“Cenerentola è una stronza” di Shannon Helth e Beau Nelson, Libreria Pienogiorno. A cura di Alessandra Micheli

Se non fosse stato per una mia carissima amica, non avrei mai davvero compreso il valore di questo acuto saggio.

Diciamocelo dai.

Il percorso raccontato qua fa parte della mia evoluzione da circa 24 anni.

Ventiquattro anni dio mio.

Tentativi e errori, dolori immensi e rabbia.

Tutto per poter rialzare la testa e sfidare con fierezza quella gabbia che mi imprigionava da tempo.

Fiabe o soltanto modi d’essere che mi stavano stretti e soffocavano ogni mio afflato all’infinito.

Sono schemi che mi proponevano con voce suadente, modelli comportamentali che tentano a nascondere, come direbbe Clarissa Pinkola Estes, la coda di lupa selvaggia, sotto le elaborate vesti alla moda del mio tempo.

E con molta fatica mi sono piano paiano avvicinata alla liberazione. Non ho certo superato ogni limite.

Affatto.

Ancora oggi, alla veneranda età di quarantotto anni certi pensieri mi arrivano alla mente, di notte, quando le difese mentali sono abbandonate e io sono in una fase di completa fragilità.

Allora ricordi di come si debba amare, come debba essere una donna, rivivono e si insinuano lungo i solchi di una mente stanca di combattere.

E iniziano a logorare tutto il castello che ho innalzato con orgoglio. Piano piano, con una ferocia assoluta.

In quel momento mi chiedo se sia davvero valsa la pena indossare una diversa identità, sicuramente più vicina alla mia originale essenza, quella discesa dalle lacrime della Sophia perduta.

Anche io subisco la tentazione di mollare.

Semplicemente gli anni di impegno, di lotta, le esperienze e persino le ferite e il dolore provato divengono la mie armi.

Un armatura ricca dei no che ho detto lungo quell’addestramento che mi ha resa coriacea e forse completante integra, nonostante la mia fragilità tutta umana.

E allora sorrido.

E i pensieri che tentano di ingabbiarmi di nuovo, sono soltanto nuvole, nuvole che non possono offuscare lo splendore che mi promette l’orizzonte.

Ecco la differenza tra me e ogni donna di oggi non è la tentazione. Quella è lecita e deve esistere perché mette alla prova ogni volta la volontà di abbracciare la colonna del rigore in attesa di essere sfiorati dalla compassione.

La differenza è la resilienza.

Quella che non allontana certo la seduzione dell’omologazione, la bellezza di usare un trito modello per poter vivere in pace con i miei simili.

Semplicemente conosce le lusinghe e le smaschera facendo si che l’idea di amore, l’idea di donna appaia soltanto nella sua oscena realtà: non certo una principessa, ma un cadavere putrescente, capace soltanto di insozzare la tua anima con effluvi di morte.

Ecco perché mi sono chiesta se davvero oggi ci siamo donne che quel velo non sono riuscite a sollevare.

Che pensano di liberarsi, ma che sostituiscono soltanto una dipendenza con un altra, più elegante, più nascosta e al tempo stesso feroce nello stesso modo.

Mi sono davvero chiesta se quei consigli, se l’esperienza ovvia che ho letto e che riconosco come valide perché l’ho oramai assimilata, bevuta con la stessa sete di un bimbo in cerca del latte materno, sia davvero necessaria.

Ho peccato di arroganza sapete.

Io ho oramai anticorpi verso ogni idea malsana su come una donna deve vivere.

O amare.

Altre no.

E negli occhi di questa ragazza dalla chioma ribelle, ho compreso come la sindrome di Cenerentola, non sia del tutto distrutta.

Noi che cresciamo con storie in cui è la sottomissione a far da padrone.

Con l’idea di essere brave, buone e zitte, belle e ubbidienti, e che questo ci regali quel briciolo di serenità elargita con sussiego come un gesto misericordioso.

Non è quella la compassione che ci serve, quello di cui abbiamo bisogno.

Compassione è ben diversa.

Connessione.

Quel sentirsi finalmente parte di un tutto che non ci limita ma ci rende importanti in tutta la nostra specifica bellezza.

Siamo unici pezzi di un mosaico e assieme formiamo un disegno. Ma se manca un pezzo, allora non esiste nessun disegno.

Ecco che è quel nostro essere unici, diversi, importanti per la nostra strana forma a creare il mondo.

Un mondo che ci appartiene.

Un mondo che è a immagine di quel potere latente che abbiamo, quello di creare, rendere viva un idea, di saper morire e di rinascere. Come fa la natura.

Come fa la Madre Terra.

Come fa la vita stessa.

Noi fasi della luna, capaci di sentire i flussi della marea.

Costrette a servire, a indossare scarpette di cristallo per poter essere scelte da un coglione che crede di conoscerci soltanto perché sa il nostro nome.

Un deficiente in calzamaglia che ci fa sto regalo di ingabbiarci un un alta torre, pretendendo la libertà in cambio di vestiti, onori e un amore di plastica.

Che amore potete provare se dovete sforzarvi di assecondare un irrealistica immagine per ottenerlo?

Cenerentola non grida.

Non urla.

Non dice parolacce.

Non da schiaffoni alle sorellastre.

Non impreca.

Non sogna di essere qualcosa a prescindere dall’identità del proprio compagno.

Cenerentola è soltanto ballo ,scarpetta.

Non pensiero, azione e sogni.

E’ questo modello che ci ha funestato per tanti troppi anni.

In in vetrina, confezionare apposta per attirare il miglior compratore.

Noi vilipese ogni volta che tentavamo di imporci,scendendo dal piedistallo e desiderando ardentemente di correre in modo scomposto.

Noi che alla dipendenza avremmo preferito la complicità.

Noi che non vogliamo ne stare avanti, ne indietro all’uomo, ma affianco, cosi come racconta il simbolo della costola.

A fianco dell’uomo.

Camminando sulla stessa linea.

A guardare lo stesso orizzonte.

Cenerentola è sempre un passo indietro.

Evanescente.

Irreale.

E capace di esistere soltanto se imbellettata.

L’amore cosi raccontato non è altro che una bella trappola sapete?

Nessuna discussione.

Perché l’amore arriva in un attimo, ti mozza il respiro e ti incendia. Perché se si trova un amore simile, si deve rinunciare a tutto.

Anche alla propria anima.

E invece l’amore è simile alla terra.

Per far crescere qualcosa dovete scavare, dissodare il terreno, seminare, annaffiare.

L’amore è il pane da cuocere nel forno sacro, da poter essere usato nel convitto di dio.

L’amore è fatto di farina colta dal grano seminato da un contadino fiducioso, capace di sfidare temporali e caldi asfissianti.

Cresce e deve essere poi falciato, con mano ferma e decisa.

Va separata la pula dai chicchi.

Impastato con acqua di sorgente fresca e cristallina e mani amorevoli ma forti.

L’amore è come la salita verso la cima di una montagna immersa nella magia delle nuvole.

Faticoso il viaggio.

Spezza il respiro la salita.

Ma con sudore e una punta di gioia si continua a inerpicarsi sempre più su, mano a mano che gli occhi si abituano alla bellezza e non ci si accorge che si è arrivasti in cima.

E dalla cima si scopre quanto sia vasto l’orizzonte e quanto sia vicino il cielo.

Non sono balli.

Non sono certamente i giochi proibiti.

E’ carnale e spirituale.

E’ fatica e meraviglia.

E pianto e sorriso.

Ed è per te, ragazza dai rossi capelli che vuoi davvero amare senza più stare in vetrina.

Per te che non ammetti mai di aver bisogno di aiuto, perché il modello della donna forte è troppo presente.

E che invece non sai che nel silenzio, qualcuno accarezza i tuoi sogni.

Anche se non si fa vedere.

Per ogni ragazza che oggi si sente perduta, per te che senza un uomo accanto ti senti incompleta.

E per te che oggi scopri te stessa grazie alla consapevolezza del potere femminile..è ora di mandare proprio a cagare Cenerentola.

Fatelo assieme a Beau e Shannon.

Fatelo e non ve ne pentirete

Parola di una vecchia zia che ha sempre preferito il te con il Cappellaio matto a quella sfigata con la scomoda scarpetta di cristallo.

Quando si lotta per qualcosa di importante bisogna circondarsi di persone che sostengono il nostro lavoro. È una trappola e un veleno avere intorno persone che hanno le nostre stesse ferite ma non il desiderio vero di guarirle.”

Clarissa Pinkola Estes

“Nella valigia di Sigmund Freud”, di Alessandra Falasconi, Queen Kristianka Edizioni. A cura di Barbara Anderson

Mi ha personalmente sempre affascinato la preparazione della valigia, quando dobbiamo partire per un viaggio. 

Mettere tutto ciò di cui abbiamo bisogno all’interno di un oggetto che ci limita nelle dimensioni e nelle quantità, costringendoci a selezionare ciò di cui abbiamo bisogno e piacere che venga con noi.

Quando ho letto questo titolo ho pensato all’importanza che hanno gli oggetti che decidiamo di portare con noi e le motivazioni a cui il portarle è legato: che si tratti di necessità, di comfort psicologico o di portare con sé qualcosa che ci faccia sentire a casa anche quando siamo lontani, qualcosa che ci rappresenti o che descriva in qualche modo la nostra personalità.

Alessandra Falasconi fa questo esperimento di scrittura che ho trovato assolutamente interessante e capace di alimentare la mia instancabile curiosità; mostrandomi un modo nuovo per poter scoprire il volto e la personalità di un personaggio che viene considerato il Padre della psicoanalisi: Sigmund Freud.

Uomo di grande prestigio e talento che ha fondato le basi della psicoanalisi con le sue ricerche, i suoi studi e le sue teorie straordinarie utilizzate ancora oggi, teorie su cui ancora ampio studio è necessario fare perché non si finirà mai di scoprire i meandri segreti della psiche umana.

Come Freud cercava di entrare nella testa dei suoi pazienti per capirne le dinamiche e le patologie, così noi entreremo nella sua valigia come se fosse un magico portale che ci mostra il suo vero Io, l’Es e il Super Io dell’uomo della psicanalisi.

Proprio Freud asseriva che il comportamento umano è influenzato da ricordi, da pensieri e impulsi inconsci.

Ognuno di noi ha un Es (istinti primordiali), il Super Io che contiene il senso della moralità e un Ego che cerca di bilanciare, equilibrare, l’Es e il Super Io.

Ogni oggetto ha un aspetto e una funzione psicoanalitica (per oggetto non intendiamo solo le cose materiali ma anche l’oggetto come persona, come soggetto vitale che fa parte della nostra vita, l’oggetto e gli oggetti con cui interagiamo e di cui ci circondiamo e siamo circondati.

L’autrice cosa fa quindi con questo romanzo?

Utilizzerà proprio gli oggetti per raccontarci gli affetti di Sigmund Freud, mostrandoci l’altro volto di Freud, quello più interiore, più intimo.

Attraverso una prosa semplice, piacevole, leggera, cerca di spiegarci il lavoro svolto da Freud in maniera comprensibile ma soprattutto coinvolgente, toccando argomenti delicati e importanti con sensibilità e rispetto.

Come la psicoanalisi muta nel tempo, evolve, camminando al passo del pensiero scientifico, così lei ci permette di muoverci a piccoli passi nei concetti di base della psicoanalisi, facendoci diventare esploratori, ricercatori, archeologi del passato di Freud. 

Quando ci riferiamo agli oggetti dobbiamo immaginare la loro dinamica che sta contrapponendo l’oggetto al soggetto. Per oggetto ci riferiamo anche all’oggetto sessuale, alle pulsioni, considerando le correlazioni tra questi poli e il legame che si instaura tra l’oggetto e il soggetto e viceversa.

Abbiamo tutti un personale rapporto con le cose, con le persone, oggetti su cui proiettiamo le nostre ansie, le nostre paure, perfino le nostre speranze, i nostri desideri.

Ci sono oggetti che ci fanno sentire bene, sereni, altri che ci ricordano situazioni dolorose e tristi. Altri ancora che ci riportano alla felicità.

Un saggio indubbiamente per un pubblico curioso; Freud era un uomo felice? Era un uomo fatto di successi e di fallimenti come tutti del resto.

Pensate che negli anni 80, lo studioso Jeffrey Masson riuscì ad accedere ai documenti clinici e inediti di Freud e al suo archivio personale. Immaginate la preziosità di quelle carte, di quegli studi, di quei casi clinici.

Tra le carte furono ritrovati anche degli oggetti come un planisfero trafitto da spilli rossi con cui come in un risiko atavico Freud evidenzia i territori originari della psicoanalisi. 

Freud agiva come se fosse il conquistatore delle terre inesplorate della mente, così si comportava nelle sue ricerche, esplorava, scavava, ricercava per conquistare un altro pezzo della mente umana e per comprenderne il significato.

Pensate alle abilità della mente che riesce perfino a cercare di ingannare se stessa bypassando, rimuovendo i contenuti per riuscire ad aggirare la censura della mente; tanto da arrivare a noi attraverso il sogno. Anche questo ampiamente esplorato dal grande Freud.

La psicoanalisi è un edificio a multistrati che va costantemente esplorata tanto che ad oggi essa deve interagire con altre discipline come ad esempio la neuroscienza.

Gli oggetti, le cose, le azioni, le decisioni che prendiamo sono messaggi, sono segnali che vogliamo inviare a chi ci guarda e a chi ci è accanto.

Basta pensare al tatuaggio e al piercing per esempio come dei rituali che vogliono dire al mondo che il passaggio dal bambino all’adulto è avvenuto, l’assumersi la responsabilità del proprio corpo, di decidere di fare qualcosa di permanente e duraturo che rappresenti un’eternità mentale, che si rispecchi nel sociale. Il tatuaggio ci dà la sensazione di essere forti, ci fa sentire protetti e ci fa pensare che chi ci guarda ci veda come persone coraggiose senza paura. Ed è un pensiero inconscio.

Tra i vari oggetti nella valigia virtuale di Freud ce ne saranno molti che rappresentano non solo il suo stato mentale, affettivo ma anche quello sociale e il suo rapporto con se stesso: un anello, simbolo della fratellanza con i suoi esimi colleghi, prestigio, appartenenza, gli oggetti che indossiamo assumono sempre un valore allo sguardo di chi ci osserva.

Un pianoforte, un microscopio, il famosissimo divano…

Pensate al divano della psicoanalisi, pensate alle stanze sterili e asettiche degli studi medici; trovare un divano o una poltrona fa associare alla nostra mente un abbraccio, il conforto di qualcosa, di un oggetto che ci metta a nostro agio, che ci rilassi e ci permetta di affrontare la seduta medica con più serenità, un oggetto che riesce ad adattare uno stato mentale a se stesso e viceversa.

Troverete numeri, statue che sembrano rappresentare metafore dell’occhio e che Freud collezionava e teneva senza un apparente ordine così come fa la mente con i nostri pensieri, i nostri ricordi e le nostre emozioni.

Vi consiglio di approcciarvi a questa lettura con il cuore leggero, la mente curiosa e non potrete evitare alla fine di pensare quali siano i vostri oggetti all’interno della valigia della vita, quali oggetti vi rappresentino davvero.

I miei oggetti forse sarebbero il mio lettore kindle, il mio cellulare, uno stetoscopio, una penna, un quaderno, un rossetto, una fotografia e un libro che mi ricordi il rumore dei sorrisi delle persone che amo.

E voi?

Quali sono gli oggetti che sentite mostrino la vostra pura e intima essenza?

Sono certa che Freud avrebbe davvero apprezzato questo lavoro e questo mostrare le sue cose e ciò che queste hanno rappresentato nella sua vita.

Un uomo che ha studiato tanto le menti altrui non avrebbe avuto nessuna remora a permettere al mondo di ricercare nella sua testa e nella sua valigia.

Un’idea originale, davvero interessante, che mi piacerebbe vedere applicata anche ad altri personaggi importanti della storia, dell’arte e della scienza.

Grazie all’autrice per avermi permesso di esplorare il territorio della psicoanalisi attraverso ciò che rappresentano gli oggetti, i pensieri e le persone.

Bellissima e piacevolissima lettura.

“Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive dappertutto” di Ute Ehrhardt, Libreria Pienogiorno. A cura di Barbara Anderson

Inutile fingere che non sia così, le donne devono ancora oggi combattere muri di ostacoli e resistenze per raggiungere gli uomini in ogni settore.

Veniamo al mondo partendo da una posizione sociale di “svantaggio”. Siamo femmine, e come femmine veniamo catalogate, allevate, trattate e anche modellate nel modo in cui la società, da anni sotto il potere del patriarcato, ci vuole.

E non importa quanto siamo donne sicure di noi stesse, cadere negli schemi imposti dalla società è veramente più facile che uscirne fuori.

Questa psicologa, terapeuta tedesca, in questo scritto che appare come un saggio, ci parla appunto delle “cattive ragazze”. Cercando di aiutarci nel percorso difficile e colmo di ostacoli a ritrovare i nostri valori individuali e soprattutto la consapevolezza in noi stesse.

Voler accontentare tutti è l’ingrediente per l’insuccesso.

Siamo donne, quindi dobbiamo comportarci in uncerto modo, dobbiamo parlare con un certo linguaggio, con un pacato tono della voce, dobbiamo essere gentili, dolci, ubbidienti, modeste dobbiamo vestirci in un certo modo, frequentare solo determinati ambienti.

E questi preconcetti ci plasmano, e modellano a immagine e somiglianza di quello che vogliono gli altri. Fare le brave forse è più facile che fare le cattive ma sappiate care lettrici che a fare la brava ci si rimette perché la gente tende a prendere quella bontà d’animo e di gesti come debolezza e se ne approfitterà.

Confessiamo, è capitato a tutte di essere troppo buone, troppo gentili, troppo comprensive. Ogni tanto bisogna anche dire NO e bisogna anche urlare BASTA!

Ci stiamo provando noi donne moderne, a imporci con le nostre idee, opinioni, con le nostre scelte, proviamo a far valere i nostri diritti solo che poi inevitabilmente tendiamo perfino a sentirci in colpa.

I nostri mariti devono tornare a casa dalla donna perfetta, curata, magra, bella, la cucina che profuma di buono, i figli sistemati e puliti, devono accogliere i loro uomini e trattarli come se fossero dei re in un castello che diventa prigione.

Con questo scritto l’autrice ci mostra come diventare cattive ragazze e perché farlo non sia una cosa sbagliata ma giusta, come mantenere lo sguardo fiero. Come comportarci per far sì che il linguaggio del corpo non ci faccia apparire vulnerabili quando ci confrontiamo con le altre persone, come convincere prima di tutto noi stesse a capire cosa vogliamo veramente fare ed essere.

Mai mostrare sottomissione abbassando lo sguardo o facendo un passo indietro quando si viene messe davanti a un confronto.

Diventare cattive ragazze non incita a essere malvagie o aggressive o rabbiose ma a spogliarci dei ruoli che ci hanno messo addosso gli altri.

Essere sempre disponibili, vittimizzate, succubi, dipendenti dall’opinione degli altri; disposte anche a subire umiliazioni fisiche e psichiche perché forse ce le meritiamo, perché quei colpi diventano carezze, quell’odio diventa quasi amore ma di fatto non lo è e non lo sarà mai.

Il primo amore della vostra vita dovete essere voi stesse, se non avete stima di voi stesse sarà impossibile che un altra persona possa averla di voi.

Dovete abbracciare la vostra essenza, i vostri desideri, i vostri sogni e impugnare i vostri diritti e farli valere.

Non siamo nate per essere agnellini sacrificali, né per fare le casalinghe o per mettere al mondo i figli, la vita è nostra quanto degli uomini; il mondo è nostro quanto loro e se vogliamo raggiungere un livello di eguaglianza tra i sessi è giunto il momento di alzarci in piedi e di dire anche quei no che sono necessari nell’educazione perfino dei bambini. Far capire quali sono i limiti, i confini che gli altri non hanno il permesso di varcare.

Le generazioni vanno rieducate, gli uomini vanno rieducati, le donne e anche la società e il cambiamento deve partire da tutte noi, all’unisono.

Le brave ragazze vanno in paradiso e, mi duole ammetterlo, è anche vero, basta guardare ai femminicidi che non smettono di avvenire, le brave ragazze che non denunciano i loro compagni, mariti, ex, aguzzini, che subiscono, che abbassano la testa, finiscono tutte in paradiso, chi prima, chi dopo.

La paura di denunciare, la consapevolezza che denunciando spesso si viene giudicate, non ascoltate e che quegli abusi e quelle violenze in casa diventeranno poi anche peggiori.

La paura e la sottomissione ce l’hanno iniettata nel DNA, non c’è nulla da fare. Le lotte femministe delle donne degli anni 90 iniziarono una battaglia che non è mai finita.

È giunto il momento di riappropriarci della nostra dignità e affermazione, smettiamo di diventare donne infelici intrappolate nella depressione e nella paura.

Fare le cattive ragazze non significa diventare selvagge, violente, libertine significa prendere una posizione e mantenerla, significa prendere coscienza dei propri diritti, la cattiva ragazza non obbedisce alla cieca a ogni ordine, si ribella. 

Quella ribellione scatenerà il dissenso di moltissime persone, non piacerà nessuno, ve lo dico in tutta sincerità. La svalutazione della donna è accettabile dalla nostra società e va rifiutata, ripugnata da tutte le donne e se alcune di noi non cominciano a dare il buon esempio diventando cattive allora non ne usciremo mai.

Ho imparato sulla mia pelle che preferisco la disapprovazione che la mia infelicità, che do valore alla mia affermazione prima che a quella degli altri e me ne infischio se alla gente non piace quello che dico, quello che faccio o come vivo; se sembro un arrogante, arrivista, esaltata. Io sono io e intendo essere e rimanere quella che sono.

Ho lo stesso diritto di vivere la mia vita, libera di essere ciò che voglio, di fare quello che sento, senza nessuna imposizione o obbligo di ruolo. Prima di essere donna sono un essere umano ed esigo il rispetto di tutti.

E se qualcuno mi dà uno schiaffo, spiacenti non porgo l’altra guancia io vado subito dai Carabinieri a denunciare.

Preferisco morire per libertà che vivere in attesa di essere uccisa da quello che alcuni definiscono amore.

Il potere del no è immenso, impariamo a usarlo e vedrete che troverete anche uomini che vi sapranno amare per la persona fantastica che siete e non per quella che vorrebbero che diventiate.

Leggendo i dettagli di questo romanzo ho identificato perfino in me gli errori che nella vita ho fatto inconsapevolmente; perché i miei atteggiamenti erano risposte condizionate come quella di Pavlov con la salivazione dei cani. Rispondevo agli stimoli esterni secondo ciò che mi era stato inculcato nella testa e nel cuore, ma per fortuna ho un’anima ribelle e quella non fa passare più nessuno.

Assolutamente una lettura che resta attuale. Che ci fa riflettere e che ci fa ritrovare quella forza che abbiamo dentro di noi, tenuta incatenata da preconcetti e anni di educazione. La chiave per sciogliere quelle catene è un semplice NO.

Ricordiamoci che abbiamo anche noi il diritto di commettere errori e il diritto di poter ricominciare anche da capo.

Il luogo dove dovete andare è dentro di voi, la persona che dovete amare siete voi. 

Tutto il bello verrà, perché quando la vita vi vedrà finalmente sorridere non potrà fare a meno di innamorarsi di voi. 

Siate libere siate forti.

Soprattutto ricordatevi che siamo tutti responsabili di noi stessi e dobbiamo cominciare a essere responsabili dei nostri comportamenti.

Non fate nulla che non sia ciò che volete fare.

Seppur questo scritto ha oltre 20 anni e alcune situazioni non sono quelle di oggi, rimane rilevante e significativo perché basta guardare i notiziari per comprendere che ancora molto c’è da cambiare per poter vivere senza la paura di essere sopraffatte, umiliate e uccise.

Inutile dire mai più e basta ogni volta che ascoltiamo la triste storia di una delle vittime del femminicidio: il basta, il no, il mai più, dobbiamo gridarlo in faccia a chi si sente in diritto di prendere il sopravvento sulla nostra esistenza.

La responsabilità è di tutti. Iniziando dall’educare i nostri figli al rispetto di tutti, mostrando ai figli maschi che non esistono responsabilità di ruolo e alle nostre figlie femmine che hanno un mondo di possibilità come tutti nello studio, nel lavoro, nella vita affinché scelgano sempre di fare e di vivere in vista di ciò che amano e non nella speranza di essere amate, a costo anche di perdere completamente se stesse.

Ancora un viaggio lungo ma in una strada sulla quale non ci è permesso di sostare, dobbiamo continuare a correre verso i nostri diritti. Sempre.

E io invece come sono? 

Sono una cattiva ragazza che spesso lotta anche contro se stessa perché la brava ragazza che ho dentro ogni tanto cerca di prevalere sull’altra e spesso devo dire no perfino a me stessa.

Lettura che ogni donna dovrebbe avere tra le mani ma che sarebbe opportuno far leggere anche gli uomini.

“Apollo, Pan e Dioniso” di Georg Junger , Le Lettere edizione. A cura di Alessandra Micheli

Avrei voluto scrivere questa recensione in modo cosi colto, da far impallidire persino un accademico.

Potrei farlo sapete?

Potrei impegnarmi e raccontarvi ogni aspetto di questa straordinaria filosofia incuneandola nel suo tempo.

Perché sicuramente la riflessione di questo uomo dimenticato dalla cultura odierna lo merita.

Però, non sarebbe stata la recensione per me.

Non quella che mi fa andare a dormire soddisfatta, quasi svuotata.

E io ho bisogno di scrivere e di leggere o per questo.

Per diventare vuoto.

Ma non quel vuoto che fa paura, ma quello che aspetta di essere colmato dal fiume della vita.

Noi siamo troppo pieni sapete?

Di egoismo, di egocentrismo, di convinzioni, paure e idee rigide.

Siamo cosi pieni e cosi convinti che andiamo con una sicurezza pericolosa incontro a un destino che non è certo qualcosa da domare e conquistare, ma fa parte del mistero dell’esistenza.

In quel cosmo cosi profondo, cosi impossibile da raccontare, non siamo altro che puntini in un universo impossibile da delineare.

Infinito.

Ancora sconosciuto a noi che per sentirci degni di tutto questo immenso dobbiamo quasi fare a pugni con lui.

E con Dio, perché dio e la materia sono indissolubilmente legati.

Per quanto vogliamo negarlo, arriverà sempre un punto della nostra vita, in cui la scienza non potrà assolutamente darci la fiducia che serve per intraprendere questo ultimo passo, verso il nostro destino.

E allora, invece di accettare questa verità, accettare una natura nostra che forse è fatta davvero di semi di stelle, siamo guidati da una strana ossessione.

Conquistare una perfezione che non può esistere in questa dimensione.

Noi seppur nati da un respiro di energia, dobbiamo essere imperfetti.

Non ho mai capito perché fino a adesso è soltanto la sporcatura che ci fa ambiare nuovamente il cielo.

Che ci fa propendere e allungarci vero l’infinito.

La perfezione invece ci obbliga a abbassare lo sguardo, a concentrarci in una sorta di voyeurismo pernicioso.

Noi siamo il centro del mondo, e non più parte di esso.

E da questa diversa prospettiva che impariamo a interagire con tutto ciò che ci circonda persino con l’altro.

E da questa prospettiva creiamo miti, idee, ideali e poi in azioni.

Che possiamo raggruppare cosi disgregatorie quando mettono le parti di un tutto una contro l’altra o semplicemente di unione, quando ci accorgiamo di non essere altro che pezzi insostituibili certo, ma che contribuiscono a creare un immenso meraviglioso meccanismo.

Noi siamo le rotelle di un orologio che scandisce le ere, che macina tempi, che tritura vecchi ideali facendone farina pronta per essere il pane di dio.

E lui che lo assapora non fa altro che farci tornare all’origine di tutto.

Vi spaventa quest’immagine vero?

Lo so.

Tutti quelli che hanno bisogno di essere unici, di essere al pari di dio o della bellezza del cosmo, non parti del cosmo soffrono nel pensare a se stessi come parti di qualcosa. Meglio disgregare.

E tutti i malanni che vengono dalla separazione, tra noi e la natura, tra pleroma e creatura, vengono attribuiti non alla disfatta di una percezione limitata ma a un male esterno.

All’altro.

Al nemico.

Alla minaccia di un integrità o di una purezza che non può appartenere.

Perché solo chi si sente mancante di qualcosa e quindi imperfetto alza gli occhi la cielo e sente che dietro le scapole spuntano ali.

Junger lo aveva capito.

In un mondo che crollava a picco, che veniva demolito con un piccone feroce, pezzo per pezzo era la purezza e la tecnica a salvarci.

È peccato che se tecnica e ideale rigido si uniscono non fanno altro che definirci come oggetti sacrificabili sull’altare del signore della Guerra.

Non fanno altro che allontanarci dalla terra, da noi stessi e da quella voglia matta di osservare il celo, la via lattea e sentire con nostalgia che la vera nostra casa è davvero altrove.

Ecco questo saggio, reazione a un nazismo che non aveva nulla di bello, ne magico, ne utile non fa altro che utilizzare archetipi che ci appartengono per riportarci a casa.

Perché anche oggi la solitudine, la tecnologia, la ricerca della perfezione, di una fantomatica purezza originale non fa altro che renderci soltanto dei fantocci. Nell’introduzione che ho letto come fossi assetata, la spiegazione del dramma della modernità è sicuramente molto più approfondita di queste mie parole.

Nate in una sera in cui anche io mi sono sentita soltanto un ingranaggio della macchina del cielo.

E per un istante ho avuto il cuore che si innalzava e ho sentito ali candide puntarmi dietro la schiena.

E mi sono sentita cosi vicina alla verità anche se non potrei mai definirla.

Lei Sophia che ha il volto radioso di Apollo, quello allegro e giocondo di Dioniso e il profumo di bosco di Pan mi ha preso il volto tra le mani.

E mi ha promesso che nonostante ogni orrore che l’uomo schiavo della sua arroganza sta compiendo, io un giorno tornerò tra le sue braccia.

E la natura selvaggia assieme alla luce alla seta di vita, inizia a scorrere dentro di me.

E mi porta dentro la mia essenza perduta, quella che si nascondeva dietro una vecchia quercia, perché sapeva che prima o poi l’avrei ritrovata.

Ho sempre pensato che l‘uomo sia simile a quel prometeo capace di violare le leggi divine.

Ma oggi, grazie a Friedrich so che l’uomo non è altro che immagine di una natura che non deve sottomettere.

Ma abbracciarla, reintegratala dentro di se e liberarsi da quella soggettività fanatica che sembra dominare questo postmoderno decadente.

E se anche voi riuscirete a diventare soggetti liberi, indipendenti da ogni fallace schema pronti a contemplare con apollieno ardore la Madre Terra e scoprire che il timore riverenziale non è altro che il riconoscimento della nostra appartenenza alla sua natura, beh il saggio avrà compiuto la sua azione.

Vibrate all’unisono con la vita.

Non tentate di inserirla in schemi che la feriscono e l’allontanano da noi.

Terribilis est locus iste!

Hic domus Dei

Est et porta coeli

“Ti voglio bene. Per una gioia condivisa” Papa Francesco, Libreria Pienogiorno. A cura di Alessandra Micheli

Cosa ci serve per essere felici?

Soldi?

Potere?

Influenza sugli altri?

O bellezza eterna?

E sopratutto cos’è davvero la felicità?

Quella sensazione di vuoto allo stomaco caratteristica di chi ama andare sulle montagne russe, in una corsa sfrenata fatta di discese e salite?

Perché oggi come non mai si sente parlare di guru capaci di illuminarci con frasi perfette per il benessere emotivo, ricette su ricette per una vita feconda e sana, consigli, opinioni che in realtà più che renderci felici, ci rincoglioniscono e stancano.

Basta una sola sessione di auto-consapevolezza, auto-guarigione e auto tutto che ci sentiamo svuotati, sempre più soli e sempre più disillusi.

La gioia, il benessere emotivo e fisico, sono troppo lontani, una chimera, un orizzonte che mano a mano tenti di raggiungere si allontana sempre di più.

E questo rendere frustrato anche il carattere più forte, più equilibrato, più solido.

Cerchiamo di appartenere a qualche comunità, a qualche organizzazione che millanta di custodire il segreto dei segreti.

Viaggiamo in paesi lontani, interrogando i volti che ci appaiono più radiosi e sereni. Proviamo mille percorsi spirituali, e stalkeriamo, letteralmente, il santone di turno.

Che nel migliore dei casi ci manda a cagare, nel peggiore psilla soldi all’ingenuo e disperato di turno.

Alla fine nulla ci soddisfa.

Ne la bellezza artificiale.

Ne il potere.

Ne la ricchezza.

Quel vuoto non va via, anzi.

Diventa sempre più profondo e sempre più compulsivamente lo riempiamo di cose, emozioni spezzettate e nuove dipendenze.

Allora restiamo cosi spaesati, e sperduti, ci sentiamo…senza guida.

Costretti a viaggiare un mondo completamente distorto, senza prospettive, senza logica, senza persino leggi della fisica.

E’ come camminare in un eterno quadro di Bosch, dove le regole non ci sono, dove non ci sono punti di riferimento, dove lo spazio cambia a suo gusto.

E poi ci sono io.

Io che in quel luogo non luogo, fatto di scale assurde e proporzioni sbagliate, mi ci trovo perfettamente a mio agio.

Perché vedete la felicità, quella vera, non può essere fatta di regole, di leggi ne di gravità.

E’ uno stato particolare che arriva quando…buttate via ogni convinzione, ogni apprendimento, ogni certezza e vivete immersi nelle ceneri di cose è stato.

La felicità arriva quando anche in mezzo a un uragano sappiamo che in fondo va tutto bene.

Che non serve seguire pedissequamente qualche linea di condotta, se non quella che si riassume in “siamo amati”.

Da qualcosa lassù.

Da un universo che ci accoglie non perché compassionevole o tollerante, ma perché ci riconosce come parti del suo mosaico.

Da soli siamo colori brillanti, ma è solo inseriti in questo arazzo formiamo figure, scene e racconti.

E sapere che siamo corde di un arpa che può essere suonata soltanto assieme, ci fa sentire completi, affatto sperduti, affatto soli.

E allora la chiamata all’amore, cosi come descritta da Papa Francesco, cosi come la raccontava Anthony de Mello è davvero semplice.

Basta dire si e lasciare che ogni condizionamento cada, crolli e si faldi per tornare terra e polvere.

In modo che persino essa accolga il respiro dell’infinito.

Come, direte voi, è cosi semplice?

Si miei lettori.

Un tempo cercavo in un modo quasi disperato di appartenere a qualcosa, in modo che tale appartenenza mi potesse dare la possibilità di vedermi.

Perché fidatevi, non riuscivo proprio a farlo.

E sapete perché?

Perché lo specchio stesso mi restituiva l’immagine contraria all’educazione ricevuta.

Che mi voleva perfetta, forte, realizzata, dura e al tempo stesso malleabile dal potere di turno.

La felicità però non è una conquista.

Ne un dono.

E’ uno stato primigenio, che arriva quando smetti di indossare occhiali adatti a interpretare il mondo secondo la morale del tempo e semplicemente ti godi il viaggio. Allora capite che, una volta smesso di vedere questo cosmo nei termini del potere, della sopraffazione, della vittoria e della perfezione, cada anche ogni ostacolo alla riunione con se stessi.

Non ti importa la vendetta perché anche se ti fanno male, quel male non scalfisce la corazza fatta, non di fede, ma di bellezza.

Perché se uno vi calpesta i piedi vi fa male, ma quel male è come una nuvole che passa e non nasconde il cielo.

Il cielo è sempre li, a guardarti e invitarti a entrare dentro di lui a giocare con le nuvole e le loro forme.

Se piangi e ti guardi allo specchio non vedi dolore che strazia l’anima, ma occhi brilla nti di chi ha lottato tanto.

E’ un luccichio fatto di vita.

E se guardi il dolore, vedi il tuo cuore che sanguina e con quel sangue semplicemente scrivi la tua storia.

Ogni cicatrice non è altro che il ricordo di un vissuto, di un azione, di una scelta.

E’ il tuo libro, libro da leggere ancora con un sorriso.

E se la notte chiude per sempre gli occhi, è soltanto il momento in cui il viaggio arriva a destinazione e tu torni a casa.

Ti voglio bene non è un libro di dottrina cattolica e cristiana.

Non è un sermone.

E neanche una sorta di apogesi religiosa.

Non lo avrei letto, altrimenti.

E’ semplicemente il percorso spirituale e umano di ogni umano, che perde se stesso soltanto per ritrovarlo.

E’ un inno alla libertà da ogni condizionamento, da ogni idea preconcetta.

E’ semplicemente un inno alla vita perché fidatevi

che senso ha raggiungere persino la luna

ma essere incapaci di vivere sulla terra?

Papa Francesco ricorda semplicemente una grande verità: la spiritualità non è fatta di chissà quali riti, quali segreti, quali astrusi ragionamenti esoterici o stregoneschi.

E’ molto reale e concreta.

E’ il riconoscersi aquile e non più polli.

E’ pensare a amare se stessi e poi l’altro.

E’ provare il piacere di volare e non volare per piacere.

E’ semplicemente comprendere di essere parti di un qualcosa di più ampio che ci comprende e ci trascende.

Fidatevi.

Lo faccio da anni ed è bellissimo amare senza dipendere.

Vivere nel mondo ma senza sentirsi prigionieri del mondo.

Post scrittum. Lettera al mio Dio

Nonostante il freddo sono fuori, e mi godo quell’istante che precede i l buio.

Mentre tutto diventa nero, in lontananza è un esplosione di colori.

Arancio e una fiammata rossa, illumina il tramonto e sembra vincere sul buio.

E’ una strana lotta tra il nero inchiostro che tenta di colare su questa strana città e quell’oro che non cede di un millimetro.

Tutto è avvolto in uno strano silenzio, come in attesa.

Roma ammira questa lotta che non ha nulla di violento.

Poi il tramonto si inchina, e con rispetto di congeda da un buio che gli tributa il merito che spetta a un grande concorrente.

Non so perché questo spettacolo a cui sono abituata da anni, oggi mi colpisce nel profondo.

Sarà che è un periodo strano.

Mi sento sempre in bilico su un sottile filo che si rispecchia in un abisso che non temo più.

Tante volte mi ha fagocitato con quelle sue acuminate zanne, dilaniato, e tentato di ferirmi.

A volte mi sono dibattuta feroce come una leonessa in trappola.

E a volte mi sono lasciata cullare dal suo vuoto.

E l’abisso stupito dalla mia non resistenza mi ha mostrato il suo lato segreto: non un antro vuoto e orribile, una caverna tenebrosa e oscura.

Ma scintillanti stalattiti capaci di riflettere le mille sfumature di un sole che non disdegnava affatto di riposarsi in quel caldo ventre.

Quindi no, non mi spaventa essere un equilibrista.

Mi piace sfidarlo cosi come si sfida un degno avversario, cosi come il tramonto ha sfidato la notte.

E’ solo strano trovarmi qua.

In bilico come un giocoliere che non ha nulla da chiedere alla sorte.

Che non ci gioca più sogni e vita dia dadi.

Che non sente neanche la necessità oggi di provare a qualche lontano spettatore di essere degna, valida e tosta.

Sono qua da un po’ di tempo.

Sola e affatto triste.

Ho gridato tante volte al nulla, al silenzio, piena di dolore di ferite e di terrore.

Sperando che una mano compassionevole mi sollevasse e mi portasse via, da questo circo, dalle fauci dell’abisso.

Si ho chiamato proprio te Dio.

Tu che vieni descritto come potente, amorevole, terribile e al tempo stesso capace di rigore e compassione.

Te che dovrei cercare.

Tu che a volte forse sei passato ma ti sei fermato lontano.

Lontano da me.

Tu che sei in grado di creare cielo e terra.

Che sei chiamato persino come garante della purezza di qualche personalità, tu che sollevi eserciti dicono, che scegli i prescelti e li rendi invincibili.

Tu che sei definito come pieno d’amore anche se il mondo ci fa diventare marci.

Che dicono che ci sei, anche se non ti si vede, che sei accanto a chi inciampa e chi cade, più e più volte.

Tu che con un soffio curi ginocchia sbucciate e anime frantumate.

Tu che non so dove sei mentre sono in bilico su questo filo sottilissimo fatto d’argento come una ragnatela.

Sono qua mi vedi?

E sono io quella che ti ha chiamato da troppo tempo.

Che è arrivata a bestemmiarti, a litigare a fare a botte con te.

Io peccatrice perché alla fine ho detto di non crederci più alla favola in cui tu appari tra nubi e nuvole, con voce tonante e sveli i misteri che opprimono lo spirito dei probi.

A te dio, che dicono che mi ami cosi come sono, imperfetta a volte troppo sola, incapace persino di raccontare all’amico più caro cosa si agita dentro di lei.

Io che ho paura di una morta che mi è passata accanto e ha preteso che la guardassi negli occhi.

E che per non farsi dimenticare mi ha sfregiato l’anima.

Tu che dicono sei il mio creatore, addormentato da qualche parte a sognare altri mondi e altri universi.

Mi sono davvero chiesta, per anni per troppi anni se tu ci fossi.

Per altri anni mi sono sentita abbandonata da te.

Altri ho avvertito come un soffio e giuro, sono stata convinta di averti visto, furtivo, timido nasconderti in un angolo della mia vita.

E ho chiesto un segno per credere in te.

E ammetto che quel segno è stato un pugno in un occhio, uno schiaffo in faccia.

In quell’istante mi sono chiesta se dovevo odiarti.

Se dovevo iniziare come fece Giobbe a urlare forte tutti i torti che mi hai fidato.

Le persone che ti sei portato via.

I rapporti distrutti e mai più ricostruiti.

Quel mio sentirmi sempre a disagio, sola e mai davvero compresa.

Allora ho preso questo libro mio Dio.

E ho cercato in quelle parole di speranza una sorta di mappa per trovarti.

E mentre leggevo ti sentivo ridere sia.

Ridere di cuore.

Perché alla fine quello che Francesco ci dice l’ho sempre saputo.

Dio è qualcosa che vive dentro di noi.

Dio non va cercato.

Semplicemente c’è.

C’è’ nel dolore.

Nella bellezza del mondo.

Quando riesci a perdonare un torto perché sei andata avanti e non ti frega davvero più un cazzo di chissà quale vendetta.

C’è quando dubito e quando ho litigato con il cielo.

C’è perché è terribile e semplice.

Esiste perché esisto io.

E allora mentre la notte copre come una calda coperta la città e quel mio senso di insoddisfatta ricerca di infinito, guardo il libro che stringo tra le mani.

E ogni volta che sono risalita tu c’eri.

In ogni cicatrice tu c’eri.

Ogni volta che ho rimarginato una ferita tu c’eri.

Ogni mia corsa per i prati dei miei monti tu correvi con me.

Ogni sorriso, ogni lacrima, ogni speranza.

Ogni rabbia, ogni sospiro.

In ogni roccia in ogni albero.

Nei miei occhi che hanno imparato a abbracciare l’abisso.

Nel mio sorriso che dietro le lacrime spunta, cosi come spunta il sole dopo una notte tormentata.

Ci sei quando sono riuscita a risalire la discesa.

Quando ho creato, sognato, quando leggo un libro.

Ci sei perché in fondo noi non siamo altro che riflessi tuoi.

Ed è questo che ci racconta questo prezioso libro.

Noi siamo chiamati all’amore.

Chiamati tramite la vita anche i suoi duri colpi a distruggere tutto quell’armamentario di ostacoli che il modo ci impone.

Quelle concezioni sbagliate persino di come tu dovresti essere percepito.

Non in un turbine.

Senza con chissà quale clamore.

Non nei miracoli cosi evidenti e scenografici.

Ci sei nel silenzio.

Ci sei in quell’istante in cui tramonto e notte combattono tra loro.

Ci sei anche ora, mentre scrivo.

E non è una questione di credere o non credere.

E’ una questione di specchiarsi, senza filtri e tre le pieghe del volto semplicemente possiamo vederti.

Perché iniziamo a vedere noi stessi.

***

Dedicata a Anthony de Mello.

Grazie al quale oggi mi sento un aquila e ho smesso di vivere come un pollo

“L’incantesimo di Circe” di Giordano Bruno, Di Renzo editore. A cura di Alessandra Micheli

Quando mi trovo davanti a un classico, faccio un passo indietro e ovviamente mi inchino.

In questo caso il rispetto è maggiora, persino di quello riservato al mio amato Oscar Wilde.

Perché qua non abbiamo soltanto un autore.

Abbiamo un po’ il maestro di tutti noi, noi che non ci siamo mai accontentati di questo piano della realtà.

Che dell’apparenza, che della materia poco si interessano.

Cosi, attratti dalla bellezza, dalle sensazioni che questa provoca in noi, siamo sicuri che tutto ciò che i nostri occhi vedono, contemplano, non è che una parte di un qualcosa di più grande, che sta al di la dell’orizzonte.

E’ come vedere tutto attraverso un vetro.

Sai che il giardino è seducente, ricco di meraviglie, ma tutto ti arriva attutito, opaco. Eppure basta perché risuoni dentro la tua anima qualcosa, qualcosa che ti spinge a ricercare.

La bellezza dell’Altrove la viviamo soltanto in bianco e nero.

Semmai con colori meno brillanti del reale, perché ne resteremmo folgorati.

Cosi come non possiamo, con questi umani occhi, scorgere il vivido splendore del sole. Possiamo solo comprenderlo, come se qualche parte della nostra memoria ancestrale si risvegli, da quel letargo che ci fa sentire soli.

Ecco Giordano Bruno ha aiutato me e tanti altri cercatori, sulla strada per andare dove gli angeli esitano.

Perché qualcosa ci dice che quel orrizzonte appartiene a tutti noi.

E che questa vita è qualcosa id più profonda dell’agonia del vivere di ogni giorno.

Anche con questo scritto lui ci invita a riappropriarci di qualcosa che è nostro diritto. Non è solo un esercizio di memoria, svelato tra le pagine.

Tutto inizia con un invocazione a una divinità troppo tempo dimenticata, quella maga che trasformava gli indegni in animali terreni ma che era in possesso di qualche conoscenza capace di rivelare la natura interiore dell’uomo.

Comprendete l’enormità di questi scritti?

In un mondo che divide in due l’indivisibile, che tronca di netto ogni aspirazione all’assoluto se non incanalata in un percorso ortodosso, allenare quella parte del cervello adibita la ricordo ha una duplice valenza che però, ha sempre lo stesso fine ossia arrivare a sollevare quel velo, perché consapevoli che, questo mondo non è altro che una piccola breve pausa per poi poter raggiungere la nostra vera destinazione.

In questa parte dell’universo noi sperimentiamo il duplice volto di Dio trascendente poiché difficile da raggiungere con i meri sensi umani e immanente, perché in fondo, lo possiamo trovare in ogni roccia, in ogni arbusto, persino in quel cielo stellato sopra di noi.

Allenare la nostra mente non è altro che il modo per riconoscere che Dio e natura in fondo sono un unica realtà e che per conoscere entrambi dobbiamo spogliarci da ogni pregiudizio e da ogni schema ereditato per tradizione.

Come comprese più tardi Gregory Bateson, pleroma e creatura non sono altro che parti di uno stesso cosmo interconnesso e interdipendente in cui possiamo ravvisare ogni aspetto di dio e da questo piombare da una realtà bi-dimensionale a una pluralità di mondi, cosi come è plurale un anima de-costurita e ri-assemblata in modo da essere partecipe di una sostanza ( possiamo chiamarla Mana) che permea tutta la creazione.

Stupendo, a tal proposito, questo dialogo del ‘infinito universo e modi a Filoteo

«Io dico Dio tutto Infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno e infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell’infinità de l’universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi all’infinito, possono esse chiamate parti) che noi possiamo comprendere in quello»

Ecco che per poter arrivare a tale consapevolezza che dio e cosmo sono interconnessi e che quindi dio è Eco, ossia ecologia, che possiamo comprenderlo dunque anche attraverso la scienza, dobbiamo assolutamente allenare la memoria perché possa cogliere infinite e sottilissimi fili che formano questo grande immenso e intricato wyrd.

L’ars memoriae ossia l’arte della memoria si presenta nel suo pensiero come una sorta di emulatrice della natura. Poiché se è dalle idee che il mondo assume la sua forma significa che le idee stesse contengono le immagini di ogni cosa.

Ai nostri assopiti sensi tutto ciò si manifesta come ombre delle verità chiamate idee ed è tramite l’immaginazione potrà essere possibile percorrere l’inverso cammino: ossia dalle ombre ( apparenza) alle idee e dalle idee a dio stesso.

L’arte della memoria non è, dunque, solo un vezzo della retorica ma il mezzo per conoscere e ricreare il mondo stesso.

Un processo visionario che si distacca dal concetto di utilità razionale, cosi come spesso è presentata dagli studiosi che Giordano Bruno ci mostra e ci invita a conoscere perché possiamo, finalmente entrare Trionfanti nel mondo reale, quello che non è più il sogno dell’uomo ingabbiato dall’arconte geloso del suo legame con Sophia.

“Dopo Narciso la Primavera” di Federico Bosco, Vallardi. A cura di Alessandra Micheli

Federica Bosco è convinta che questo libro attiri chi ha bisogno di liberarsi da un peso.

E questo peso è qualcuno che si comporta da vampiro.

Che succhia energia, che ci fa sentire in colpa.

Che ha bisogno della nostra forza.

Ecco forse è così.

Nel mio caso magari è capitato quasi per caso, cosi come per caso io mi sono protetta da chi voleva rubarmi qualcosa dentro di me, un pezzo di anima.

Un sogno.

O forse il vento gelido della vita mi ha lasciato cosi gelida da aver poco calore da restituire all’esterno.

Ma per chi non ha la fortuna, perché cosi la considero di essere avvolta da un inverno eterno, avere una scintilla dentro la mette a rischio.

Ci sono la fuori persona che ne hanno disperatamente bisogno.

E per rubarla faranno di tutto.

Dovete essere preparate ragazze mie.

Dovete avere ogni strumento adatto per diventare non bellissime principesse, ma guerriere implacabili.

E se questo libro può diventare quell’arma ben venga.

Ho visto troppe volte fanciulle recitare un copione imposto da qualcuno assiso sul trono di lacrime.

Dovete essere gentili, accomodanti, indifese in attesa del principe.

Tutti doveri e pochi piaceri.

Tutti inchini e mai sguardi di fuoco.

E cosi, complici favole, storie e fasulli racconti siamo state in vetrina, in attesa che qualche mano ingorda premesse con forza, senza rispetto le nostre ali. Violenza psicologica cosi sottile da essere scambiata erroneamente per amore. Siete circondate da narcisisti.

Da chi vi propone il sollievo e mai la soluzione.

Di chi ama le lacrime non per lenire ferite del core ma per vedervi afflitte, abbattute e indifese.

Chi userà il vostro dolore non per renderlo corazza.

Ma per divenire la lama affilata con cui lacerare voi stesse.

E invece nessuno vi ha mai confidato che nella sofferenza, quella che sembra abbattervi e lacerare dentro, come una mano artigliata esiste la vera forza. Quella di chi osserva disperata l’abisso e poi si rassegna a farlo diventare casa.

E che piano piano inizia a amarlo e a osservare dentro quel buio, vedendo che le stalattiti diventano solo mezzi con cui il sole crea colori sulla parete.

E tutto diviene completamente diverso dall’orrore immaginato.

Nella grotta oscura nascono fiori.

E’ il ventre della madre che rigenera.

E quel lago sotterraneo ribollente diviene specchio con cui puoi finalmente vedere che esistono dietro la tua schiena le ali.

Ali forse rattoppate, spennacchiate ma forti e capaci di portarti altrove.

Per farlo devi essere svegliata dal torpore.

Devi comprendere l’orrore del baratto che hai compiuto quando dormivi. Dovevi identificare quell’orribile narciso prima di diventare tu stessa primavera. Questo è un libro per combattenti.

Per sopravvissute.

Per guerriere.

Per chi finalmente è stufo di essere comparsa nel gioco senza anima di qualcuno che ha bisogno di te per sopravvivere.

Perché tu mia lettrice puoi vivere.

Nonostante cicatrici, insicurezze, lacerazioni e senso di vuoto.

Si, puoi vivere.

E Federica è oggi il tuo messaggero.

Il messaggio è eterno, esiste da secoli.

Ed è semplicemente meraviglioso nella sua essenza: puoi farcela.

Basti a te stessa.

Il dolore è solo una porta.

Aprila, e il mondo sarà tuo.

Sarai cosi forte, potente e piena di sacro forse che nulla più ti scalfirà.

E allora volerai lontano, verso i tuoi orizzonti.

O resterai a terra, affascinata da quella polvere che oggi sembra inzaccherare le tue mani e ti sembra cosi limitante.

La amerai perché sarà per te il sangue di tua madre terra.

Allroa leggilo questo libro.

E inizia il tuo canto di rinascita.

Canta sulle tue ossa e circondale, assieme a Federica di nuova carne.

“Il sale e gli alberi” di Ernesto Venturini, Negretto editore. A cura di Alessandra Micheli

Noi scienziati sociali dovremmo stare molto attenti a tenere a bada la nostra smania di controllare quel mondo che comprendiamo in modo così imperfetto. Non si dovrebbe permettere a questa comprensione imperfetta di alimentare la nostra ansia e il nostro bisogno di controllo. I nostri studi si dovrebbero piuttosto ispirare a un più antico, sebbene oggi poco seguito, principio: la curiosità per il mondo di cui siamo parte

Gregory Bateson

Il mondo, quel sistema complesso che dovrebbe, come giustamente ha osservato Gregory Bateson donarci la curiosità di scoprirlo ogni volta con un senso di meraviglia, in realtà ci terrorizza.

Ci terrorizza non avere il completo controllo su ognuna delle sua parti, di non conoscerle alla perfezione e quindi avere la possibilità di gestirle, manovrarle e perché no manipolarle.

Tutto ci sfugge nonostante i disperati tentativi di rendere questo cosmo disordinato ineleggibile.

Ci proviamo con i significato, con le teorie, con le categorie rigide con mappa cosi accurate da appartenere al regno del fantasy e con la dittatura del concetto. Restringiamo ogni campo di analisi cosi da avere un modello che più di tutti assolva alla funzione di rassicurare la nostra ricerca della razionalità e dell’ordine.

E un sistema imperfetto che sfugge quindi alle nostre manie ci destabilizza e ci fa persino arrabbiare.

Nelle scienze naturali, questo si traduce in un ignorare costantemente il dato che rivela la falla nelle nostre costrizioni teoriche, o nel migliore dei casi di manipolarlo affinché diventi solo una conferma ai principi formulati, che devono restare rigidi e rassicuranti.

Ovviamente finché si tratta di scienze dimostrabili o empiriche, i nostri tentativi hanno, seppur limitato e limitante un senso.

Pensiamo alle leggi dell’archeologia.

O della fisica.

O addirittura dell’astronomia.

Ci basiamo su teoremi considerati certezze e nulla scalfisce le nostre certezze. Per smontare per esempio la teoria della piramide come tomba, ci sono voluti secoli, fatiche e tentativi, arsi alla luce del dileggio e della beffa, per poter arrivare a una possibile alternativa scientifica.

Ossia la teoria della correlazione stellare.

Ma cosa accade se il concetto rigido, se la mappa incriticabile riguarda il campo delle scienze umane, in particolare il territorio ostico e meravigliosamente misterico della mente?

Che non è possibile assolutamente ne formulare teorie, ne previsioni, ne dati certi, ne è possibile esercitare un controllo totale su questo enigma chiamato mente.

E cosi se la mente smette di funzionare secondo la nostra concezione di sano, essa diventa un qualcosa di orribilmente perturbante.

E il dato perturbante non può assolutamente essere accettato.

E siccome, come sostiene Bateson

Uno dei maggiori errori contro l’essere umano della comunità scientifica, forse specialmente della comunità ingegneristica, è la premessa che è possibile avere un totale controllo su un sistema interattivo di cui si è una parte.

Quando quest’illusione di controllo sfugge, il dato discordante, dissonante e devastante va semplicemente escluso dal tutto.

Evitato, reso silente.

Eliminato dal contesto ordinato.

Il caos è un qualcosa che non possiamo accettare ma che siamo stati educati a non accettare.

Ecco che nella normalità, nelle regolari funzioni mentali che determinano la società cosi come il nostro immaginario vorrebbe, la malattia mentale in quanto distorsione va assolutamente isolata e contenuta.

In regni privati che millantano lo scopo di curare, ma che in realtà imprigionano e isolano il soggetto alienandolo dalla compagine sana e etichettandolo come pazzo e pericoloso.

Tutta la storia della prima psichiatria e dei manicomi/sanatori è costellata di persone rinchiuse con l’accusa oltraggiosa di sconvolgere il sano sviluppo della consuetudine chiamata comunità.

Il pazzo era l’essere che metteva a repentaglio onorabilità, regole, e il senso stesso dell’accettazione che era e comportava una adesione acritica e omologata a un determinato codice di comportamento.

Donne con troppa immaginazione chiamate isteriche.

Visionari, persino santi e artisti affluivano in quelle grigie strutture assieme a chi aveva probabilmente una vera problematica psichiatrica.

Erano i malati mentali, i pazzi, il rifiuto della società coloro non da curare ma da emarginare, privandoli del confronto, della libertà e persino del senso rassicuramene di casa.

Manicomi non era altro che una sottile e non sempre sottile forma di tortura. Alienandoli dal tutto, si lasciava che marcissero.

Che si ripiegassero sulle proprie ossessioni e che si sentissero, essi stessi, diversi e perturbanti.

Fino a che qualcuno di nome Franco Basagli osò contestare il predominio di una scienza, la psichiatria che aveva perso del tutto il contatto con chi si proponeva di aiutare e curare: il paziente.

Isolandolo, privandolo di uno status dignitoso di persona prima che di malato, la psichiatria si proponeva come una disciplina capace di dividere soltanto, di rigettare ogni opportunità se non di guarigione di riabilitazione e di restituzione di un contatto con la realtà.

E questo contatto doveva essere, ovviamente ripensando come un diverso approccio visino e interpretativo, non come una lacuna o come un impedimento.

E emblematica a questo proposito la teoria di Bateson

Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante. Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno.

Ed è questo che la medicina in fondo creava: una vera spaccatura tra noi e gli altri, tra il concetto di sano impossibile da ridefinire e la malattia che come agente esterno virale metteva a rischio la sopravvivenza di una ristretta unità.

La de-istituzionalizzazione raccontata tramite vere esperienze nel Saggio di Venturini non è altro che il racconto, necessario di una nostra cesura del sistema, ossia la possibilità di una teoria psichiatrica costruttiva e non di esclusione che possa, quindi contemplare la malattia mentale non come una limitazione ma un processo capace di reintegrare visioni diverse del mondo in un processo dialettico con l’altro non più considerato sano ma diverso capace di proporre un idea della società diversa e quindi contemplare, attraverso il dialogo con le parti disunite una sorta di riabilitazione.

Non solo del malato ma anche di come noi interpretiamo i concetti, la realtà e il rapporto tra le parti.

Perché se si cambia l’idea che si ha della malattia mentale non più come fatto privato ma globale che coinvolge cioè l’idea che abbiamo di società, di stato, di famiglia di comunità e persino di dialettica tra le parti, la malattia mentale può diventare un percorso e non più un danno all’intera compagine.

Ecco che ne libro Venturini non fa altro che spiegare il tema della istituzionalizzazione e anche dell’idea di anti-psichiatria ricorrendo alla descrizione di un esperienza concreta, meravigliosa e commovente capace di testimoniare in modo fresco e diretto l’attività di una comunità, quella della città di Imola che per primo ha optato per il superamento dei suoi due ospedali psichiatrici, tra i più antichi d’Italia.

“Animali di parole. Quando la relazione con l’altro si fa racconto” di Sveva Borghini. A cura di Alessandra Micheli

Siamo schiavi di un senso a ogni costo.

Dobbiamo dare una morale a tutti, non un etica ma una sorta di linea guida per crogiolarci nel ruolo del prescelto.

E cosi la letteratura, spesso fornisce il significato e il significante, sostituendosi alla coscienza.

Di libri cosi ne ho letti a bizzeffe.

Ognuno non aveva qualcosa da dire, ma imponeva la sua voce.

Con un cipiglio fastidioso tipico dei dotti e dei potenti, tipico di chi si sente quasi deputato a indicarci la retta via.

Cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa di deve fare per poter entrare nel grande ballo societario.

Facendo passare, spesso, il messaggio più agghiacciante che le scelte sono un privilegio di pochi di ari esseri strani o straordinari e che c’è tanta meraviglia e dignità nel diventare gregge.

Ecco la letteratura cosi si uniforma e diviene asfissiante e per nulla liberatoria. Ci vogliono libri che stimolano un processo diverso che sia riflessione o soltanto ascolto.

C’è bisogno di usare la parola come un qualcosa di potente di cui aver rispetto. E non sfornare significati ma piuttosto fornire mappe, simboliche intricate ma mappe che costringano qualcuno a muovere i primi passi lungo un impervio viaggio alla ricerca del proprio se.

Non di quello che un autore vorrebbe.

Ecco la letteratura deve essere una costellazione di simboli, assonanze, suggestioni, lievi sensazioni che fanno capolino ci sorridono per poi nascondersi e invitarci a seguirli.

Ecco la letteratura non devo fornire concetti preconfezionati, e standardizzati ma deve essere…un metalinguaggio.

E cosa sarà mai?

E’ un ordine diverso della comunicazione, portato avanti dal mio amato Gregory Bateson in per raccontare la complessità della comunicazione e dei rapporti interpersonali di cui, essa è il collante o al contrario l’elemento disgregatorio.

E quindi non è importante tanto l’ordine della parola, la semantica e il significato che generalmente il codice attribuisce a essa.

Esempio?

Ti amo moltissimo ha un senso preciso.

Ma se detto con un tono svagato, con uno sbuffo con occhi che non guardano l’interlocutore, esso assume un significato completamente diverso da quello genericamente attribuito a ogni parola e al codice stesso.

Ecco la letteratura deve andare oltre il senso comune e le regole grammaticali per porre in atto il vero ruolo dell’informazione: generare un cambiamento di stato.

E ogni informazione contenuta nel messaggio non è altro, per citare Bateson una differenza che genera una differenza.

Ed è questo che si pone nell’ottica evolutiva: è grazie all’apprendimento di un diverso contesto, di una diversa emozione rispetto allo stato precedente che ci permette di andare avanti verso chissà quale assimilazione.

Ecco animali di parole segue questa logica.

Sono storie che si riferiscono a un modo unico e importante di approcciare quella che è alla base del nostro sistema complesso ossia l’uomo: la distinzione. E’ grazie alla notizia di una presa di coscienza della differenza, che viene trasferita nella nostra personale mappa mentale, quindi alla sensibilità della differenza che ci fa vivere in due mondi affatto distinti e affatto distanti: il mondo mentale che diviene mondo reale.

Perché questa considerazioni dunque si applicano a questo straordinario libro?

Perché la distinzione, base della comunicazione con il mondo e con i simili riguarda un altro importante protagonista del processo mentale e biologico: ossia l’altro.

E’ questo altro che ci permette di crescere e sviluppare una visone di noi stessi aliena al conformismo e più vicina a rappresentare l’originale e unica mappa della mente.

E che altro più altro esiste se non in una specie cosi vicina a noi e cosi diversa come un essere senziente ma classificato con animale?

E sono loro, i nostri amici a quattro zampe, piumati o persino gli insetti che raccontano, attraverso il loro essere archetipi, qualcosa di noi.

Animali di potere, il cui potere è quello di farci scrivere la nostra storia, il nostro cambiamento, il nostro eretico modo di muoverci nell’ambiente che ci fa essere più umani e meno burattini.

Ecco che il libro suggerisce ma non svela, induca il cervello a fare le sue connessioni non quelle dell’autrice la cui voce si presta a dare linfa a immagini derivate dall’iperuranio ma è silente, non invasiva, non si intromette.

Ecco che Sveva ci regala un testo che è capace:

di evocare, chiamando allo scoperto momenti di vita semplici, quotidiani seppur intensi in quanto vissuti a pieno.

Qua l’è quindi l’intento di una scrittrice che si fa invisibile?

Presto detto:

Questo testo nasce proprio dal gusto di scrivere, di leggere e di evocare, chiamando allo scoperto momenti di vita semplici, quotidiani seppur intensi in quanto vissuti a pieno.

E questa scoperta sarà unica e inimitabile per ciascuno, tanto che ciascuno sentirà, persino a livello fisico la sua connessione: le parole sono li e donarci e regalarci l suo unico e personale potere tramite una scrittura sensoriale, fatta di pennellate d’autore:

volta a contattare un mondo interiore che tutti possediamo ma che spesso ci dimentichiamo di considerare, non rendendolo partecipe alla nostra vita quotidiana e negandogli, quindi, la dignità che merita.

Per poter stimolare e non creare la nascita spontanea di riflessioni, emozioni o solo sprazzi di comprensione.

Leggere questo libro è un esperienza privata e unica, diversa per ciascuno e al tempo stesso appagante.

E’ il ritrovare nel silenzio qualcosa che da troppo tempo ci scordiamo di avere un anima cangiante, sensibile e bisognosa della differenza.

E dell’altro, a prescindere dalla sua natura.

“Manuale di sopravvivenza. Comel iberarsi dalla trappola del narcisista, quando l’arma sono i figli” di Ambra Sansolini. A cura di Patrizia Baglioni

Vorrei svegliarmi un mattino e non dover parlare di violenza sulle donne, significherebbe la realizzazione di un diritto, la cancellazione di una disparità e il raggiungimento di una convivenza civile adeguata.

Non è questo il giorno, quindi bisogna parlare di questo fenomeno troppo diffuso, dalle conseguenze incalcolabili per le donne e la loro famiglia; visti i ritardi della legge, è necessario informare e soprattutto portare a conoscenza le donne delle varie tipologie di violenza che esse possono subire.

Il sopruso infatti non si manifesta solo sul piano fisico, spesso si cela dietro pressioni e aggressioni verbali o comportamentali che portano moglie e compagne all’esasperazione, alla depressione e spesso alla pazzia a causa di un atteggiamento narcisistico.

Il narcisismo esiste da sempre ma è stato preso in considerazione come strumento di violenza solo negli ultimi anni.

Attenzione però, non parliamo di un modo di essere della persona che entro certi limiti è anche funzionale in alcuni contesti della vita quotidiana.

Quando il narcisismo psicologico interferisce seriamente con i rapporti interpersonali, gli impegni quotidiani e la qualità della vita, può diventare patologico.

Il Manuale Diagnostico Statistico (DSM-5), che riporta le varie patologie, inquadra il narcisismo tra i disturbi di personalità. Le persone con questa alterazione psicologica, mettono se stessi al centro del mondo e come nel mito greco vivono ammirandosi.

Per emergere su tutti gli altri utilizza gli strumenti della negazione e della denigrazione degli altri, mantenendo la facciata dell’uomo perfetto o del buon padre di famiglia rispettoso della legge e dei precetti della tradizione.

Questo naturalmente a discapito della compagna e dei figli, che subiscono la personalità dell’uomo fino a dover rinunciare completamente alla loro vita e alle loro necessità.

Non è semplice riconoscere una relazione in cui il narcisismo del compagno ha preso il sopravvento, la donna giudicata e atterrita con continui sensi di colpa, vive controllata dal partner che osserva scrupolosamente le sue azioni per rinfacciarle il più piccolo errore.

Il migliore della coppia è lui, che non può essere mai colpevole e nel momento in cui la donna prova a muovere legittime accuse o prova a giustificarsi o a difendersi da accuse infondate, il narcisista con metodo dialettico studiato, rovescia gli argomenti: la colpa è sempre della compagna e lui è la vittima.

Anche l’autoritarietà è un tratto deciso del narcisista che domina sulla famiglia senza tener conto dei desideri dei singoli, concentrando tutte le sue forze su se stesso.

È naturale, secondo lui, che gli altri vogliano la sua felicità rinunciando alla propria, quando questo non succede, lui si vendica con biechi stratagemmi, facendo sentire in colpa i familiari e riportando così l’attenzione su di sé.

Ambra Sansolini scrive questo saggio con uno scopo ben preciso, aiutare le donne che hanno trovato il coraggio di separarsi dal narcisista e aiutarle a controllare la gestione condivisa dei figli.

Il narcisista infatti ha un unico scopo: rivalersi sull’ex attraverso i figli.

Non perdonerà mai alla moglie di averlo lasciato e utilizzerà ciò che hanno in comune per continuare a fare pressione su di lei, fino a portarla a dubitare di se stessa e della propria sanità mentale: “un tragico ribaltamento della realtà, che può condurre la donna fino alla morte. Un femminicidio a tutti gli effetti, del quale nessuno da notizia.”

Come la Sansolini mette in evidenza, il tratto più infido del narcisismo è il fatto che difficilmente può essere riconosciuto e diagnosticato, spesso le donne che escono da tali relazioni vengono considerate dal giudice che si occupa della separazione e dai servizi sociali come “soggetto poco collaborativo” e bollata come il genitore instabile.

D’altronde coloro che si trovano a prendere decisioni vedono un padre integerrimo, un soggetto in apparenza interessato, solo l’ex compagna conosce la soppressione e l’umiliazione di condividere la propria vita con un uomo violento e solo i figli possono testimoniare l’assenza, l’anaffettività e il disinteresse verso la loro vita.

Interesse che si risveglia solo quando i figli diventano strumenti di sofferenza per la donna.

Un argomento spinoso, poco conosciuto nell’ambito della violenza domestica eppure sperimentato da troppe donne.

Questo piccolo MANUALE DI SOPRAVVIVENZA non solo riporta testimonianze e da un aiuto concreto a quelle donne che non vedono via d’uscita da una relazione malata, ma permette a tante donne di prendere coscienza di un male di cui non hanno colpa e non sentirsi più sole.

Non si può curare la sofferenza, ma si può provare a gestire al meglio le cose per la propria salvaguardia e quella dei figli.

Guarire non si può, ma si deve sopravvivere, sempre, e donare ai giovani uomini e donne esempi di donne forti, che non si sono piegate al male e hanno combattuto non solo per la propria libertà, ma per la realizzazione di un mondo giusto, di un mondo migliore.

Ambra Sansolini è una di queste donne e la ringraziamo di cuore per questo libro e per la sensibilità che da sempre dimostra verso il tema della violenza sulle donne.

E grazie a tutte le donne che resistono, che lottano e dimostrano coraggio ogni istante di ogni singolo giorno.

AMBRA SANSOLINI. Giornalista, pubblicista e scrittrice. Amministratrice del sito http://www.violenzadonne.com. Autrice dei libri “Su ali di farfalla”(2018) e “Manuale di sopravvivenza”(2021) in cui affronta il tema della violenza sulle donne.