Se camminare fa troppo rumore, Giusi d’Urso, Il Ramo e la Foglia edizioni. A cura di Barbara Anderson

Ci sono letture che richiedono forza e molto coraggio, sia nello scriverle che nel riuscire a leggerle restando immobili, impassibili, inafferrabili e quando chi scrive una storia riesce a entrare nell’anima del lettore, fino a scavare nella profondità del suo io più profondo allora è impossibile non lasciarsi andare.

Questa è una lettura che ti prende e ti porta via, non lontano, non distante da tutto ciò che ci circonda ma ci avvicina a tutto ciò che più ci spaventa, che ci fa paura.

Tutto quello che è molto vicino perché lo abbiamo ancora intrappolato dentro.

Si dice che nella vita per essere felici ci vuole coraggio, ma non nel senso che bisogna essere incoscienti ma bisogna conoscersi davvero nel profondo, nei nostri fantasmi, all’interno dei nostri mostri, quelli interiori, per poter trovare la forza di superarli, di faci pace, perché sono proprio quelle le cose di cui abbiamo bisogno per superare gli ostacoli, per andare oltre.

Lo dice anche a se stessa la protagonista di questa storia, Sofia: “ci vuole coraggio” e aggiungo forza d’animo per affrontare le difficoltà della vita, cercando di mantenere integri i propri principi, l’educazione, i comportamenti civili.

Il coraggio ci aiuta a uscire dalla nostra comfort zone.

La casa, la famiglia, è il nostro porto sicuro, ma non è sempre così, non per tutti. Ci sono famiglie dove l’amore scarseggia o dove si vive nell’abuso psicologico o nella violenza fisica, spesso la disfunzione familiare ci appare normale, è tutto ciò che conosciamo, non abbiamo altri parametri di confronto e avere una casa, una mamma, un papà che ci vogliono bene a volte sembra essere tutto ciò che di bello si può avere, ma nulla è mai perfetto non come sembra.

Ognuno ha i suoi traumi nessuno ne sarà mai immune purtroppo. 

Sofia osserva il mondo da una finestra alta. Pisa, la città che non ha mai amato davvero che non l’ha mai fatta sentire veramente capita e accettata, la città bella, dalla piazza verde prato e marmo, quelle contrade che hanno ancora impregnato addosso il medioevo, il ponte di Mezzo che separa e che unisce una città piccola ma ancora colma della sua grandezza. Un contrasto tra ciò che è bello e ciò che appare sporco, forse perché quando dentro di noi c’è qualcosa che ci ferisce tutto ciò che ci circonda non ci appare né bello né piacevole e Sofia non ha un bel rapporto con questa città nel suo dialogo tra se stessa, i suoi pensieri e i suoi ricordi si percepisce sofferenza ma anche una ricerca, lo scavare a mani nude dentro le sue stesse viscere più profonde.

Sofia passa le notti con l’insonnia e con mille mila pensieri, con un’atmosfera di forte abbandono di una donna che sta cercando di fare forse pace con se stessa.

Il giorno della sua partenza dalla sua isola del sud fino a Pisa con mamma, papà e le scatole in cui dentro c’era racchiusa quasi tutta una vita, avanti, verso un futuro di nuove opportunità lasciando tutto il resto indietro.

Sofia era la ragazza venuta da lontano, quella ragazzina timida, semplice, riservata, ogni sua frase è un piccolo sussurro, un soffio d’aria sui petali di lontani ricordi. 

I ricordi felici, quelli che la felicità la indossavano anche quando erano tristi. Era sempre stata una bambina con la testa tra le nuvole, che si estraniava dal resto del mondo.

La sua prima casa con il giardino, il primo cane, il primo gatto, la bambola, il roseto.

Voleva bene a sua mamma e anche a suo padre e molte cose che vedeva non le comprendeva perché come dicono i grandi era troppo piccola per comprendere; eppure i bambini non comprendono le cose dei grandi ma ne percepiscono e ne assorbono le emozioni; i bambini osservano e incapsulano tutto ciò che accade, incamerando in meandri della memoria che li tirerà fuori più avanti durante quelle analisi introspettive che arriveranno poi insieme al diventare grandi.

Sofia era un sacco di cose: una piccola fata, un folletto chissà, forse anche una piccola strega.

Il mondo fuori la finestra sembra lontano dal mondo che ha nella sua testa… tutto appare così distante, tutto a volte sembra essere così vicino: i ricordi dei sorrisi del papà, del pane al pomodoro della nonna, delle discussioni ad alta voce, dei sussurri di sua mamma e delle lacrime nascoste dietro le pareti di una stanza.

Sofia era una bambina solitaria fino all’arrivo della sua nuova compagna di banco Filomena con cui divenne inseparabile. Con lei accanto così forte, esuberante, coraggiosa e vitale nessuno l’avrebbe mai più importunata o presa in giro, ora aveva Filomena e i suoi libri, quelli che amava, quelli che leggeva, quelli con cui viveva storie fantastiche.

Iniziano i segreti, quelli da tenere nascosti a papà perché nel contesto familiare di Sofia il patriarcato è forte, predominante, le mani alzate, la mamma a testa bassa, un uomo che lavora, un artigiano che provvede per la sua famiglia, una mamma che si occupa della casa. 

Sofia conosce anche i momenti in cui suo padre ha bisogno di stare con se stesso e quando capita che con un sorriso complice verso di lei tutto il suo diventa nostro Sofia è felice. 

Le cose della vita a volte ci appaiono distorte, anche Sofia vedeva i lividi sul volto della mamma, la faccia gonfia da un lato, un occhio pesto… le cose storte della vita che lei non riusciva a raddrizzare; le cose che venivano rotte e che papà non poteva riparare; le promesse che faceva e non manteneva.

Viviamo a volte in contesti dove ci sono anche le distorsioni cognitive e sia Filomena che suo padre avevano il pensiero dicotomico, loro vedevano il mondo in bianco e nero, dove la realtà è fatta di luce e di ombra cancellandone le sfumature; esisteva solo ciò che era giusto e ciò che era sbagliato, il buono e il cattivo, il bello e il brutto e questo portava Sofia alle distanze, alle rigidità permanenti. Una serie di limitazioni alla comprensione delle cose, una riduzione delle possibilità di scelta, un aumento della depressione, un processo di egocentrismo e così, quando non ci sono alternative, o è tutto nero o è tutto bianco, si arriva a prender perfino le distanze dalle persone, ci si allontana fisicamente, sparendo o oppure essendoci senza esserci. 

Così Sofia passeggia in quella stanza; ogni tanto guardando fuori dalla finestra. Cammina su e giù continuamente come faceva suo padre. Ma lei era identica a suo padre?

Non vuole vedere nessuno ma sente la mancanza di Filomena la sua amica del cuore, sente la mancanza della mamma, quella di suo padre.

Forse le mancava tutto ciò che pensava di avere e in realtà non aveva.

Eppure se camminare fa troppo rumore forse sarebbe meglio cominciare a volare, e così vola Sofia, attraverso la sua storia, attraverso il mondo visto con gli occhi di una bambina che da grande prova a prendere consapevolezza di se stessa e delle sue origini. 

Il disagio di Sofia non è solo fisico ma anche mentale, psicologico, e a volte le turbe psichiche restano segrete, nascoste, perché bisogna essere una famiglia perbene, alcune cose devono restare segrete. 

Nata, cresciuta e vissuta all’interno di una casa dove il modello patriarcale era il centro della sua esistenza, di figlia e di donna. Sofia deve trovare la forza di fare i conti con se stessa, di accettare l’aiuto che le viene offerto, di comprendere che tutto ciò che accade non è altro che una conseguenza di ciò che ci viene insegnato e che certi traumi restano anche quando chi li ha provocati non esiste più.

Mi sono ritrovata molto in Sofia perché nemmeno la mia famiglia era la famiglia perfetta, anche io sono stata cresciuta in una famiglia su modello patriarcale, il mio doveva essere un ruolo di donna, di figlia, di moglie, di mamma.

Anche io ho visto mia mamma con l’ombretto azzurro per coprire i lividi, anche la mia mamma mi diceva che aveva sbattuto la testa allo sportello della credenza e io sapevo che stava mentendo perché lo leggevo in quegli occhi gonfi di lacrime.

Mio padre ci amava a modo suo, in quel modo che era il modo normale, il modello su cui si basavano moltissime famiglie a quei tempi; modelli che ancora oggi continuano a esistere. Anche io come Sofia amavo mio padre ma ricordo al suo funerale avvicinandomi alla sua bara gli dissi: non potrò mai perdonarti per non essere stato il padre che meritavo.

Oggi comprendo che la colpa non era esclusivamente sua ma della società in cui viviamo, degli stereotipi, della cultura ancora medioevale per cui la donna resta sempre in una posizione inferiore rispetto all’uomo, in cui una figlia abbassa la testa mentre sua mamma si copre il volto con le mani. Quando ci sono problemi mentali che andrebbero curati e compresi e non nascosti e negati.

Ad alcuni uomini è concesso tutto anche al prezzo di distruggere tutto ciò che davvero li ama.

Una lettura forte, dove nel finale scopriremo insieme a Sofia tutta la verità della sua triste dolorosa storia. Ci vuole coraggio per assumersi e ammettere anche le proprie responsabilità.

Profondo, intenso, doloroso.

Un’autrice che ama la sua Pisa e ha utilizzato la sua città per raccontare la storia di Sofia ispirandosi al fiume nel cui corso delle acque la protagonista ha cercato più volte la direzione della propria vita.

“La contessa rovesciata” di Elena Davi, In.Edit edizioni. A cura di Alessandra Micheli

E’ importante, anzi importantissimo, che la lettura diventi una faccenda che esula dal piano terreno e diventi una sorta di estasi mistica.

Che coinvolga non soltanto il vostro senso estetico, diventando quindi un feticcio.

Ma che sia per voi un p come il ritratto di Dorian Grey vi rubi l’anima.

O mostri la parte migliore, ma anche peggiore, quella nascosta da strati e strati di socializzazione e di convenzioni sociali.

Quando leggete potete essere imperfetti, arrabbiati, potete sciogliervi in lacrime, lasciando che il trucco cada sulle guance fino a farvi assomigliare a disperati Pierrot.

Quando leggete non sarà mai l’autore a definire non solo il senso del libro ma persino la sua musicalità, il ritmo e la frequenza dei suoi battiti.

Voi lo scrivete.

Lo scrivete con un materiale più prezioso dell’inchiostro.

Lo scrivete con il sangue, le lacrime e ogni sospiro.

Quindi no, un libro non sarà mai solo una foto, una copertina, una moda. Diventerà qualcosa di cosi concreto che quando lo prenderete tra le mani sentirete un piccolo cuore che pulsa.

Ecco cosa intende fare la nostra Davi.

Lasciare che le parole fluiscano, fino a sporcare non soltanto la pagina che lisciate con dita nervose.

Ma la vostra stessa coscienza.

Dovete assorbire ogni racconto, come se fosse aria, per voi da troppo tempo imprigionati.

E ogni racconto dovrà essere una lama acuminata capace di ferirvi, di lacerarvi quell’involucro in cui da troppo tempo siete rinchiusi.

E non so se riuscirete a fare le associazioni giuste, poste alla fine del testo in questione.

So solo che ogni parola sarà solo vostra.

Ogni aggettivo parlerà a voi, a quella parte che ci costringono a tenere nascosta.

E una valanga di emozioni fluirà finalmente dentro le vene divenute aride, da questo assolato palcoscenico, di luci finte, fredde eppure cosi forti.

Forti da ferirvi gli occhi e impedirvi di osservare ancora stupiti il cielo.

Occhi che vedono solo grigi e che non sono certo abituati a albe dorate.

Esiste un filo che unisce ogni racconto?

Sinceramente non saprei dirvelo.

Tranne che leggerlo è ritrovare tutto ciò che vi sto elencando.

Tranne che leggerlo vi farà scordare di posare davanti alla finta telecamera del vostro occhio esteriore.

Perché a volte leggiamo cosi, come se fossimo su un set cinematografico.

E dobbiamo usare pose di plastica, perfette e eleganti.

E invece leggerete, e dimenticherete quel grande occhio.

E come ogni protagonista troverete la vostra libertà.

Che sia nel riscoprire orribili pulsioni interiori.

Chi nel raggiungere l’altrove in qualsiasi modo.

Chi nell’amare.

Chi nel sostare in un attimo che diventa eterno, mentre si intrecciano nodi con le mani e con baci appassionati.

E in alcuni racconti piangerete.

Oh se piangerete.

Senza remore, ne vergogna.

Sentirete quel cuore stringersi, spezzarsi e ricomporsi.

E forse vi arrabbierete.

Ma cavolo conoscerete la vita che forse in questi tempi cosi assurdi vi è stata negata.

Quella fatta di mani intrecciate, occhi rossi per lo sforzo di leggere, perché la commozione è entrata da un solco lasciato incustodito e non è più uscita.

Avrete mani sporche di inchiostro, perché sarà forte la volontà di scrivere il vostro pensiero.

Tenuto per troppo tempo nascosto, a rischio di scomparire nell’anonimato del silenzio.

Ecco io credo che questo sia il segreto del libro della contessa.

Non soltanto un gioco.

Non soltanto un diletto.

O uno scherzo.

Quello che ho provato io mentre lo tenevo stretto tra le mani, quel groviglio assoluto di emozioni, lo auguro a ognuno di voi miei lettori.

Perché se vi vedrò scarmigliati, sghembi, inadeguati, allora significherà che avrete ricominciato a amare non solo il libro.

Ma voi stessi.

“Lady Tan e il circolo dei fiori del loto” di Lisa See, Longanesi. A cura di Ilaria Grossi

“Questa storia inizia nel 1469, nel quinto anno del regno dell’imperatore Chenghua, quando Tan Yunxian aveva solo 8 anni”

Lisa See ci regala una storia intensa, potente, una storia di donne che aiutano altre donne e in particolar modo, la storia della piccola Tan Yunxian che a soli 9 anni perde prematuramente la mamma, promettendo a se stessa che un giorno sarebbe stata in grado di guarire le donne.
Cresciuta dai nonni, studiosi ed esperti di medicina,Tan cresce educata come una donna obbediente, rispettosa, diligente agli studi e soprattutto come esperta di medicina “Fuke” ovvero la medicina per le donne.
Nonna Ru, ha un ruolo fondamentale e importantissimo, è la sua guida di vita e negli studi.
Tan ha ben chiaro chi vuole essere e diventare, aiutare a guarire le donne in difficoltà di tutti i ceti, aiutare la madre di una ragazza come lei.
L’incontro con la levatrice Shi e sua figlia Meiling, futura levatrice, sarà l’inizio di una grande amicizia, condividendo nel corso degli anni, gioie e dolori e aiutando tante donne nel momento delicato del parto, visto che i dottori non potevano avere contatti in quel momento con la donna partoriente.
Dopo il matrimonio organizzato dalla famiglia, Tan Yunxian a soli 15 anni, si trasferirà nella dimora dei suoceri e vivrà lì tutta la sua vita come moglie e madre di quattro figli.
Il desiderio di diventare un dottore è dapprima ostacolato ma grazie al carattere di Tan, ribelle e decisa, curerà tante donne e affiancherà Meiling, nominata levatrice di famiglia.
Lisa See ci accompagna in un viaggio straordinario, unico e pieno di tradizioni e aneddoti del tempo: la dolorosa fasciatura dei piedi per le bambine dei ceti alti, rigide regole da rispettare, matrimoni organizzati in attesa dell’erede maschio, concubine e spesso una vita solitaria.
Tan Yunxian è un grande esempio di donna che si ribella e diventerà la prima donna medico cinese. Una storia avvincente, che commuove, una storia che non può lasciare indifferenti.

“Una donna che aiuta gli altri, aiuta se stessa”

Grazie Lisa See per averci regalato una storia così bella, curata e preziosa di dettagli e tradizioni legate ad una Cina del quindicesimo secolo, con uno stile fluido e scorrevole.
Tan Yunxian è una donna medico che non può essere dimenticata dalle pagine della storia.
Una grande donna, con una storia da scoprire e ricordare, forte e coraggiosa, con le sue fragilità.
Lei ha lottato per tutte le donne del tempo che soffrivano e vivevano situazioni precarie perché trascurate.
Il suo aiuto è stato prezioso.

“Ricorda sempre il tuo posto nel mondo. Seguendo queste regole, ti affermerai come una persona coscienziosa e degna di rispetto”

Buona lettura
Ilaria per Les fleurs du mal blog letterario

“Due minuti d’Inferno”, Giorgio Attanasio, La Bussola Edizioni. A cura di Barbara Anderson

Ogni tanto bisogna imbattersi in letture che siano oscure, macabre, che contengano una profondità culturale, religiosa e anche morale.

Quelle letture che ci fanno riflettere, che ci portano all’esplorazione della natura umana, quella atavica e ancora in gran parte inesplorata.

Due minuti d’inferno vi trascinerà nelle viscere del maligno. Là dove egli risiede, e non si tratta di un inferno come quello dantesco ma un inferno presente nella nostra realtà quotidiana, nella nostra mente, nel nostro cuore.

Innegabile che il bene e il male siano le due forze che muovono l’umanità, viviamo in un’epoca in cui il malessere è esistenziale, c’è la difficoltà del raggiungimento della serenità, della felicità e siamo bombardati da ansie, da stress, da sofferenza e da angosce.

Il bene e il male ce lo dice la storia, la filosofia, la teologia, sono continuamente in lotta tra loro.

Le risposte all’esistenza di queste due forze ci vengono da religione, scienza, filosofia, cultura. Basta fare una ricerca per leggere le teorie di Socrate, di Omero, Platone, Sant’Agostino.

Ad oggi nell’epoca moderna l’uomo è cattivo per natura, mentre il bene è lo scopo ultimo del mondo. 

Kant stesso considera il male radicale come impurità della coscienza morale e come una tendenza naturale e innata degli esseri umani.

Il mondo è caos e oggi i valori sono andati perduti, appiattiti, viviamo nell’incertezza, nell’insicurezza, alimentati dallo scetticismo. I legami affettivi ormai si stanno perdendo, i legami familiari sono allo sfaldamento, i valori sociali quasi stravolti dall’egoismo, dall’invidia, dall’odio e dal rancore.

Siamo appiattiti, atrofizzati e indifferenti nei confronti del male.

Ad oggi le scoperte nell’ambito delle neuroscienze hanno anche confermato che il cervello è una combinazione di bene e male, amore e odio: una parte del cervello in una teoria di Paul MacLean, la parte più antica, viene definita rettiliana (per rettile si intende il male), dove risiede l’aggressività, la violenza, gli istinti ancestrali e più profondi del nostro essere.

Il bene e il male sono radicati nel cervello.

Lo scienziato Baron Cohen dichiara che il male è un deficit di empatia.

Siamo ancora alla fase embrionale della neuroscienza e ci basiamo fortemente sugli antichi filosofi e teologi per la discussione sull’esistenza del bene e del male ma in tutto questo la domanda che sorge spontanea e che tutti prima o poi ci siamo posti è: il diavolo esiste?

Il diavolo esiste come realtà simbolica? È una realtà personale?

Il male è presente nella vita umana; quindi il male è un agente oscuro e nemico? O un essere vivo, spirituale, mistico, pervertito, ingannatore?

Addirittura il nostro Papa Francesco in molteplici occasioni ci parla del diavolo, del maligno, il principe del male, dicendo egli stesso che non è un mito, un simbolo, ma ilprincipe del mondo. Citando proprio una frase di Papa Francesco: il diavolo è tra noi, in noi intorno a noi; la mentalità mondana ci inganna, ci aliena la ragione, ci rende miserabili in lotta con le nostre personali fragilità, la pigrizia, la lussuria, l’invidia, la gelosia.

Pensare che il diavolo sia un mito ci porta ad abbassare la guardia, ci si espone al rischio e al pericolo del suo intervento maligno. Il diavolo non necessita di possederci, ci avvelena lentamente con la rabbia, la cattiveria, l’odio, l’invidia, la tristezza, l’infelicità, l’insoddisfazione.

Bisogna resistere alle sue tentazioni, avere fede, pregare.

Non credere nell’esistenza del diavolo significa non credere nell’esistenza di Dio e viceversa. L’uno esiste in conseguenza e in relazione all’altro e se il dubbio continua ad assalirvi guardatevi intorno. Il mondo in cui viviamo oggi confrontato con quello del passato: il maligno può operare attraverso guerre sanguinarie ma anche con garbo, con educazione, con un approccio quasi gentile nei nostri confronti, facendoci apparire ciò che viviamo come buono e come giusto.

Il diavolo è subdolo ingannatore ed è intorno a noi e anche dentro ognuno di noi.

Non siete convinti?

Siete scettici?

Avete dubbi e la vostra razionalità non vi concede il beneficio del dubbio?

Bene, questo romanzo fa per voi; vi chiedo di leggerlo a cuor leggero ma sappiate che in finale percepirete tutto il peso dell’essere, tutto il potere del malvagio e tutta l’esistenza del diavolo.

Due minuti d’Inferno è un thriller onirico che ci porta in un loop continuo tra realtà e misticismo ma che ci mostra anche la nostra società e la nostra cultura attuale.

Marco, il protagonista, è un giornalista laureato in fisica, un debunker bello, benestante insomma l’uomo che oggi consideriamo realizzato, colui che chiunque desidererebbe essere; la pura essenza dell’uomo di successo di oggi, colui che non ha fede se non in se stesso e nelle sue capacità intellettuali e morali.

Marco si sta recando a una trasmissione radiofonica dove in diretta dovrà rispondere ad alcune domande, in viaggio verso la stazione radio nella rigogliosa bella Toscana, parte da Roma con la sua auto di lusso a tutta velocità.

Sicuro di sé, strafottente, in molti aspetti insensibile alle debolezze del mondo e a quelle umane, egoista forse, indipendente, sfacciato, Marco ci piace perché in lui molti di noi si identificheranno. Se non in ciò che sono in quello che vorrebbero essere.

Durante la trasmissione radio, mentre un temporale si rovescia dal cielo in terra come a scuotere un po’ l’esistenza e i suoi valori, Marco sosterrà le sue teorie, smonterà le certezze di alcuni, i dubbi di altri e affronterà l’esistenza di Dio e quella del diavolo. La scienza riesce a spiegare qualsiasi fenomeno e Marco ha sempre una risposta ad ogni domanda, una certezza ad ogni dubbio.

Gli ultimi 5 minuti della trasmissione entrerà una telefonata che cambierà non solo il corso della storia ma anche quello della vita di Marco, una donna si rivolge a lui implorandolo di ammettere l’esistenza del diavolo, una pazza, una folle isterica che cerca di sentire una conferma; ella stessa è stata vittima del diavolo, ingannata abusata e violata e urla a Marco di ammetterne l’esistenza ma Marco la deriderà insieme agli altri ospiti della trasmissione e al Dj, perché solo una pazza potrebbe fare una richiesta di quel genere e in quel modo.

Marco concede due minuti alla donna per convincerlo dell’esistenza del maligno.

Due minuti d’inferno.

Da lì inizia questo viaggio tra sogno e realtà. Marco finita la trasmissione si sentirà turbato con le parole “tu sei maledetto” che gli si ripetono in loop nella testa, la pioggia, i pensieri, l’inquietudine, giocano brutti scherzi e Marco si perde per quelle strade del Chianti, perderà se stesso, nella realtà così come nella sua spiritualità fino a che sarà coinvolto un incidente stradale.

Al suo risveglio una famiglia lo ha soccorso e ospitato. Resterà lì fino all’arrivo del carro attrezzi, senza connessione internet, senza elettricità, senza possibilità di comunicazione con il mondo esterno ma solo ed esclusivamente in comunicazione con se stesso e con la famiglia che lo sta aiutando.

Da qui inizia un’avventura straordinariamente inquietante.

Cosa c’è dietro al bambino che ha investito durante l’incidente? 

È accaduto veramente?

La narrazione segue delle linee tra realtà, immaginazione, paure inconsce e incertezze inquietanti e macabre. È stato commesso un crimine? Quali segreti nasconde questa famiglia che sembra quella del Mulino Bianco?

Le candele che illuminano l’abitazione sembrano distorcere la realtà e i pensieri.

E il diavolo esiste davvero o è solo come pensa Marco una creatura mitologica creata dall’uomo per risolvere la controversia della dualità umana tra il bene e il male?

Se esiste un dio buono per quale motivo deve esistere il male? Dio è veramente onnipotente e infinitamente buono?

Ombre e luci si mescolano in questa storia e a volte farete fatica a distinguere la realtà dal sogno, il sogno dall’incubo, la verità dalla menzogna, ma soprattutto verrete ingannati voi stessi. 

L’autore che in questo romanzo assume ai miei occhi l’aspetto del maligno riesce a ingannarmi, a trascinarmi là dove desidera che la mia mente vada a cercare ristoro e conforto, con promesse che verranno mantenute, ma sempre e solo a beneficio di se stesso perché con il diavolo non si discute, non si entra a patti, non si fanno affari.

Tra le tentazioni, gli obblighi, le paure più inconsce, Marco, ormai provo di tutto ciò che è nella sua vita e nella sua quotidianità, si troverà a fare i conti con se stesso, tra tentazioni, tra incubi, tra quei legami che lo inchiodano alle sue responsabilità, alla consapevolezza di non essere perfetto e alla rivalutazione della sua fede. 

Riuscirà Marco ad accettare l’esistenza di Dio?

A credere nell’esistenza del Diavolo?

Riuscirete voi lettori a mantenervi in equilibrio tra il bene e il male?

Sono una donna di mezza età un po’ come quella descritta dallo stesso autore, ovviamente, e non vecchia e decrepita; dai capelli grigi e le rughe che divorano la mia faccia, grazie al cielo non sono ancora a quei livelli o forse chissà grazie al maligno che mi rende ancora giovane in apparenza; noi cinquantenni non siamo ancora decrepite, anzi la bellezza in fondo si trova negli occhi di chi guarda.

Ma la società di oggi ci declassifica, ci svaluta, se non hai più 25 anni non susciterai più alcun interesse, la beltà si assopisce e perde agli occhi di chi non sa vedere oltre forse.

Accidenti sto peccando di vanità, è colpa del romanzo che ha scaturito in me pensieri, riflessioni e considerazioni etico sociali e morali.

Il finale vi lascerà con un male interiore che vi porterete dietro non per un giorno ma senza alcun dubbio per l’eternità.

Venite con me due minuti all’inferno sono certa che vi piacerà.

“Certe donne a Torino. Incontri ravvicinati con figure straordinarie” di Marina Rota, Buendia Books. A cura di Barbara Anderson

Ho fin da bambina avuto la convinzione che i libri appartengono a chi li legge e non a chi li scrive perché ogni libro è come una porta capace di aprirci orizzonti, emozioni, pensieri, ricordi, sogni.

Attraverso ciò che leggiamo ritroviamo, scopriamo ed esploriamo parti inedite e profonde della nostra anima e della nostra coscienza.

Torino è una citta millenaria considerata dai mille volti, gloriosa di splendori del passato, germogliata come un fiore di montagna ai piedi delle Alpi, fu culla del Risorgimento, centro dell’innovazione industriale italiana, città da cui trasuda arte e cultura.

L’autrice Marina Rota ci mostra un connubio straordinario tra Torino e le donne.

Donne straordinarie che sono nate o vissute nella bellissima città piemontese o anche donne che sono state di passaggio per questa bellissima città e che hanno lasciato un segno indelebile nel mondo dell’arte, della storia, della cultura del nostro Paese.

Le donne, quelle straordinarie, le paladine delle rivoluzioni, quelle sociali, culturali, storiche, religiose, morali, donne intellettuali audaci, che hanno lasciato un impatto emotivo culturale e artistico non indifferente al patrimonio culturale di questa magnifica città ma soprattutto del nostro Paese con forte influenza anche nel resto del mondo.

Torino ha visto i natali di uomini importanti come Camillo Benso di Cavour, Pietro Micca, ma non da meno sono state le donne da epoche remote fino a quelle più recenti nominandone una che sicuramente tutti conoscete: Rita Levi Montalcini.

L’autrice Marina Rota assume le vesti di una specie di stargate umano, capace di portare di nuovo ai nostri tempi per brevi momenti alcune di queste donne fantastiche, la sua esperienza da giornalista, la sua conoscenza e la sua passione per l’arte in ogni sua forma, laureata in Giurisprudenza è una donna dal talento e dalla scrittura dinamica, che ha una predisposizione straordinaria nell’arte comunicativa.

Con la sua scrittura così curata, profondamente delicata, e di forte impatto emozionale appare a tratti una donna d’altri tempi; intrappolata in questa modernità che a volte sembra quasi non appartenerle, ella ha un legame molto forte con l’eleganza di un tempo e con la gentilezza d’animo di un’epoca che è passata nella storia.

Sembra ella stessa un arazzo, un’opera artistica che diventa il narratore, il mezzo attraverso il quale alcune donne del passato riescono ritrovare non solo la parola ma anche un nuovo attimo di vita.

Questo non è un romanzo come molti altri, questo è una pergamena antica intrisa di un inchiostro magico, che evapora dalla carta e diventa essenza, energia vitale come un soffio, un ultimo soffio di un respiro esalato moltissimo tempo fa ma che ancora attraverso flebili sussurri riesce a trasmettermi messaggi di forza, di amore, di rassegnazione, di coraggio, di passione ma soprattutto sussurri che arrivano dentro l’anima del lettore.

Marina Rota ci porta in questo suo viaggio al limite del fantastico, del misterioso, del paranormale, esoterico, atavico, onirico.

La sua sensibilità artistica e morale la rende attenta a ciò che le accade intorno, recettiva a ciò che vive, a ciò che sperimenta sulla sua pelle, nella musica che ascolta, nelle cose che legge, nei luoghi che visita o che frequenta per il suo lavoro, diventa una via di accesso, un passaggio che viene attraversato da queste donne; dalle loro essenze pure, incontaminate, fragili, dolci, vulnerabili ma caratterialmente forti che ci permettono di scoprire la vera essenza femminile; la sua evoluzione, la sua emancipazione, il potere del cambiamento, dei diritti di eguaglianza, di rispetto, di accettazione sociale ma anche quanto sia stato difficile essere una donna di altri tempi, dei muri, delle barriere da dover superare, dei giganti morali da dover affrontare, degli abissi sociali culturali ed economici da scavalcare.

Donne alcune delle quali erano a me familiari ma molte altre di cui non avevo mai sentito parlare precedentemente che mi hanno incantato con le loro storie, le loro vite, le loro gesta, donne che ho sentito vicine alla mia essenza come un connubio di anime affini che si cercavano da tempo e che finalmente, grazie all’esperimento originale di questa autrice, si sono ritrovate. Conoscendo loro, ho scoperto parti intime di me stessa che giacevano latenti in un angolo remoto della mia anima e della mia coscienza.

Cosa significa essere donna oggi? 

Impegno, dedizione, sacrificio, costanza, una lotta continua dove quotidianamente dobbiamo cercare di restare in equilibrio sul sottile filo che tiene unite tutte le aree della nostra vita. Compagne, mamme, figlie, amiche, lavoratrici, organizzatrici della famiglia, ma anche donne indipendenti, single, impegnate nella carriera.

La donna di oggi ancora sta combattendo le sue battaglie e le sue lotte ma le donne di un tempo sono le promotrici delle donne che siamo oggi e di quelle che vogliamo essere anche nel nostro domani. La donna vive di spiritualità e di interiorità, le donne sono un flusso continuo di emozioni, di sogni, di desideri, di possibilità ed è attraversando questo flusso che l’autrice ci mostra un torrente di energia e di forza che non si può fare a meno di ammirare, di stimare e di rispettare.

In diversi modi l’autrice entra in contatto con queste donne straordinarie alcune incontrandole nella biblioteca della città, altre che appariranno a un congresso per rilasciare un’intervista, altre appariranno all’interno di un teatro per un ultimo spettacolo, un negozio dimenticato che ricopre i suoi battenti un’ultima volta, passaggi spazio temporali, viaggi nel tempo incontrando periodi storici, mode del momento, luoghi in cui queste donne ci parlano di loro stesse, della loro vita, donne anticonformiste, ribelli, coraggiose, timide, bambine prodigio…

Una scrittura evocativa, ancestrale e magica, straordinaria, che lascia a bocca aperta, affascinati da tanta bellezza, la capacità di cambiare lo stile linguistico di attraversare momenti e periodi storici diversi con accuratezza data da una ricerca approfondita delle biografie delle protagoniste così come una forte conoscenza e documentazione storica, ci mostra l’impegno, la costanza e la forza con cui questa autrice ha saputo non solo dare di nuovo la parola a queste donne ma anche ridato cuore e forza vitale.

Vedere come queste donne hanno affrontato le ingiustizie, l’ipocrisia, il pregiudizio, gli stereotipi; limitate dal ruolo imposto dalla società patriarcale e le limitazioni fisiologiche femminili che le riteneva inadatte a ruoli prettamente maschili.

La donna portatrice di “imbecillitas sexis”. Con forza, senza timori, queste barriere sono state sfondate con brutalità da donne apparentemente riservate, umili, modeste ma dalla grande forza di volontà, dal desiderio di un cambiamento e dalla capacità di far emergere non solo il loro essere uguali agli uomini ma assolutamente anche superiori per intelletto e coraggio, per capacità di adattamento, per determinazione.

La narrazione è prosa, poesia in molti tratti, nelle sue parole si espande la grazia, la forza, la purezza del sentimento.

Ho visto come siano stati di grande influenza gli stimoli culturali, i sostegni della famiglia, l’educazione come la mancanza di qualcosa di cui siamo privati diventa pulsione non solo a ottenere ciò che ci è stato negato ma anche a far sì che questo sia accessibile non solo a noi stesse ma anche ad altre donne.

Donne che ci insegnano come difenderci dallo sconforto, dalla sfiducia, dalla stanchezza, come mantenere un cm quadrato della nostra vita per noi stesse; quel cm quadrato da tenere saldo con la fede, con il lavoro, con l’amore fino al raggiungimento del successo della personale vittoria della vita.

Citando una frase di Amalia Guglielminetti?

Io vado attenta perché vado da sola, e il mio sogno che sa goder di tutto se sono un po’ triste mi consola.

Questa donna è una tra le tante che incontriamo in questo viaggio che mi ha incantata con la sua eccentricità che scandalizzò Torino.

È evidente come l’autrice ami il buon gusto e la gentilezza mostrandocelo in ogni sua forma attraverso la sua esperienza che sembra un sogno fantastico, di quelli che si fanno a occhi aperti. I sensi si amplificano attraverso le sue parole, attraverso i dialoghi e le interazioni con queste donne con le loro vite il loro coraggio.

Donne pioniere del coraggio in un mondo ostile che ho sentito talmente dentro di me da diventarne amica. Se non come loro, indubbiamente mi sento una di loro.

Grazie a questa autrice e alla sua audace fantasia ho scoperto persone di cui non ero nemmeno a conoscenza, eppure ne ho ascoltato la musica, percepito la rete, conosciuti i passaggi sociali e culturali, le battaglie per il raggiungimento dei propri diritti…

Sapevo che erano esistite ma non ero mai riuscita a vederle così da vicino.

E sono qui ora seduta davanti al mio computer mentre Lidia Poet mi sorride guardandomi dalla finestra, la piccola bambina prodigio Teresina Tua suona per me il violino, Paola Lombroso sistema i libri sul mio comodino e le altre mi passano accanto: chi mi sorride, chi mi passa una mano sulle spalle, chi mi abbraccia senza dire nemmeno una parola. Oggi non sono stata sola, erano tutte qui con me a parlarmi di loro e a raccontare di me.

Ringrazio di cuore l’autrice perché la sua visione è diventata la mia realtà.

Maya Angelou

Phenomenal Woman

Le belle donne si chiedono
in cosa consista il mio segreto.
Non sono carina o fatta per indossare
abiti con taglie da modella.
Ma non appena glielo dico,
loro pensano che io dica bugie.
Io dico,
è nella portata delle mie braccia,
nell’ampiezza dei miei fianchi,
nella falcata del mio passo,
nella curva delle mie labbra.
Io sono straordinariamente
donna.
Una donna straordinaria,
questa sono io.
Cammino dentro una stanza
così disinvolta come a te piace,
e ad un uomo,
i compagni stanno impalati
o cadono sulle loro ginocchia.
Poi sciamano attorno a me,
un alveare di api da miele.
Io dico,
è il fuoco nei miei occhi,
e il bagliore dei miei denti,
l’ondeggiare della mia cintura,
e la gioia dei miei passi.
Io sono straordinariamente
donna.
Una donna straordinaria,
questa sono io.
Gli stessi uomini si sono chiesti
cosa ci trovano in me.
Ci hanno provato tanto
ma non possono toccare
il mio mistero più profondo.
Quando provo a mostrarglielo,
loro dicono che non riescono ancora a vedere.
Io dico,
è nell’arco della mia schiena,
nel sole del mio sorriso,
nella cavalcata dei miei seni,
nella grazia del mio stile.
Io sono straordinariamente
donna.
Una donna straordinaria,
questa son io.
Ora capisci
perché il mio capo non è chino.
Non grido, non balzo in avanti
o non devo parlare a voce troppo alta.
Quando mi vedi passare
ciò ti dovrebbe rendere orgoglioso.
Io dico,
è nel ticchettio dei miei tacchi,
nell’onda dei miei capelli,
nel palmo della mia mano,
nel bisogno delle mie cure.
Perché io sono straordinariamente
donna.
Una donna straordinaria,
questa sono io.

“Lettera precambrianai seguaci di Filippo” di Hephaestion Christopoulos, Ringworld edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Adoro guardare il tramonto dalla mia finestra.

In quel momento quasi magico, tra il giorno che lascia il posto alla sera, quando il cielo si colora di rosso fuoco e sembra di essere in bilico in un attimo che si congela con i colori dell’eternità.

Non sei né carne né pesce.

Non è né giorno né sera.

E’ il limbo in cui per un istante, un favoloso istante, non hai bisogno di fare nulla.

Né scegliere, né decidere, né magari anche soffrire rivivendo i piccoli grandi drammi del giorno.

E’ tutto silenzioso, in attesa, o forse godendosi un momento di pausa in questa corsa affannosa chiamata vita.

Ed è preziosa.

Perché sospesa come le stelle che presto brilleranno nel cielo, puoi essere tutto e nulla.

Anche chiudere gli occhi e sentire la pace.

Perché persino la notte, quando il mondo dorme, la tua mente non fa altro che elaborare il tuo vissuto.

Distinguere grano dalla pula, l’utile dal tossico.

E anche nei sogni non fai altro che muoverti, perché in fondo la vita è questo un movimento a spirale che parte dal basso per poi tornare in alto, sempre più in alto.

In quel crepuscolo tanto decantato dai poeti, io invece chiudo gli occhi e resto in quel limbo in cui nessuno mi smuove.

Ed è dopo aver assorbito l’energica stasi di quell’istante, che osservo il libro accanto a me.

Un libro dal titolo altisonante, che forse all’inizio mi spaventava, e non invogliava certamente la lettura.

Chiedersi il perché della vita non è sempre cosi facile sapete?

E io lo so perché non faccio altro che ripetere nella mente mai stanca se esista un perché.

Un perché al dolore che mi ha ferito la pelle.

Un perché delle delusioni, dei gesti mancati, e di tanta corsa spesso per sfuggire a chissà quale interrogativi.

O perché vuoi raggiungere quell’orizzonte che però sembra sempre cosi lontano.

Esiste un motivo per vivere?

E se esiste perché non lo sentiamo dentro, dentro quest’anima ferita a morte?

Se per vibrare noi abbiamo sempre bisogno di ferite pesanti nel cuore?

Se per farci ascoltare dobbiamo urlare al cielo?

O restare in silenzio, zitti e decisi a non mostrare lacuna debolezza. Come se vivessimo dentro una gabbia con altri leoni inferociti, dai ringhi possenti e inquietanti.

E se invece non fossero altro che latrati prodotti dallo stesso dolore che abbiamo noi?

Allora non avrebbe senso quell’eterno, costante lottare.

Quell’inerpicarsi su salite create dai solchi di altre anime ferite come noi.

Per raggiungere chissà quale obiettivo.

O perché qualcosa ci attende, lassù tra le nuvole.

Un dio forse, che ci ha creato cosi splendidi e cosi indifesi.

E noi che cosi grotteschi, cosi goffi, nonostante i tentativi di raggiungere chissà quale perduto splendore…

Osservo il libro accanto a me.

È una seduzione lenta e insistente, quella voce che parla di gnosi, di sacrificio, di ali spezzate perché sedotti da ghigni crudeli.

Di arconti decisi a ingabbiarci, noi che pallidi ricordi di lontani splendori strisciamo su questa terra polverosa, accecati e scottati da un sole alieno.

Guardo e non posso sottrarre i miei occhi a una barlume di verità che sento mia.

Io che so quanto sia meraviglioso l’Altrove, quello che ha rapito la persona più importante della mia vita.

Che mi amava cosi tanto eppure non ha resistito al richiamo di casa.

E allora che senso ha vivere?

A che serve farsi domande?

Che serve cercare il nostro posto, se siamo stati abbattuti ferocemente in quest’oggi, cosi vuoto, cosi sterile, cosi arido?

Se mentre gridiamo guardami a qualcuno lassù, nessuno risponde.

Distolgo lo sguardo.

Perché quel mio non sentirmi mai a casa, trova risposta proprio in questo testo.

Quando qualcuno che ha bisogno di risposte le trova in un gesto di compassione, verso una forma aliena che sente cosi vicina a lei. Caduta, ferita, e abbandonata da un dio che lo ha dimenticato.

E in un suono, in un abbraccio, nel suo non volerlo lasciare a strisciare solo sulla terra brulla che è il significato vero della caduta.

Cadiamo perché qualche mano possa porgersi a noi che ci sentiamo perduti.

Perché un canto possa ricoprire di piume candide, scapole d’angelo bruciate.

Perché è nel momento del riconoscimento di quel se che si sente dannatamente solo, cosi come è splendidamente espresso dal libro poetico e vero, vero perché richiama arcani ricordi, allora ogni cerchio si chiude.

Noi che per arroganza abbiamo scordato dio.

Noi che abbiamo lasciato un Arconte a sedurci.

Soltanto guardando il nostro ieri possiamo sentirci a casa.

Soltanto provando compassione per quella figura grottesca che striscia in quell’eone in cui siamo stati catapultati per errore, possiamo trovare il vero senso del vivere.

Dio è nato quando ha amato.

Quando per esprimere quella strana emozione ha creato qualcosa a sua immagine.

Perché lo chiamasse rendendolo qualcosa di più potente di un idea o di un concetto.

Ecco questo libro racconta la parabola di redenzione dell’uomo. Angelo caduto dalle lacrime di Dio

Angelo che ha perduto ogni ricordo, e che vivrà soltanto se noi lo riconosceremo, lo abbracceremo e piangeremo su quei moncherini di antiche ali dietro la schiena.

Quell’angelo siamo noi.

***

Per te

che sei tornata a casa troppo presto.

Ma che hai tracciato la strada della mia redenzione

Arriverò anche io. Ma prima ho bisogno di essere qualcosa di più di un idea.

E quando sarà stanca di questo piccolo riflesso di casa

arriverò a abbracciare di nuovo l’infinito.

“Punta Corvo”, Giovanni Barletta, Porto Seguro Edizioni. A cura di Barbara Anderson

Amo tutto ciò che mi scuote, che mi turba e che mi inquieta, amo quel genere di libri che mi scaraventano subito addosso le sensazioni forti, senza preparazione alcuna, senza preliminari “letterari” a facilitare l’accesso alle emozioni.

Punta Corvo è come acqua di tempesta, che si infrange sugli scogli, spietata, con l’intenzione di sfondare gli argini, di spaccare perfino la roccia e, con la perseveranza che solo il mare ha, alla fine ci riesce e sfonda tutto facendosi spazio tra tutto ciò che rimane poi alla fine delle tue barriere di difesa. 

Squarci, fessure tra le quali penetrano i pensieri, il dolore, la sofferenza ma soprattutto la realtà. 

Chi ha familiarità con la spiaggia di Punta Corvo avrà senza dubbio presente la sua bellezza: circondata da una fittissima vegetazione che crea un connubio per tutti e 5 i sensi.

La vista spettacolare del mare cristallino e azzurro più del cielo, il profumo della resina che si miscela con quello della salsedine e del pino d’Aleppo diventa qualcosa di inebriante e avvolgente; gli scogli, le enormi rocce che puoi sfiorare con le mani e percepire tutta la forza ma anche tutta la vulnerabilità al cospetto del mare.

Punta Corvo prende il nome dal colore scuro della sua spiaggia considerata una delle 10 spiagge più belle della nostra amata Italia. Non è di facile accesso al pubblico trovandosi tra collina e mare, la cala non è accessibile a mezzi di trasporto; la sua difficoltà di accesso la rende una spiaggia speciale, unica, intima, per tutti coloro che la raggiungono percorrendo un sentiero roccioso e erboso e scendendo per poi risalire oltre 800 gradini.

E qui, il protagonista della storia o meglio uno dei protagonisti: Giacomo Campidonico, vive la sua esperienza, le sue emozioni, le sue difficoltà emotive trovando in Punta Corvo un rifugio avvolto insieme alle isole del golfo ligure come un meraviglioso trittico di bellezza. 

Giacomo è un uomo di natura diffidente, prevenuto, solitario che a volte appare prepotente, un atteggiamento che ha maturato per spirito di sopravvivenza. Ama raggiungere la sua spiaggia a piedi solo con i suoi pensieri, i suoi ricordi e la sua malinconia.

Quando Giacomo percorre quegli scalini sembrano the stairs to heaven che si percorrono al contrario; si scendono per raggiungere il paradiso e si risalgono per tornare all’inferno.

Quando scende verso la sua spiaggia, Giacomo si allontana dalla sua rabbia, dal suo dolore e dal suo rancore.

Ripensa ai racconti di sua nonna, i più belli erano quelli in cui gli parlava della sua mamma, una donna che ai suoi occhi resta quella immagine barcollante e mai sobria, un padre fatto di silenzi. 

Cosa era successo a sua mamma, quella ragazza serena felice e piena di vita di un tempo? Ma soprattutto sobria che rimase incinta di questo figlio che ora è furioso con il mondo, con la gente e persino con la sua stessa madre.

Che peso hanno le parole?

Le parole sono importanti, e hanno un enorme peso e un impatto travolgente sulle azioni e le reazioni degli individui.

Per questo motivo le parole andrebbero dosate misurate e usate con cura e con delicatezza senza superficialità ma con un senso di forte responsabilità. 

Le parole sono potenti e possono scatenare un forte dolore emotivo.

Sapete non tollero le persone che si fanno forti di dire tutto ciò che pensano in maniera brusca e violenta; sparando a zero sul loro diritto di parola, sul loro coraggio di dire cose scomode. 

La libertà di parola non dà diritto all’uso della stessa come un’arma.

Ci vuole misura, ci vuole delicatezza modo e maniera. Si può dire ciò che si pensa e trasmettere il proprio pensiero in maniera educata e non offensiva.

Si dice che le parole abbiano un peso e noi abbiamo il potere e il dovere di farle “vibrare”. 

Le parole usate male feriscono ma se usate bene danno forza energia coraggio e valore possono farci aumentare la stima in noi stessi, la fiducia nel prossimo.

Le parole nutrono: nutrono sia il bene che il male e sta a chi le pronuncia decidere quale dei due elementi alimentare.

Giacomo è un commissario della narcotici che vive solo, isolato da tutti, stanco del suo lavoro, egli ha una grande capacità investigativa e intuitiva ma la passione è andata a scemare e ora appare più indolente che efficiente.

Cammina sulla sua spiaggia come un cavallo da soma che scava solchi sul terreno affondando nei suoi pensieri, i suoi errori, le sue mancanze, le sue paure.

Per tutto il romanzo si percepisce il disagio e il malessere di Giacomo, si vive quella sensazione di inadeguatezza, di disagio e di sofferenza che si porta addosso come uno zaino di cui si fa fatica a liberarsi perché all’interno c’è la sua vita, il suo passato, la sua storia da cui non è facile alleggerirti. Oltre alla storia del commissario però qui si intrecciano altre vite, altre storie, altre sofferenze, altri sogni e desideri.

Il povero Amir nato e cresciuto ad Alessandria, che vive nei ricordi della sua fanciullezza, tra i mercati, le moschee l’interpretazione del corano: un corpo che fluttua di vita attraverso i suoi ricordi di bambino mentre la sua coscienza giace tra il caos, il fumo, le fiamme e la frenetica attività dei pompieri.

In quell’incontro con Amir il lettore percepisce un senso di distanza, tutto appare ovattato ma al contempo amplificato. Ma non c’è solo Amir e la pizzeria in cui lavora, incontriamo anche una ragazzina di 16 anni, Elena che conosce il commissario Giacomo poiché egli è stato colui che arrestò suo padre; eppure ogni volta che lo incontra vede nel commissario una figura protettiva, quasi paterna.

Il commissario si trova a dover indagare su un incendio avvenuto proprio nella pizzeria dove lavora Amir, indaga, analizza informazioni, pescando tra le notizie accumulate cercando, selezionando, usando la logica e i fatti scartando ciò che non è utile e intascando ciò che potrebbe essere rilevante: una selezione complessa nel racconto, vite, misteri e situazioni si intrecciano, creano cordoni su cui si può salire, scendere, con i quali si intrecciano legami o si resta intrappolati, impossibilitati di muoversi o con cui togliersi perfino la vita. Le corde sono come le parole, possono essere usate per il bene così come per il male a seconda di chi le ha tra le mani.

Un incendio, il proprietario del locale apparentemente scomparso, la perdita di memoria che a volte è provocata da un forte trauma, altre può essere indotta come meccanismo di autodifesa inconscia; altre invece si tende a fingere di dimenticare perché non si vuole ammettere a se stessi la verità. 

Cosa è andato a fuoco in quel locale?

Chi ha causato l’incendio?

Amir è una vittima, un testimone o un criminale?

Insieme a Giacomo vivremo la sua vita e scaveremo in quella degli altri, vedremo come la questura di fatto non sia un’entità unica ma un corpo composto da vari organi, vari individui che interagiscono, che hanno conflitti, invidie, gelosie, rancori ma che hanno anche degli obiettivi di giustizia comuni. 

Conosceremo anche il commissario Anselmi che è dotato di un intuito e di un istinto capace di relazionarsi con prudenza nei rapporti umani, vedremo la differenza tra borghesia e proletariato che ci mostrerà come la classe sociale non sia intesa esclusivamente come una questione di benessere economico, come questa sia anche un abito morale che si indossa.

Una storia dove si vivono i compromessi, le amicizie, le conoscenze, i legami, quelli con le persone ma anche quelli con il proprio passato.

Una lettura amara per molti tratti ma necessaria in cui il tempo per leggere si dilata estendendo il tempo per vivere.

Un romanzo che è di fatto un tributo al sacrificio che mi ha anche fatto ricordare che il tempo per leggere non è misurato in base al tempo che si ha per farlo ma è quello che concediamo a noi stessi.

Io merito la gioia di essere una lettrice; leggere per me è un premio che merito di ricevere.

Ringrazio l’autore per avermi offerto questa bellissima opportunità di lettura e di esplorazione dei sentimenti umani, dei ricordi, delle parole e delle verità, quelle che diventano a volte menzogne prima di rivelare la loro vera identità.

“Racine, Ifigenia”, Traduzione in rima di Lodovica San Guedoro, Effigi Edizioni. A cura di Barbara Anderson

Chi ama la letteratura non può non avere un’anima poetica, la scrittura ha dato da sempre la possibilità agli uomini di esprimere i propri sentimenti, le proprie emozioni.
Scrivere resta ai miei occhi un’arma di liberazione ma anche di difesa da tutto ciò che nella vita tende a imbruttire.
Scrivere è una spada affilata che può essere violenta e affondare nel cuore di chi legge ma può anche essere una delicata carezza sul volto del lettore.
Le parole sono comunicazione di sentimenti, di pensieri, di emozioni.
Sono vettori con cui abbiamo la possibilità di modificare azioni e idee, con cui apriamo nuovi orizzonti.
Chi ha avuto modo di avvicinarsi e rapportarsi alla mitologia Greca avrà avuto indubbiamente un’esperienza affascinante e coinvolgente, osservando i miti che sono appartenuti agli antichi greci, i loro re, dei, eroi. Basta nominare l’antica Iliade e Odissea per citare le opere più conosciute.
Gli argomenti narrati dalla mitologia Greca furono e sono ancora oggi rappresentati in varie forme di arte, dai disegni su vasi, dipinti, opere teatrali, cinematografiche, letterarie…  
La mitologia narra con il fascino antico e ispira stimolando un immaginario fantastico. Nomino anche il film Troy, il cartone animato della Disney Hercules, i videogiochi God of WaR…
Nella letteratura, nel corso della sua evoluzione storica, possiamo rammentare il periodo rinascimentale dove artisti come Leonardo da Vinci e Michelangelo ritrassero scene tratte dalla mitologia Greca. Attraverso le traduzioni e le opere in latino la mitologia greca influenzò anche grandi poeti come Dante e Petrarca.
Ma cosa sono i miti?
I miti sono eroi, dei, creature mostruose attraverso le quali si tenta di dare spiegazione a fenomeni naturali, fanno comprendere pratiche sacrificali e rituali.
Il mito antico ha una caratteristica peculiare, viene diffuso oralmente prima di venire scritto e si tramanda nella tradizione di un popolo.
Attraverso i miti si raccontano le origini del mondo, si mostrano circostanze, eventi e situazioni legittimando e mai giustificando; rendendo il racconto del mito un’attività religiosa al fine del culto stesso (Treccani Enciclopedia).
L’autrice Lodovica San Guedoro ha, nella mia modesta opinione realizzato il sogno di qualsiasi lettore, quello di modellare un poema straordinario utilizzando diverse tecniche di traduzione, mantenendo non solo l’integrità delle emozioni espresse attraverso una dizione di composizione ritmica, ma riuscendo a esaltare i contenuti emotivi, l’intensità, fortificando il contenuto, il significato, il sentimento dell’opera. Sappiamo che il poema è uno stile di scrittura in cui si trasmette una drammatizzazione dialettale; capace di evocare una consapevolezza ma siamo anche consapevoli che qualsiasi testo tradotto tende a perdere qualcosa nella trasposizione linguistica.
Perché le espressioni dialettali, le inflessioni liriche di una prosa tendono a sfaldarsi in qualche parte della tradizione facendo perdere sempre qualcosa.
Per fortuna invece in questo caso nella traduzione dell’opera di Jean Racine, Ifigenia, della talentuosa Lodovica,la traduzione acquista una musicalità nuova, più profonda, più armoniosa tanto da divenire un inno, un’emozione sinfonica, dove le parole diventano strumenti musicali che suonano in un’orchestra; dove le note diventano versi e parole che sinuose entrano nel cuore e nell’anima del lettore.
Jean Racine grande drammaturgo francese aveva una grande padronanza della tragedia classica francese ed esplorò descrivendo le feroci passioni e la ferocia dell’uomo anche attraverso questa bellissima e toccante opera composta da 5 atti che originalmente erano stati scritti con lo stile di versi Alessandrini e presentata durante un’importante cerimonia pubblica a Versailles nel 1674. I versi Alessandrini hanno una caratteristica particolare: sono composti da 12 sillabe divisi in 2 emistichi di 6 sillabe e separati da una pausa metrica che viene chiamata cesura e il primo a utilizzare questa tipologia di versi fu Alessandro Efeso grande poeta Greco.
Immaginate la complessità nella traduzione di una prosa così complessa; eppure Lodovica è riuscita a restituire il più fedelmente possibile l’intento dell’autore originale mantenendo integro e accessibile il senso profondo e insito dell’opera, conservando intatto lo stile unico. A mio parere un immenso coraggio ma soprattutto un grandissimo talento e una dedizione per la scrittura profonda e ammirevole.
Per prendersi cura così intimamente di un’opera bisogna amarla davvero e soprattutto amare e avere fiducia e consapevolezza delle proprie capacità e una grande volontà esecutiva.
Ifigenia rappresenta una tragedia che tocca gli animi, che scuote le emozioni, che mette in dubbio persino la propria integrità morale.
Ifigenia narra la storia della figlia del grande Agamennone la quale deve pagare con la sua vita per garantire le vittorie militari e politiche di suo padre.
L’esercito Greco è in rotta verso Troia fin quando improvvisamente i venti cessano bloccando la flotta. 
Agamennone consultando il suo Profeta viene a conoscenza di qualcosa di terribile che lo tormenta nel profondo della sua anima.

I venti non si sarebbero alzati di nuovo fin quando Agamennone comandante capo non avesse sacrificato sua figlia alla dea Artemide.

La traduzione armonica di questa autrice ci porta nel profondo dei sentimenti non solo di un padre combattuto tra la gloria e l’onore del suo popolo e l’amore per sua figlia ma anche quello di una figlia che deve accettare il suo destino.
Creando quella tensione tra mito e la vita.
Un mito deve arrivare all’accettazione del suo destino, abbracciandolo e dedicandosi in tutto al suo scopo finale. Ma chi è il più forte in questa storia? La dea che esige un sacrificio per placare la sua rabbia?
Agamennone che ha il potere di decidere la sorte di sua figlia ma anche del suo popolo?
La più forte è la dolce Ifigenia che spinta al dovere verso suo padre e il suo popolo deve accettare la volontà suprema dei suoi dei.
Racine ci sorprenderà con un finale alternativo rispetto alla versione originale dell’opera di Euripide: creando un nuovo dramma nel suo finale mostrandoci un’altra Ifigenia figlia del peccato segreto di Elena e Teseo destinata fin dall’inizio al sacrificio.
E qui ora vorrei tornare alla traduzione di prosa, al rischio che si corre proprio nella traduzione: quanto è necessario per il traduttore mantenere una certa estraneità al testo, cercando di non contaminarlo con le personali emozioni e stati d’animo?
Ma quale è il metodo necessario per preservare il contesto storico, culturale e narrativo di esposizione dell’opera rendendola però vivibile, comprensibile e gradevole al lettore, facendolo empatizzare con i personaggi, con le loro decisioni e gli eventi che si cataclismano su di loro?
Per questo mi sono avvicinata al pensiero del famoso traduttore e scienziato cognitivo Douglas Hofstadter il  quale asseriva che il processo traduttivo, è lontano dall’essere banale e lineare bensì appare ai suoi occhi colmo di paradossi che costringono felicemente il traduttore a compiere delle scelte artistiche e creative a tutto tondo, che si fonderanno in varia misura con quelle effettuate dall’autore nell’opera originale.

La traduzione di questo testo nasce senza alcun dubbio da un amore profondo per la mitologia, per il linguaggio e per la comunicazione e divulgazione della prosa. Ho trovato molto vicino il pensiero di Douglas leggendo questa bellissima, delicata e curata traduzione che si distacca dalle precedenti traduzioni di altri autori che appaiono legnose, fredde, ma che invece qui recuperano, riacquistano, conquistano una fluidità nuova, naturale; non forzata, non pressante né pedante. L’autrice non ha dovuto abbandonare il suo stile ma è riuscita a liberarlo senza ostacolarlo e senza impedire l’espressione artistica, creando una traduzione non letterale ed esclusivamente meccanica ma armoniosa e musicale, capace di lasciare il lettore libero di interpretare e vivere questa tragedia.
Così come un musicista che dà la sua interpretazione a uno spartito musicale mostrandoci una forte sensibilità emotiva, emozionale e artistica dell’autrice, che diventa colei che suona, che riproduce un’opera magistralmente, attraverso la sua prosa sono riuscita a vivere le espressioni e le emozioni, il dolore, il conflitto dei protagonisti e lo ha fatto senza rendere il suo talento e stile invisibile bensì integrandolo nella traduzione, facendomi sentire non solo l’autore originale, ma anche lei stessa nella profonda esplorazione delle sue emozioni e della sua passione.

Una traduzione coinvolgente, avvincente passionale intensa ma fluida inutile negarlo, tutti leggendo un’opera abbiamo pensato senza presunzione alcuna che sarebbe stata più appetibile se scritta in una forma leggermente diversa. Non per mancanza di rispetto dell’opera originale o del suo autore ma proprio per una necessità essenziale di sentire, di percepire e di vivere quell’opera ancora più intimamente, e Lodovica ha avuto il talento, la forza e la capacità di fare questo, tradurre un’opera che aveva amato con uno stile che più si avvicinava non solo a quello dell’autore originale ma anche a quello che le suggeriva il suo cuore. Rendendo il tutto un’esperienza emozionale a 360 gradi in cui il lettore vive soffre piange e sogna insieme alla sua storia.

La traduzione non deve essere essenzialmente forzata, fredda, distaccata, il lettore non vuole una trasposizione automatica della prosa ma una traduzione che affronta un processo molto più complesso, scendendo nella multi dimensione emozionale umana.
Attraverso la creatività di questa autrice io mi sono approcciata a una tragedia greca con una sensibilità maggiore, e con meno difficoltà rispetto a quanto avevo immaginato prima di iniziare questa lettura.

L’ho sentita dentro. L’ho vissuta, l’ho sofferta e l’ho amata davvero.

“… Avete forse qualche rumore udito?

I Venti ci hanno al fine esaudito?

Ma dorme ognuno, e i Venti, e l’Armata, e Nettuno…”

“… Per ottenere i venti che il Cielo vi vuole negare,

Dovete Ifigenia sacrificare…”

“ La voce persi, e l’uso ne recuperai Solo per mezzo di singhiozzi e di lai.

Gli Dei maledissi, e senza più nulla udie, Voto feci sui loro altari di disobbedire…”

Complimenti sinceri e ringraziamenti sentiti per questa opera che si trasforma in dono.

In piena luce, Daniela Matronola, Les Flaneurs Edizioni. A cura di Barbara Anderson

Il mondo visto con gli occhi di un bambino

È un grande circo in un giorno pieno di sereno

Ed è così che guardo te

Con quella stessa intensità

E con il viso acceso di curiosità

Così recitava la canzone di Eros Ramazzotti ed è con le sue parole che oggi inizierò la mia recensione a questo romanzo decisamente speciale.

E ci terrei in particolar modo a condividere con voi uno dei pensieri del grande Giovanni Pascoli, secondo il quale in ciascun essere umano, a prescindere dalla sua estrazione sociale, si cela un fanciullo che rimane tale nonostante il trascorrere del tempo.

Cioè uno spirito sensibile in grado di meravigliarsi dinanzi alle piccole cose, proprio come fanno i bambini.

Pascoli però mette in evidenza un dettaglio e cioè che la differenza tra il poeta e l’uomo comune è che solo il primo è in grado di ascoltare e capire fino in fondo il fanciullo dentro di sé.

Con questa premessa ci tengo a dire che questa autrice dal delizioso talento e dall’accurata e originale scrittura ha indubbiamente un’anima poetica poiché attraverso il suo romanzo ci ha saputo mostrare veramente il mondo, la vita, un’epoca passata, attraverso non solo gli occhi di una fanciulla ma anche attraverso quelli di chi sa fare della vita poesia.

Delicata, curata, ricercata, immersiva è la sua scrittura; una prosa che a primo impatto risalta per il suo essere sofisticato, una scrittura complessa perché complesse sono le emozioni che ci racconta e che ci fa vivere e rivivere.

Ma nella sua penna si trova anche l’onestà, la sincerità, la lealtà dell’autrice stessa che ci trasmette idee e concetti davvero complessi e difficili come difficile è affrontare la complessità della vita. Eppure, quel linguaggio così ben articolato, quelle parole tutte soppesate, tutte razionalmente scritte hanno il gps delle parole attivato sulla destinazione finale che è quella del nostro cuore e della comprensione e assunzione di concetti essenziali alla nostra esistenza culturale, sociale, emotiva, sentimentale.

I suoi capitoli sono brevi e seguono personaggi della storia attraverso passaggi, percorsi e sentieri di vita e di quotidianità che ci appartengono, che sono reali, che viviamo o che abbiamo vissuto in qualche tempo passato; sotto un cielo che non cambia mai, dove nemmeno le stelle mutano, ma cambiano le vite di ogni individuo che sollevando gli occhi al cielo ritrova quelle stelle come immobili certezze che poi di fatto non esistono nemmeno più.

Il vocabolario utilizzato dall’autrice è meravigliosamente vasto, la struttura di ogni frase e paragrafo è pregna di metafore, di riferimenti storici, di spunti di riflessione.

Con il suo scritto l’autrice non solo ci racconta la storia di questi ragazzini ma ci lascia spazio di comprendere, di decidere, di analizzare gli eventi e farli nostri, con le nostre personali percezioni.

Non è un romanzo che dice come stanno le cose ma un testo che ci mostra attraverso la sua struttura potente e intelligentemente intrigante i fatti; quelli che ci permettono di trarre le nostre personali conclusioni, che saranno forse diverse per ogni lettore ma saranno ugualmente intense per ognuno di essi con la stessa forza e lo stesso spessore di scrittura.

Fa strano pensare che in fondo gli adulti nella vita tendono a essere soli, mentre i bambini hanno il dono e la capacità di saper stare insieme anche nelle diversità sociali, emotive o caratteriali.

La protagonista principale è una bambina che si chiama Lucetta, una bimba dalla travolgente innocenza e dalla curiosità contagiosa è colei che in questa storia porta la luce, una luce che abbaglia a volte ma che altre si attenua, che appare forte, decisa, altre delicata e soffusa, una luce che ci fa da guida nel mondo della nostra esistenza e della percezione di ciò che accade non solo intorno a noi ma anche dentro di noi.

Lucetta vive a Cassino, in una famiglia numerosissima, circondata da amore, da affetti, da pulsante vitalità familiare, frequenta una scuola delle suore (e mi ha ricordato la me bambina quando andavo alla sua stessa età in una scuola molto simile).

Le giornate di Lucetta sono colme di avventure piccole e grandi della sua quotidianità e dei suoi compagni e amici; tutti così diversi, tutti così simili nella loro innocenza, nelle loro piccole grandi battaglie che coinvolgono il periodo dell’infanzia e che poi crescendo diventano ancora più grandi.

Le esperienze di quando siamo bambini forgiano il modo in cui affronteremo le esperienze che vivremo in età adulta.

Nulla è banale, nulla è casuale, tutto ha un suo corso, un suo piano, un suo progetto che nel tempo affronterà mutazioni, cambiamenti. Attraverso tentativi ed errori si arriverà ai piccoli grandi successi e anche ai piccoli grandi fallimenti. La vita è fatta di passione, di corse, di cadute e di risalite a volte da soli altre sostenuti da chi ci cammina accanto o da chi ci tiene anche per mano.

La prosa suadente e la scrittura di stile affascinano e il tutto ci dà una percezione di grande qualità letteraria ed emotiva.

Lucetta sa giocare a pallone come i maschi e spera di poter essere vista dai suoi compagni non solo perché una bambina ma anche perché sa giocare come loro, sa essere forte, conosce le regole del gioco; ma quando si vive in un contesto sociale dove le altre bambine hanno interessi diversi e dove per loro giocare a calcio è una corsa forsennata inseguendo o scappando dalla palla, Lucetta ha difficoltà nel riuscire a mostrare ciò che sa fare e sa fare bene.

Confesso che nel capitolo in cui le bambine giocano a calcio contro i maschi sono stata in un delirio di risate perché la descrizione della partita era così reale da farmi letteralmente scompisciare.

Lucetta che guarda le compagne allibita, le bimbe che sembrano soldati romani in battaglia sulla difensiva nella grande arena dei gladiatori, i maschi che le guardano divertiti, annoiati e sconcertati.

Lucetta che grida, che cerca di dare istruzioni e l’estenuante fatica delle sue compagne per non arrivare allo scopo prefissato dal gioco.

Giuro ero con le lacrime agli occhi.

I bambini di questa storia hanno tutti un enorme carisma colmo di genuina semplicità e spontaneità, ognuno di loro però ci mostra piccoli drammi, regole sociali, accettazione di condizioni spesso al limite dello sfruttamento e dell’abuso.

La presenza di Suor Fiore che con il suo volto dolce e lo sguardo severo ci mostra un contrasto e una forza di autorevolezza e controllo, dove la religione a volte non è sufficiente a dare la comprensione adeguata della sensibilità dell’animo dei bambini.

Alcune persone accettano la loro condizione, il loro trattamento come la normalità quando in realtà è un rapporto malsano che con il tempo non solo distrugge ma annienterà chi ne è vittima.

Ci sono enormi sprazzi di storia attraverso le giornate di questi bambini e della famiglia di Lucetta. Divertente e toccante anche il personaggio di Filomena, la donna di servizio della nonna di Lucetta, alla frenetica, inarrestabile e costante ricerca di un fidanzato come una cacciatrice in attesa della sua preda, una preda qualsiasi su cui ella possa costruire i suoi sogni, i suoi desideri e plasmare a comando la sua felicità.

L’autrice inserisce nel romanzo non solo la quotidianità di questi ragazzi ma anche i fatti di cronaca, le notizie alla tv che a volte passano perfino inosservate mentre la vita si svolge all’interno delle nostre case, Eddy Macks il ciclista belga che dallo schermo della tv piange; un adulto in lacrime che cerca di difendersi dopo essere stato scoperto per il suo uso di droghe con il doping sportivo.

Così viaggiano in parallelo le tragedie degli adulti e quelle dei bambini ai quali tutto appare buffo, infantile, innocente, superficiale e non rilevante.

I bambini hanno i loro muri da scavalcare, i loro limiti e le loro paure, dal distacco dei genitori che anche se temporaneo appare per loro sempre una condizione di tragedia permanente. Da piccoli lasciarsi anche solo per un istante ci fa cadere in un abisso di terrore.

Lucetta controlla sempre dalle scale se sta risalendo sua mamma, se sta tornando con quel cuore che pesa e che diventa leggero solo nel momento in cui la vede finalmente arrivare.

Incontrerete Graniero, Sandro, Riccardo Mino, Margherita, la bambina che sembra già grande e forte e che invece è fragile e vulnerabile come tutti gli altri e forse anche un po’ di più.

Mino con le sue gambette piene di graffi e croste e i calzini calati sulle scarpe, che corre sul campo di calcio così come si corre nella vita, con entusiasmo, con determinazione e con coraggio.

Ci sono le penne stilografiche che scompaiono misteriosamente dalle classi, ci sono i modellini di carri armati che diventano una collezione di cui vantarsi con i compagni, ci sono le tinture di iodio, le saponette Camay, le sceneggiate in inglese.

La profondità di questo testo è davvero speciale, ci tocca, ci sfiora, ci accarezza, ma riesce anche in alcuni momenti a strapparci pezzi di cuore attraverso situazioni e parole che ci lasciano liberi di interpretare anche dolorosi eventi che si schiudono sotto i nostri occhi.

Gli anni Sessanta ci vengono raccontati proprio da questi bambini; quelli che siamo stati anche noi e in cui ci ritroveremo e ci riconosceremo proprio identificandoci in uno di loro.

I sabati al mercato americano, le scoperte che ci turbano e che ci mostrano un’altra faccia di quella medaglia che è la vita che si porta appesa al cuore con fierezza sapendo di aver dovuto affrontare le piccole grandi guerre dell’esistere.

Cosa accade quando si diventa grandi?

Ci si ritrova per scoprire come siamo diventati diversi, ma anche come siamo in fondo rimasti sempre uguali, nelle rimpatriate organizzate con la scusa di mangiare ma per il piacere di abbracciarsi di nuovo; qualcuno non ci sarà più, qualcun altro ci sarà ancora, alcuni resteranno nei nostri cuori per sempre.

Questo romanzo è uno dei candidati al premio Strega 2024. Nel suo connubio di scrittura affascinante e ricercata, nella sua storia che ci riporta alle origini del nostro passato e alla nostra storia, con la delicatezza con cui vengono affrontati anche argomenti sociali delicati e importanti, è una storia che parla dei bambini che siamo stati ieri e degli adulti che siamo diventati oggi.

Come il prestigiatore sa affascinare lo spettatore con i suoi trucchi dando l’illusione di una realtà alterata, questa scrittrice adesca, incanta il lettore dentro lo spazio della sua immaginazione, in quella che viene definita fascinazione affabulatoria, solo che le storie che ci racconta non sono solo affascinanti e fantasiose ma anche reali e fondate su fatti e periodi storici realmente esistiti.

Bellissimo. Da tenere in considerazione che la lingua inglese è molto presente nel testo.

Una storia in cui non mi sono solo vista ma mi sono anche riconosciuta.

Il peso della vergogna, Serena Mc Leen, Antonio Vallardi Editore. A cura di Barbara Anderson


Quando non ci saremo più che cosa lasceremo in eredità alle nostre famiglie e al mondo?
I guadagni accumulati dopo anni di duro lavoro e sacrifici, la casa in cui abbiamo vissuto e conservato le memorie di una vita; come se fosse una preziosa teca di cristallo esposta nel museo dell’esistenza.
Eppure quella più importante sarà l’eredità morale che lasceremo indietro: quell’eredità preziosa e importante su cui chi rimarrà dopo di noi potrà basare le fondamenta della sua identità personale, scoprendo ciò che siamo stati, le scelte che abbiamo fatto, le motivazioni che si celano dietro quei piccoli grandi segreti che non abbiamo mai raccontato.

L’eredità morale ha una forza immensa, lascia un esempio ma anche una mappa con cui poter trovare la strada complicata e contorta, piena di insidie e trabocchetti che ci darà modo di realizzare quei valori in cui abbiamo fede.

Quella mappa che ci permetterà di identificare gli individui, le circostanze e i luoghi di chi ha la nostra stessa morale, il coraggio, la volontà.

Se potessimo far incontrare ai nostri figli, nipoti, familiari, ciò che nella nostra esistenza ci ha forgiati, feriti, fatto terribilmente male ma anche ciò che per noi ebbe veramente valore; i nostri cari allora davvero non ci potrebbero dimenticare mai più.

Può l’amore essere eterno?

Continuare a esistere e a coesistere tra la vita e la morte?

Sì. Quando nei sentimenti c’è un filo di continuità anche invisibile che rende il senso della perdita e il dolore qualcosa di ciclicamente essenziale.

Questo delicato romanzo inizia proprio con una bambina che dondola su un’altalena, come se quell’altalena rappresentasse proprio la vita, con i suoi alti, i suoi bassi, la voglia di voler andare veloci, quella di rallentare, quella di voler scendere, il pericolo di cadere e di farsi male.

Annabella è la piccola protagonista che diventa grande, che vuole fare le sue scelte, decidere quale sentiero della vita seguire; al di là delle volontà dei suoi genitori.

Lei vuole diventare una fotografa e, seppure deludendo le aspettative e i sogni dei suoi genitori, diventerà proprio quella che avrebbe desiderato diventare.

Allevata da una famiglia per bene, buona, una mamma gentile e un padre presente che non hanno mai cercato di inibire l’estro artistico di questa figlia.
La vita è capace di darci esperienze meravigliose ma tutto purtroppo ha un prezzo e lo scotto da pagare per godere della nostra esistenza è anche quello di dover inevitabilmente affrontare la perdita, la morte e il dolore.
Annabella nel giro di poco tempo perderà tutto ciò che tanto ama; i suoi genitori, poi sua nonna con cui aveva un rapporto meraviglioso e intimo e perderà anche la sua ispirazione artistica. Perché le cose belle in un certo senso sembrano essere sempre collegate come una catena magica dove se un anello si spezza tutto il resto di conseguenza cade, si sfalda, si perde.
Annabella è sola e deve raccogliere i pezzi di una vita in cui era stata felice e ora non riesce a esserlo più.
All’età di soli 29 anni si trova orfana, sola e con un eredità lasciatagli dalla nonna.
Una nonna che spesso aveva visto triste e qualche volta nei suoi silenzi ci aveva sentito delle grida di sofferenza che da bambina non comprendeva. Sua nonna non le aveva mai raccontato la sua storia.
Di sua nonna Angela Bramante, Annabella sapeva tutto dalla nascita di sua madre in poi ma su ciò che era stata la sua vita precedente non aveva mai saputo nulla.
Un silenzio che aveva innalzato muri di cinta altissimi e insormontabili e ora era lì sotto quelle mura immense a guardare verso l’alto per poter capire cosa ci fosse dietro quelle barriere, quegli ostacoli.
Da cosa sua nonna per lungo tempo l’aveva tenuta all’oscuro?
Per proteggerla? O per tenerla lontana da una verità di cui avere immensa vergogna?
La paura di essere giudicati per le nostre scelte ma soprattutto per quelle delle famiglie in cui siamo nate e cresciute lascia su di noi delle eredità morali spesso difficili da portarsi dietro; che pesano come fardelli di cemento, che ci appesantiscono la vita, il cammino e l’esistenza.
Annabella alla lettura del testamento di sua nonna scoprirà che le aveva lasciato la sua villa Magnolia di Torino, il luogo dove aveva vissuto anni felici con la nonna e con i suoi genitori, una somma in denaro che insieme all’eredità lasciatale 5 anni prima dalla morte dei genitori ora le avrebbe permesso di vivere serenamente senza pressioni economiche; ma anche una misteriosa villa derelittica nel Veneto, Villa dei Conti Bramante a Rovigo.
Una villa di cui non conosceva nemmeno l’esistenza.
Annabella sentirà forte il desiderio di andare lì in quel luogo per cercare di sentirsi meno sola, per ritrovare le sue origini, la storia mai raccontata della vita di sua nonna, dei suoi bisnonni, per poter scoprire anche se stessa.
In quel viaggio troverà un diario, un’altra eredità colma di pagine mai lette, di persone mai conosciute o incontrate ma che avevano segnato la vita di sua nonna, motivato le sue scelte, anche le più dolorose e forgiato una donna forte e determinata che nel dolore era riuscita a trovare il coraggio e la forza di ribellarsi al suo destino.
Quando scaviamo nel nostro passato rischiamo di scoprire cose difficili da accettare e complesse da giustificare.
Le persone spesso non sono ciò che appaiono o che cercano di apparire.
Non tutte le famiglie vivono nell’armonia di un focolare domestico sano e colmo di amore e sua nonna aveva vissuto durante il periodo degli orrori della guerra.
Quando ci si trova però in una posizione più privilegiata rispetto a quella degli altri la sofferenza non ci verrà mai comunque risparmiata.
In un vecchio baule polvere, libri, ricordi, abiti e fotografie strappate dove mancano persone; come pezzi di puzzle dell’esistenza che sono andati perduti o che sono stati eliminati per far perdere ogni traccia, non delle persone ma del dolore che queste hanno provocato alla nostra anima, al nostro cuore.
La vita è fatta anche di errori e sua nonna fuggì via da tutto il male che aveva non solo subito ma anche visto infliggere proprio da suo padre nei confronti di persone deboli, fragili e vulnerabili.
La guerra è un mostro che crea altri mostri ma per fortuna ci sono in terra anche angeli dotati di sensibilità, di cuore e di altruismo.
Il peso della vergogna è ciò che per una vita Angela si era portata dietro e che ora dopo la morte era pronta a condividere con sua nipote.
Segreti che aveva tenuto nascosti anche alla sua migliore amica di infanzia e di gioventù perché alcune cose sono così terribili che potrebbero infangare la nostra stessa immagine, sporcata non dalle nostre azioni ma da quelle di chi per logica ci avrebbe dovuto amare, proteggere, ascoltare.
La verità è spietata, la menzogna a volte è necessaria ma una cosa è certa, bisogna sempre fare nella vita ciò che ci fa stare bene andando anche contro le convenzioni, contro le volontà delle famiglie, perfino contro i nostri ideali e soprattutto le nostre paure.
Nonna Angela aveva visto nella nipote Annabella la libertà di essere la donna che avrebbe voluto essere lei stessa.
Quante cose non conosciamo dei nostri cari, persone di cui non abbiamo fotografie, storie mai approfondite.
Di ogni persona conosceremo solo ciò che questa ci permetterà di conoscere e noi faremo inevitabilmente le stesse cose, mostrandoci per ciò che ci sentiamo sereni nel mostrare.
All’interno del diario una storia incredibile di forza, di resilienza, pagine di vita che si intrecciano con la storia del nostro Paese, in una narrazione abile, delicata, rispettosa ma anche molto incisiva e forte, che segna solchi sul cuore dove il sangue che scorre diventa un fiume di sofferenza e di dolore ma anche di coraggio.
Un baule pieno di cose antiche.
Una stanza sigillata dove all’interno si trova un tesoro di cui avere immensa vergogna.
Quanta forza aveva avuto sua nonna per scappare via da quell’atrocità e quanta forza avrà Annabella per poter riparare il riparabile portando a termine la missione sospesa da sua nonna, quella di restituire con il bene, con la generosità, con il coraggio, il riscatto di tutto il male perpetrato su altre famiglie, su altre persone che hanno avuto e subito la loro personale battaglia con la sofferenza, l’umiliazione, perfino la vita.
Una cosa è certa: quando un fardello lo si porta in due quel peso diventa più leggero. Annabella troverà non solo la pace con se stessa ma porterà pace e giustizia anche al nome infangato della sua famiglia.
Non siamo le azioni degli altri, ma nonostante la mancanza di morale altrui, simo comunque capaci di mostrare la nostra etica e le nostre qualità.
A volte chiudiamo porte dietro di noi che non apriremo mai più, a volte chi verrà dopo di noi quelle porte le riaprirà e come un vaso di Pandora lascerà uscire fuori tutta la sofferenza che racchiudeva liberandoci dalle decisioni prese sia per paura, che per vergogna, che per coraggio.
Una bellissima storia di donne, di vita, di storia del Paese, di cultura e di amore, quello che non può mai finire.
Ricostruirsi per ricostruire.