rendono malinconici, ci danno coraggio, ci mettono tristezza, si trasmette un pensiero, si fa anche una denuncia sociale, ci si ribella, si comunica, si trasmette.

La cosa più bella che fa il festival è quella di mettere insieme generazioni diverse, tenendole incollate agli schermi: giovani e vecchi una sfida difficile e complessa che è nelle mani degli artisti ma anche e soprattutto del direttore artistico del Festival.

Proprio poco fa è stato annunciato il direttore artistico del prossimo festival, confermando Amadeus: un presentatore che agli inizi guardavo con diffidenza e che invece oggi considero degno successore di Mike Bongiorno e di Pippo Baudo.

Un uomo che sa fare spettacolo, che sa tenere spettacolo, che sa far sorridere e che riesce a mantenere integri gli equilibri quando questi equilibri vacillano. Ricordiamoci l’episodio tra Bugo e Morgan.

Questa lettura mi ha fatto fare un viaggio nel tempo a ritroso, facendomi vedere i dietro le quinte del festival; ma anche il dietro le emozioni dei vincitori,alcuni dei vincitori più importanti che hanno segnato la storia del festival.

Si inizia dalla bellissima prefazione di Amadeus dove questo ci mostra come il sogno di una vita diventa realtà.

Per una come me per la quale il festival era stato da sempre Pippo Baudo sentire le emozioni di Amadeus e la sua forza ha aperto una finestra nuova su un mondo che conoscevo da spettatrice.

Il direttore artistico che si assume la responsabilità di uno spettacolo così importante per il nostro Paese è qualcosa di bello, di sano, qualcosa che ti fa sentire libero.

Confesso personalmente che per un periodo di tempo non ho visto il festival vivendo all’estero, i collegamenti complessi, il lavoro, ma ammetto di avere sempre seguito e cercato di recuperare guardando video on line, le parti salienti dei vari festival che non ho seguito in diretta. Conoscendo tutte le canzoni, cantandole.

Ricordo quella sensazione, quel tuffo al cuore quando Diodato cantavae fai rumore. Il momento in cui in un gesto che ricorda Domenico Modugno a braccia aperte canta, urla un’emozione che fa un rumore immenso.

Lì ho sentito un tuffo al cuore, i brividi intensi di una forte emozione.

Le canzoni sono come i libri, catalizzano emozioni e ce le trasmettono con potenza, con forza, senza chiedere permesso, sfondano le porte delle nostre emozioni.

Chi canta al festival si mette in gioco e si mette anche in discussione. Si assume delle responsabilità e accetta dei rischi.

E seppure la canzone italiana sta cambiando il linguaggio, quei sentimenti di base dell’essere umano restano intatti.

Le emozioni sono le stesse e con gli anni si amplificano e fanno anche più male e più bene secondo le circostanze, secondo il valore che diamo alle parole.

L’anno scorso ricordo ero nel mio letto. Collegata via streaming al festival che non seguivo da anni. Contemporaneamente al telefono in chat con le mie amiche più strette Eleonora, Jessica, Alessandra, commentando e facendo battute sui vari ospiti, sui concorrenti, sui presentatori, sugli abiti e lontana da casa mi sono sentita a casa, mi sono sentita parte di un progetto fatto di emozioni condivise ed è stato forse il festival più bello che io abbia mai seguito. Perché non ero lontana e non ero sola.

Perché Sanremo è Sanremo e perché fin da bambina amavo Beppe Vessicchio che mi ricordava un po’ Babbo Natale. 

Il festival rappresenta il cambiamento e l’evoluzione senza mai staccare le sue radici dal passato, è qualcosa di bello che va avanti riuscendo a farti fare qualche passo anche indietro.

Un libro piacevole, interessante, scritto in maniera leggera ma profonda e sincera.

Mi fa strano pensare che io ero una di quelle ragazzine che cantava: Siamoi ragazzi di oggi e oggi invece non sono più una ragazza ma una big. Una big fan della musica, della canzone del suo Paese, delle parole, dell’armonia, della bellezza artistica e delle emozioni.

Il tempo passa inesorabile ma la musica quella bella, quella buona resta.

Buona lettura, complimenti agli autori per averci dato e regalato una fetta del festival di Sanremo attraverso sapori nuovi, grazie a chi il festival lo vedrà, a chi lo aspetta, a chi non vede l’ora di criticare ma grazie soprattutto a chi fa della musica la sua vita e la sua passione.

Grazie a tutte le Emozioni che ci avete fatto provare attraverso la forza e il potere di una canzone.

Prima dal salone delle feste del Casinò di Sanremo e dal 1977 dal teatro Ariston di Sanremo e oggi tra le pagine di un libro scritto con rinnovata passione.

Come disse Pier Paolo Pasolini: “è cominciato ed è finito il festival di Sanremo. Le città erano deserte; tutti gli italiani erano raccolti intorno ai loro televisori. Il festival di Sanremo e le sue “canzonette” sono qualcosa che deturpa irrimediabilmente una società”

La sua disapprovazione non era una forma di snobismo ma spingeva verso una volontà gramsciana; verso il concetto di egemonia secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici intellettuali e morali alla società con l’obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi e soprattutto quelle subalterne.

Il festival non è solo canzonette il festival è politica, cultura, società, religione, è un potere di cui spesso ignoriamo la forza.

Bellissima lettura.

“Ti voglio bene. Per una gioia condivisa” Papa Francesco, Libreria Pienogiorno. A cura di Alessandra Micheli

Cosa ci serve per essere felici?

Soldi?

Potere?

Influenza sugli altri?

O bellezza eterna?

E sopratutto cos’è davvero la felicità?

Quella sensazione di vuoto allo stomaco caratteristica di chi ama andare sulle montagne russe, in una corsa sfrenata fatta di discese e salite?

Perché oggi come non mai si sente parlare di guru capaci di illuminarci con frasi perfette per il benessere emotivo, ricette su ricette per una vita feconda e sana, consigli, opinioni che in realtà più che renderci felici, ci rincoglioniscono e stancano.

Basta una sola sessione di auto-consapevolezza, auto-guarigione e auto tutto che ci sentiamo svuotati, sempre più soli e sempre più disillusi.

La gioia, il benessere emotivo e fisico, sono troppo lontani, una chimera, un orizzonte che mano a mano tenti di raggiungere si allontana sempre di più.

E questo rendere frustrato anche il carattere più forte, più equilibrato, più solido.

Cerchiamo di appartenere a qualche comunità, a qualche organizzazione che millanta di custodire il segreto dei segreti.

Viaggiamo in paesi lontani, interrogando i volti che ci appaiono più radiosi e sereni. Proviamo mille percorsi spirituali, e stalkeriamo, letteralmente, il santone di turno.

Che nel migliore dei casi ci manda a cagare, nel peggiore psilla soldi all’ingenuo e disperato di turno.

Alla fine nulla ci soddisfa.

Ne la bellezza artificiale.

Ne il potere.

Ne la ricchezza.

Quel vuoto non va via, anzi.

Diventa sempre più profondo e sempre più compulsivamente lo riempiamo di cose, emozioni spezzettate e nuove dipendenze.

Allora restiamo cosi spaesati, e sperduti, ci sentiamo…senza guida.

Costretti a viaggiare un mondo completamente distorto, senza prospettive, senza logica, senza persino leggi della fisica.

E’ come camminare in un eterno quadro di Bosch, dove le regole non ci sono, dove non ci sono punti di riferimento, dove lo spazio cambia a suo gusto.

E poi ci sono io.

Io che in quel luogo non luogo, fatto di scale assurde e proporzioni sbagliate, mi ci trovo perfettamente a mio agio.

Perché vedete la felicità, quella vera, non può essere fatta di regole, di leggi ne di gravità.

E’ uno stato particolare che arriva quando…buttate via ogni convinzione, ogni apprendimento, ogni certezza e vivete immersi nelle ceneri di cose è stato.

La felicità arriva quando anche in mezzo a un uragano sappiamo che in fondo va tutto bene.

Che non serve seguire pedissequamente qualche linea di condotta, se non quella che si riassume in “siamo amati”.

Da qualcosa lassù.

Da un universo che ci accoglie non perché compassionevole o tollerante, ma perché ci riconosce come parti del suo mosaico.

Da soli siamo colori brillanti, ma è solo inseriti in questo arazzo formiamo figure, scene e racconti.

E sapere che siamo corde di un arpa che può essere suonata soltanto assieme, ci fa sentire completi, affatto sperduti, affatto soli.

E allora la chiamata all’amore, cosi come descritta da Papa Francesco, cosi come la raccontava Anthony de Mello è davvero semplice.

Basta dire si e lasciare che ogni condizionamento cada, crolli e si faldi per tornare terra e polvere.

In modo che persino essa accolga il respiro dell’infinito.

Come, direte voi, è cosi semplice?

Si miei lettori.

Un tempo cercavo in un modo quasi disperato di appartenere a qualcosa, in modo che tale appartenenza mi potesse dare la possibilità di vedermi.

Perché fidatevi, non riuscivo proprio a farlo.

E sapete perché?

Perché lo specchio stesso mi restituiva l’immagine contraria all’educazione ricevuta.

Che mi voleva perfetta, forte, realizzata, dura e al tempo stesso malleabile dal potere di turno.

La felicità però non è una conquista.

Ne un dono.

E’ uno stato primigenio, che arriva quando smetti di indossare occhiali adatti a interpretare il mondo secondo la morale del tempo e semplicemente ti godi il viaggio. Allora capite che, una volta smesso di vedere questo cosmo nei termini del potere, della sopraffazione, della vittoria e della perfezione, cada anche ogni ostacolo alla riunione con se stessi.

Non ti importa la vendetta perché anche se ti fanno male, quel male non scalfisce la corazza fatta, non di fede, ma di bellezza.

Perché se uno vi calpesta i piedi vi fa male, ma quel male è come una nuvole che passa e non nasconde il cielo.

Il cielo è sempre li, a guardarti e invitarti a entrare dentro di lui a giocare con le nuvole e le loro forme.

Se piangi e ti guardi allo specchio non vedi dolore che strazia l’anima, ma occhi brilla nti di chi ha lottato tanto.

E’ un luccichio fatto di vita.

E se guardi il dolore, vedi il tuo cuore che sanguina e con quel sangue semplicemente scrivi la tua storia.

Ogni cicatrice non è altro che il ricordo di un vissuto, di un azione, di una scelta.

E’ il tuo libro, libro da leggere ancora con un sorriso.

E se la notte chiude per sempre gli occhi, è soltanto il momento in cui il viaggio arriva a destinazione e tu torni a casa.

Ti voglio bene non è un libro di dottrina cattolica e cristiana.

Non è un sermone.

E neanche una sorta di apogesi religiosa.

Non lo avrei letto, altrimenti.

E’ semplicemente il percorso spirituale e umano di ogni umano, che perde se stesso soltanto per ritrovarlo.

E’ un inno alla libertà da ogni condizionamento, da ogni idea preconcetta.

E’ semplicemente un inno alla vita perché fidatevi

che senso ha raggiungere persino la luna

ma essere incapaci di vivere sulla terra?

Papa Francesco ricorda semplicemente una grande verità: la spiritualità non è fatta di chissà quali riti, quali segreti, quali astrusi ragionamenti esoterici o stregoneschi.

E’ molto reale e concreta.

E’ il riconoscersi aquile e non più polli.

E’ pensare a amare se stessi e poi l’altro.

E’ provare il piacere di volare e non volare per piacere.

E’ semplicemente comprendere di essere parti di un qualcosa di più ampio che ci comprende e ci trascende.

Fidatevi.

Lo faccio da anni ed è bellissimo amare senza dipendere.

Vivere nel mondo ma senza sentirsi prigionieri del mondo.

Post scrittum. Lettera al mio Dio

Nonostante il freddo sono fuori, e mi godo quell’istante che precede i l buio.

Mentre tutto diventa nero, in lontananza è un esplosione di colori.

Arancio e una fiammata rossa, illumina il tramonto e sembra vincere sul buio.

E’ una strana lotta tra il nero inchiostro che tenta di colare su questa strana città e quell’oro che non cede di un millimetro.

Tutto è avvolto in uno strano silenzio, come in attesa.

Roma ammira questa lotta che non ha nulla di violento.

Poi il tramonto si inchina, e con rispetto di congeda da un buio che gli tributa il merito che spetta a un grande concorrente.

Non so perché questo spettacolo a cui sono abituata da anni, oggi mi colpisce nel profondo.

Sarà che è un periodo strano.

Mi sento sempre in bilico su un sottile filo che si rispecchia in un abisso che non temo più.

Tante volte mi ha fagocitato con quelle sue acuminate zanne, dilaniato, e tentato di ferirmi.

A volte mi sono dibattuta feroce come una leonessa in trappola.

E a volte mi sono lasciata cullare dal suo vuoto.

E l’abisso stupito dalla mia non resistenza mi ha mostrato il suo lato segreto: non un antro vuoto e orribile, una caverna tenebrosa e oscura.

Ma scintillanti stalattiti capaci di riflettere le mille sfumature di un sole che non disdegnava affatto di riposarsi in quel caldo ventre.

Quindi no, non mi spaventa essere un equilibrista.

Mi piace sfidarlo cosi come si sfida un degno avversario, cosi come il tramonto ha sfidato la notte.

E’ solo strano trovarmi qua.

In bilico come un giocoliere che non ha nulla da chiedere alla sorte.

Che non ci gioca più sogni e vita dia dadi.

Che non sente neanche la necessità oggi di provare a qualche lontano spettatore di essere degna, valida e tosta.

Sono qua da un po’ di tempo.

Sola e affatto triste.

Ho gridato tante volte al nulla, al silenzio, piena di dolore di ferite e di terrore.

Sperando che una mano compassionevole mi sollevasse e mi portasse via, da questo circo, dalle fauci dell’abisso.

Si ho chiamato proprio te Dio.

Tu che vieni descritto come potente, amorevole, terribile e al tempo stesso capace di rigore e compassione.

Te che dovrei cercare.

Tu che a volte forse sei passato ma ti sei fermato lontano.

Lontano da me.

Tu che sei in grado di creare cielo e terra.

Che sei chiamato persino come garante della purezza di qualche personalità, tu che sollevi eserciti dicono, che scegli i prescelti e li rendi invincibili.

Tu che sei definito come pieno d’amore anche se il mondo ci fa diventare marci.

Che dicono che ci sei, anche se non ti si vede, che sei accanto a chi inciampa e chi cade, più e più volte.

Tu che con un soffio curi ginocchia sbucciate e anime frantumate.

Tu che non so dove sei mentre sono in bilico su questo filo sottilissimo fatto d’argento come una ragnatela.

Sono qua mi vedi?

E sono io quella che ti ha chiamato da troppo tempo.

Che è arrivata a bestemmiarti, a litigare a fare a botte con te.

Io peccatrice perché alla fine ho detto di non crederci più alla favola in cui tu appari tra nubi e nuvole, con voce tonante e sveli i misteri che opprimono lo spirito dei probi.

A te dio, che dicono che mi ami cosi come sono, imperfetta a volte troppo sola, incapace persino di raccontare all’amico più caro cosa si agita dentro di lei.

Io che ho paura di una morta che mi è passata accanto e ha preteso che la guardassi negli occhi.

E che per non farsi dimenticare mi ha sfregiato l’anima.

Tu che dicono sei il mio creatore, addormentato da qualche parte a sognare altri mondi e altri universi.

Mi sono davvero chiesta, per anni per troppi anni se tu ci fossi.

Per altri anni mi sono sentita abbandonata da te.

Altri ho avvertito come un soffio e giuro, sono stata convinta di averti visto, furtivo, timido nasconderti in un angolo della mia vita.

E ho chiesto un segno per credere in te.

E ammetto che quel segno è stato un pugno in un occhio, uno schiaffo in faccia.

In quell’istante mi sono chiesta se dovevo odiarti.

Se dovevo iniziare come fece Giobbe a urlare forte tutti i torti che mi hai fidato.

Le persone che ti sei portato via.

I rapporti distrutti e mai più ricostruiti.

Quel mio sentirmi sempre a disagio, sola e mai davvero compresa.

Allora ho preso questo libro mio Dio.

E ho cercato in quelle parole di speranza una sorta di mappa per trovarti.

E mentre leggevo ti sentivo ridere sia.

Ridere di cuore.

Perché alla fine quello che Francesco ci dice l’ho sempre saputo.

Dio è qualcosa che vive dentro di noi.

Dio non va cercato.

Semplicemente c’è.

C’è’ nel dolore.

Nella bellezza del mondo.

Quando riesci a perdonare un torto perché sei andata avanti e non ti frega davvero più un cazzo di chissà quale vendetta.

C’è quando dubito e quando ho litigato con il cielo.

C’è perché è terribile e semplice.

Esiste perché esisto io.

E allora mentre la notte copre come una calda coperta la città e quel mio senso di insoddisfatta ricerca di infinito, guardo il libro che stringo tra le mani.

E ogni volta che sono risalita tu c’eri.

In ogni cicatrice tu c’eri.

Ogni volta che ho rimarginato una ferita tu c’eri.

Ogni mia corsa per i prati dei miei monti tu correvi con me.

Ogni sorriso, ogni lacrima, ogni speranza.

Ogni rabbia, ogni sospiro.

In ogni roccia in ogni albero.

Nei miei occhi che hanno imparato a abbracciare l’abisso.

Nel mio sorriso che dietro le lacrime spunta, cosi come spunta il sole dopo una notte tormentata.

Ci sei quando sono riuscita a risalire la discesa.

Quando ho creato, sognato, quando leggo un libro.

Ci sei perché in fondo noi non siamo altro che riflessi tuoi.

Ed è questo che ci racconta questo prezioso libro.

Noi siamo chiamati all’amore.

Chiamati tramite la vita anche i suoi duri colpi a distruggere tutto quell’armamentario di ostacoli che il modo ci impone.

Quelle concezioni sbagliate persino di come tu dovresti essere percepito.

Non in un turbine.

Senza con chissà quale clamore.

Non nei miracoli cosi evidenti e scenografici.

Ci sei nel silenzio.

Ci sei in quell’istante in cui tramonto e notte combattono tra loro.

Ci sei anche ora, mentre scrivo.

E non è una questione di credere o non credere.

E’ una questione di specchiarsi, senza filtri e tre le pieghe del volto semplicemente possiamo vederti.

Perché iniziamo a vedere noi stessi.

***

Dedicata a Anthony de Mello.

Grazie al quale oggi mi sento un aquila e ho smesso di vivere come un pollo

“Il profeta dello psicodramma” di Jacob Levi Moreno, Di Renzo editore. A cura di Alessandra Micheli

Era il tempo dei miei fecondi studi universitari, in particolare l’ultimo step per del mio percorso, quando affrontai l’ultimo, arduo esame.

Eh si.

Anche io sono stata in panico, io che viaggio nei miei sogni a occhi aperti con i grandi antichi.

E tutto per colpa dell’unico, ostico esame: sociologia della comunicazione.

Lo so, lo so miei lettori.

Pensate che il mondo che ruota attorno al codice che ci permette di scambiarci informazioni ( comunicazione appunto) sia semplice e immediato.

Lo pensavo anche io sapete?

E fu grazie all’autore che ispirò la mia tesi di laurea, oggetto dell’esame in questione che compresi come, in quel semplice, apparentemente semplice, scambio di opinioni si celava un intero mondo, strano, misterioso e irto di ostacoli.

Questo perché quando ci troviamo di fronte all’altro e vogliamo “comunicargli” una semplice, misera informazione, in realtà lo stiamo invitando a entrare nel nostro mondo interiore.

Che come oramai saprete, è fatto non soltanto di luci, ma anche di parecchie ombre.

Di scorie e di sotto-testi che vivono attaccati al significato primario, come fa il vischio nei riguardi degli alberi.

Vive come parassita ma al tempo stesso crea una strana simbiosi.

E cosi che si comporta il “rumore” ossia tutto quello che, sembra deviare l’informazione dalla sua destinazione originaria.

Il rumore non è altro che un apparente inceppo che devia l’obiettivo, ossia il messaggio che noi vogliamo far giungere a destinazione.

Tutto questo diventa di importanza capitale proprio perché si mostra, se sappiamo scavare nel profondo, i residui logici di paretiana memoria.

Ecco che l’interazione con l’altro diventa complessa e può suscitare anche piccoli drammi interiori, quando il senso originario diventa fonte di dubbio e di messaggi contrari all’intenzionalità, che mostrano una strana voglia non di creare comunicazione, quanto di ostacolarla, cosi come ci dimostra il doppio vincolo batesoniano.

In questo possono innescare problematiche psicologiche, che ovviamente inficiamo la normale crescita umana.

Ecco che i problemi di interazione, familiari, amicali amorosi hanno origine non solo mentale ma anche comunicativa.

Ed è con la comunicazione che, forse, possiamo se non risolverli almeno vederli in un altra ottica.

Ebbi la fortuna, in quell’esame, di incontrare per la prima volta la tecniche dal gioco di ruolo ossia la possibilità di usare la tecnica teatrale quindi di impersonare una vera a propria scena per apprendere e forse per crescere.

E oggi con questo saggio ho incontrato il fondatore di questa strabiliante tecnica che, non viene oggi usata soltanto in campo “universitario e scolastico, ma anche nelle azienda e forse in alcuni percorsi di terapia in gruppi.

Jacob Levi Moreno fu quindi un innovativo e interessante sociologo fondatore della cosiddetta microsociologia, ossia dell’osservazione, quasi microscopica dei fenomeni associativi.

Analizzando i piccoli gruppi sociali, isolandoli dal contesto più ampio Moreno si convinse che, il gruppo stesso costituisca l’atomo principale e funzionale delle dinamiche sociali tanto che è il suo mescolarsi con altri gruppi che forma strutture sempre più complesse, come lo stato stresso.

Questo lo porta a riflettere su concetti come di ruolo, relazione interpersonale, creazione, creatività e spontaneità.

Ecco che queste teorie e quindi i metodi a esse collegate si fondavano su un tipo di ricerca attiva, capace di scoprire sempre più misteri di queste componenti cardine dei gruppi, dai minori agli ampi chiamato action methods e che proponeva non più un approccio isolato al singolo e alle sue problematiche, ma di tipo sistemico.

Ecco perché le tecniche del gioco di ruolo, dello pisco-dramma hanno una loro importanza non soltanto in ambito terapeutico, ma anche in quella parte della psicologia che si occupa di lavoro, di apprendimento, di formazione diventando quindi versatile, flessibile e sopratutto capace di far sedimentare nel profondo, concetti e conoscenze. Dopo aver impersonato Gregory Bateson, infatti, io sono diventata lui e quei concetti sono stata capace di sviscerarli in modo molto più approfondito tanto che hanno potuto rispondere in modo immediato e sicuramente fecondo a domande relative non solo alla mia crescita intellettuale ma anche umana, andando a creare un ontologia completamente unica, personali e al tempo stesso conscia di essere interdipendente da esperienza, cotesto, doni e apprendimento.

Granze al suo psicodramma noi possiamo superare persino le idiosincrasie presenti nelle socializzazioni primarie e secondarie, creando ex novo quello che Bateson stesso chiama deutero-apprendimento, ossia apprendere ad apprendere.

Questo perché questi giochi di ruolo, devono necessariamente portarti a cambiare gli occhiali con cui fino a ora abbiamo interpretato il modo, le persone e gli eventi.

Che cos’è questo psicodramma?

E’ una forma di psicoterapia che mette i partecipanti al gioco nella condizione di esplorare le emozioni, i vissuti personali e collettivi attraverso una messa in scena improvvisata che trasforma il discorso intimo una sorta di rappresentazione teatrale. Vivendoli come proprio ma la tempo stesso quasi distaccandosi dal loro peso, come se fosse, appunto una sceneggiatura, tutto visto dall’alto, come se si diventasse un osservatore esterno, si riesce a trovare l’origine dei conflitti, elementi che sfuggivano all’attenzione e anche, perché no a vedere la risoluzione degli stessi.

Comprendere la portata innovativa di Moreno?

In questo libro si esplora proprio la sua stessa vita, vissuta come uno splendido racconto, e ognuno di noi al tempo stesso lo rende partecipativo grazie al contributo personale, emotivo che si immette nella lettura.

E trovo essenziale riscoprire questo straordinario sociologo e psicologo, da troppo tempo dimenticato, nonostante oggi il gioco di ruolo sia cosi sdoganato e reso fruibile a ogni tipo di persona.

“Sull’arte medica. Umanesimo scientifico e Intelligenza artificiale” di Guido Del Giudice, Di Renzo editore. A cura di Alessandra Micheli

Sono tempi strani questi.

Cosi legati alla tradizione, specie quella che sembra ripetere in esterno lo stesso accordo.

Eppure cosi desiderosi di andare oltre il confine del cielo, a disattendere i tabù di Dio.

E sarebbe tutto normale, questa danza tra conservazione e innovazione, se l’innovazione non fosse anch’essa ingabbiata dalla tecnocrazia che avanza.

Da questo mondo che deve per forza monetizzare tutto e rendere ogni fatto della vita, ogni persona un mero numero e prodotto.

E cosi quello che un tempo, gli antichi avrebbero chiamato la forza che va oltre, diventa essa stessa stagnazione.

Perché innovare per rendere e creare profitto, significa semplicemente ammazzare cosa ci rende davvero umani: la coscienza.

Chi tutto mostra.

Chi deve esibirsi su un palco, mai soddisfatto dagli applausi, non è altro che un piccolo burattino manipolato dal Re Assiso sul trono.

E cosi ogni valore, ogni ideale diventa remunerabile, tanto che chi quei valori li nutre di sangue, passione e amore, diviene quasi un paria in patria.

È questo che mi rende cosi attaccata al mondo dell’Altrove.

Quello chi ancora crede nei valori, non può essere vilipeso e danneggiati da chi li odia, perché rappresentano l’eccezione.

In questo meccanismo che ci ricorda con terrificante realtà il film di Chaplin Tempi Moderni, noi veniamo, di giorno in giorno, stritolati da quel meccanismo parte di una macchina infernale che deve nutrirsi di ossa e umanità.

Che ci tritura e ci riforma come pallide comparse di plastica.

Bellissimi, perfetti, ma senza più coscienza.

Se tutto viene monetizzato, se la tecnologia non è più cercata per la conoscenza in se, ma per rendere, allora davvero il mondo in cui concretamente ci vede muoverci non è altro che Distopia resa viva.

Pulsante.

Invadendo le narici con i suoi fetidi miasmi.

Troppo dura direte voi?

Pensiamo allora all’intelligenza artificiale.

Privata dalla sua poesia, di quel mistero, al servizio di un capitalismo senza etica, non fa altro che uccidere ciò che nell’uomo porta alla ri-creazione di un mondo diverso. L’immaginazione e le idee.

Giordano Bruno raccontava la sua visione del mondo in ogni scritto, proponendo l’evoluzione, persino scientifica e tecnologica come la dimostrazione di come possiamo interagire nel mondo, in cui Dio può diventare tangibile.

Ma se privata di quel suo lato sacrale e misterico, non è altro che il mezzo con cui produrre.

Produrre sempre più.

Produrre a scapito della soggettività dell’altro.

E tutto diventa quindi commerciabile.

L’arte.

La bellezza.

La scrittura.

E persino la medicina.

Perché la tecnologia raggiungerà sicuramente alti traguardi.

Potremmo combattere la malattia e porre un freno all’arroganza apparente del Dio Eco.

Stavolta potremmo dare ragione a giobbe, quando rimprovera Dio di non amarci abbastanza, poiché ci nega il raggiungimento immediato e gratuito della felicità.

Che non diventa più un percorso ma semplicemente un altro obiettivo, un altra tacca da aggiungere al proprio Carnert, senza che da questo si sia tratta esperienza.

La salute mirerà sempre di più soltanto al risultato, ossia riparare il corpo, meccanico e considerato come un qualcosa di dis-omogeneo dall’interiorità.

E il medico sarà soltanto un manovale.

Qualcuno che riparerà il danno, e se ne laverà le mani.

E noi ci sentiremo come robot a cui si sono soltanto cambiate le batterie, i pezzi di ricambio che sentiremo non più come parti di un qualcosa di unico e omogeneo.

Ecco che la separazione tra mente e copro sarà ottenuta.

Per la gioia degli arconti.

Di quell’essere che si nutre di caso e disgregazione.

no.

La medicina in primis e ogni altra arte e ogni altro traguardo, devono essere inseriti nel contesto giusto, quello che ci apparitene.

Dobbiamo essere considerati un unico organismo vivente, connesso al cosmo, alla natura a ogni sapere.

E la malattia non come un qualcosa a se stante, ma come un sintomo di un corpo che chiede aiuto.

Un corpo unico.

Mente e natura non possano essere separate dalla stupidità umana.

Il dio Eco, non può essere beffato.

Dobbiamo ritrovare l’unione monistica di un passato che deve creare, assieme ai traguardi presenti, un futuro diverso.

Perché scindere nuovamente pleroma e creatura non è altro che un ritorno a un passato in cui è il totalitarismo del sapere a dominare.

E se il totalitarismo inizia dalle idee, può trasmettersi a ogni campo del nostro vivere.

La medicina non può considerare il paziente come oggetto a non soggetto.

Come scisso e non come interconnesso.

E la malattia non è più l’obiettivo unico da riparare affinché l’eternità si spalanchi davanti a noi.

Mente e corpo se disunite creano sempre danni.

Creeranno alterazioni di un sistema totale che continuiamo ostinatamente e voler negare.

E se le parole del passato possono aiutarci a ricostruire una diversa ontologia capace di garantirci un futuro migliore, è nostro dovere farle conoscere.

E’ dall’incontro di intelligenze diverse e al tempo stesso simili, che le idee prosperano e crescono.

Lo scontro è sempre e solo un gioco a somma zero.

Perché è chi crede alla verità

che darà Luce al mondo.

Per te che ancora credi.

Per te che ogni giorno lotti per restare te stessa.

Per te che non hai mai rinunciato a cercare la tua isola che non c’è.

“L’incantesimo di Circe” di Giordano Bruno, Di Renzo editore. A cura di Alessandra Micheli

Quando mi trovo davanti a un classico, faccio un passo indietro e ovviamente mi inchino.

In questo caso il rispetto è maggiora, persino di quello riservato al mio amato Oscar Wilde.

Perché qua non abbiamo soltanto un autore.

Abbiamo un po’ il maestro di tutti noi, noi che non ci siamo mai accontentati di questo piano della realtà.

Che dell’apparenza, che della materia poco si interessano.

Cosi, attratti dalla bellezza, dalle sensazioni che questa provoca in noi, siamo sicuri che tutto ciò che i nostri occhi vedono, contemplano, non è che una parte di un qualcosa di più grande, che sta al di la dell’orizzonte.

E’ come vedere tutto attraverso un vetro.

Sai che il giardino è seducente, ricco di meraviglie, ma tutto ti arriva attutito, opaco. Eppure basta perché risuoni dentro la tua anima qualcosa, qualcosa che ti spinge a ricercare.

La bellezza dell’Altrove la viviamo soltanto in bianco e nero.

Semmai con colori meno brillanti del reale, perché ne resteremmo folgorati.

Cosi come non possiamo, con questi umani occhi, scorgere il vivido splendore del sole. Possiamo solo comprenderlo, come se qualche parte della nostra memoria ancestrale si risvegli, da quel letargo che ci fa sentire soli.

Ecco Giordano Bruno ha aiutato me e tanti altri cercatori, sulla strada per andare dove gli angeli esitano.

Perché qualcosa ci dice che quel orrizzonte appartiene a tutti noi.

E che questa vita è qualcosa id più profonda dell’agonia del vivere di ogni giorno.

Anche con questo scritto lui ci invita a riappropriarci di qualcosa che è nostro diritto. Non è solo un esercizio di memoria, svelato tra le pagine.

Tutto inizia con un invocazione a una divinità troppo tempo dimenticata, quella maga che trasformava gli indegni in animali terreni ma che era in possesso di qualche conoscenza capace di rivelare la natura interiore dell’uomo.

Comprendete l’enormità di questi scritti?

In un mondo che divide in due l’indivisibile, che tronca di netto ogni aspirazione all’assoluto se non incanalata in un percorso ortodosso, allenare quella parte del cervello adibita la ricordo ha una duplice valenza che però, ha sempre lo stesso fine ossia arrivare a sollevare quel velo, perché consapevoli che, questo mondo non è altro che una piccola breve pausa per poi poter raggiungere la nostra vera destinazione.

In questa parte dell’universo noi sperimentiamo il duplice volto di Dio trascendente poiché difficile da raggiungere con i meri sensi umani e immanente, perché in fondo, lo possiamo trovare in ogni roccia, in ogni arbusto, persino in quel cielo stellato sopra di noi.

Allenare la nostra mente non è altro che il modo per riconoscere che Dio e natura in fondo sono un unica realtà e che per conoscere entrambi dobbiamo spogliarci da ogni pregiudizio e da ogni schema ereditato per tradizione.

Come comprese più tardi Gregory Bateson, pleroma e creatura non sono altro che parti di uno stesso cosmo interconnesso e interdipendente in cui possiamo ravvisare ogni aspetto di dio e da questo piombare da una realtà bi-dimensionale a una pluralità di mondi, cosi come è plurale un anima de-costurita e ri-assemblata in modo da essere partecipe di una sostanza ( possiamo chiamarla Mana) che permea tutta la creazione.

Stupendo, a tal proposito, questo dialogo del ‘infinito universo e modi a Filoteo

«Io dico Dio tutto Infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno e infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell’infinità de l’universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi all’infinito, possono esse chiamate parti) che noi possiamo comprendere in quello»

Ecco che per poter arrivare a tale consapevolezza che dio e cosmo sono interconnessi e che quindi dio è Eco, ossia ecologia, che possiamo comprenderlo dunque anche attraverso la scienza, dobbiamo assolutamente allenare la memoria perché possa cogliere infinite e sottilissimi fili che formano questo grande immenso e intricato wyrd.

L’ars memoriae ossia l’arte della memoria si presenta nel suo pensiero come una sorta di emulatrice della natura. Poiché se è dalle idee che il mondo assume la sua forma significa che le idee stesse contengono le immagini di ogni cosa.

Ai nostri assopiti sensi tutto ciò si manifesta come ombre delle verità chiamate idee ed è tramite l’immaginazione potrà essere possibile percorrere l’inverso cammino: ossia dalle ombre ( apparenza) alle idee e dalle idee a dio stesso.

L’arte della memoria non è, dunque, solo un vezzo della retorica ma il mezzo per conoscere e ricreare il mondo stesso.

Un processo visionario che si distacca dal concetto di utilità razionale, cosi come spesso è presentata dagli studiosi che Giordano Bruno ci mostra e ci invita a conoscere perché possiamo, finalmente entrare Trionfanti nel mondo reale, quello che non è più il sogno dell’uomo ingabbiato dall’arconte geloso del suo legame con Sophia.