“Il girotondo delle anime piccole” di Miriam Palombi, Delos Digital. A cura di Gaia Puccinelli

Borgo La Croce è un borgo come ce ne sono tanti in Italia, con pochi abitanti, tutti conoscenti, con pochi bambini e con tantissime superstizioni che fanno arrivare le loro radici in un tempo lontano e che riecheggiano nel presente grazie alla suggestione del luogo e alle credenze delle persone. Ma per i bambini, quelle storie che sentono sussurrare agli adulti non sono altro che un gioco, un’invenzione dei grandi per spaventarli e farli comportare bene, rientrando presto.

Così, Dario, Samuele, Francesca, Paolo e gli altri credono che quella filastrocca che invoca la piccola bambina albina, scomparsa in circostanze macabre e misteriose, non sia altro che un ritornello da canticchiare mentre decidono chi dovrà contare per il prossimo gioco di nascondino. Non sanno che in questo modo hanno inciso un marchio sulle loro piccole anime; marchio che diventerà indelebile con la tragica morte di Dario, della quale tutti gli altri sono parzialmente colpevoli, richiamando la presenza di Claruzia, pronta a vendicarsi per la crudeltà della sua uccisione, reclamando altre anime piccole.

I superstiti si porteranno sempre il peso della morte dell’amico sulle spalle, conducendo un’esistenza tormentata dagli incubi e dai sensi di colpa, ma anche da fenomeni meno ordinari, come la sensazione che quella filastrocca abbia fatto cadere su di loro tragedie sempre più grandi. Consapevoli di quale fine toccherà, prima o poi, ad ognuno di loro, quando Claruzia avrà deciso di essersi divertita abbastanza.

L’orrore che permea le pagine sembra vivo e capace di trascendere la carta per perseguitare anche il lettore, perché non c’è solo l’elemento paranormale a infondere terrore, ma il gruppo di bambini (che poi vedremo crescere), è tormentato dall’ansia e dai sensi di colpa: emozioni e sensazioni in cui possiamo trovare un’affinità più facilmente. In questo libro troviamo esplicitate e portate all’estremo le conseguenze della superstizione e delle ripercussioni che trovano fine solo dopo generazioni.

La figura di Claruzia è ambigua, avvolta dal mistero, resa inquietante più da ciò che le accaduto che non da ciò che era in principio, una bambina trasformata in un essere crudele che reclama compagni di giochi per la sua piccola anima dannata.

L’autrice ha compiuto un lavoro magistrale nel trasmettere una delle emozioni più complesse da evocare nel lettore: la paura, che in questo horror è dosata con cognizione di causa facendo in modo che chi legge sia spaventato, ma mai troppo da staccarsi dal libro.

“Jake Livingston. La vendetta dei fantasmi” di Ryan Douglas, Fanucci editore. A cura di alessandra Micheli

Avevo davvero voglia di un libro leggero e spaventoso.

Uno capace di calmare quella mia anima sempre in corsa, in cerca dei pezzi sparsi della sua immagine, infranta oramai da tanti troppi mesi.

Eh si miei lettori.

A volte ho proprio bisogno di scappare un po’ da me, da quella mia ossessione a cercarmi, a definirmi a conoscermi di nuovo.

A scappare un po’ dal dolore, quello che non riesco più a accettare.

E persino dalla mia diversità, da quello strano modo che ho di sintonizzarmi nel mondo.

Io che amo il sogno e lo ritengo reale.

Che credo nelle dimensioni che si abbracciano e si baciano.

Che semplicemente guardo il cielo e so che le nuvole definiscono una strada, che prima o poi mi troverò a attraversare.

Io che non amo le costrizioni, le etichette, ne quel successo che diventa cosi importante per tutti.

Io che quando i giochi diventano da adulti, scappo e mi ritrito in quell’universo che sembra uscito direttamente da chissà quale altrove.

Non è facile essere diversi.

Ne a livello di sentimenti, di identità e persino di gusti.

Essere controcorrente sembra quasi una condanna.

Avere una sensibilità diversa ti fa apparire uno strano mostro, con una sintonizzazione fallata e inquietante.

E cosi a volte grazie a certi libri, dimentico ogni dramma piccolo o grande che vivo come accentuato.

E Jack Livingstone mi sembrava il modo migliore per scappare.

Cosi ho preparato la mia vaglia e mi sono messa in attesa della nuova tappa del viaggio.

Sapevo che si trattava di orrori, di fantasmi crudeli, e di quella strana ma necessaria adrenalina che offusca ogni mio pensiero.

Non c’è bisogno di altro se non di leggere, lasciarsi avvinghiare dal tetro e dal terrore.

E gioire per un istante almeno, di una totale libertà.

Ma non si scappa da se stessi.

Ne dalle verità che devono comunque portarti a un latro livello di comprensione.

Non si scappa da se stessi.

Non se sai che in fondo l’universo ti ama, cosi tanto da volerti felice e sereno.

E non si può esserlo se si mente, se si nasconde dietro un velo ogni piccola ferita, se si fa finta che non è infetta, che non sanguina e che non faccia male.

Un male cane.

E cosi dietro l’abile e fidatevi terrificante, ghost stories, Jake nasconde molto altro.

Cosi tanto altro, da farmi versa cocenti lacrime sulle pagine.

E le stesse hanno bevuto assetate proprio quell’univa, importante preziosa lacrima.

Allora il libro mi ha sorriso.

E mi ha detto di non preoccuparmi.

Che il viaggio mi avrebbe fatto si male, ma donato la vera libertà.

Che è quella di capire, comprendere affrontare i miei demoni.

E di demoni questo libro ne ha tanti.

Ha il demone del pregiudizio.

Quello che ti pianta un coltello nel cuore e lo gira e rigira feroce.

Perché ti incatena in una descrizione che ti limita e non ti appartiene.

Ti mutila e non ti rende facile camminare.

Perché ogni sguardo di disapprovazione segue ogni movimento, mai davvero giusto per le convenzioni e per quel ruolo che ti hanno appiccicato sulla pelle. Come si riesce a essere amanti di se stessi se quello stesso te diventa vanesio, indefinito e falso?

Non si può.

Ecco il razzismo, il pregiudizio è la peggior condanna che la società può produrre.

Frena il cammino di chi è limitato dallo stereotipo.

E nuoce a chi usa lo stereotipo stesso.

Perché a furia di pensare per schemi, perde di vista il mondo, che è bello perché cangiante e cosi complicato, complesso e meravigliosamente folle.

E se non resi più a vivere i colori, beh allora sei tipo morto.

E poi abbiamo il demone della violenza, quella che fa nascere dentro di te l’ombra della vendetta.

E solo quella diventa l’unica voce che ti rimane.

Rinchiuso in una gabbia, isolato dal resto del mondo, con la voce otturata da un silente pianto, cosa ti resta per farti udire dall’altro?

Lo sparo, lo schiaffo, il sangue.

Punire quella società che permetta la vita di quei demoni.

Anzi li nutre e li coccola.

E ce li scaglia contro perché la voce che grida da troppo fastidio.

Rischia di scegliere chi dorme, rischia di far tremare il cuore e se il cuore trema può ferirsi e lasciare che il rosso inondi la propria visuale.

E non è certo il rosso del sangue, della violenza.

Ma è il rosso dell’amore.

E forse è l’amore, la compassione e il dolore stesso a permettere non solo a Jake di frenare il male.

Ma anche a me di piangere sulle ultima pagine e di non rischiare di svanire, cosi come svaniamo di fronte ai torti e all’indifferenza.

E per questo grazie Jake.

Grazie perché hai accettato la tua diversità.

Ma soprattutto mi ha donato un arma che non ho mai avuto il coraggio in questi tre anni di impugnare: la speranza.

E se ancora quell’arma brilla di luce intensa, posso ancora salvarmi.

Per chi come me non si trova più.

Che la stesa luce che oggi mi guida possa brillare sul suo cammino

E per te, che lassù sei e resti la mia speranza.

“Lookwood &co. La scala urlante”, Salani. A cura di Alessandra Micheli

Ah la ghost stories ragazzi miei!

Un evergreen che dubito morirà mai.

Continuerà a aleggiare dentro le nostre anime, impedendo a quella domanda, quella che ci spaventa e terrorizza di essere completamente dimenticata. Diciamocelo.

Quello che ci terrorizza più della fine della nostra mortale esistenza è il non sapere cosa ci riserve proprio quell’oltre. Non tanto se esiste o no, ma in che modo è strutturato. Perché noi, piccoli razionali inseriti in un mondo cangiante dobbiamo poter sperare che tutto ciò che ci circonda sia spiegabile e sopratutto gestibile.

Dobbiamo nominarlo, dobbiamo definirlo, dobbiamo avere la comfort zone del concetto.

Pertanto, tutto ciò che esclude la possibilità di poter dominare, appunto seguendo le rigide leggi del nome, ci infastidisce, ci terrorizza e ci inquietata. Per questo nascono le ghost stories.

Perché in quel rapporto di volta in volta diverso delineato dall’autore, noi abbiamo, seppur fantasiose e spesso assurde delle misere spiegazioni.

Eh si miei lettori.

In ogni romanzo, orrorifico o di sapore squisitamente gotico, noi cerchiamo di sciogliere il mistero e di renderlo più vicino alle nostre limitazioni umane.

Ecco perché ancora oggi questi libri, questi racconti ci affascinano.

Quella paura è il modo con cui tocchiamo l’altrove, con cui ci poniamo perché, in fondo, la paura è meglio del non detto, del non sapere, dell’ignoto.

La paura la conosciamo, è qualcosa che ci segue passo passo lungo questa strana avventura.

E di paura nei racconti di Stroud ne avrete in abbondanza.

Sissignori.

Noi pensiamo che i racconti per ragazzi sono di facile digestione.

Che possono essere attraversati con passo lieve, con noncuranza e con un po’ di spavalderia.

Siamo adulti.

I fantasmi sono solo prodotti di una fantasia, distorta e completamente fuori controllo.

Ma vi garantisco che con Lookwood vi troverete invischiati in un melma appiccicosa che vi resterà proprio sulla pelle, con tutto il suo corrosivo potere.

E quindi fatemelo dire..i nostri eroi, cosi buffi e cosi coraggiosi sono quanto di meglio la modernità, quella che tende a spogliare ogni genere delle sue meravigliose caratteristiche, sembrano provenire proprio dal calderone di un inconscio tenendo intatti ogni cliché e ogni elemento che contraddistingue e deve contraddistinguere la ghost sotries.

E questo, miei amati lettori è un vanto.

Vedete a spogliare ogni libro delle sue caratteristiche principali, di rischia di ridurlo all’osso e sopratutto, cosa ancor più grave, di limarlo del senso quell’elemento principale che contraddistingue la sua importanza per questo mondo.

E quel senso lo regalano proprio ciò che voi, in modo snobbistico chiamate clichè.

Quelli sono gli idealtipi, gli archetipi che danno fondamenta all’intera costruzione.

E che il nostro Stroud non disdegna, ma semplicemente li colora con un senso squisitamente moderno che ruota attorno al concetto di responsabilità.

In un mondo delirante, in cui qualcosa scatena le forze infestanti dell’altrove, l’adulto si erge non più come artefice del proprio destino ma come anello debole della catena umana.

Non sogna più.

Non ha più pindarici voli di fantasia.

Non riesce, proprio non ce la fa, a vedere o fermare i fantasmi.

Questo perché nella sua ricerca del concetto, nella sua tentennante corsa verso il profitto ha scordato di avere, oltre alla manualità razionale, altri doni e altre doti.

E sono proprio loro, i ragazzi, i bambini la vera, unica risorsa di questo mondo stravolto, laddove il velo è oramai strappato.

Forse questi fantasmi, crudeli per carità, sono semplicemente stufi di essere ignorati.

E forse la fantasia, trattenuta troppo al ungo nelle maglie dello scientismo, si è ribellata, reclamando con violenza il posto che gli spetta.

Tra crudeli monaci assetati di vendetta, scale urlanti, fantasmi disperati, e strane camere..rosse, il nostro autore non potrà non conquistarvi e non farmi fremere quando un vento inesistenze smuoverà le tende alla finestra, rivelando un buio senza fine.

“Storie di fantasmi” Autori vari. StoryPop, PAV edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Perché raccontare storie di fantasmi? Perché leggerle o ascoltarle? Perché trarre piacere da storie che non hanno nessuno scopo tranne quello di spaventare?
Non lo so. Non del tutto. È una tradizione che risale a tanto tempo fa. Abbiamo storie di fantasmi dall’antico Egitto, dopo tutto, storie di fantasmi nella Bibbia, storie di fantasmi da Roma (insieme a lupi mannari, casi di possessione demoniaca e, naturalmente, più e più volte, di streghe). Abbiamo raccontato storie di alterità, della vita oltre la tomba, per un lungo periodo; storie che fanno formicolare la carne e rendono le ombre più oscure e, cosa più importante, che ci ricordano che viviamo e che vi è qualcosa di speciale, qualcosa di unico e straordinario nell’essere vivi.
Neil Gaiman

Soltanto questa splendida frase di Neil Gaiman basterebbe per creare una recensione su questo libro, edito da Pav edizioni nella meravigliosa collana horrorpop.

E questi racconti, queste perle anzi piccole ossa capaci di formare uno scheletro nell’armadio, antico e necessario non fanno altro che impersonare l’idea di Gaiman.

Noi abbiamo bisogno di fantasmi, di storie del terrore da raccontare attorno al fuoco.

In quelle notti buie, gelide, senza luna, dove le angosce sembrano quasi reali.

E gli spiriti, uccisi dal tempo, dall’odio, dal rancore o dalla sfortuna danzano attorno a noi e ci chiamano anche se facciamo finta di non udire.

Eppure partecipano alla nostra eredità, seduti composti lugubri eppure desiderosi, ancora un ultima volta, di sentire sulle evanescenti mani il calore dell’umano corpo.

Noi vivi, cosi distratti da questo universo sempre in corsa, impegnati a recitare sul palcoscenico della società, costretti a indossare rigidi abiti, sembriamo cosi sicuri di noi, felici del pregresso capace di cancellare la superstizione.

Anche le notti, in fondo, se lo vogliamo non sono mai davvero buie.

Basta accendere le luci, mille artificiali luci, e fingere che il sole non tramonti mai e poi mai.

E di corsa, per non restare in quel vuoto che sembra riguardare ognuno di noi, convinti che è tutto rumore, tutto urla, tutte opportunità per far parte di questo rumoroso girotondo.

Non c’è posto per il mito.

E’ tutto spiegabile, raggiungibile, intercambiabile.

Persino la nostra faccia, la pelle, ogni lascito del fato o del DNA.

Siamo noi i padroni del tempo, lo sfuggiamo, lo combattiamo.

Eppure..

Eppure a volte è un fantasma, la memoria del passato, del dolore, di un no, che incide a sangue sulla pelle il vero vivente.

Non noi che scappiamo, urliamo, ci affrettiamo a illuminare un buio che, non è affatto sparito.

E’ soltanto più pericoloso, più orribile, più crudele.

Il fantasma è cosi messo in un angolo.

Nel recesso del nostro io, costretto a uscire di notte, nei sogni, nei pensieri, in quell’attimo in cui abbassiamo la guardia.

E allora con questo libro, tremanti, incantati e quasi rapiti da un oscura malia, leggiamo di misteri e enigmi, che nessuna scienza potrà mai davvero spiegare.

E nell’attimo in cui un refolo di aria gelida passerà attraverso una fessura e accarezzerà il nostro volto, allora, solo allora in quel brivido orripilante, saremo davvero vivi.

Storie d’amore e orrore.

Storie che fanno parte di noi.

Si levano come una nebbia caliginosa dal profonda della notte, e danzano irrequiete attorno a noi.

In fondo cos’è la morte se non il risveglio da un lungo, lunghissimo sonno?

“Gray Manor” di Sara Vannini, Edizioni Ducale. A cura di Barbara Amarotti

Gray Manor scava la parte più recondita del tuo essere e se ne approfitta, facendoti credere che sia reale. La tua oscurità si avvera dentro queste mura.

Francesca è stata lasciata dalla donna della sua vita e, per tentare di superare il trauma dell’abbandono, si unisce ai coniugi Whitmore (una coppia di studiosi dell’occulto) in qualità di testimone con il compito di scrivere il resoconto del tempo trascorso a Gray Manor, una villa inglese abbandonata da tempo che si dice sia infestata.

Oltre a lei fanno parte della comitiva una scrittrice inglese, Kate, e un fotografo, Jack.

Quello che Francesca non immagina è che questa esperienza la cambierà nel profondo, perché Gray Manor è realmente infestata, ma non da fantasmi “normali” bensì da demoni subdoli che fanno di tutto per far precipitare la comitiva nel terrore più totale.

A Gray Manor i fantasmi non indossavano un lenzuolo.

Prendendo in mano il romanzo per la prima volta ci si rende presto conto che è sì un horror, ma un horror psicologico.

L’autrice gioca con le paure più profonde dei protagonisti e anche con quelle del lettore, usando uno stile che ricorda molto quello di Richard Matheson (se non sapete chi è mi spiace, ma non possiamo essere amici) con i fantasmi che tormentano le loro vittime con il solo scopo di portarle pian piano alla follia.

Eppure, nonostante l’analogia con “La casa d’inferno”, in Gray Manor sono i sentimenti a farla da padrone con gli spiriti pronti a usare ogni debolezza umana per raggiungere il proprio scopo.

Devi affrontare i tuoi mostri interiori per poter guarire, non puoi aspettare che passino da soli.

La storia della casa è agghiacciante nella sua semplicità: il primo proprietario impazzisce di dolore per la morte dell’amata moglie e dell’adorata figlioletta e si toglie la vita, dopo anni di incuria la casa viene abitata da una nuova famiglia, ma la felicità dura poco perché il padre, alcolizzato, uccide moglie e figli per poi togliersi la vita.

Inizia così la leggenda di Gray Manor e, ben presto, diventa il luogo ideale per gli amanti delle messe nere e delle sedute spiritiche fino a che non viene resa impenetrabile.

Quando i Whitmore riescono ad avere il permesso di accedervi per portare a termine il loro esperimento la casa è chiusa e silente da anni e così sembra restare fino a che gli spiriti non iniziano a manifestarsi, prima in maniera lieve e poi sempre più violenta, agli ospiti.

Assistiamo quindi a un crescendo di terrore che tocca in particolare la protagonista, Francesca, rea di essere la persona più fragile di tutta la comitiva.

Eppure sarà proprio grazie a Francesca e all’amore che la giovane ritroverà, se i demoni del passato abbandoneranno per sempre Gray Manor.

Perché, come ci insegna Sara Vannini, l’inferno è dentro di noi ma è possibile liberarsene.

“La porta aperta. Il mistero di Ladlow Hall” di Charlotte Riddell. A cura di Alessandra Micheli

Non è per nulla semplice trovarmi a parlare di questo libro.

E sapete perché?

Perché è un classico della letteratura vittoriana.

E ora ditemi voi amici miei, come posso io semplice lettrice che millanta doti da blogger, avere l’ardire di pronunciarsi su queste fondamenta della letteratura mondiale?

Non posso.

Quindi perdonatemi, cercherò solo di invogliarvi, a mio malgrado, nel leggere e impossessarvi di questa piccola, lucente perla fatta di parole e arte.

Innanzitutto credo sia doveroso spendere due parole, giuro sarò breve, per la nostra valente autrice.

Per chi non lo sapesse, ma so che i miei lettori sono fantastici e sapienti, Charlotte Riddell conosciuta anche come Mrs J.H Riddel è stata una talentuosa scrittrice irlandese, molto popolare e influente nel periodo vittoriano.

E quindi non possiamo certamente recensirla.

Recensireste mai Eco?

No, non credo.

O almeno voglio ritenere questo mondo dotato ancora di un certo pudore e di una certa riverenza verso la bellezza.

Se cosi non fosse…siete messi male.

Anche perché la nostra Riddle fu autrice non di uno ma di ben cinquantasei libri, e racconti e divenne proprietaria e editrice del St Jame’s magazine una di quella riveste letterarie fondamentali che abbellivano la Londra del 1860.

il suo primo romanzo fu The moors and the fens del 1858 pubblicato sotto lo pseudonimo di F.G. Trafford.

E da li romanzi e racconti ebbero una fulgida carriera, si susseguirono sotto gli occhi incantati dei lettori dell’epoca in rapida successione tra il 1858 e il 1902.

Tra i più notevoli permettetemi di citare George Geith di Fen Court reso dramma nel 1883 da Wybert Reeeve, proddoto a Scarborough e poi in Australia.

Che donna non trovate?

E non solo il St Jame’s ma anche la rivista Home degli anni sessanta e scritto btrevi racconti per per la Society for the Promotion of Christian Knowledge e gli annuali natalizi di Routledge.

Insomma ragazzi non ci troviamo davanti ne una novellina, ne un annoiata signora. Ma un artista.

Ma qua l’è la sua vera caratteristica?

Quale poetica porta con se?

Essenzialmente fu una feroce critica di uno degli elementi portanti del vittorianesimo, quel capitalismo sfrenato che portò si a una sorta di agiatezza e un onore al mondo inglese sopratutto.

Ma che fu responsabile anche di grandi drammi e contraddizioni sociali.

Per l‘epoca era il denaro a dettar legge.

Non certo i talenti, né l’impegno.

Una buona rendita poteva comprare persino il titolo nobiliare.

E questo successo si accompagnava con una strana rigidità dei costumi che faceva apparire la società florida si ma chiusa e stagnante.

In più questo proto-capitalismo fu il responsabile di molte tragedie come il lavoro minorile e la povertà di alcuni quartieri, messi all’ombra della city avvoltoio.

La Riddle, cosi come Dickens e persino la bella Bronte (in Shirley diede fuoco alle polveri) fece del commercio il tema di molti romanzi.

Non esaltandolo ma mettendo i luce le sue parti meno nobili.

Questo elemento introdotto persino da Balzac fu una vera novità: non si rappresentava più la società in modo edulcorato e incantato, ma in modo lucido e cinico.

E questo potere, raro ma suadente di descrivere i luoghi, persino quelli di cui non aveva affatto conoscenza dava al racconto una sorta di nota dolente: la city e ogni anfratto di Londra non erano soltanto descrizioni ma simboli ricchi di sfumature adatti a raccontare le emozioni, le sensazioni, le speranze di ogni personaggio.

E persino le sue sconfitte.

E’ attraversato la descrizione minuziosa, quindi, in beffe al nostro show dont’ tell che la Riddle parla di temi importanti, e persino fantasticamente attuali.

In the open door le storie di fantasmi di cui è peraltro famosa, diventano quindi un pretesto per potare avanti questa dialettica, rivoluzionaria: la casa in cui la porta della giustizia non riesce a chiudersi se non puntando la cupidigia è l’emblema di un discorso vittorianano lasciato aperto, dove la lotta per la sopravvivenza di stampo capitalistico è feroce e spietata.

E le presenza non inquietano tanto quanto il destino di un giovane che deve scendere a patti con questo sistema, negare se stesso a tentare di dimostrarsi degno di una macchina i cui meccanismi finiscono con lo stritolare i sogni, i puri e i diversi.

Ecco che la volontà di chiudere la porta è la volontà di un mondo di riparare ai torti e restituire all’etica il suo posto privilegiato: la casa simbolo di sicurezza e legami solidi viene continuamente infestata non già da reali presenze, quando da un male che ha radici più concrete e pericolose.

Ecco perché questo racconto risulta davvero agghiacciate e non ti permette di accantonarlo come una banale storia di fantasmi.

Perché quella porta, in fondo, non siamo mai riuscita a chiuderla.

E il capitalismo ghigna famelico.

Cosa dirvi se non meraviglioso?

Ah si se vi interessa oper door fa parte di una raccolta weird stories assieme a altri cinque capolavori come fairy water, The Uninhabited House, The Haunted River, The Disappearance of Mr. Jeremiah Redworth e The Nun’s Curse

Ecco, non è che potete tradurmi anche questi?

“Creepy tales” di Miriam Palombi, Watson edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Certo che la palombi è di una crudeltà unica.

Insomma non si consegna un libro senza avvertenze.

Sopratutto sulla modalità di lettura.

Non leggetelo a luci spente, alla fievole luce di una candela.

Fidatevi.

Perché è vero che noi amanti del genere, oramai, siamo avvezzi a ogni horror. Non ci sconvolgono carneficine di vampiri, ne zombie assetati di cervelli ( affamati direi vista la scarsità degli stessi).

Non ci sconvolgono fantasmi, ne magioni gotiche fatiscenti e diroccate. Diciamocelo.

Abbiamo letto di tutto.

E sopratutto io, oramai, sono dotata di una corazza che farebbe invidia a ogni templare.

Eppure…

Esistono delle piccole ammaccature, delle maglie sfilacciate proprio sopra il cuore, in trepida attesa che qualche sensazione possa superare la barriera e possa dominare incontrastato nella nostra coscienza.

Ecco perché continuiamo a leggere pregiati libri, in attesa di quella piccola fiammella furba e impavida.

Ecco la Palombi, non so per quale oscuro dono, conosce l’arcano potere di quelle scintille.

E sa scagliarle con precisione e anche compiacimento verso le nostre barriere. Che inevitabilmente cadono e ci rendono meravigliosamente fragili davanti alla malia oscura.

L’ho detto più di una volta.

Miriam è la signora oscura, la Cailleach della letteratura di genere e lei domina e comanda il regno ctonio.

Al suo servizio le parole, le frasi che intreccia con abilità seduta con un sorriso serafico al suo telaio.

E stavolta l’intreccio da vita a Creepy Tales.

Come raccontarvelo?

Non è una questione di metrica o di regole della narratologia.

Non è solo tecnica o regola ferrea di sintassi o l’uso abile delle figure retoriche. C’è di più.

Il suo palazzo diroccato, simile al castello maestoso del buon Walpoole è praticamente vivo.

Tanto che siamo convinti che un orfanotrofio immerso nel bosco oscuro esista davvero.

Siamo convinti che la dimora di un Dio antico, millenario sia da qualche parte e ci aggiriamo nervosi persino nella nostra casa.

Ombre e sussurri, rubati dai libri della Radcliffe assumono una loro particolare dimensione e diventano creazioni uniche e originali della nostra Dea.

Nessuno penserebbe che i suoi sono archetipi del genere.

Perché rendersene conto non creerebbe tutta questa..tensione.

Paura direte voi?

No la paura passa.

Le immagini orrifiche alla fine scemano come uno storno nero in un altro orizzonte, in un altro celo.

La tensione resta.

Avvolta con le sue spire alla coscienza.

E’ perturbante il libro di Creepy.

Simile ai film di un Kubrick con quel gioco di luci e ombre, con quelle strane fessure che sembrano bocche urlanti gridi silenti.

E’ angosciante.

Quel non capire, quel non sapere ma intuire con l’istinto che chi si aggira nei lunghi corridoi non è totalmente umano.

Eppure Miriam non sbroglia la matassa.

Neanche verso il finale.

Suggerisce, gioca, inganna si fa beffe del lettore rendendolo suoi schiavo.

Perché finito il testo la storia continua.

Ci sono altri racconti di morte, altri tributi di sangue rimasti sospesi.

Sai che gli oggetti continueranno a parlare e illuminare oscuramente altri dettagli, altre domande, altri incanti.

Nella notte tetra, nel bosco privo di luce, tra fronde di alberi giganteschi qualcosa respira e sibila.

E corrompe tutto ciò che si avvicina e che riesce a toccare. Corrompe nei sogni e si impossessa delle nostre fragilità.

Se siete coraggiosi io vi invito a scoprire il suo volto.

Ma vi avverto…fatelo di giorno, con un sole rubicondo che vi abbraccia.

Perché la notte è il suo nefasto regno.

E poi finirete come me avvinta a uno strano incanto lontano e viscoso da cui non si scappa più.

“Le novelle horror della nonna” di Francesca Tibo, Saga edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Cosa si fa quando un libro tocca profonde corde dell’anima?

E nel farle vibrare, apre dei cassetti dimenticati, preziosi e pertanto nascosti da mille impervie barriere di ghiaccio?

Si sceglie di non guardare e di scrivere in modo superficiale.

Oppure i coraggiosi, i prodi affrontano il drago, senza paura sapendo che rischiano di scottarsi.

E quel cassetto lo aprono.

Ricordi, sensazioni, sapori e odori inondando il tuo viso.

E sai che non sarà facile raccontarli, perché raccontarli significa aprire finalmente gli occhi e trovare un po’ di tutto, gioia, malinconia e sì, un dolore straziante.

Io sono una folle, e nell’omaggiare la Tibo ho deciso di svelarmi, senza remore, raccontando con il libro un po’ di me.

Il sapore dimenticato è quello delle mie nonne.

Acqua di colonia alla violetta una e profumo del suo tortiglione alle mele l’altra.

Ricordi che irrompono in questa notte in cui ho posato il libro e lasciato che le lacrime scorressero.

Libere, senza più costrizioni.

E mi sono ritrovata sola, sola come chi perde qualcosa di importante e non sa darsi una ragione.

Sola come chi desidera congelare un istante, ma forse può farlo soltanto con la fantasia.

Sola ma ricca.

Perché soltanto chi ha amato davvero può provare tanto dolore.

Solo chi ha vissuto fino in fondo ogni emozione, abbracciato cosi forte tanto da lasciare cicatrici brucianti sull’anima e invisibile al corpo, può sentire la solitudine.

Leggere la Tibo è un po’ tutto questo.

Novelle, piene di memoria, piene di insegnamenti, piene di quel mistero che loro le nonne conservavano gelosamente come uno dei segreti da tramandarci.

Ricordi di un mondo in cui il rispetto per le leggi sacre era ancora vivo. In cui confondevano progresso e tradizione.

Ricordo ancora i loro consigli: taglia i capelli alla luna calante.

O i loro magici rimedi per ogni problema.

E cosi novelle horror non è solo un bel libro che omaggia un territorio, che innalza il folclore a letteratura.

E’ un omaggio a quelle figure che, bene o male, hanno modellato il nostro io.

Perché tutti hanno avuto una nonna o un nonno che non li hanno solo cullati, ma nutriti a pane e mito.

Racconti attorno a un fuoco simbolico forse, ma non per questo meno bruciante e caldo. Io le mie storie le ho ancora dentro.

Non ho il coraggio di lasciarle uscire come la Tibo.

Sono mie, profondamente e egoisticamente mie.

E con questo dono io ho ritrovato Nonna Valeriana, toscana come la nonna del libro, originaria di Vergaio, che spesso mi narrava come le donne della nostra famiglia fossero strane, originali, aliene alle consuetudini, vicine a un mondo contadino che vibrava nel DNA.

Forse un po’ streghe.

E nonna Angela, che con quel suo sguardo antico e quella sua eleganza impeccabile, sembrava cantare antiche nenie ogni volta che la sua voce mi faceva dormire.

E forse un po’ Zia Norma, non una nonna ma una figura particolare, che ricordo piena di farina, in quella casa luminosa in cui bollivano misteriosi calderoni.

Di sugo non certo di pozioni, ma che a me sembravano soltanto elisir stregati.

E zia Santina, con al sua voce dura, di chi ha vissuto il dramma della guerra che mi diceva studia, sii indipendente, alza la testa e fissa gli occhi in fronte a un uomo senza mai abbassarli.

E poi arrivi tu, in un turbine di profumi, tu che mi ha nutrito a pane e ribellione, tu che mi raccontavi di magia e incantesimi, tu con cui celebravo in un cerchio magico l’Esbat di turno.

E ritornano a ogni lettura un sacco di donne, parti della mia storia che oggi vivono in me.

E solo un piccolo grande libro le chiama a se e le loro voci leggono a voce alta questo piccolo libro.

Non so parlarvi di struttura o altro.

So solo che in quel momento sono tornata bambina, in una stanza ricca di sole, con sullo sfondo una Viterbo medievale, con i suo imiti, i suoi catari e il sole che irrompeva quasi morente sul pavimento e io, a leggere un racconto antico, che sapeva di tradizione.

E solo per questo non posso che dire grazie.

Grazie per avermi restituito ricordi che per troppo tempo ho chiuso dentro un cassetto.

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Per Elena

che oggi ha una stella in cielo

a gioire per ogni sorriso di luce che mi dona.

Non fate casino lassù con gli angeli

“I segreti della casa di via De Lorenzi” di Francesca Letizia Piccione, Io me lo leggo editore. A cura di Alessia Bertini

Una casa misteriosa, magari un po’ diroccata e in vendita da tempi immemori la si trova quasi sempre, in ogni paesello. Abitazioni che accolgono per tempi fugaci famiglie spesso venute “da fuori” che poi tornano presto vuote e con il cartello Affittasi o In vendita attaccato ad uno dei vetri del primo piano.

Sì, quella casa era davvero un buon affare…

Poco importava se le malelingue giù in paese insinuassero che chiunque ne entrasse in possesso venisse perseguitato dalla sventura…

Nanni non credeva a simili sciocchezze di paese, storie antiche e senza alcun fondamento. Chi poteva ancora alimentare simili fandonie?

Ecco, è proprio una casa di questo tipo ad accogliere la famiglia Quercia e ad essere testimone (o forse artefice) della sua sventurata storia familiare.

Nonna Ada, incalzata dalle domande e dalla curiosità della nipotina Sofia, ne racconta i risvolti.

Una vicenda che nasce e muove i suoi passi in un paesino siciliano, percorrendo poi quelle viuzze assolate e polverose, tracciate e battute dalle più belle saghe familiari che in questa terra hanno trovato i natali.

Un coro di voci riempiono le stanze della casa: accesi dialoghi tra i giovani di casa, Nanni, Caterina e Ada; borbottii preoccupati del padre Don Girolamo e della madre Maretta, alle prese con la crisi dovuta all’inizio della guerra e ai grattacapi per la condotta del figlio maschio.

Impossibile non notare come il susseguirsi di disgrazie ai danni dei Quercia segua un climax che va di pari passo con il manifestarsi di strani ed inquietanti eventi: la comparsa di malummiri (spiriti maligni), incubi premonitori, voci femminili che cantano ninne nanne.

Era come se ci fosse qualcuno che dicesse di andare via di lì, di non restare, perché quella casa era stata dimora di dolore e i suoi morti ora volevano solo continuare a piangervi indisturbati.

Ma la parabola di autodistruzione che sta compiendo la famiglia Quercia è veramente indotta da spiriti rancorosi e dal loro influsso vendicativo? Quanto invece è imputabile a scelte umanamente errate?

Il sonno della ragione genera mostri

Francisco Goya

In questa breve citazione, posta all’inizio del racconto, si trova il vero messaggio del libro.

Una storia di fantasmi e paranormale che nasconde nei suoi risvolti una denuncia alla disumanità e alla discriminazione perpetrata nei confronti delle molte donne protagoniste della vicenda, maltrattamenti e soprusi che hanno generato i veri mostri della storia.

Ed in questo messaggio, la vicenda trova la sua universalità e la forte valenza sociale, attingendo a quel sentimento di condivisione e comunanza che la rende purtroppo capace di calzare le scarpe di una qualsiasi epoca o regione.

Giovani donne costrette a prostituirsi da padri o fratelli avidi; bambine abbandonate a se stesse perché macchiate dal disonore dei genitori, schiave annullate sotto la stretta dei padroni, vendute in matrimoni di comodo.

Onore, maldicenze, pregiudizi.

Da un lato vittime sconfitte, personalità annullate e portate all’esasperazione. Dall’altro poche farfalle bianche, come Ada, anime determinate, che sfidano superstizioni e senso comune per andare oltre quella vuota superficialità.

Senza scomodare le famose haunted house della letteratura anglosassone, dimore gotiche dai nomi altisonanti come Hill House o Bly Manor, anche il nostro immaginario locale identifica nelle case infestate lo scrigno custode di antiche tragedie da non dimenticare.

E il racconto orale di fronte al focolare, tra nonni e nipoti, si consolida come il tramite di ricordi e saggezza popolare.

Anche questa storia è nata così, trovando poi una sua forma liberamente rivista e adattata per essere diffusa in forma scritta dall’autrice.

La natura orale del racconto viene abilmente preservata nei tanti dialoghi tra i personaggi, riportati in dialetto e accompagnati da note linguistiche.

La lettura prosegue poi con scorrevolezza nelle parti lasciate alla voce narrante in terza persona, a cui spetta dipanare la matassa di eventi intrecciati nel tempo, tra le varie generazioni di abitanti di quella casa in via De Lorenzi.

Un breve racconto dalle tinte horror-noir che testimonia il forte legame tra terra natale e scrittore, in un equilibrio tra bellezze e tradizioni, contraddizioni e lati oscuri.

Continua il nostro viaggio nella Halloween oscura. È la volta della recensione di “Innocenti spiriti” e “Note rosso sangue” di Salvatore Stefanelli, Nero Press. A cura di Alessandra Micheli

Ecco la notte più oscura dell’anno.

Preparatevi perché le porte dell’Ade si stanno per aprire e miriadi di spiriti stanno per camminare in mezzo a voi.

Avete paura miei adorati?

Non dovete.

In fondo, voi che mi leggete fate parte di quest’arcana magia, di sogni che forse assomigliano a incubi.

Volete scheletri danzanti e ghigni nella notte.

Desiderate gatti dal sorriso inquinante e strani e ossessivi cappellai con una tazza da tè sbeccata.

Sognate di follie e di bizzarro e quindi..eccomi a voi, per accompagnarvi in questa lunga notte di meraviglie e incanti.

E il primo libro che vi propongo non può non parlare che di spiriti, facendoci visitare il regno dei morti.

Coloro che apparentemente lasciano questa strana dimensione… Apparentemente.

Perché noi sappiamo la verità.

Sappiamo che i mondi non sono mai davvero divisi.

E in notti come questa il velo è sollevato per tutti, non solo per noi sognatori oscuri.

E così oggi abbiamo un nuovo eroe…

Ve lo presento?

Siete sicuri?

Lo avete voluto voi.

Orsù, iniziate a mettere sul giradischi le note di “The mask and the mirror” di Lorena Mckennit, indossate un leggiadro abito bianco iniziate a sentirvi parte di questa notte di incanto e pazzie.

Con me ho Apoillinare Neville.

È un uomo molto strano sapete?

Ama il metal e il sanguinaccio.

E ha un tatuaggio molto inquietante sul petto..una bara.

Ma no, non toccatela.

Essa è il suo legame con il mondo dei fantasmi.

E grazie a quella bara può farli rivivere.

È successo tutto in una notte di dolore, una notte dove il nostro pazzo ha tentato di suonare “Note rosso sangue”.

Con una lametta.

Perché il dolore è una porta e da quella porta lui voleva rividere il suo unico amore: la figlia.

Ed è quello il richiamo più allettante per gli spiriti.

L’energia vitale in cambio di un dono.

La sua salvezza in cambio forse dell’anima.

Il risultato non è stato solo quello di ritrovarsi e di ritrovare, ma ha sancito un patto.

No, Neville, non si dicono le parolacce.

So che non volevi quel patto, ma pensa positivo…non sei mai davvero solo.

Da quel lontano giorno, infatti, lui è parte di due mondi: quello diurno e quello delle tenebre.

E ci mostra ciò che in fondo al cuore sappiamo: gli spiriti vogliono solo raccontarci la propria storia.

Vogliono vivere e non essere mai scordati.

E nel buio c’è chi attenta a queste anime che non perdono la luce. Demoni, spiriti o chissà che altra feccia.

Perché se gli altri considerano i fantasmi orribili creature da sfuggire…noi sappiamo, come lo sa Apollinare, che in fondo sono più innocenti di quanto pensiamo.

E quindi li difenderà, fino..beh non alla morte.

Ma alla vita.

Le sue avventure hanno quel sapore dolceamaro che in fondo ha il mistero.

Dolce perché ci dona la speranza che la vita non sia spiegabile e che non finisca con la materia.

Amaro, perché noi possiamo solo sospettarlo.

Neville, invece, lo sa.

E ci accompagnerà in questi due splendidi testi, verso la scoperta del mondo altro.

E in questa notte che danziamo con elfi fate, spiriti e demoni, ci sentiremo ancor più uniti a un’ombra che ci appartiene, perché è la parte che, ogni volta che la tentazione di suonare le note rosso sangue ci prende, ci salva e ci prende per mano.

Innocenti spiriti e note rosso sangue vi aspettano per rapirvi con la loro malia.

E un brindisi quindi a questa notte terribile!