“Gli Dei di Giada e Ombra”, di Silvia Moreno Garcia, Mondadori,Fantasy. A cura di Barbara Anderson

L’età del jazz è all’apice del suo splendore, ma la diciottenne Casiopea Tun non ha tempo da dedicare allo swing; è troppo impegnata a spazzare i pavimenti nella dimora del ricchissimo nonno nel Sud del Messico. Desidera da sempre una vita diversa, lontana da quel polveroso villaggio: una vita che sia davvero solo sua.

Un sogno, però, che pare irrealizzabile fino al giorno in cui, aprendo per caso un baule di legno custodito nella camera del nonno, libera inavvertitamente lo spirito del Signore delle Ombre – il dio maya della morte -, che le chiede di aiutarlo a riconquistare il trono usurpato dal fratello. Se Casiopea fallirà nell’impresa, andrà incontro alla morte. Se invece riuscirà, il suo sogno potrà finalmente avverarsi.

Assieme a questo dio incredibilmente bello, e armata unicamente della propria intelligenza, la ragazza intraprende una fantasmagorica avventura che la condurrà nelle foreste dello Yucatán, nella sfavillante Città del Messico e, più oltre ancora, fin negli abissi dell’Oltretomba maya.

***

Allacciate le cinture di sicurezza. Sedetevi comodi, tenetevi per mano!

Un altro viaggio nell’Altrove sta per cominciare.

Per sicurezza e se avete fede potrete recitare anche una preghiera, se non avete fede chissà che non sia questa l’occasione per cominciare a credere in qualcosa di superiore, di immenso, di grande, di divino.

Caos, confusione, traffico, gente che si muove come formiche laboriose, un via vai di suoni di rumori di vita…

Apro gli occhi e mi guardo intorno: nessuna nebbia, nessuna oscurità, tutto sembra pulsare di vitalità e di colore.

A giudicare dall’abbigliamento delle persone siamo nel cuore degli anni 20: Messico.

Che gioia sto provando sono stata in Messico molti anni fa ed è stato uno dei paesi più belli che io abbia mai visitato.

Ricordo perfino di aver mangiato in un villaggio insieme a una antica famiglia discendente dei Maya e fu un’esperienza particolarmente superba; non si trattava di una meta turistica ma di un’avventura in cui mi lanciavo di mia iniziativa e della quale porto ricordi stupendi.

Oggi mi sento particolarmente viva e con curiosità mi incammino addentrandomi in questo viaggio aspettandomi un connubio speciale con la mitologia Maya.

Improvvisamente mi ritrovo in questa abitazione sontuosa, in questo villaggio c’è una ragazzina che viene comandata a bacchetta, mi ricorda molto Cenerentola solo che non ha le sorellastre ma delle zie arcigne e burbere, si occupa di suo nonno anziano, facendole da badante e servendo gli altri membri della famiglia.

Suo padre era morto e lei e sua madre avevano chiesto aiuto e ospitalità al nonno e si erano sottomesse a servigi e lavori per poter giustificare la loro permanenza nella casa della famiglia.

Casiopea, ha il nome di una costellazione, ha molti sogni e desideri seppur è una ragazzina semplice e di campagna, ha anche il suo carattere irriverente, ribelle e pur lavorando con costanza e dedizione sa tenere testa con la sua lingua senza freni alle angherie dei familiari e soprattutto dello spregevole cugino Martin.

Spregevole nei modi che purtroppo stonano con il suo bell’aspetto e signorilità, rendendolo gli occhi di Casiopea un essere da disprezzare.

Mi ritrovo accanto ad un baule di legno con un’incisione Maya, all’interno un mucchio di ossa.

Avete presente il genio di Aladino? Si sfrega la lampada e appare il genio che esaudisce i tuoi desideri; qui Casiopea  aprirà questo baule e risveglierà non un genio  intrappolato ma un dio Maya, il quale la legherà a sé con una scheggia delle sue ossa nella carne creando con lei un collegamento di vita e di morte con cui lui si nutrirà fino al momento in cui potrà scontrarsi con suo fratello gemello che gli aveva usurpato il trono nel regno di Xalba.

Ebbene sì, abbiamo davanti un dio Maya bello, di una bellezza incredibile, il dio della morte, ed è furioso e promette a Casiopea di compensare se lo aiuterà e lo accompagnerà nel suo viaggio e qualora si rifiutasse per lei sarebbe la morte.

La percepite come me questa follia? Esiste un solo Dio? Esiste il paradiso e l’inferno?

Gli dei che esistono nelle storie appartengono alle convinzioni. La fede, gli dei, le religioni esistono grazie alle credenze che le persone scelgono di sostenere.

Davanti ad un dio Maya siamo folli? Siamo dei prescelti? O siamo semplicemente la vulnerabilità dell’essere umano?

Siamo nellinframondoin questo viaggio, il luogo che chiamiamo terra e che appartiene agli esseri umani, ma c’è qualcosa che unisce il cielo, l’inframondo e l’aldilà e questo viaggio ci sta portando nel cuore dell’oscurità; là dove scorrono fiumi di sangue e di pus, la dove è solo eterna oscurità, là dove la morte regna sovrana e attende l’arrivo di ogni cessata vita.

Stiamo affrontando questo viaggio chissà forse perché siamo nati sotto una buona stella, abbiamo la fortuna di poter fare questa esperienza oggi eppure Casiopea sembra essere nata sotto una grande sfiga.

Tutto sembra andare male, tutto sembra un brutto scherzo del destino.

Ma cosa siamo disposti a fare per realizzare un sogno? Cosa siamo disposti a perdere per il raggiungimento di un obiettivo? Cosa siamo capaci di fare per amore?

Ci ritroviamo su una nave in viaggio con un dio e una ragazza di campagna sporca e povera, non siamo in cerca di chissà quale tesoro, non stiamo cercando la fortuna stiamo percorrendo le incognite della vita, che possono condurre e che condurranno prima o poi inevitabilmente alla morte.

Stiamo cercando un occhio, un orecchio e una collana di giada. Stiamo affrontando una nuova avventura!

Chi o cosa genera gli dei? Senza alcun dubbio sono i pensieri degli uomini, gli dei si nutrono delle nostre preghiere dei nostri sacrifici dei nostri doni, dei nostri servigi.

Gli dei hanno bisogno di noi così come noi abbiamo la necessità spirituale di loro.

La dualità che ci unisce e che ci accomuna

Stiamo per raggiungere un abisso oscuro

Il gelo della morte sta abbracciando la vita, l’oscurità che si avvicina alla luce perché la morte è attratta dalla vita, dalla sua energia e Casiopea rappresenta la pura essenza della vita, delle speranze, dei desideri, dei sogni, delle pulsioni che ci rendono umani e vivi.

Casiopea è affascinata dal dio della morte, dalla sua oscurità, dal suo gelo e nasce un amore impossibile.

Tra un essere umano e un dio, tra la vita e la morte eppure l’uno non esisterebbe senza la presenza dell’altro.

L’esistenza di entrambi verte sulla presenza dell’altro. Ed è di una bellezza spettacolare. 

Forse stavolta pensavate di vivere un nuovo terrore attraverso questo viaggio, forse pensavate di vivere un’esperienza fatta di nebbia e di tenebre; eppure qui c’è tantissima luce, una luce che pulsa che abbaglia gli occhi che inebria l’anima.

Vulub Kame, il fratello di Hunk Kame, il Signore Supremo di Xalba, il dio della morte sa che suo fratello è stato risvegliato, sa che sta per raggiungerlo per la battaglia finale nell’intento di riprendersi il suo trono. Invierà un suo emissario: il cugino di Casiopea, Martin. 

La senti la strada che stiamo percorrendo? Stiamo scendendo nelle viscere della terra, al di sotto dell’inframondo; stiamo avvicinandoci a dei e demoni, a creature mitologiche e fantastiche, ci stiamo avvicinando alla divinità assoluta che è la vita.

Stiamo percorrendo il sentiero del perdono.

Misteriosa è la natura dell’odio, può rodere il cuore per l’eternità e quando ci si aspetta che resti immobile immutato come una enorme montagna poi all’improvviso sparisce.

L’Altrove di oggi risiede a Xalba e nell’inframondo, si veste di perdono, del momento in cui si abbandona sia l’odio che la cattiveria e si prende consapevolezza dei sentimenti, dei legami delle unioni.

Cosa può mettere pace nel cuore in subbuglio degli dei? Se non un sacrificio?

Oggi uno di noi verrà sacrificato in nome degli dei.

Basta seguire quel sentiero nell’oscurità tracciato da piccoli fiori rossi che sembrano parole scritte su una lettera d’amore.

Abbiamo bisogno di credere, di crederci e di essere creduti.

Aprite gli occhi siamo ritornati a casa.

“Cardospina lacasa errante” di Gennarose Nethercott, Mondadori. A cura di Barbara Anderson

Sinossi

Isaac e Bellatine Yaga sono cresciuti girovagando per l’America con il teatro di marionette di famiglia. Da quando Isaac ha mollato tutto e se n’è andato, i due fratelli hanno perso completamente i contatti. Lui è diventato un abile artista di strada, guadagnandosi il titolo di Re Camaleonte grazie alla strabiliante capacità di riprodurre le sembianze esatte di chiunque sia tra il pubblico, incantando – e talvolta derubando – i suoi spettatori. Bellatine, invece, aspira a una vita tranquilla e senza sorprese, e si dedica anima e corpo al suo lavoro di ebanista. Anche lei ha un dono straordinario che vuole tenere nascosto: le sue mani possono dar vita a oggetti inanimati. Quando una lettera li avvisa che devono ritirare una grossa eredità al porto di New York, i due fratelli si riuniscono e non riescono a credere ai propri occhi. Ad attenderli, infatti, c’è Cardospina, una casetta di legno appena arrivata da un piccolo villaggio dell’Europa dell’Est. Al posto delle fondamenta ha due zampe di gallina, forti e irrequiete, e restare ferma proprio non le piace: guai a chi provi a trattenerla in un luogo contro la sua volontà. Cardospina si muove, parla, racconta storie e forse anche qualche bugia, e ricostruisce la vita di Baba Yaga, leggendaria antenata dei due fratelli, e il terribile destino che un secolo prima si è abbattuto sul suo villaggio. A bordo della casa parlante, Isaac e Bellatine si mettono in viaggio per riportare un’ultima volta in scena lo spettacolo di famiglia, ma presto scopriranno di non essere soli: un oscuro nemico ha attraversato l’oceano per mettersi sulle loro tracce, un’ombra dal passato che non si fermerà finché non avrà cancellato tutti i ricordi di Cardospina. Ma si può uccidere un ricordo? Intrecciando fantastico, folklore e memoria storica, GennaRose Nethercott dà vita a un romanzo originale e commovente, una fiaba contemporanea che celebra le storie e il loro immenso potere di spiegare e tenere vivo il passato.

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Il libro, io lo so, e lo sa come me chi ama leggere, è un essere senziente, capace di percepire il suo lettore, di sentirlo e di decidere se quella magica connessione tra lui e l’individuo che lo tiene tra le mani sia un terreno fertile su cui seminare le sue parole, i suoi contenuti.

Nel momento in cui ho posato i miei occhi su questo romanzo ho percepito un ronzio nella testa, un calore sulle mie mani, un “qualcosa” di molto intenso e particolare.

Era la stessa sensazione che provo quando mi trovo a contatto con qualcosa o qualcuno che amo.

Sono forse un eterna bambina che pur non essendo romantica adora le favole, ma non quelle fatte di principesse e castelli, bensì le favole oscure, quelle che ti fanno esplorare le emozioni e le debolezze umane, quelle che riescono a turbare la mia anima, la mia coscienza.

Ed eccomi così qui, in questa avventura, questo viaggio meraviglioso in una storia che è un connubio tra fantasia, folklore, fervida immaginazione, in una storia che ci regala qualcosa di incredibilmente puro, sincero, significativo. 

Una favola, un retelling ispirato al folklore Slavo. 

Baba Yaga è una creatura soprannaturale, che appare come una donna feroce e deforme, di solito vola dentro un mortaio e dimora nel profondo della foresta in una capanna descritta in piedi su due zampe di pollo.

Baba Yaga può aiutare o ostacolare chi incontra, è associata ai boschi, alle foreste e alla natura selvaggia.

Due fratelli, Isaac e Ballatine sono cresciuti girando per il mondo insieme ai genitori con il loro spettacolo di marionette; ma entrambi si sono allontanati perdendo quasi ogni contatto tra di loro, fino al giorno in cui erediteranno dalla loro antenata Baba Yaga questa casa grottesca, pulsante, viva.

E qui vorrei soffermarmi proprio sul concetto di casa, il focolare: la casa rappresenta le fondamenta della vita psichica il sentirsi a casa esprime un equilibrio, un integrità psicologica, è il contenitore che raccoglie, assorbe la storia delle famiglie che la abitano, come le energie, ricordi, nascite, lacrime, feste, i momenti di solitudine. 

La casa non è una cosa inanimata è una creatura viva e pulsante, l’involucro di tutta la nostra vita e di chi la abita.

Mi capita spesso quando entro in casa di qualcuno di percepire l’energia, la trasmissione mentale dello stato d’animo di quella abitazione, ci sono luoghi in cui mi sento serena, altri in cui mi sento a disagio, case in cui mi sento ben venuta e altre in cui mi viene la fretta di andarmene via.

Ed ecco che in questa fiaba il narratore è proprio Cardospina, la casa che non sta mai ferma e ci racconta la sua storia, la storia delle persone che l’hanno abitata, affrontando sentimenti, amore, sofferenza, violenza, anti semitismo, morte, genocidio, autolesionismo e suicidio.

Nel mentre i due fratelli fanno un viaggio nei ricordi, perché Cardospina è il narratore che ha il compito di tramandare le storie, di riportare i ricordi, quelle esperienze del passato che si conservano nella nostra coscienza e che vengono rievocate dalla mente.

I ricordi possono essere tutto ciò a cui potersi aggrappare ma i ricordi possono anche far male e nel peggiore dei casi i ricordi possono anche essere dimenticati.

Ma le fiabe popolari sono lamemoria del tempo, la fiaba, la leggenda non si dimentica, muta adattandosi alla bocca di chi la racconta, e alle orecchie di chi la ascolta.

I due ragazzi hanno entrambi un potere speciale: Isaac riesce a prendere le sembianze di chi ha difronte, come un Camaleonte capace di mutare e di diventare qualcun altro per non mostrare mai se stesso, lo usa per fare spettacolo ma in realtà forse solo per proteggere se stesso. 

Un po’ come facciamo tutti quando indossiamo delle maschere per non mostrare mai la nostra vera immagine, le nostre reali vulnerabilità.

Invece Bellatine ha il potere delle mani, quelle mani che rifiutano la morte e che hanno la capacità di ridare vita alle cose inanimate.

Entrambi rappresentano un po’ gli aspetti fondamentali dell’essere umano e le sue fragilità e il potere dei ricordi della memoria, quella storica che deve essere tramandata per non essere mai perduta. 

Una storia che ci mostra il bene, il male, la comprensione e la presa di coscienza di se stessi.

Spegni la luce, accendi il fantasma” poiché quando si spegne la luce, si accendono un po’ tutti quegli spettri che la luce nasconde, si arriva in un altrove immaginario ma reale, l’altra faccia del mondo la faccia più tenebrosa e oscura ma capace di fare luce su ciò che non riusciamo più a vedere. Il buio che accende.

Scappare da qualcosa è scappare da se stessi, nascondersi dalla realtà, una fuga perenne quella di Isaac che spinto dal vento del suo entusiasmo non riesce a fermarsi mai.

I ricordi sono frammenti di vita che sparpagliamo durante il nostro percorso e con cui qualcuno dopo di noi riuscirà a costruire un mosaico che rappresenti la nostra esistenza, il nostro passaggio, la nostra presenza.

La casa è il contenitore della vita, la vita è il contenitore dei ricordi. Quando un contenitore si rompe, nulla del contenuto si distrugge.

Si libera.

Una storia incantevole, dalla narrazione placida, pacata, poetica ma travolgente, una storia che fa commuovere, che spezza il cuore e che lo  ripara con la forza e la resistenza delle storie che ci vengono narrate.

Le storie che ci vengono raccontate da bambini, nelle favole della buonanotte, quelle che ritroviamo nel folklore multiculturale, sono capaci di incoraggiare il cambiamento nella persona che le sta ascoltando.

Un’avventura dolorosa a tratti triste ma che ci lascia addosso una spensieratezza, uno stato di pace unica.

Cardospina non smetterà mai di correre e sta correndo anche ora e a me sembra quasi di vederla spostata dalla polvere e dal vento con le sue zampe di gallina che rincorre qualcuno per raccontare le sue storie.

La mia casa non ha le zampe di gallina e non riesce a spostarsi da dove si trova eppure la percepisco viva e in questo momento mi sta abbracciando con il suo calore, le sue pareti, i suoi soffitti perché sa che grazie a questa storia io l’ho capita.

“Tra le coltri” di Mattia Bernardini, Horti di Giano. A cura di Barbara Anderson

SINOSSI:

Flavia e Filippo sono due diciottenni innamorati che vivono in una valle in mezzo ai monti dell’Appennino, attraversata da un gasdotto. Lei è un’artista ribelle, lui ha un’impostazione più razionale e ama i fumetti, tanto da aver scritto una sceneggiatura che Flavia gli sta disegnando, dal titolo Rascal Circus. Tommaso, il fratello di Flavia, è un giramondo che riporta dai suoi viaggi degli strani manufatti di antichi popoli, legati a entità mostruose. La ragazza, inoltre, non ha mai dimenticato le storie misteriose che le raccontava suo nonno da piccola. Il folklore locale di cui le parlava era composto di creature dei boschi ed esseri selvaggi di ogni tipo. Ma quella più inquietante riguardava la Marangona, una strega longeva che vive nei pressi del fiume e che rapisce le persone uscendo dalla nebbia avvolta dalle tenebre. Nella notte più corta dell’anno, quando il solstizio d’estate assurge il suo potere, i due giovani decidono di attendere l’alba nel bosco nei pressi del cantiere del gasdotto, ma il corso della loro vita cambierà per sempre…

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La falce di luna mi osserva minacciosa attraverso la finestra della mia camera da letto, mentre tengo tra le mani questa nuova lettura e come di consueto sono qui oggi per raccontarvi questa nuova esperienza.

La cover è stata galeotta in questo caso perché appena ho visto la presentazione di questo romanzo, ho chiesto esplicitamente alla mia boss del blog di poterlo leggere; qualora fosse stata richiesta la nostra recensione.

E la mia richiesta è stata soddisfatta (ogni tanto con il capo supremo del blog anche questo può accadere).

La sinossi non lascia spazio all’immaginazione e questo a volte è un bene perché ci sono giorni in cui cerco letture che mi sorprendano ed altri che mi diano delle certezze almeno narrative.

Questo romanzo è particolarmente semplice nella sua narrazione e nel messaggio che l’autore cerca di trasmettere ma non per questo meno piacevole rispetto a romanzi horror più complessi e più cupi.

Tra le coltri ci proietta un po’ nel passato e nella nostalgica memoria dei racconti folkloristici dei nostri genitori e dei nostri nonni, che prima di dormire ci raccontavano cupe storie di spiriti, di streghe, di lupi mannari e di fantasmi.

Il folklore italiano così come per ogni altro paese è un patrimonio di leggende e racconti popolari che si tramandano di generazione in generazione, mantenendo integra quella memoria popolare  che rende tutto più cupo, più magico, più spettrale. E in questo romanzo il trucco sta esattamente nelle leggende e nell’effetto che queste storie possono avere sulla nostra mente e sul nostro cuore.

Siamo tutti testimoni di quanto la suggestione a volte possa farci brutti scherzi, io alla veneranda età; di MATUSALEMME ancora oggi se un piede mi scende dal letto mentre dormo, tendo a svegliarmi di colpo e a ritrarlo sotto le coperte come se queste fossero uno scudo protettivo, impenetrabile che possa fermare i mostri sotto al mio letto pronti a strapparmi il piede a morsi.

La narrazione in questa storia approccia la mente del lettore lentamente facendoci incontrare i due protagonisti, due ragazzi giovanissimi: Filippo e Flavia che mi hanno riportata indietro nel tempo, quando avevo la loro età, quando facevo le stesse cose insieme ai miei amici e al ragazzo del momento, le esplorazioni notturne, le escursioni in luoghi remoti dei boschi, i furti di frutta nei campi dei contadini nelle campagne italiane con qualche schioppettata di fucile caricato a pallini che uno dei mie amici dei tempi andati forse ancora ne ha il ricordo sulla natica sinistra.

Filippo e Flavia sono simpatici, semplici, originali. Flavia ha quello spirito vivace che avevo io alla sua età scavezzacollo, coraggiosa, curiosa, testarda spericolata, incosciente, coinvolgente, travolgente che trascina il suo ragazzo in avventure pazzesche. Filippo ha mille sogni nel cassetto, tante paure ma un amore spericolato per la sua Flavia.

Il tutto si articola nel contesto spettacolare dei nostri Appennini italiani di cui l’autore ne descrive paesaggi e boschi in maniera sublime tanto da farmi rivivere antichi ricordi delle mie passeggiate ed escursioni tra quei boschi insieme agli amici le notti d’estate.

Filippo scrive sceneggiature per fumetti e Flavia è un abile disegnatrice fumettista e insieme stanno progettando il loro prossimo lavoro pieni di idee e di vivace entusiasmo che contagia il lettore con la  loro esuberante e giovane freschezza. Nelle loro avventure notturne si troveranno a vivere esperienze anomale, forse paranormali, forze occulte, probabilmente criminali? Ma tutto sembra sospeso in un tempo recondito della loro memoria. Le cose che accadono sembrano mosse da fili invisibili aggrappati ad un tempo antico tra il passare delle stagioni, il bosco ed il fiume, mutano in apparenza e veicolano emozioni e colori diversi al lettore grazie a quell’abilità e fantasia artistica dell’autore capace di trasmettere la bellezza per gli occhi con semplici e ricercate parole. Quella nebbia, quel vento, quell’odore di muschio e di legna bagnata la senti sulla pelle e sul naso così come quel gelo spettrale di mistero e di sospetto che avvolge per tutto il corso della storia.

La confusione in cui mi sono trovata durante le ricerche dei giovani ragazzi per venire a capo di numerose e misteriose scomparse mi ha tenuta incollata alle pagine con la curiosità di scoprire la verità; una verità minacciosa che onestamente non mi aspettavo. C’è qualcosa o qualcuno che padroneggia i boschi e il fiume, che controlla la nebbia come una vestale dei boschi?

Cosa sta accadendo a questi ragazzi che stanno semplicemente vivendo la loro giovinezza e spensieratezza pieni di progetti di desideri e di sogni tutti ancora da realizzare?

Ho trovato questa lettura piacevole. Ha avuto il merito di riportarmi indietro a un bel po’ di anni fa e mi ha fatto ricordare le storie dei miei nonni. Mi ha fatto ripensare all’incoscienza giovanile, grazie alla poca esperienza di vita e di sofferenza e dolore.

Una lettura che troverà molti consensi tra quel gruppo di lettori che si chiama young adult ma che può essere apprezzata anche da amanti del genere horror nostalgico e magico.

Quando sono andata a leggere la biografia dell’autore e ho appreso che è anche un musicista, ho compreso da dove provenisse quella sensibilità descrittiva dei boschi che solo un artista è capace di fare.

Non ho paura del buio perché tutti i mostri che si nascondono nell’oscurità sono gli stessi che i miei nonni mi hanno presentato quando ero bambina. Non sono estranei e possono farmi del male solo se gli concedo accesso alle mie recondite paure. Bisogna avere paura dei morti o forse è dei vivi che dobbiamo avere realmente terrore?

Io nel dubbio insegno ai miei figli di tutelarsi da entrambi.

“Raybearer” di Jordan Ifueko, Fazi editore. A cura di Alessandra Micheli

Come ben sapete io non leggo moltissimi fantasy.

E’ stato il mio genere da ragazza, poi però mi sono fermata perché non trovavo più seduzione nelle trame.

Tutte uguali tutte prive della necessaria magia capace ci trasportarmi altrove. Essendo, purtroppo, una maledettissima razionale con una piccola nascosta percentuale di immaginazione, cerco, forse inconsciamente, testi che permettano a quella parte che è custodita nei recessi della mia anima, nell’ombroso luogo del mio inconscio di dominarmi, almeno per una misera volta.

Immagini di posti incantati e ricoperti di quella bruma che solo il mondo altro riesce a trasformare in bellezza.

Capace di coniugare luce e tenebra in un connubio mai fastidioso e mai contrapposto.

E’ il luogo dove tutto torna, e dove al tempo stesso tutto emerge.
Emergono desideri, sensazioni di libertà mai toccati o raggiunti in questo mio oggi cosi grigio e faticoso.

Emerge la possibilità di andare oltre la maschera regalatami alla nascita, da una società che il diverso lo teme e lo raccoglie in seno alla sua volontà di omologazione.

Appariamo diversi forse, ci illudiamo di esserlo ma siamo dannatamente e maledettamente simili.

Ecco perché il fantasy che amo esula dalle rigide regole narratologiche tanto amate da chi la vera fantasia la teme.

La teme perché l’immaginazione è spesso accompagnata dal disordine, dalla ribellione a ogni regola, dalla rivoluzione e dal caos.

L’immaginazione ci permette di essere più che apparire, essere anche in contrasto con il bisogno di tutti di essere definiti.

Nel fantasy che piace a me nessuno può definirsi.

Sono tutti alla ricerca di qualcosa di impossibile, da stingere e accogliere proprio perché impossibile.

Nel fantasy che amo esiste una sola divinità il Narrastorie che ti prende per mano, una mano languida e piena di strano calore re inizia a parlare, raccontare, incantare con quelle nenie che sanno di musica e magia.

Nelle storie che amo io la protagonista è sempre alla ricerca di aggettivi da regalarsi, affinché riempano un cesto e possano colorare altri mondi e altri significati.

Nel fantasy che amo nessun destino è mai scritto, ma cesellato ogni volta da mani sapienti o timide.

Laddove il mito si incontra con il coraggio, laddove prendono vita dentro di te ogni racconto e ogni emozione dell’altro.

Intrecciate come fili resistenti da quella divinità che sorride beffarda.

Nelle storie che io amo, nessuno può ingabbiarti in un concetto o in un ruolo, sei cosi sfumato e cosi pieno da dover riversare tale pienezza in un fume che si ingrossa e esonda rendendo rigogliose le tue rive.

Il fantasy che piace a me è come Raybearear, fatto di antichi retaggi e di novità stupefacenti.

Di canti e di tamburi che risuonano nella vastità di una savana che assomiglia in modo assurdo e profondo proprio alla mia anima.

Dove si muovono raggi e sogni, dove le storie si intrecciano e crescono. Nel fantasy che amo è la voce di Mbali che mi descrive e mi da vita

“La gran sacerdotessa Mbali dice che la gente ha molti doni… Ma il nostro bene supremo è quello che non possiamo contenere: compassione, lealtà, dolcezza, ferocia. Capacità di conquistare i cuori, o di riconoscere la bellezza, o di superare una tempesta…”

E adesso io non posso contenere nessuna delle emozioni che ho trovato qua, in queste pagine preziose, gocce di vita che fluiscono adesso nella mia assetata anima.

E forse il mio scopo è davvero capace di spezzare ogni maledizione, quella che mi tiene legata a una realtà definita da altri, da un destino imposto da altri e mai da me.

Il tamburo suona e io non contengo più nessuna sensazione…danza fiume mio attraverso la savana della mia anima.

Danza e irroga i campi, fa crescere doni e meraviglie, spezza ogni maleficio e rendimi piane di scopi da regalare al narrastorie affinché possa creare mondi sempre nuovi, sempre fecondi sempre…pronti a diventare lo stesso fiume che oggi danza dentro di me.

“Contos. Racconti attorno al fuoco” di Letizia Loi, Letterelettriche. A cura di Alessandra Micheli

Andiamo a dormire
Ascolteremo
Cicale litigando in mezzo a un melo
Il cuore del Limbara che respira nel cielo

Povero te, povero chi
Non crede alla Mamma del sole
A mezzogiorno, in primavera ed estate
Fuori c’è la Mamma del sole

Non potevo scrivere questa recensione senza ascoltare una canzone dei Tazenda, dalla voce indimenticabile di Andrea Parodi, che da lassù sono sicura ci guarda e sorride.

Oramai lo avrete capito no?

Tutti noi abbiamo il nostro posto del cuore.

Immaginario e reale.

Io ne ho due, ho Innsmouth del buon Lovecraft, luogo arcano nel quale mi rifugio ogni volta che il mondo mi soffoca.

E ho uno reale, uno che ha accolto come una madre i miei passi, che è rimasta nel cuore, nelle narici per quell’odore di mare, per quell’alenu di sole che conservo dentro di me.

La Sardegna signori miei.

Per molti l’Atlantide perduta.

Per me il luogo nel quale sta riposando un anima troppo ferita da questo oggi senza rispetto.

E non posso negarlo, ogni libro ambientato in quei luoghi magici, con quelle tradizioni che in realtà sono ancore vive, seppur silenti, non mi lascia indifferente.

E non mi rende certo obiettiva.

No no.

Non lo sono e ve lo dico con molta tranquillità.

Contos è il libro che entra con passo elegante nella rosa di quei testi che mi scorrono nel sangue.

Forse perché l’altrove, che mostra cosi bene, non è affatto qualcosa di strano o improvviso nelle vite dei protagonisti.

Vive accanto a loro.

Respira e si mostra in tutti i suoi lati, la magnificenza e la pericolosità.

Perché tutti quei personaggi che ruotano accanto a noi, che escono della fiabe per passeggiare nei giardini, spostare nei pozzi, vivere accanto alle nostre cose noi non siamo altro che strani errori fatti da qualche divinità dispettosa.

Non ci conoscono e non ci tengono affatto a conoscerci.

E cosi, attorno al fuoco immaginario, in queste notti senza luna.

Cosi buie anche se con un calore che sembra uscire direttamente dal ventre di Sa Mama e su sole, la voce stentorea della Loi mi accompagna.

Mi coccola, mi fa vibrare il cuore.

Poco importa se a volte di paura.

Importa che in quelle narrazioni io ritrovo il legame con quell’altrove che questa feroce società tenta di togliermi.

Tenta di spiegare tutto.

Di rendere tutto commerciale si svelare segreti che fanno brillare gli occhi prroprio perché restano segreti.

Questo canto fatto parola, questo racconto che è quasi un invocazione non è altro che una preghiera fatta al cielo.

Perché non ci tolga mai questo mondo immaginario.

Nonostante ci renda fantasticamente ribelli.

Nonostante non ci renda allineati.

Nonostante ci rende un po’ pazzi, folli e sghembi.

E adesso silenzio.

Riunitevi attorno a questo fuoco e ascoltate…i racconti stanno per iniziare di nuovo.

E gli spiriti, le janas, i folletti, la magia troveranno la via per tornare a voi. Stringeteli forte e non lasciateli mai più scappare

Danza la maliarda
La maliarda danza
Spiga nelle mani

Ballo, ballo tondo
Calpestiamo il mondo
Saltiamo come indiani

La vita, il destino, l’odore della mia terra
Il ronzio della morte, i miei dubbi

Tazenda

“Kwaidan” di Lafcadio Hearn, libreria pienogiorno. A cura di Alessandra Micheli

I primi libri che ho letto riguardavano la strana e suadente mitologia e folclore gallese e irlandese.

Fate, folletti, streghe.

Fantasmi e antichi manieri, cerchi di pietre e eroi sedotti dal regno incantato, sono queste le letture con cui sono cresciuta.

E il folclore mi ha sempre affascinata perché significava entrare nell’ethos particolare di una cultura e di una civiltà precisa.

Oltrepassando i tempi, entrando nel regno del per sempre.

Dall’Irlanda e dal Galles sono poi arrivata in Bretagna, per poi passare in india e in Finlandia e passeggiando per le tenebrose foreste del nord ghiacciato.

E poi sono arrivati i nativi americani con tutta la loro tradizione e mi sono cosi ritrovata a ridere a crepapelle con Kokopelli e la donna ragno.

In pratica grazie ai racconti popolari ho girato un po’ tutto il mondo.

Perù, Messico, persino Asia e Egitto.

Fino a toccare l’Australia e bearmi dell’alba di Alchera.

Persino in Cina e nel polo sud, assorbendo le storie strane e accattivanti di una tradizione, eschimese, poco conosciuta.

Ho ascoltato la voce di Sherazade, vissuto strabilianti avventure con Aladino. Sognato, cantato, amato e pianto con tutte le divinità, tutti i protagonisti di brughiere, deserti e boschi frondosi.

Ma, lo ammetto, solo un paese mi era sconosciuto ed è proprio il Giappone. Affascinate senza dubbio.

Particolare cosi oramai capace di aprirsi alla curiosità di noi occidentali.

Ma non ho mai preso la porta magica capace di condurmi in quei luoghi con una magia molto differente da quella a cui io ero abituata.

Un po tenebrosa, molto oscura forse eppure luminosa, poetica e folle.

Il Giappone mi appariva torbido e lontano, cosi rigido eppure cosi segreto, da spaventare ogni mio tentativo di provarci, provare a ascoltarlo.

Ammetto che in me, chissà per quale strano mistero o quale strana coincidenza viaggiano le suggestioni irlandesi e gallesi, persino quelle egizie e americane. Sono a mio agio persino con le divinità di Haiti che amo e rispetto.

Ma quelle strane figure che vagano nella nebbia o nella neve, quei demoni e quelle streghe sembravano porte chiuse, silenti eppure cosi affascinanti.

Come poterle far parlare?

Bisognava, forse perché davvero il Giappone è un po’ un altro mondo, trovare qualcuno capace di fungere da mediatore e da anfitrione e accompagnarmi proprio nei suoi misteri, in quelle donne volpe, in quelle orribili figure senza core divoratrici di umani e disperate.

E chi meglio di lui, di Lafcadio poteva accompagnarmi?

Lui con la sua maestria, con quella classe e quella capacità di essere un uomo di mezzo, mai davvero inglese e forse mai davvero giapponese, capace pertanto di carpire con arguzia il vero sentimento celato dietro le storie spaventose di fantasmi, demoni e astuti e crudeli folletti.

Ecco che la chiave apriva una porta desiderata da tempo, mai davvero raggiunta, mai davvero aperte.

Ero come Alice incapace di raggiungere la famigerata chiave, costretta a spiare dietro la serratura un mondo di magie e di poesia, dove la paura avere una indubbia e suadente classe.

Vedete il terrore di queste storie eterne è davvero particolare.

E’ inquietudine.

E’ la meraviglia dell’uomo smaliziato di fronte all’altrove che si manifesta con forza, contro ogni tentativo di regola.

Il mondo magico del Giappone è totalmente, assurdamente, meravigliosamente folle.

E’ il weird che si apre con un passo studiato davanti allo spettatore attonito.

E’ il rituale che si nutre di calma e si prende tempo.

Persino i suoi demoni hanno un’eleganza ordinata che forse manca ai miei fantasmi irlandesi, troppo caotici, troppo sicuri di se e quasi arroganti.

In queste storie ogni Mosnsturm è al tempo stesso miracolo e maledizione.

E’ l’incontro sublime con il mondo numinoso, ma fatto di cortesia e di una pacatezza molto aliena a noi occidentali, affannati, umani troppo umani anche di fronte al sacro.

In questi scorci invece lo spirito, malevolo o benevolo, è trattato con rispetto e con riverenza.

Anche il demone, anche l’azione più malvagia segue con lentezza, regole millenarie.

E ci stupisce, ci esalta e perché no ci terrorizza.

In questa placidità noi possiamo scorgere ogni linea del volto di questo famoso altro mondo, tanto decantato ma poco osservato.

In questi racconti invece dobbiamo davvero poter vedere ogni sua sfaccettatura, inchiodati a questo momento che è si magico ma anche perturbante in quanto infrange la sicurezza di un uomo che non sarà mai più al centro del mondo.

Ma sarà vittime e succube di ben altre leggi, di ben altre regole ..e questo Giappone sognante, quasi evanescente ci fa provare uno strano, insospettabile senso di nostalgia, per qualcosa che ci appare ma che presto scappa via lontano da noi.

Leggere Kwaidan è e resta una delle esperienze più sublimi del mio percorso da lettrice.

E difficilmente lo dimenticherò.

E ora tocca a voi con luce soffusa attendere che l’impossibile divenga realtà…

“Cera una volta Yaga” di Marina Višneveckaja, Di Renzo editore. A cura di Alessandra Micheli

Se sono totalmente innamorato della fiaba di Baba Yaga, prendetevela con Clarissa Pinkola Estes.

Perché è riuscita a interpretare (ovviamente essendo una psicologa junghiana) quella storia un po’ cupa, di streghe e di terrore in modo simbolico riabilitando la antica Dea e togliendole dall’abisso oscuro, in cui era, a suo malgrado precipitata.

Del resto siamo abituati alla demonizzazione delle forze del femminino sacro. Antiche fate trasformate in perfide maliarde, muse divenute crudeli mangiatrici di uomini.

E dee del cielo, a cui qualcuno ha tolto consapevolmente le ali.

Questo perché Baba Yaga, cosi come Holla, come Lilith non sono scevre da una certa oscurità che è un elemento della loro provenienza ctonia.

Senza che quest’origine le rende, automaticamente, malvagie.

Il mondo infero, anticamente, non era altro che il fulcro del tutto, il ventre da cui nascevano uomini, ideali, simboli e idee.

Era un iperuranio per dirla in modo filosofico.

E conteneva tutto e il contrario di tutto.

Quindi anche bianco e nero, oscuro e luminoso e perché no ying e yang.

Ma questa dualità che diveniva neutra non poteva essere classificata in modo “cristiano” come bene e male, poiché si trattava semplicemente di equilibrio.

Un po’ come le storie di fate in cui l’inverno e l’estate erano simbolizzati dalle Unsellie e dalle Seelie.

E cosi la nostra Yaga, diveniva custode dei misteri femminili, della potenza della vita e persino dei segreti della morte.

Nel racconto della Estes tutto il percorso di Vasilissa è simbolico, cosi come lo è Baba, la sua casa e ogni sua pretesa.

Non è una strega.

Non vi porterà a conoscere con quel teschio lanterna, i segreti dei grimori.

Vi porterà attraverso il bosco più oscuro di tutti, con la luce della conoscenza suprema: voi stessi.

Pertanto Baba Yaga va celebrata come colei che da inizio a ogni storia.

Colei che vi fa affrontare l’inverno in attesa di una primavera.

Colei che vi fa scavare nella terra oscura fino a trovare il seme, anche se la ricerca significa avere mani sanguinanti e piene di piaghe.

Ecco perché nel rispetto del suo sacro ruolo odio leggere le rivisitazioni fantasy o horror di quelle antiche dee, che ai miei occhi non hanno bisogno di essere ne riabilitate ne raccontate per suscitare scalpore.

Non si gioca con il sacro.

Ma questa storia è diversa.

E’ uscita dai meandri del tempo che fu, quando gli uomini ancora avevano contatti con le divinità e essa gli camminavano accanto.

Nel tempo arcano del passaggio a una civiltà matrilineare a una patrilineare, dotata di istinti di possesso e di dominio.

C’era una volta Baba Yaga è in fondo il racconto di questo momento di transizione, in cui è il dio della civilizzazione (il serpente) che tenta di cavalcare l’antica dea bambina, una Baba innocente, regale e totalmente ignara del suo potere.

Baba si innamora, inciampa, ma al tempo stesso funge da unione tra il vecchio mondo in declino e il nuovo che dalle steppe avanza, che porterà un altro racconto, un altra narrazione e un altro significato.

Pertanto, in quel tentativo di restare sempre fedeli a se stessi, rischiando però di avvizzire quest’unione non piace affatto.

Loro venerano un dio che caso, della discordia e perché no di un diverso modo di concepire la società.

E in questa fantastica avventura magari anche voi conoscerete una fanciulla diversa dalla vecchietta che vive ai margini del bosco in una folle casa dalle zampe di gallina.

E nonostante la sua innocenza, perduta nei secoli, anche qua Yaga sarà una forza totalmente estranea persino al suo mondo, la primigenia forza femminile, l’istinto che è proprio del folle, del santo o dell’artista.

Lei resta il retaggio di quel tempo arcano in cui gli uomini potevano parlare direttamente con gli dei quando ancora si poteva volare tra le nuvole.

Ed è questo, il dono che la nostra Yaga ,namibiana o donna, ci potrà fare sempre. Non dovete mai temere di scorgere quella casa nel bosco.

Anche se le prove di Yaga sono dure e apparentemente crudeli, lei sa come da bimba ci si trasforma in donna.

“Alyssa. L’ultima sirenetta” di Roberta De Tomi, Dario Abate editore. A cura di Alessandra Micheli

Come avrete notato miei adorati lettori, da qualche anno esiste una nuova tendenza letteraria chiamata retelling.

Immagino che oramai sappiate tutto su questo genere letterario che unisce quindi novità di stile e al tempo stesso la rassicurazione costante di temi molto cari alla nostra psiche.

Il retelling diventa una sorta di compromesso tra la tradizione che ci ripropone valori e idee ancestrali però con quel tocco di originalità, dato dal diverso ambiente della modernità.

Tutto senza scoperchiare ne distruggere la nostra comfort zone.

Si tratta quindi di abbellire non tanto le favole quanto i concetti vii espressi, adattandoli alla diversità storica, sociale e persino politica, con un linguaggio che sembra nuovo ma che è, in realtà, molto antico e affonda le sue radici nel substrato etnologico che ci appartiene di diritto.

Come a vole innovare senza rinnegare totalmente le conquiste umane ameno nel campo delle idee.

Ecco che gli archetipi possono, di volta in volta, servire a orientare la società alle prese con problemi apparentemente nuovi ma derivanti dalle stesse consuete ossessioni: chi siamo, da dove veniamo e come possiamo procedere al meglio in un mondo che spesso è difficile e impossibile da leggere e mappare.

Ecco che le favole e le storie folcloristiche ci aiutano.

Donandoci forse dei sensi nuovi e riuscendo a organizzare al meglio lo spazio che intercorre tra realtà e mondo delle idee, o come amo definirlo del numinoso. Ecco che le favole parlando tramite simboli e immagini, spesso forti e spesso molto “orrorifiche” possono liberare molti frammenti di codici etici dal pericolo del moralismo.

La De Tomi in questo stile narrativo è un vero asso.

Sa viaggiare con grazie e eleganza in questi piccolo frammenti di antichi codici di comportamento, di divieti e persino di ribellioni ai divieti.

E qua l’è il maggior divieto espresso da ogni fiaba?

Quello che mette in comunicazione anzi che fonde il mondo del reale, quindi il tempo umano con quello divino, portato e espresso dalla sue creature.

La sie renetta, in fondo non è soltanto la storia di un tabù superato, ma anche la narrazione di come il mondo delle emozioni (simboleggiato dalle Acque Profonde, abitate da essei spaventosi e da culture aliene) possa bagnare, senza pericolo alcuno il mondo della corporeità, della razionalità e della civiltà.

Per secoli abbia,mo temuto i fondali, scuri e nebbiosi del nostro io.

Ogni racconto mostra come su quelle profondità albeggia un mostro crudele, capace di distruggere in un solo colpo di coda tutta la civiltà che faticosamente abbiamo costruito.

Il fondo del mare è pieno di tesori, ma anche di orrori indicibili.

Serpenti giganteschi, mostri marini di ogni specie, streghe che abitano in oscure caverne come rappresentazioni della forza tetra del femminile.

Eppure tutti questi racconti non hanno mai spaventato gli umani che hanno bisogno di rigenerarsi in quel luoghi oscuri, che hanno bisogno di immergersi in quel mondo che assume le sembianze delle dimensioni oniriche che ci raggiungono nei sogni.

E pertanto, accanto alle mostruosità si è creato il mito della sirena.

Dell’essere capace di respirare sia in superficie sia nei fondali.

La sirenetta, dunque non è soltanto il racconto di un amore totalizzante capace di oltrepassare i confini della diversità (argomento molto attuale) ma diviene in Roberta anche un lucido resoconto di come l’incontro degli incontri Umano e Misterico, non produce soltanto disequilibrio o distruzione, ne soltanto sacrifico e caos.

Ma deve dare origine a un mondo diverso, interconnesso dove il mistero diviene parte narrante di una stessa identica storia.

Le sirene sono il simbolo dell’uomo nuovo, colui che diviene un ibrido capace di accogliere in se, in uno stesso organismo il pleroma e la creatura, il pensiero e la forma, senza che questi due emisferi possano scontrarsi.

Ecco che Alyssa diviene anche il racconto di come, in realtà, sia necessario provare a oltrepassare il tabù atavico che divide i due mondi, che li rende impossibilitati a dialogare e persino a amarsi.

Il risultato della ribellione della sirenetta è quello di produrre un mondo in cui le diversità, il cambiamento, la fantasia e l’immaginario sono accolti, curati, usati per il bene comune e non rifiutati o temuti. Qualora l’amore tra umano e straordinario non è più un tabù nessuna strega delle profondità marine potrà minacciare uno sposalizio che sarà necessario a mantenere prospera e feconda quella specie umana che altrimenti rischia di appassire.

Ottima prova, come sempre del talento di Roberta che consegna un urban fantasy delicato, accattivante ma pregno anche di significati psicologici.

“La strada del ritorno” di Gavriel Savit, Bompiani. A cura di Alessandra Micheli

Ci sono libri che ti scelgono.

Emergono con un sussurro dalla catasta colorata posta in cima a una libreria. Dimenticata dalla fretta di una vita che ti domina e ti possiede barattando la tua fantasia per un finto successo lacero e insozzato da tanti troppi compromessi.

E cosi la lettura diviene quasi un atto inconsapevole come una catena di montaggio in cui sei, a tuo malgrado inserito.

E continui continui a macinare pagine e inchiostro senza che questo ti possa inglobare, risucchiare nelle sue profumate pagine e renderti parte di lui.

Il libro non pulsava più per me.

Erano racconti, fantasie mollemente adagiati sulla cime di una coscienza addormentata, convinta oramai che fossero importanti altri elementi dei libri. Che fosse non tanto il contenuto quanto la forma a dover essere raccontato. Eppure il libro mi ha sempre parlato, con una voce graffiante, lasciando cicatrici dentro di me.

E rispondeva alle mie domande affascinandomi e al tempo stesso rapendo pezzetti di cuore.

E cosi viaggiavo con questo organo spezzettato, perché avevo regalato frammenti a ogni anima di carta vorace che mi aveva sedotto.

Ma da tempo questo non accadeva.

Ci sono libri che ti cercano, quando sei perduto nell’oscurità di un buio senza fine fatto di doveri e di preoccupazioni.

Ti chiama perché conosce il potere del tuo dolore, che con gocce lucenti e scarlatte forma la domanda che ti ossessiona per tanto tempo.

Anni forse, o soltanto giorni.

Ci sono libri che sono oscuri eppure luminosi, che raccontano di arcani segreti e al tempo stesso sanno conservarli,magari in qualche antro polveroso, condannandoti a cercare per sempre la formula giusta per esternare il dubbio che regna arrogante dentro di te.

Usano miti, leggende o folclore per potarti con se, anche se non vuoi anche se il mondo numinoso inizia a fatti un po’ paura.

Forse perché la strada del ritorno è oramai da tempo un sogno e brilla come una torcia eterna quel cuore lasciato indietro, a marcire di rimpianti a domandarsi perché l’oscura signora non ti sorride più.

Perché hai imparato a odiarla e tenti di sfuggirle circondandoti di cacofonia, di mille voci fastidiose e delle vesti lacere di un finto successo,strano contenitori in cui conservare con ansia il tuo nome.

Ci sono libri che saltellano felici e che ti rapiscono facendoti entrare tra le pagine e forse facendoti ritrovare la tua casa.

E cosi ci sono maghi, demiurghi capace di accoglierti nelle loro fantasie, che divengono un pò anche le tue.

Organizzando con grazie e ferocia uno scenario che è nuovo eppure familiare.

In fondo la conosci la strada del ritorno.

Conosci ogni personaggio, conosci persino le sue angosce perché sono le tue. Riconosci persino l’oscura signora e riconosci quelle lacrime vermiglie che sgorgano dai suoi occhi solitari, e che versa per te, perché tenti di ferirla, scappare, di annientare quel volto che lei conosce da sempre, in un disperato tentativo di non svanire tra le sue braccia.

E cosi scena dopo scena il tuo cuore imbizzarrito conosce una strana pace.

Affronta le sue prove, formula le sue domande.

E forse, dico forse, fa pace con la morte.

E ritrova non solo il senso del suo vagare, ma anche il suo inizio e l’accettazione di una fine che in fondo fine non è.

E’ una strada per ritornare al centro di se stessi.

Per potersi perdere di nuovo nel bosco oscuro, ma non più spaventato, ma felice perché in fondo è quella la tua vera CASA.

Ci sono libri che ti servono per riannodare i fili sparsi del tuo arazzo interiore, per comprendere finalmente l’importanza del perdono, dell’accettazione e del tuo nome.

Un nome che conserva una storia, bella, tragica, triste, strana, bizzarra e al tempo stesso meravigliosa.

La tua storia.

Dove è il tuo destino a compiersi.

E mentre leggi, pagina dopo pagina il tuo volto cambia, diventa quello di Bluma, quello del Rebbe, quello di Yehuda Leib, quello persino della signora oscura.

E capisci che il miracolo di questa vita non è ambire all’eternità, ma essere parte di qualcosa di più grande, di un progetto che un giorno ci riunirà alla fiamma che mai si spegne.

Laddove la fine diventerà l’inizio e l’inizio assomiglierà alla fine.

Ci sono libri che frammentano il tuo cuore, e che poi lo ricompongono donandotelo diverso, forse più malinconico o più saggio.

Ci sono libri che sono al tempo stesso, favole, salmi, canti e pura bellezza capace di sanare ogni ferita.

E dopo la lettura la cicatrice non deturperà più la bellezza della tua anima, ma sarà un ricordo, il ricordo di quel luogo non luogo che hai imparato, a tuo malgrado, ad amare.

***

Per te

che dell’Oscura non hai avuto paura

E che l’ha accolta come un’amica da tempo perduta e attesa.

Che mi hai insegnato con la serenità di affondare in quel monto fatto di stelle e non temerla.

A accoglierla quando la campanella della fine suonerà anche per me.

E cosi ci ritroveremo a brillare Assieme nel Fuoco dell’Eterno

che mai si spegne.

“La masca” di Laura Rizzoglio. Npsedizioni. A cura di Alessandra Micheli

Spiriti Potenti, Vi invochiamo Vegliate su Noi che stanotte balliamo Volti alla luna, Alta la fronte danzano le streghe

Gabry Ponte

Vi mancavano le streghe?

In fondo è il loro mese ragazzi miei.

E’ ottobre, e presto ci sarà la notte più incantata dell’anno, magica, misteriosa e piena di meraviglie.

Alcune bizzarre, altre orrorifiche.

E la streghe dall’oscurità del mito, danzeranno assieme a noi sotto una luna che stranamente brillerà di più, gemma incastonata nel cielo. Masche, salighe, bazughe, cogas, janare, strie, nomi diversi per figure che nonostante il loro alone di tenebra ci affascinano e continueranno ad affascinarci (spero) per tanto tempo, come simboli di un sacro che è impossibile relegare soltanto in un mondo altro, alieno e distante dal nostro.

Le streghe appartengono alla terra, alla nostra storia, ai contenuti persino sacrali che fondano e consolidano i legami di gruppo, necessari per quella trasformazione politico sociale che dal clan passa allo stato e alla cittadinanza.

Perché se a noi studiosi la strega la stira ci affascina dal punto di vista storico etnologico, come calderone contenente tutti quei rituali propri di una civiltà pre-industriale, per la popolazione, la massa che deve trasformarsi in popolo la strega è il collante fattosi nemesi.

E proprio la sua apparente devianza la rende adatta a creare un senso di solidarietà, di esclusione che trasforma un anarchico agglomerato di bisogni e di identità in qualcosa di netto e definito: noi e gli altri.

Gli altri che servono proprio per definire il noi per donare a questa proto-organizzazione limiti, regole e punizioni.

Chi non accetta la socializzazione e quindi l’inserimento nella comunità diventa il male, incarna il caos da cui bisogna rifuggire, che bisogna demonizzare e allontanare.

E non solo.

La strega è anche quel lato ribelle necessario a ogni civiltà.

Quella capacità di creare anti-regole idonee per ironia della sorte a consolidare le regole stesse.

E cosi non c’è dubbio che nessuna società, per quanto evoluta, si esime dal dire la sua sulla figura della stria.

Chi in senso ortodosso chi..in un atto di pura revisione storica.

E la Rizzoglio, che ha il talento giusto per provarci, dona la sua versione della strega, prendendo spunti dal guazzabuglio del folclore piemontese, dando alla luce la sua speciale masca.

E chi è la Masca del libro?

Strega crudele?

Arrabbiata donna che tenta, attraverso gli antichi riti non sempre benevoli di riconquistare il suo ruolo perduto in seno alla comunità?

O un anima umiliata che si vendica di chi la esclude rendendo la vita dei propri concittadini rei di no essere empatici o caritatevoli, invocando le potenze del cielo?

Nessuna.

La masca delal Rizzoglio è quanto di più vicino alla tragedia storica di quanto si pensi.

Non è una strega politica, ossia non usa l’altro mondo per ottenere il potere.

Non è la strega condannata in virtù di una caratteristica fisica o mentale non accettabile dal conformismo.

E’ la Dea Morrigan, colei che ripara i torti, ristabilisce i diritto violati, che domina la legge, che intesse con i suoi fili l’arazzo di ogni esistenza.

E’ un potere antico, è la volontà di un termo che fu, quando cielo e terra non erano disgiunti e la Maat cosmica doveva essere rispettata.

A ogni costo.

Senza compassione, sconti o giustificazioni.

E cosi togliendo strato su strato alla superstizioni, giocando con una trama piena di imprevisti e di certezze la Masca si erge con tutta la sua possente e ingombrante presenza, regalandoci un testo affatto scontato, affatto banale e apparentemente semplice.

Perché la complessità ivi presente è quella umana, di quelle caricature divine che tentano, a mala pena, di darsi una parvenza di civiltà

Senza mai davvero partecipare all’evoluzione ma trincerandosi dietro preconcetti, facili ideologie e scappatoie che mettono in luce la non volontà di prendersi la responsabilità di ogni azione.

Sarà sempre altro a decidere del proprio percorso, destino, sfortuna o azione del maligno.

E non è un caso che le stelle brillanti su un cielo cupo e ombroso saranno ragazzi, non ancora corrotti dall’apparenza, capaci di guardare oltre le apparenze e oltre le costruzioni mentali dei grandi.