“Lo strano caso delle luci di Roccaverde” di Claudio Vastano, Saga edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Lo ammetto.

Sono letteralmente innamorata di Caspar Pestalozzi e di conseguenza provo una venerazione assoluta per il suo creatore, Claudio Vastano.
Le motivazioni di questa profonda ossessione per lo strampalato detective, risalgono agli anni della mia formazione letteraria quando, da ragazzina, divoravo tomi e tomi di gialli.

Ebbene sì, invece di aver coltivato sin da subito la passione per i saggi – quella venne in un periodo successivo, nei fecondi anni della mia formazione culturale giovanile – ero una divoratrice dei romanzi di Doyle (possiedo ancora una rara edizione de “Il segno dei quattro”), di Auguste Dupin – personaggio antesignano del famigerato Sherlock nato dall’oscura fantasia di Edgar Allan Poe – dei gialli di Agata Christie, di Simenon, di Rex Stout e di Chesterton.

Ognuno di questi grandi autori, perfetti a livello stilistico e strutturale, diedero vita a indimenticabili detective, come Padre Brown, Maigret, Nero Wolfe e ovviamente Miss Marple e Hercule Poirot. Personaggi geniali, dissacratori della società dell’epoca (basti ricordare come l’adorabile padre Brown fosse nato come mezzo per deridere il pensiero meccanicistico della Chiesa Anglicana) ma soprattutto dotati di sottile sapienza psicologica, conoscenza della natura umana e capacità deduttive fuori dal comune.

Eppure, lasciatemelo dire, nonostante il profondo amore per quella loro metodologia di indagine che anticiperà di anni la geniale idea di Carrisi sul dato che stona nello scenario rigidamente coerente dell’azione criminosa, erano…antipatici.

Sherlock era un pomposo snob, tronfio e pregno di idiosincrasie che sfioravano l’ossessione. Dupin un arrogante convinto, Maigret eccessivamente logico e tremendamente razionale, miss Marple una vecchia pettegola e impicciona, apparentemente adorabile ma irritante con quella sua finta aria da svampita signora di campagna.

E non parliamo di Poirot, odiato persino dalla sua mamma (in un saggio del 1945 la scrittrice si sperticò in lodi verso Sherlock ma definì il suo personaggio una persona noiosa).

Uomini simbolo di una giustizia che brilla, che mettono ordine in contesti disordinati, in un marasma moderno caratterizzato da patologie e devianza e che forse, dovevano assurgere a ruolo di educatori di una popolazione che rifuggisse il crimine, aborrendolo in virtù di un senso della bellezza, dell’armonia che andava dalla scienza pura, all’accettazione del ruolo sociale (Miss Marple) alla autoglorificazione del cervello rispetto alla banalità del male.

Lo stesso Poirot ci insegna:

L’omicidio è un’abitudine

che eleva i gusti dell’uomo superiore verso altre raffinatezze, altri piaceri estetici, come persino il cibo e il pensiero che, proprio in Poirot, raggiunge i massimi livelli.

Fantastico certo.

Ma sicuramente lasciava a me, comune mortale, un senso di vuoto, una sorta di disagio per la loro elevata statura morale che mai avrei potuto raggiungere.

Simboli di una giustizia che non poteva passare assolutamente dal mondo letterario a quello fisico, materiale, troppo preso a combattere contro una vita che seguiva le strade della sopravvivenza, del consumismo e della faciloneria culturale.
Pestalozzi è diverso.

Pur dotato di una notevole cultura, di un’intelligenza acuta e sviluppata al pari dei suoi predecessori, la manifesta con un’autenticità e una schiettezza assoluta, mantenendo il suo ego a un livello quasi inferiore, considerando il suo lavoro non tanto una missione ma quasi un obbligo etico, ingombrante, ma non per questo eseguito con minore serietà.

È in questo suo contatto con la quotidianità, con la vita che altri avrebbero catalogato come banale che Pestalozzi resta fondamentalmente puro, autentico, e rifugge quell’etichetta di superuomo che i suoi predecessori indossavano con prosopopea e alterigia.

Perché Pestalozzi, pur essendo a suo modo il genio più autentico perché calato nella realtà di ogni giorno, dotato di un acume mantenuto vivo e vibrante con il sarcasmo, con la capacità di sbeffeggiare ogni autorità considerata intoccabile, resta fondamentalmente ancorato al mondo quale unica e indiscussa palestra che consente al genio di essere, prima di tutto, uomo piuttosto che fenomeno da baraccone, da osservare con invidia, timore e perché no ammirazione.

Pestalozzi non è ammirato soltanto per il suo acume, perché in grado di risolvere casi intricati, restituendo la realtà a quei fenomeni che la cultura popolare relega come insoluti e misteriosi, ma perché è umano, perché non è il fantastico vincente di tanti racconti, perché vive la vita con quell’occhio scanzonato, perché nonostante viva momenti di pateticità assoluta, come tutti noi, riesce a risultare vincente.
In questo secondo capitolo Pestalozzi affronta un altro tabù intoccabile, quello non della scienza come progresso conoscitivo dell’uomo, ma della scienza al servizio del potere, del dio danaro, della finalità cosciente.

È quella scienza che non si bea soltanto nel porre domande e nel tentare di dare loro una risposta, ma si bea dei clamori della folla, dei riconoscimenti, si erige su un piedistallo tenendo lontano la realtà. Vittoriosa e totalmente slegata dai valori che, anzi, dovrebbero guidarla, cerca il consenso e la conferma del suo ruolo sociale e poco importa se questo può causare disturbo all’ambiente, se spezza vite o se non dona le acquisite competenza al mondo.

Il mondo è fuori dai luoghi della ricerca e gli esseri umani ma anche l’intero cosmo sono soltanto dei mezzi, delle tappe da superare per essere gli eletti, i deus ex machine, i dominatori indiscussi. In questo caso la conoscenza non è una tappa ma il punto finale per il completo dominio degli altri e della nostra terra, che ne risulta tremendamente danneggiata.

Si dissacrano i legami con l’ecosfera, si perpetuano orrendi crimini, sempre non nel nome della scienza ma in nome del nostro personale progresso.

In un mondo così rovinato, cosi patologico, Pestalozzi risulta un simbolo estremamente positivo, in balia di un assurdo che è in fondo molto meno assurdo della corsa insensata dell’uomo verso potere:

Avere un’autostima tanto insignificante non deve essere facile, in un mondo frenetico come il tuo.»

Eppure è proprio questo suo basso livello di ego a fargli comprendere una verità che è il fulcro di tutto il testo:
Già, utilità sociale.

Mi domando cosa ne sappia la nostra società di ciò che è utile e di ciò che non lo è. Vista quanta ricchezza consumiamo per il futile e quanto poco investiamo per l’indispensabile, direi che la lungimiranza non è proprio il nostro forte.

Con episodi esilaranti che sbeffeggiano in modo irriverente ogni autorità, persino quella di augusti tenenti convinti di agire in un telefilm:

l’ispettore con l’impermeabile alla Colombo è ormai troppo lanciato; Beretta alla mano, si spalma con la schiena a ridosso della parete del tunnel e inizia a strisciare verso l’oscurità. Ogni fruscio lo fa sobbalzare, ogni eco lo mette in allerta.
Giunto a una quindicina di metri dall’ingresso della grotta, si accorge di non scorgere più un tubo a causa del buio. Allora cosa fa? Estrae la torcia elettrica dalla tasca dell’impermeabile e proietta il fascio di luce verso la gola della miniera.
No, dico, ma cosa l’hai fatta a fare quest’entrata alla super poliziotto se poi ti fai luce con una torcia?

E troviamo il meraviglioso Trapasso che in barba degli studi psicologici ha capito che in fondo la morte è l’unico business possibile; abbiamo Laura e il suo apparentemente distorto modo di amare, che non ci allieta di poetiche elucubrazioni sul quel nobile sentimento, ma ci fa comprendere come, in fondo, quello che conti davvero è esserci:

Ma lo sa che quando Gustavo è tornato in paese, la sua fidanzata si è preoccupata tantissimo per lei?»
«Ah, sì?»
«Ha fatto tutto da sola, sa? Ha chiamato il suo strano amico sempre corrucciato e mio marito, e poi è voluta andare con loro a tutti i costi…
Anche se per certe faccende può sembrarle un tantino rozza, si vede che la sua fidanzata le vuole un gran bene.»

E poi abbiamo un altro indimenticabile personaggio, Gustavo che non potrete non adorare.
Chi è Gustavo?
Il vero protagonista del romanzo, un adorabile tasso che a parte il piccolo, insignificante problemino è davvero un amico fedele.

E quindi vi invito a ridere fino alle lacrime come ho fatto io, fino alle due di notte, facendomi osservare da un gatto allibito che non capisce come mai, ogni volta che leggo la Dunwich, o urlo in preda al panico, o rido a crepapelle.

Speriamo che l’ansia non mi crei mai l’effetto Gustavo.

Quale sia lo capirete solo leggendolo.

Pestalozzi forever!

“Senza esclusione di polpi” di Marcello Lombardi. A cura di Alessandra Micheli

Nulla è più difficile da imparare se non l’arte di vivere.

Credetemi.

E’ un qualcosa che si apprende a suono di batoste, porte in faccia, e tante troppe ferite.

E questo cambia dentro, nel profondo.

A volte si diventa insicuri e troppo fragili, cosi tanto che ogni piccolo sasso diviene spina acuminata nei talloni impedendo di camminare.

Altre volte, se si è meno fortunati, si diventa cosi duri, ma cosi duri che raramente qualcosa penetra dentro quell’aridità.

Neanche nelle fessure provocate dall’arsura.

Una foglia che viaggia sospesa sulla riva di un lago placido.

Ma che mai, e dico mai affonda nel profondo.

E questo non vi provoca la mancanza di dolore.

Anzi.

E’ un dolore doppio, perché la tua profondità reclama sassi capisci di increspare quella placidità.

Perché è nel movimento che esiste la vita.

Pertanto coloro toccati dalla maledizione di una dura roccia che ricopre il cuore, spesso faticano più degli altri a vivere quelli che riescono a piangere, arrabbiarsi e indignarsi per ogni schiaffo.

A chi ha la roccia dentro lo schiaffo non fa effetto.

Infastidisce forse, crea un lieve pizzicore, come puntura d’insetto.

Ecco è li che si capisce che qualcosa non va.

E l’arte di di vivere diventa soltanto l’arte del tira a campare.

Per questo chi, ha questa condanna, legge.

Perché solo in quel modo con la parola che tenace come goccia penetra dentro lo scoglio allora qualcosa può muoversi.

E cosi si inizia a piangere, sorridere e vedere ciò che ci circonda nella sua nitida interezza.

E magari ci incazziamo anche, finalmente.

Eh si miei lettori.

Anche io sono una scorsa dura.

E questo viene visto come un fottutissimo vanto.

Non è cosi, anzi siete orgogliosi se le ferite fanno male.

Perché a me, ve lo assicuro, non fanno più nulla.

Neanche il lieve pizzicore.

E cosi mi sento sempre più automa e sempre meno persona, fino a perdermi.

E non servono forse libri che lo raccontano.

Oh no, non funzionano con me.

Sapete cosa mi fa provocare un brivido, prezioso nell’anima?

La risata.

Quella che improvvisamente ti coglie indifeso, quella che ride e deride ma descrive anche.

E cosi come direbbe il nostro lontano amico è una risata che vi seppellirà.

Perché il ridere, l’ironia, l’umorismo è feroce e letale, distrugge i piedistalli, seziona con acume e accuratezza la nostra società.

Ci mostra per quello che siamo: anime in perenne ricerca di chissà cosa.

Un sogno, o una motivazione.

Un ideale o una canzone che faccia da sigla alla nostra unica storia.

E cosi in questo libro un po’ ci si prende in giro.

Nelle nostre velleità umanistiche e ribelli.

In quelle assurdità contraddittorie che mescolano le carte e ci fanno apparire sano il marcio e anormale l’ovvio.

E in quell’istante in cui la risata si libera e fa vibrare tutto il nostro io, si può agire.

E sopratutto reagire.

Perché senza colpo ferire il libro ti ha mostrato non solo i difetti ma anche la via per accettarli e forse con l’accettarli superarli.

E credetemi per noi che dentro abbiamo una scorsa dura, indistruttibile, cosi ferrei e eterni e immutabili tragicamente come rocce, quella risata è la vera libertà.

Libertà di sentirsi rotti, sbagliati, precari, assurdi, ma vivi.

Ecco senza esclusione di polpi colpisce duro.

Ma è in quei lividi oche ci risveglia, che è la nostra salvezza.

La mia sopratutto.

Ma che mai come oggi mi sento a disagio nei miei vestiti.

Che mai come oggi mi chiedo se siano i miei occhiali con cui vedere il mondo ad essere sbagliati.

Che mai come oggi sono tentata di accettare che l’ovvio sia invece il male da combattere.

Che penso che l’impresa eccezionale sia uscire fuori dalla normalità e dal quotidiano per compiere chissà cosa.

Io, che oggi dopo una risata, mi sento finalmente viva, nonostante mi senta sempre sull’orlo di un baratro.

Quindi ridete.

Ma senza esclusione di polpi.

Perché stavolta la risata non vi seppellirà ma anzi, vi farà uscire fuori da un letargo che è simile alla morte dell’anima.

Quindi il mio grazie lo devo rivolgere a te Marcello.

Grazie perché il tuo libro mi ha salvato dall’essere troppo immutabile e congelata in questo atroce attimo infinito.

Per te

Che mi aspetti sorridendo alla stazione di Zima.

Sono troppo piccola per questo mondo.

Ma se mi dici che posso farcela allora ci credo.

Il fantasma Travaglini” di Luigi Micucci, Bre editore. A cura di Alessandra Micheli

Quando ho chiesto il libro per potermi, finalmente, fare due risate in questo grigio e sfigato settembre, l’ufficio stampa della Bre, l’aitante Aiolfi, mi ha mandato con una mail grondante di stupore “ ma ora dall’horror sei passata all’umoristico?”.

Ebbene si miei adorati lettori.

Tra mille difficoltà date da un ritorno affiato piacevole dalle vacanze, tra mille impegni, tra varie sensazioni di un volto malevolo, chiamato sfortuna che mi occhieggiava famelico avevo bisogno di ridere.

Non il mio solito ghigno, ma una di quelle liberatorie risate che potessero colorare benevolmente quell’oggi troppo in salita.

Perché di ghigni ne avevo fino sopra i capelli e per quanto amassi la compagnia degli Sogghot di turno ero davvero pronta a abbracciare un volto meno rigido e più soave.

E cosi la letteratura umoristica mi è sembrato un giusto compromesso tra una voglia quassi sbarazzina di affrontare il mio reale e il bisogno che mi appartiene di indagare l’animo umano.

Magari con un occhio meno di brace, meno feroce e più leggiadro.

E cosi il fantasma Travaglini mi ha letteralmente chiamato.

Eh si.

Nonostante sia privo di zombie e di orridi grandi antichi l’ho amato.

Perché il nostro valente autore, il buon Micucci ha uno stile che affascina cattura che apparentemente può sembrare semplice e immediato, ma che in realtà è elegante, soffuso di una vena dolcemente satirica e soprattutto capace di affondare la sua elegante lama nel costato di una società piena di vizi e a volte scarna di virtù.

E cosi i personaggi che animano questa provincia sono variegati, buffi quasi caricature ma senza che questa consapevolezza li marchi come feccia dell’umanità.

A volte, anzi troppo spesso l’ironia è crudele e senza scampo.

Sezione e non perdona.

Mette alla berlina e non ha compassione di questo fragile uomo.

Diventa pomposamente arrogante nel definire, grazie a questo certosino lavoro di vivisezione il bene dal male, l’etico dal perverso.

Come se fosse davvero semplice schematizzare l’umanità in stupidi e intelligenti, in evoluti e involuti.

Non è affatto cosi e non voglio assolutamente che voi lettori vi nutriate di libri con quel cipiglio di cinismo da salotto.

Non sopporterò che chi entra a con passo titubante in questo mondo di fantasia che è les fleurs du mal, viva in una bolla di biasimo costante, di ferocia letteraria, di irridente scetticismo verso l’altro.

E’ vero.

Micucci ce lo fa capire.

Siamo terribilmente imperfetti.

Abbiamo sempre bisogno di dimostrare a noi stessi che siamo forti, unici, intelligenti, arguiti.

Abbiamo sogni disfatti nella bisaccia e tanto rimpianto nell’animo.

Abbiamo un domani che non è fatto di soli brillanti ma di una sottile e persistente nebbia che rende tutto caliginoso e cosi irreale.

A volte dubitiamo di ogni passo o abbiamo bisogno del vizio per sperare in un orizzonte meno nebbioso.

Ma siamo anche capaci di grandi emozioni, di passioni, di sentimenti e di solidarietà.

Ed è questo che emana l’ironia di Micucci.

Un libro dolce e irriverente, bonario e pertanto capace di strappare risate per l’assurdità folle di questo strano essere che popola la terrà.

Il libro giusto per evitare di sistemarci comodi su un olimpo di divinità, ma anche capace di scaldarci, con il tepore di un focolare da tempo perduto.

E cosi dopo la lettura, un po’ di bonario ottimismo ha bagnato le rive della mia fantasia.

Rido di me stessa, dei miei difetti mostrati senza remore nel testo, ma al tempo stesso mi sento anche fiera, di appartenere a questo mondo cosi caotico e a, tempo stesso cosi bello.

“S’io fossi foco” di Lodovica San Guedoro, Felix Krull editore. A cura di Alessandra Micheli

Vallo a spiegare adesso, Alessandra, perché ti innamori di un autore.

Vagli a raccontare delle sensazioni che spesso nulla hanno di oggettivo e che semplicemente scaturiscono in un riconoscimento.

Come se ci fossero amici separati dalla nascita e incontrati per caso, lungo una strada buia.

Con la san Guedoro è stato amore a prima vista.

O riconoscimento a prima vista.

Un’amica lontana e mai dimenticata, una passione scaturita da un certo modo di fare letteratura e che, diciamocelo, è quello che da bambina mi ha sedotto e fatto innamorare.

E non è facile, credetemi, elencarvi i motivi per convincervi che questa pazza signora è la lettura giusta per tutti coloro che un po’ si sono stufati di certi schemi rigidi, che ci propinano come letteratura fatta bene.

Un libro deve raccontare senza raccontare.

Deve mostrare ma non svelare.

Deve incuriosire ma sempre con decoro.

Deve essere politicamente corretto, epurato da ogni tono surreale che il lettore non può comprendere appieno ma solo intuire.

Deve si denunciare ma senza esagerare.

Deve essere educato, silenzioso, pulito, diretto, susseguoso sempre equilibrato.

E dov’è finito il flusso id parole senza virgole che tanto amavo sulla bocca di Miss Dalloway?

Cosa ne è della delirante invettiva di un Rimbaud incazzato con il mondo?

Non ci sono più.

Racchiusi nei cassetti di una memoria che si fa nostalgica, che mai si senta a suo agio in un mondo dritto che non ha posto per noi sghembi.

La San Guedero è una ventata di freschezza in questo stantio grigiore.

La San Guedoro è la voce fuori campo, l’Erinni che si scatena senza compassione e senza trovare alibi su un mondo che siamo perdendo. Un mondo che scivola via allontanandosi dalla bellezza, dal buon gusto e dalla creatività.

Un mondo che addita l’immaginazione e la rottura di schemi oramai vetusti, come il peggior crimine che si possa fare all’arte.

Quell’arte nata in seno di Prometeo, reo di rubare il fuoco a divinità intoccabili.

Ecco Lodovica lo fa.

Ruba il fuoco fregandosene di regole e dei lettori assuefatti alla banalità.

E ci regala un libro assurdo eppure molto coerente.

La follia allora non è dell’artista che crea parole come fiamme.

Un libro in cui il suo sarcasmo non si ferma e ci accusa, deride irride e mette di fronte alla decadenza che Noi abbiamo voluto, celebrato e mantenuto.

Ma di quel mondo che si nega al fuoco purificatore.

Al fuoco che dovrebbe bruciare le nostre marce abitudini.

Un fuoco necessario per illuminare le ombre del bosco e ridonarci le vesti di Vasillissa, la Dea liberata dal gioco delle consuetudini, dalla routine delle abitudini, per abbracciare la natura selvaggia e incomprensibile della Baba Yaga.

La San Guedoro non fa sconti.

E in questo mondo politicamente corretto, in cui si è attenti alla forma e mai alla sostanza, ecco che sul podio del colpevole saliamo noi, immagini sfiorite del femminino sacro.

Noi, che invece di proseguire per la STRADA della libertà ci adagiamo e ci vantiamo di essere immagini perfette di un maschile che ci rende si tutte fate e poco streghe, ma che nel farlo ci ingabbia.
E noi ci pavoneggiamo davanti allo specchio, fingiamo di non vedere le catene ai polsi che tintinnano, rendendoci più simili a laceri fantasmi che a eleganti e fiere Morrigan.

Noi, che siamo sempre meno lupe e più statuine, ballerine costrette da un malefico carillon a ballare per la gioia di chi ci osserva, dobbiamo prendere le sue parole, feroci come lame, e lasciare che esse ci feriscano.

E che il sangue grondi sui sogni perduti e formi di nuovo la parola libertà.

Grazie Lodovica.

Attraversando e riattraversando il pianeta per dritto e per sghembo, non ha visto altro che donne nude, donne semivestite, donne svestite, donne in atto di svestirsi o di rivestirsi, donne che si atteggiavano come porchette su piatti da portata, donne che simulavano orgasmi o che li avevano, donne che gridavano, gesticolavano, inveivano, si divincolavano, supplicavano, ordinavano, ordivano, si contorcevano come contorsioniste di professione, donne che facevano le astronaute o le sceriffe o le Nembo Kid o le sterminatrici galattiche e poi, però, avevano paura di andare in ascensore, donne che piangevano, donne che si suicidavano, donne che imprecavano, donne che venivano violentate con e senza il loro consenso, con o senza tacchi, con o senza silicone, donne che si pittavano come indiani sul piede di guerra e indossavano perizomi, chiamati tanga, per prodursi in danze lubriche, donne che facevano le sdolcinate sbattendo enormi ciglia finte, donne che facevano table dance e sedute spiritiche, donne fortissime e donne debolissime, tutte svitate, tutte convinte di essere bellissime e insuperabili, il fiore della creazione, il sale della terra e contemporaneamente delle sceme, tutte fuori di sé, tutte pronte a denudarsi e a vendersi, le giovani perché fin dalla nascita non avevano mai visto o conosciuto altro che donne nude, le vecchie per dimostrare di avere tutti i requisiti per competere con le giovani, le adolescenti per dimostrare di essere già donne, le sportive per dimostrare di essere sexy, le intellettuali per dimostrare di non essere, poi, così burbere e di avere delle tette anche loro, essere donna ed essere nuda erano una sola cosa, una donna non poteva non essere nuda e quella nuda non poteva che essere una donna… Donne, donne, donne, da una parte, e, dall’altra parte del fossato, uomini, uomini, uomini, con le barbe non fatte, che ininterrottamente le fotografavano o le guardavano in fotografia e dicevano bella! e si masturbavano… “Porca miseria, ma che avete sulla Terra?!

“Il re della piadina” di Raffaella Bossi, Edizioni Il vento antico . A cura di Alessandra Micheli

Avevo davvero bisogno di staccare dai miei libri preferiti, quelli in cui si sviscera il male, lo si circoscrive (almeno a livello letterario ) e lo si affronta.

E cosi in mezzo a morti male (come dico sempre io) a zombie, a esseri provenienti dai regni dimensionali di Chtulu, ho deciso di leggere il re della piadina.

Anche perché al termine piadina le mie papille gustative hanno fatto una capriola di gioia.

Almeno leggere gli ingredienti di un piatto italico cosi delizioso, che ahimè la mia feroce nutrizionista pare non concedermi ( chissà per quale arcano motivo), sarebbe stato comunque un giubili.

Quindi lo ammetto, trascinata dalla gola, immaginando regni di carboidrati, laghi di Squacquerone, colline di parma, mi sono immersa in questo libro.

Che è..straordinario.

Non ci sono altri aggettivi per definirlo.

Straordinario per la sua complessa semplicità, per quel messaggio finalmente fori dagli schemi che è capace di usare la storia d’amore per descriverci un altro approccio alla vita.

Noi siamo, mai come oggi, attratti dal successo e dalle luci della ribalta. Vogliamo tutto e subito senza il gusto dell’attesa.

Desideriamo l’apparenza capace di nascondere sotto uno strato di strass, le nostre dolorose ferite.

Perché in fondo oggi la società bandisce la sofferenza come il male peggiore, come l’orrore abissale il peggiore nel quale l’affranto uomo possa mai cadere.

Senza più rialzarci.

E’ oramai sulla bocca di tutti o sui testi per dirla in modo post moderno, l’idea che quell’abisso possa corrompere l’uomo molto più subdolamente che il nostro benamato Belzebù con tanto di corna e odori sulfurei.

E cosi anche il demone della cupidigia e del vizio si ritrae da noi con gli occhi bassi, affranto perché l’essere nato dal respiro di dio ha scordato il potere rigenerativo del dolore.

Ecco come siamo messi.

Libri che esaltano una perfezione plastificata, sorrisi immoti e inquietanti, molto più dei ghigni di Belzebù ( tranquillo caro demone a me fai sempre paura, quindi sorridi e smetti di tenere il broncio).

Libri che raccontano come il vero destino dell’uomo è brillare come un led perennemente acceso.

E’ di raggiungere a ogni costo la cima della montagna, non tanto per ammirare il panorama dall’alto quanto per farsi un selfie stantio e dire io ci sono.

Ecco cosa succede.

L’ansia di successo equivale a definirsi.

Immaginate, dunque con questo scenario la mia emozione davanti alla…naturalezza non solo della scrittura ma della storia.

Ironica, delirante quanto basta e ferocemente contro ogni cliché.

Nella protagonista che è una donna che si ha successo, ma lo vive quasi come un elemento e neppure cosi predominante del suo meraviglioso arazzo: una vita intensa tra figli, cani, affetti e persino…unite udite, sofferenza.

E ragazzi miei, chi è il folle idiota che vi ha detto che, a ogni ferita rischiate di mettere a repentaglio il vostro equilibrio psichico?

Io vi rassicuro.

Voi siete già pazzi.

E il dolore non fa altro che raddrizzarvi.

Persino aprire quei begli occhioni cisposi e addormentati.

Quindi buttate all’aria questi falsi guru e iniziate a usare OGNI dolore come la chiave per rinascere.

Basta fare le mammolette.

Una tristezza vissuta con leggerezza come facente parte del pacchetto vacanze chiamato vita.

E l’amore?

Lei lo cerca ma cerca la sostanza.

Radici forti e ben piantate a terra.

Forti come gli alberi da ciliegio capaci di affrontare un devastante inverno per rinascere a primavera.

Brulla come la terra che per dare frutto deve essere lavorata con amore. Gustoso come appunto la piadina calda ricca di formaggio cremoso goduria e vero orgasmo per i sensi.

E libero, cosi come è libero il vento, libero di esprimersi fuori dagli schemi e dalle stupide convenzioni di noi umani.

Il re della piadina diventa una sorta di manuale di vita.

Non insegna a sopravvivere ma a esistere appieno con la sola forza dell’anima, quella che oggi grida di rabbia perché ingabbiata in tanti troppi legacci.

E allora spero con il cuore che il vero romanticismo prenda finalmente piede: è nella meraviglia di occhi che ti guardano, come se fossi un miracolo, anche se inizi a sputare noccioli di ciliegia attorno a te, come se fossi un lama.

E ti amano e ti sostengono anche nelle peggiori condizioni estetiche.

Grazie Raffaella.

Dal profondo del cuore.

Perché libri che parlano di vita, di vento, di terra e persino di fango sono troppo, troppo rari.

A proposito.

Sappiate che il mio stomaco ringrazia, perché non si è fatto soltanto una scorpacciata di piadine.

Ma anche virtualmente di tagliatelle al ragù e di montagne di arrosti succulenti.

“Il ragazzo che girava le viti sbagliate del mondo” di Andrea Pasquale. A cura di Alessandra Micheli

Questo è un libro dissacrante e pieno di scene esilaranti.

Uno di quelli capaci di strappare un sorriso, una risata, uno scatto ilare, una sghignazzata.

Insomma, un libro di svago.

Ammazza eh…

Un inizio di recensione avvincente vero?

E sono certa che alcuni di voi, preferirebbero questo tono leggero.

Io che spiego perché dovete leggerlo e scompisciavi dalle risate e non pensare e bla bal bla.

Ma sono Alessandra, non abbastanza ubriaca stasera, per non dare anche a questo piccolo gioiello un tocco di malinconia.

Del resto sono sempre un po’ ombrosa.

Lo spleen baudeleriano è stato seminato profondamente nel mio oscuro terreno, chiamato anima.

Quindi perdonatemi se vi narrerò il cuore di questo libro, che è tutt’altro che leggero.

O per meglio precisare, con leggerezza parala a ognuno di noi, tutti voi che come me e Falqui il protagonista girano al contrario le viti del mondo.

E sapete cosa succede?

Che il mondo davanti a noi diventa sghembo, storto e affatto ordinato.

Ci troviamo a fare i lavori più assurdi, a incontrare gente fuori di testa, personaggi bizzarri, a essere noi stessi macchiette viventi.

Con un ingenuità però rara, che ci fa apprezzare il colpo di fulmine mentre siamo scampati all’orrendo destino di essere falciati da un carro funebre, mentre ci accontentiamo del banale, convinti di non essere fighi abbastanza per meritare il Sogno.

Il grande sogno.

Che per ognuno è diverso.

Per me era il viaggio in macchina attraverso il Gran Canyon con hotel California sparato a palla.

Una vita selvaggia e mai ordinata.

Il caos e la libertà di Keruac tutta per me.

Per Falqui è il grande amore, quello che è la chiave per aprire le porte del destino e iniziare a vivere.

Ed ecco che ridiamo di lui apparentemente e invece, ridiamo con lui e iniziamo grazie alla sua assurdità a riflettere un po’ su quello che davvero vogliamo.

E fidatevi ridere con e di qualcuno fa tutta la differenza del mondo.

Ci mette in condizione di empatia e tramite l’altro, l’incontro anche con una donna a forma di patata, trovare la giusta via per raggiungerlo il grande sogno.

E magari iniziare a volerci un po’ di bene.

E apprezzare le proprie inaspettate doti.

Perché Falqui, un po’ come me, è disagiato.

Disadattato.

Sfigato. Sempre fuori posto.

Non dice mai la cosa giusta.

Va di pancia.

Ama tutto quello che il mondo civile considera stupido.

Ma ha la semplicità di saper vedere chi ha di fronte.

Anche se è l’ultimo scarto del mondo.

Ha la pazienza di accettare ogni occasione che qualche divinità

beffarda gli metta di fronte.

E accettarsi con tanto amore e benevolenza quel suo non saper girare nel mondo corretto le viti del mondo.

E cosi magari il mondo stesso gli crolla addosso.

E lui dice cavolo è la volta buona che mi sotterrano i detriti.

E invece no.

E’ proprio quel non saperci fare che lo salva.

Perché non è affatto tronfio. Non è l’arrogante, incapace di cogliere i piccoli miracoli.

Cosi stupido da non apprendere.

E forse questa la sua unica dote.

E lo scopriamo nelle ultime, dolceamare pagine.

E’ quella sua inettitudine alla socialità condivisa, a permettergli di conoscere il suo grande sogno.

E di amare.

E in fondo amare è vivere.

E se non viviamo, cosa ci facciamo quaggiù?

Falqui ha amici strambi.

Da evitare proprio.

Eppure.. anche se non sono cool, fashion glamour, sono sempre li.

A prendergli la mano e non lasciarlo solo.

E questo…fa tutta la differenza del mondo.

Leggetelo e divertitevi pure.

Ma lasciate anche che una lacrimuccia arricchisca le ultime pagine e disseti un cuore troppo inaridito, da troppa apparenza e da troppa perfezione.

Mamma mia ma che notte stanotte di stelle per noi

Canta tu, canto io, l’importante è non smettere mai

Mamma mia ma che notte stanotte di stelle e di idee

Sempre quelle, però sono belle, perché sono mie

E l’importante è chi il sogno ce l’ha più grande
L’importante è di avercela la gioventù

Mamma mia ma che notte stanotte di stelle per noi
Sempre quelle, però così belle, le hai viste mai?
Mamma mia ma che notte stanotte di stelle e di idee
Sempre quelle, però sono belle, perché sono mie

Roberto Vecchioni

“Invisibili” di Suellen Regys. A cura di Alessandra Micheli

Avete presente uno dei cliché più gettonati per i romanzi con sgumatra rosa?

Lui ricco, bello, arrogante e vincente.

Lei povera triste e sfiduciata.

Un incontro casuale.

Si incontrano per affari, lui strizza l’occhio e lei si sdilingua in squittii degni di un topo con la raucedine.

Lei cede, scatta la passione e con un jumbo jet degno di Jeeg Robot d’acciaio la porta in una località esotica, o banalmente a Parigi a mangiare croissant con lo champagne.

E in cambio lei deve cimentarsi in esercizi ginnici, sessuali, che neanche il famoso Juri Chechi potrebbe.

Che sogno vero?

Certo se vi piace questo stereotipo trito e ritrito e abbastanza assurdo ( il croissant con lo champagne vi procura un posto dritto verso l’inferno per oltraggio al gourmet).

Unica nota degna di essere riportata in questa recensione è sicuramente la mia Orticaria che spunta sempre in questi libri del genere.

Unica nota dolete…

Se vi piacciono trame di questo tipo però, scordatevi il libro invisibili.

Prima di tutto lui è si ricco, bello e vincente, ma anche tanto strano.

E’ il classico uomo che sparisce.

Letteralmente, ( dio che battutona).

Lei è si povera e inconsapevole del suo fascino.

Forse perché è vestita da marmotta.

Si.

Avete letto bene.

M-A-R-M-O-T-T-A.

Ovviamente sa Suellen Regis non potevamo aspettarci niente di meno.

Dopo pinguini presi in arresto.

Dopo un agente di polizia totalmente folli, non potevamo non avere anche la marmotta gigantesca.

E questa visione creerà dei drammi nel bellodannatoeiosonofico vero?

No.

Cioè il cliché del macho cade rovinosamente quando, dinnanzi alla scena surreale, il soggetto (maschile) si chiede ma le marmotte sanno nuotare?

Ti trovi davanti a una vestita da urside. A

cida e isterica, tanto da assomigliarmi.

E tu chiedi se sa nuotare?

Certo il dato più agghiacciante è quello in cui io la faccio diventare la domanda fondamentale della mia vita.

E solo per questo fossi in voi, scapperei lontano da questa pseudo-blogger, più strana dei personaggi di Sueellen.

Ma sono abili nuotatrici o no?

Ma non divaghiamo.

Ecco cosa accade quaNDO entriamo nel weird mondo colorato delal nostra autrice.

Tutto perde di senso.

Tutto diventa assurdo e bizzarro.

Troviamo personaggi totalmente alieni dalla nostra realtà come il genio Darwin

Oddio io amo Darwin.

E amo la sua defunta e rediviva zia.

Eppure..

Come ho sempre spiegato il surreale è un modo più sofisticato degli altri (pagami Suellen) per disinnescare abitudini mentali e schemi precostituiti con i quelli troppo spesso ci approcciamo ai libri o alla realtà.

Siamo cosi abituati a pensare per comparti stagni da diventare abitudinari.

Dormienti e amanti delle soluzioni facili.

E cosi assuefatti al cliché che esso, da elemento costitutivo della narratologia, e quindi bene accetto, diviene stereotipo.

E sapete la differenza tra cliché letterario e stereotipo letterario?
Il cliché viene usato per facilitare il discorso letterario, sapendo però che esso non esaurisce la vastità della vita.

Lo stereotipo ci usa, rendendoci afoni e dormienti nei confronti della complessità della vita.

Lo stereotipo, insomma, diviene la comodità che ci permette di non muoverci, di non cercare, di non pensare.

E cosi il pensiero si obnubila.

Ecco che in una situazione cosi atrocemente sonnacchiosa e per nulla serena ma anzi inquietante, dove il cervello assomiglia più a una larva di ascaride, il bizzarro, il weird, il nonsense ci sveglia.

Qualcosa non quadra o come dico sempre io qalchequadra non cosa.

È tutto diverso, distorto, per nulla rassicurante.

E’ come i quadri di Escher, dove si deridono le proporzioni, la prospettiva e la logica acclamata.

E ci da cosi fastidio anche se ci fa ridere, che il cervello finalmente si comporta come la bella addormita della favola: si sveglia.

E iniziai a aver fame.

Di domande più che di comode risposte.

Di fantasia e di innovazione.

E di concetti che siano liberi di trasformarsi anche nei loro opposti.

Cosi, ridendo, Sueellen ci fa riflettere.

Perchè i suoi personaggi non sono solo pazzi, folli, strani, anti-sistema, anti-clichè.

Sono anche…invisibili.

Da Dorenn al suo Niol.

Da Darwin a Gillian fino a arrivare a Alain.

Sono invisibili.

Non sono considerati dalla società perché non rispondono a schemi ben prestabiliti.

Non sono poveri citrulli.

sono folli e al tempo stesso lucidi.

Sono soli, con un carico di dolore che non ha smorzato la loro caparbietà, quella di lasciare un impronta nella vita.

La loro, non quella di un selfie o di una foto trendy.

Cosi come sono, imperfetti, pieni di ferite ma ancora capaci di accogliere l’impossibile.

Ed è quell’impossibile che li fa esistere, che gli fa incontrare la dignità e persino l’amore.

Contro il male che si nutre di potere e di successo arriva il valore dell’invisibilità.

Sapete perché?

Perché ogni invisibile ha una storia importante da raccontare.

Ha sforzi e unghie per non lasciarsi annichilire dal biasimo societaria.

Ha un valore umano da tenere appuntato nel petto.

Perché dietro l’invisibilità di una storia che ignoriamo c’è il valore universale della compassione.

Che significa vibrare con l’altro.

E allora la risata avrà un retrogusto importante, quello della commozione.

E inizieremo forse, lo spero, a vedere più l’altro non come mezzo o occasione mondana, ma cosi com’è.

Assurdo, impossibile, strano ma è quello che ci fende umani.

Che fate, ci provate a divertirvi e a pensare con Invisibili?

Dai pensate.

Non c’è ne lookdown ne una tassa sul pensiero.

Provateci.

“Il miglior futuro possibile” di Suellen Regys. A cura di Alessandra Micheli

il miglior futuro possibile

 

Ho rimandato finché ho potuto questa recensione.

E non perché non avevo idee o ispirazione, o voglia di raccontarvi il libro di Sueellen, ma perché una volta scritta averei lasciato andare Doreen e Puzzolo.

E Marrell e tutti i stralunati protagonisti della sua assurda ma fantastica vita.

Con il secondo libro avrei dovuto dire addio a qualcuno che era divenuto mio amico, un altro mondo immaginario da visitare nei giorni di scoramento e nei momenti bui, in cui ogni senso e significato mi sembrava irraggiungibile, come una lontana luna di chissà quale astruso pianeta.

Ma c’è anche di più.

In questo mondo di plastica, dove gli eroi sembrano patinati con dei sorrisi finti che Alvarez ( il Ken umano) al confronto sembra un minatore belga, io mi trovo fuori posto.

E’ un universo fatto di sorrisi a trentadue denti più Iva, fatto di apparenza, di foto carine, si bellezza stereotipata, di tutorial di trucco in cui improvvisamente dopo due pennellate di stucco da un viso alla Fernnadel ti ritrovi sulla passerella di miss universo come controfigura di Sharon Stone.

Io non sono adatta proprio per questo strano cosmo.

Io sono quella che dorme sul divano con la bocca aperta rischiando di inghiottire mosche.

Sono quella che scivola tirando giù ogni santo del paradiso di ogni religione, sulla cera appare passata dalla perfida portiera,(che sono sicura è un rettiliano in incognito con l’intento di eliminarmi).

Sono quella che è convinta che nella sua lavatrice abitino un nugolo di perfidi folletti intenti a rubare calzini per creare armi batteriologiche con cui assoggettare noi stupidi umani.

Sono convinta che il mio gatto provenga da un altro sistema solare con l’intento di spiarmi per passare informazioni segrete ai suoi superiori.

Ma sa di essere capitato nella casa di un umana totalmente fuori testa, che litiga con il pettine perché mentre districa nodi la rende quasi pelata.

Che urla all’olio della pentola “stavolta non sei stata capace di bruciarmi”.

E che nonostante viva e cammini nel mondo, sia in realtà totalmente altrove. Ecco leggendo le avventure di Doreen io mi sento a casa.

Lei imbranata e cosi pronta a accogliere l’assurdità assomiglia stranamente a me.

Anche nel suo strano romanticismo, anche nella sua poca pazienza.

Ma non è solo un’empatia tra disagiate a avermi fatto innamorare di lei.

Vedete, dietro ogni nostra bizzarria totalmente Weird si nasconde qualcos’altro che ci fa essere guardate con sospetto dal resto dei terrestri…

Crediamo nella giustizia e nel merito.

Vogliamo essere professionali a ogni costo, anche se ci ficcano negli uffici più strani a impilare pratiche, a spazzare polvere o a fare qualsiasi cosa assurda.

Quando si stupiscono che il mio lavoro gratuito è portato avanti con minuzia, passione rispetto e disciplina mi guardano tutti storto.

Non ti pagano dicono.

Come se l’amore, se la fantasia scattassero solo davanti alla pecunia.

Come se la mia mente diventasse intelligente solo in presenza di un contatore. Vedete chi ama davvero quello che fa no conosce limiti e condizioni.

Lo ama e basta.

E ci si dedica anima e corpo non soltanto perché si sente bene a farlo. Ma perché è giusto cosi, perché non saprebbe farne a meno.

Perché è quello che la sua anima gli dice di fare.

Non serve un compenso, un successo per realizzare i propri sogni.

E’ una delle nostre leggende personali, quelle che ci restituiscono un identità e una sorta di sorriso.

Che brilla anche se il mondo ci ignora, ci deride o non ci sente.

E’ la meraviglia di seguire la propria strada, è la libertà semplicemente di essere se stessi.

Doreen è cosi.

Totalmente convinta, nonostante gli ostacoli, pinguini, le malelingue di cosa ha scelto.

Nonostante il mondo la voglia comprare o la voglia far diventare un altra pedina in un sistema che vince perché rende tutti comprabili.

Tutti ricattabili, tutti capaci di cedere alle lusinghe delle tentazioni.

E la bellezza di Doreen non è essere pura, o incontaminata o qualsiasi altro aggettivo pomposo.

E’ essere semplicemente Doreen cosi come io sono semplicemente Alessandra. Folle, assurda strampalata, ma semplicemente me.

Senza voler piacere al mondo, senza voler dimostrare qualcosa a qualcuno se non a me stessa.

ma Doreen soffriva della maledetta ostinazione di voler rendere onore alla propria divisa e al giuramento fatto il giorno in cui l’aveva ricevuta, 

La conosco quest’ostinazione.

E’ la mia.

Tener fede al patto che ho fatto quando la mia coscienza si è svegliata e mi ha detto ehi tizia strana come diamine la voglia vivere quest’avventura chiamata vita?

E allora ho scelto.

E scegliendo non ho mai avuto la seduzione dell’abisso.

Non mi interessava.

Candidamente ero cosi fissata sulla mia leggenda personale che il resto era solo un contorno che non offuscava la bellezza della melodia che mi accompagnava.

Doreen è cosi.

E’ quello che leggerete quello che imparerete se vi lascerete affascinare dalla sua radiosa bellezza

Non ti sei mai risparmiata. Avevi tutti i diritti d’essere in collera con il corpo di polizia o con i tuoi superiori. Nessuno ti aveva creduta o appoggiata. Eppure hai continuato a lavorare con tutta te stessa, senza prospettive di miglioramento.

Capite la bellezza di questo libro?

No?

E siete più tardi di un cercopiteco.

Continuo allora.

Era riuscito a ricordarle chi fosse. Rammentò ciò che aveva pensato il giorno del suo giuramento in polizia. Servire e proteggere. Le era parso un motto meraviglioso. Da mettere in pratica sempre, non solo in servizio, ma anche nella vita privata. Il suo compito era fare in modo che la legge fosse uno strumento di pacificazione, non ergersi a giudice e sparare a sangue freddo a un uomo. 

Capite?

Chi è semplicemente tutt’uno con la sua vera natura, chi ha la fortuna di non averne timore, nonostante il mondo ti definisce cosi

Se potessimo aprire quella testolina, troveremmo degli hobbit ubriachi fradici”

Continua a camminare.

E si rendi impermeabile al potere maligno della frustrazione e dell’odio di se che avvelena corpo e anima, rendendoti solo una pallida imitazione di un essere umano.

E anche se oggi con la mia recensione ti saluto sorella mia, so che in fondo sei una parte di me, che non mi lascerà mai.

Grazie a te Suellen per avermi resa orgogliosa di ciò che sono.

E grazie Doreen, scarto tra gli scarti umani, disastrosa sia nell’aspetto che nei modi,imbarazzante creatura, sempre fuori posto, sempre desiderosa di fare la cosa giusta e mai davvero capace di riuscirci. 

“Caffè coppede” di Daniele Botti, Alter ego edizioni. A cura di Alessandra Micheli


download.png

Si svegliò, guardò nell’alba e l’alba era lì senza memoria;

camminò la terra ormai da anni senza tempo e senza storia:

e fin dove gli occhi andavano non un suono,

non un fiore rise e raddrizzò le sagome dei suoi alberi in cartone;

strinse in tasca i semi inutili come il torto e la ragione:

nel cervello già sfumava l’ombra e con l’ombra ci viveva…

s’infilò come abitudine l’ago,

quello di ogni sera

e i fantasmi ritornarono per tenerlo vivo ancora.

E’ il nuovo anno che bussa alla mia porta.

E mi invita a guardare la possibilità e le novità che ha da donarmi.

Anche lui vuole essere protagonista della storia.

Magari non con guerre e orrori.

Vorrebbe regalarci sogni e cultura, parole e poesie.

Vorrebbe solo che una musica diversa risuonasse per queste strade deserte, deserte di gioia e sorrisi.

E’ da tanto troppo tempo, che viviamo come morti, zombie comandanti da un Enneade di saggi, che forse neanche ci manipolano, quello lo facciamo benissimo da soli.

Loro sono assisi su troni d’oro intenti a indicarci per noia come vestirci, come pensare, su cosa indignarci.

Ci obbligano a ballare la musica più stridente, spacciandocela per un opera di Paganini.

Balliamo convulsamente la nota del diavolo, in cerca di un oblio o di un emozione che ci faccia sempre sentire il cuore in gola.

E mastichiamo slogan che perdono il peso e il senso della parola.

Perdono la magia demiurga di creare porte per arrivare su altri universi e perdono la capacità di farci ridere delle nostre assurde ossessioni.

La libertà ci è negata, come se fossimo costantemente osservati da un occhio onnipresente e onnisciente, come se vivessimo davvero dentro una città comandata da qualche strana setta.

Allora ho invitato il nuovo anno a entrare cercando di indagare nella sua mente.

Sei davvero un anno che vuole fare la differenza?

O Sei il solito millantatore da cui debbo difendermi?

E allora nel dubbio ho preso il mio libro preferito, Caffè Coppede e l’ho usato come scudo per evitare ogni assalto pericoloso.

Ho aperto quelle pagine che profumano di fiori, di rose e ho iniziato a leggere nuovamente le assurde avventure del mio Saverio Trinca. Sapendo che la risata avrebbe sconfitto le ombre e che il vedere i difetti resi eclatanti dalla bravissima penna di Daniele mi avrebbero aiutato a crescere.

Perché solo attraverso quelle pagine in bilico tra denuncia sociale e irriverente humor nero, posso trovare la chiave per maturare.

Nasciamo tutti come Trinca, impegnati alla ricerca della sicurezza, impegnati a inchinarci fantozzianamente al re di turno.

Impegnati a nascondere la peggiore verità sotto il tappeto del simbolo.

E cosi se un libro vi svela la via della consapevolezza, vi svela che siamo tutti sudditi di potenti che si divertono a giocare a intellettuali o chissà che esoteristi, mentre mangiano e bevono godendosi la nostra servile compiacenza, allora forse una speranza di essere migliori di come oggi appariamo, esiste.

Caffè Coppede, al pari di Forno inferno è il libro che rivela, meglio di un dotto Picatrix.

Migliore di un Corpus Hermeticum.

Svela che l’unico vero esoterismo, ossia ciò che è celato ai più, è quello di un compianto scomparso uomo, che oggi si indigna per le scemenze ma lascia che fatti di cronaca si svolgano sotto il suo sguardo complice.

Vi invito a trovarli in questo testo.

Vi invito a scavare grazie alla risata il substrato sociale che fa da sfondo alle esilaranti e al tempo stesso amare vicende di questa strana setta, che governa Roma, dove in fondo assassini e vittime si confondono in una folla danza carnevalesca.

Cosi come la vita confonde gli indizi e fa passare il truce come un eletto, il brigante come un eroe, il cattivo come il buono di turno.

Che fa passare l’umanità vestita come un clochard il male assoluto mentre la violenza nascosta dietro lo smoking viene quasi invidiata.

E allora Grazie Daniele per spiazzarci, perché ogni risata nasconde una domanda.

E la domanda, anche senza risposta, ci invita a cercare.

E quindi a muoverci e viaggiare.

E chi viaggia non torna mai come prima.

Ogni assurdità, a tratti eccessiva e grossolana ci fa riflettere su che razza di mondo stiamo difendendo.

E magari una volta compreso questo arcano segreto, capiremo che la vera bellezza del grottesco rappresentata dalla stranezza del Coppedè è nell’armonica imperfetta simbiosi di ogni elemento.

Bizzarro e logico convivono.

Assurdo e consuetudine si abbracciano fondendosi in qualcosa di unico e di bello.

Nessuno lotta per primeggiare.

Allora anche l’oscurità, che torna a casa, torna a essere inserita in una complessità che oggi vogliamo solo negare, diviene meno pericoloso.

Perché è isolando ogni elemento del nostro vivere, ogni tassello della nostra anima che rende il mondo una selva oscura da temere.

E’ quindi con la riunione degli opposti, che forse l’etica diventa più umana.

Mentre i grandi discorsi, l’esaltazione della banalità del grande ideale non è altro che un alibi dietro cui si nascondono i potenti.

Ma sono davvero potenti?

Perché in caffè Coppede sono tutti macchiette, sono tutte grottesche caricature.

Sono cosi esagerati da rappresentare loro l’eccezione.

L’uomo è molto di più di cosa leggiamo.

E allora è lo stupirsi l’indignarsi e il ridere di quell’abominevole illogicità la nostra arma di difesa contro il “male”.

Ecco perché visto che non so che anno sei caro 2020 mi difendo da te e dai tuoi eventuali tentacoli, stingendo a me questo prezioso libro.

 

 

“Nero Dostoevskij” di Antonio Mesica, Scrittura & Scritture. A cura di Alessandra Micheli

51fuXXU4eBL.jpg

 

 

La risata è capace di creare meraviglie.

La risata sconfigge anche il male.

Non è un caso che la nostra amata Rowling la usi come rimedio per il male oscuro, quel dissennatore/depressione che ruba ogni ricordo felice, lasciandosi dietro solo macerie e nero abisso.

E’ un concetto che ho ripetuto più volte e che non mi stanco di ripetere: è solo con la leggerezza, che possiamo guardare ogni dettaglio del nostro più acuto dolore come se fossimo assisi su un trono nell’alto dei cieli.

E come appaiono limitati gli orizzonti e cosi piccoli gli uomini!

E cosi capiamo che persino quel male che ci terrorizza, quello che non fa che tentare di distruggere un armonia discesa direttamente dalla mente di dio, ci appare per quello che è, il patetico tentativo di attirare la nostra attenzione, di un finto distruttore messo in un angolo, come punizione per qualche atavico sgarbo. Ogni schiaffo, ogni piccolo sopruso appaiono solo i capricci di un infantile lagnoso personaggio.

E cosi anche i grandi orrori sono altro che la banalità di chi, quel cielo, non riesce a raggiungerlo. Se lo raggiungessimo non avremmo bisogno di null’altro, perché basteremmo a noi stessi.

Anche i peggiori crimini che oggi veleggiano nei nostri Tg, non sono altro che frutti di un banale quando oscuro sentimento, quello che al pari del dissennatore divora ogni sentimento positivo e ogni creatività, la noia.

Ci annoiamo cosi tanto da non farci bastare ciò che abbiamo.

Ci annoiamo cosi tanto che cerchiamo sempre qualcosa in più.

Bateson lo chiamava l’acme, il raggiungimento di un apice che agirà su di noi come una droga.

Vogliamo sempre di più, sempre maggiori dosi.

Desideriamo con un ossessione che rasenta la follia, il livello successivo andando sempre un po’ oltre il confine del lecito e dell’etica.

E cosi all’osservazione di quei pochi eletti capaci di apprezzare il solo fatto di essere vivi e di respirare, appaiamo come impazzite formiche ubriache di eccessi.

La noia.

Sembra cosi stupido da raccontare eppure è il peggior male che apre le porte dell’abisso.

La noia di sentirsi semplicemente umani.

In fondo il burlone che propagandò nel 46 il mito dell’uomo qualunque non era cosi fesso; era il tentativo di riportare alla normalità un mondo che aveva conosciuto il peggiore degli acmi. Quella volontà pazzoide e esacerbata di sentirsi unici di dominare il mondo, di porsi come balsamo graaliano del nostro malato tempo, fino a dividere il mondo in utili e inutili in esseri umani e in scorie. Un’assurda cesura che aveva rosicchiato qualcosa dentro di noi aprendo la strada all’illecito.

Ma questa è un altra pessima storia.

La risata ci fa scendere dal piedistallo fatto di ossa e di macerie.

Ci fa comprendere che la nostra visuale era semplicemente offuscata da questa strana noia che ci faceva illudere di essere sovrumani, che ci raccontava come la semplicità fosse solo per uomini mediocri.

E’ quello che oggi ci tortura.

E ci condanna a una vita in eterna competizione l’uno con l’altro, per emergere, per darci una spinta, per sentirci meravigliosi, sexy, intelligenti, colti, talentuosi.

In fondo, Nero Dovstojasky nella sua assurdità, in quella risata amara, nel descrivere con cruda semplicità tutto questo edotto mio “trattato”, è uno specchio di noi stessi.

Capitati per una botta di culo in un mondo privilegiato, capaci di prendere in modo ossessivo tutto quello che possiamo, riempendoci occhi, mani e bocca di parole e di emozioni, di oggetti e di possibilità.

Ma la noia, compagna di ogni giorno, vizio dei ricchi, di chi non sente più ogni piccolo privilegio come un dono, determina il crollo del nostro brillante protagonista.

E non si può non provare simpatia per lui.

In fondo lui è una parte di noi stessi

. Siamo noi Oscar Peretti, ognuno con il proprio demone.

Ognuno con la propria padrona da gestire o da sognare di far fuori. Magari è la bolletta di equitalia, più che un vizio.

O magari è la consapevolezza di sogni perduti.

La certezza di vivere in un mondo di furbi e dover lasciare i sogni per adattarsi a questo gioco di poker in cui si sa, il bluff è la prassi.

E cosi Oscar diviene una macchietta, un eroe che non si fa prendere, ma che al tempo stesso cerca invano di salvare qualcosa: la sua fantasia. Oscar è capitato in un mondo brillantinato, fatto di proprie leggi.

Ma è fondamentalmente alieno e tiene stretto dentro di se la capacità di ridere, di se e degli altri.

E nelle bugie che inventa, nel racconto dissacrante del suo dramma, ci dona un sorso di aria pura.

Strano essere vicini a Perotti vero?

Io ligia alla giustizia e alla legalità.

Eppure una parte di me, mentre rideva a crepapelle, si diceva ehi in fondo il nero non è altro che lo specchio della vita di tutti i giorni.

In fondo non era quello che ci raccontava il nostro buon Dostoevskij?

Nei suoi libri non denigrava forse la società cosi ligia al dovere e alla giustizia?

Non era lui che ci sbeffeggiava con l’idiota?

Il nostro Fedor mi piaceva perché lucidamente l’insoddisfazione dell’essere umano. E indagava nei meandri oscuri del proprio io, cosi legato alle idee e a un certo concetto morale

E allora ogni personaggio, cosi come ci insegna Fedor, non è altro che una parte di una coscienza che si dibatte tra le forze di un mondo che ci muta, che ci cambia e che ci mette alla prova, che ci regala qualcosa, ma al tempo stesso ci rende lucidi che non è quello di cui avevamo bisogno. Non è la ricchezza che farà di Oscar un uomo felice e libero.

Non è l’amore che lo renderà davvero uomo.

Non è nulla di ciò che esternamente bramiamo.

E’ forse dentro di noi, è forse un attimo, un istante, un fuggire e ricostruire in un mondo meno ancorato alle convenzioni. Un mondo meno patinato, meno politicamente corretto, meno improntato sul non si fanno è conveniente.

Magari è un costruire l’intera nostra esistenza semplicemente…sulla propria anima.

O forse anche Oscar è alla ricerca della verità su se stesso.

E forse è quando cade, sbaglia, cede che diventa davvero uomo.

E mette a nudo se stesso.

E cosi Mesica mentre ci fa ridere, ci regala domande.

Domande a cui non ho forse risposta, ma che sono importanti anche solo perché permettiamo loro di invadere il cuore.

E darci la possibilità di muoverci, verso una risposta che forse non avremo mai.

Ma che diventerà la nostra meta.

E cosi diventiamo uomini dell’idea.

Non saggi, non ideologhi ma mossi dalla volontà di raccoglierla quest’idea come l’unica speranza per uscire da questo manicomio che noi chiamiamo vita.

Allora ridiamo con questo libro e muoviamoci alla ricerca di qulla chimera che ci sfugge.

Anche se significherà guardarsi profondamente, fino in fondo al proprio io.

In fondo Oscar Peretti si guarda davvero.

Non è bellissimo, non è intelligentissimo, non è saggio.

Non è un eroe.

Ma alla fine mi è simpatico lo stesso.