Siamo energia. A volte oscura. A cura di Barbara Anderson
Ben ritrovati carissimi lettori oggi siamo qui per parlare di una nuova lettura, qualcosa di molto particolare, qualcosa di incredibilmente avvolgente.
Spesso la parola avvolgente ci dà la sensazione di abbraccio, di protezione; ma se ci soffermiamo sull’aspetto oscuro della parola quell’avvolgere potrebbe essere perfino inquietante ed è inquietante ciò che ho appena terminato di leggere.
L’inquietudine è una di quelle emozioni che amo trovare nelle letture che esploro.
Tutto ciò che scuote una porzione della mia anima, soddisfa le mie necessità di stimolazione emotiva di lettrice accanita.
Facciamo una piccola premessa:tutto è energia, siamo energia, viviamo di energia e questo è tutto ciò che esiste.
Si dice che se ci sintonizziamo sulla frequenza della realtà che desideriamo otterremo quella realtà
(A. Einstein).
Bisognerebbe sempre che prestiamo molta attenzione a ciò che accade dentro di noi, poiché è quello che abbiamo dentro che determina la frequenza con cui vibriamo nell’universo.
Alcuni di voi conosceranno probabilmentel’Orgone, il concetto che fu proposto negli anni 30 daWilhelm Reich un concetto che descrive l’energia esoterica, un substrato creativo associato all’energia vivente.
Tra le sue teorie Reich asseriva anche che il deficit dell’Orgone corporeo fosse alla base delle malattie come il cancro.
(Vi invito assolutamente a fare una piccola ricerca sulle teorie e gli studi di Reich poiché sono molto affascinanti e interessanti)
Ma quindi questo romanzo tratta delle teorie di Reich? No ma ne esplora e ne dimostra in maniera assolutamente affascinante la possibilità.
In che senso?
Difficile da spiegare la profondità di questa storia senza cadere in spoilers ma lasciatemi dire che cosa mi ha trasmesso questa lettura:
Il caos.
Sì il caos, il disordine primordiale, quello disegnato dalla mitologia greca, ciò che esisteva prima del resto degli dei e delle forze elementari: lo spazio, il vuoto, la voragine, l’abisso, il buio precedente la creazione del Cosmo.
No vi assicuro che non sto vaneggiando in preda a qualche sostanza stupefacente, ho elaborato e ricercato ciò che questo romanzo mi ha trasmesso ed è stato sorprendente sotto ogni aspetto.
La narrazione così profonda, così pregna di concetti importanti e primordiali, così attenta e minuziosa nella capacità di trasportare il lettore nelle viscere della sua storia; intrappolandolo nella curiosità, nella ricerca, nella scoperta di qualcosa di maligno, di malvagio non attribuibile al concetto di paranormalità né tantomeno a quello del Diavolo.
Qui si parla di qualcosa di più antico, di più profondo, nato precedentemente a tutto ciò che abbiamo sempre definito il male e la sua pura essenza.
Sapete cosa penso dei libri che leggo, essi sono dei viaggi che portano il lettore in un altrove reale o immaginario e vi garantisco che son rimasta esterrefatta quando ho compreso che questa storia mi stava portando in un luogo in cui sono stata e di cui ho dei ricordi piuttosto inquietanti.
Se avessi letto questa storia prima di quel giorno in cui nel 1987 mi recai proprio lì in quel luogo durante una delle mie esplorazioni notturne con la mia migliore amica per le strade e i quartieri più cupi e sinistri della mia città natale, Roma: via dei Clementi, il quartiere Coppodè composto da edifici e strade progettate dal visionario architetto Gino Coppodè. Un luogo davvero bizzarro, affascinante, inquietante: 18 palazzi e 27 edifici in un mix di stili che vanno dalla Roma antica, al gotico, bizzarro e orientale.
Un’architettura che ha forti influenze di ispirazione simbolica e mitologica che rendono quel complesso architettonico soprannaturale.
Se vi trovate a Roma vi consiglio vivamente di visitare questo quartiere in cui sono stati girati anche molti film tra cui il famoso Profondo Rosso di Dario Argento.
Sembra un luogo di iniziazione esoterica, sembra il luogo che custodisce un portale, sembra quasi uno spazio in una rete di energia vitale fatta di strade, di vicoli, di edifici della Roma che pulsa di energia umana, storica e artistica.
L’autrice non avrebbe potuto scegliere un luogo migliore di questo per raccontarci la sua storia.
Date anche un’occhiata alla storia e alla vita dell’architetto Coppodè che apparteneva alla società Massonica e poi osservate, magari solo attraverso Google maps street view, quel quartiere e ditemi se non vi sembra davvero che sia un viaggio iniziatico.
Ne percepirete la forza sulla vostra stessa pelle un po’ come prima di essere colpiti da un fulmine dove l’effetto della stasi solleva i vostri capelli e la vostra peluria. Un’attrazione, una forza e un’energia.
I salmi della apocalisse è un romanzo forte e impegnativo che vi assorbe e assorbirà le vostre più intime paure.
Quante volte nel silenzio della vostra stanza di notte avete percepito i rumori, i suoni della vostra abitazione?
Come se questa fosse un’entità vivente.
Il legno delle scale che scricchiola senza che nessuno stia camminando sopra, le tubature che sembrano spostare l’acqua all’interno, piccoli passi di insetti che dalla soffitta sembrano correre all’impazzata da un angolo all’altro.
Tutto ciò che la nostra casa assorbe durante il giorno sembra quasi aprire le sue immaginarie fauci per rilasciare tutta l’energia che è rimasta intrappolata tra le mura, tra gli interstizi, tra le crepe di ogni parete, di ogni porta.
Quando parliamo di energie ovviamente dobbiamo tenere conto anche delle energie extra fisiche, oscure, quelle che non sono misurabili ma bensì percepibilidalla nostra psiche e dal nostro inconscio.
La lettura di Miriam Palombi ha riattivato una catena energetica nella mia testa, affascinandomi, aumentando la mia curiosità che mi ha fatto chiudere il libro più volte per andare a fare le mie ricerche, che mi permettessero di comprendere meglio ciò che stavo leggendo.
La scoperta di cose che avevo studiato, di altre che avevo letto, di cose che avevo visto con i miei stessi occhi, la voglia di esplorare il buio, l’oscurità, l’assenza, lo spazio che si crea tra la fitta rete di energia che ci circonda per poterla riempire con ciò che fa parte di me e della mia anima.
Partendo dal 1923 fino al 1998 scopriremo lettere antiche che celano inquietanti segreti e scoperte, Clara e il suo dolore per ciò che non porta più in grembo, Terenzio e i suoi specchi, Sveva e i suoi cupi sogni, Bruno il custode, i piccoli Sara e Elia.
Una narrativa intelligente, un libro che trasmette una forte energia attraverso le sue pagine, ombre che diventano reali, che si insinuano nell’anima del lettore, che scavano nella profondità dei nostri più effimeri segreti e paure.
I sussurri che sembrano voci, lamenti, che a volte ci danno la sensazione di chiamare il nostro stesso nome.
Ci si sente affascinati, ammaliati, attratti verso quel vuoto, quell’oscurità fino a essere trasportata all’interno di quell’edificio che sembra vivere di vita propria; che sembra un’entità viva dove la caldaia è il suo cuore, dove gli appartamenti sono la parte emorragica delle sue pulsioni, delle sue necessità, delle sue emozioni.
Cola dai muri quell’oscurità che si insinua nella nostra testa, che ci afferra per la gola fino a toglierci il respiro.
Un libro che attraverso la sua storia si nutre della nostra stessa energia.
Cosa si cela tra le mura del palazzo Daceth? Quella struttura così complessa dove gli errori architettonici non sono un caso; dove le mura parlano, le tubature suonano, dove ogni crepa, ogni intonaco che si stacca dalle sue pareti ha bisogno di nutrirsi di ossa e di sangue, un edificio che sembra insaziabile dove alcune persone scompaiono dove altre sembra perdano la propria ragione fino ad impazzire.
Le pareti che si muovono, dove si sentono echi come di tamburi di un’etnia antica.
La pioggia e i lampi che illuminano le zone oscure di quell’edificio che sembra fermo mentre dentro di sé tutto si muove.
Tra la simbologia e la mitologia espressa nell’architettura dell’edificio; con il fascino della numerologia utilizzata da Coppodè per dividere e numerare gli appartamenti, numeri che sembrano salmi, che sembrano coordinate per l’inferno.
E la schizofrenia di Elia dopo aver subito il trauma per la scomparsa della sua amica da bambino, i ricordi del fuoco, le allucinazioni, il senso di colpa per la morte di sua mamma.
Si vive in bilico tra la follia e la realtà, tra la luce e l’oscurità e ci si perde cercando di capire se tutto sia frutto di un’allucinazione collettiva ossia pura ed essenziale, primordiale realtà.
Leggendo percepirete un’atmosfera putrida di morte che non vi spaventerà ma che vi attrarrà e vi sedurrà.
Noi stessi siamo come edifici costruiti sulle macerie dell’anima e del dolore, siamo strutture viventi fatte con intonaci di sangue, di lacrime e di fluidi corporei.
Siamo un progetto folle di un antico architetto che gioca con le forme: quelle del cuore e quelle dell’anima, lasciando negli spazi vuoti il caos delle emozioni.
Abbiamo tutti una parte mancante, un vuoto, dei varchi tra lo spazio e il tempo.
Abbiamo paura dell’oscurità eppure è proprio nel buio che si aprono le porte è lì che la mente crea i suoi spazi.
Attraverso la storia di Elia impareremo a osservare, a comprendere, ad assimilare, ad abbandonarci e ad accettare la verità.
Tutto è necessario.
Anche il buio, anche il vuoto.
Anche la morte.
Soprattutto leggere questo romanzo che si infiltra come una muffa nelle pareti della vostra anima tra blatte e sangue, tra l’inizio e la fine della nostra esistenza.
Bello affascinante, macabro e spettrale.
***
Abbiamo bisogno dell’orrore. A cura di Alessandra Micheli
Sul finestrino opaco di umidità della mia finestra, mi sono ritrovata a scrivere
Nella sua dimora a R’lyeh il morto Chtulhu dorme sognando.
E mentre vergavo questo mantra, con attenzione e caricando la preghiera di ogni mio spasmo emotivo, mi sentivo sempre meglio.
Al che, fermata a contemplare la notte, densa di umidità cosi scura senza una luce all’orizzonte un po’ simile alla nostra Anima, mi sono chiesta perché una mitologia che dovrebbe terrorizzarmi, allontanarmi schifata dalla anormalità di quelle figure, è diventata per me una sorta di posto segreto.
Il mio posto preferito, quello in cui rifugiarmi quando la corda del mio io si spezza, perché troppo tirata dalla fatica, dalla frustrazione e dal tempo che avanza con ghigni malefici.
E cosi con questa domanda, ho guardato il libro sul mio comodino.
I salmi dell’apocalisse.
E so che dovrei provare lo stesso terrore ancestrale, di fronte all’oscurità dei simboli tracciati dalla penna di Miriam.
Ma quel palazzo, che risucchia la luce, simile a un terrificante buco nero, è al tempo stesso quasi rassicurante, quando ti chiama a appartenergli, e a lasciare tutta la vita razionale a marcire una volta chiusa la porta.
Palazzo Daleth è in fondo il ricettacolo di ogni male.
Assorbe l’altro e lo rende parte di se.
Usa quelle ley lines per creare un portale blasfemo, da cui lui il Caos Strisciante possa giungere, attraverso la strada fatta di stelle, e dominare questo piano di esistenza.
Noi, che leggendo Miriam e tutti i miti rivisitati di Lovecraft ci sentiamo finalmente parte di qualcosa, sappiamo che dietro l’orrore del racconto, il simbolo è davvero molto diverso.
Noi che viviamo in un mondo che apparentemente è ricco di bellezza, ci trasciniamo come morti viventi, lacerati, avvizziti, prosciugatati da una vita che scorre famelica su di noi e a tratti insensata.
Non ci sacrifichiamo per far parte di un alveare.
O vogliamo essere impastati con la calce perché sia costruita la porta verso oscure stelle. Non siamo cibo per i grani antichi o i servi di un caos strisciante.
Tutto finisce nell’oblio, nell’immondezzaio di un mondo che ci tratta come prodotti. Non siamo importanti in quanto umani, ma solo come mezzi perché il potere diventi sempre più grande.
Nel libro di Miriam, l’assemblea non sacrifica l’altro per cupidigia o per renderlo profitto. Ma lo fa in onore di una trasformazione, orribile per carità, ma che ha una sua aliena logica.
l’Altrove,nella sua veste più orrorifica vive e si sviluppa soltanto grazie a noi.
A noi.
E cosi in questo orrore cosmico possiamo trovare un senso alla nostra vita.
Che siamo soltanto un raccolto.
O il canale per attivare le linee di potere affinché la porta degli Dei si apra.
Non importa.
Importa che valiamo per la nostra interiorità.
Non perché siamo belli, famosi, potenti.
Perché siamo abili, furbi o scaltri.
Anche se serviamo da pasto.
Se serviamo da serrature.
E’ l’anima in pericolo.
Perché abbiamo un anima che vale.
E sentirci apprezzati per la nostra intera imperfetta umanità, ci fa stare bene.
Almeno in una parte segreta di noi.
Noi che ci accontentiamo di essere il sogno di un Dio dimenticato, morto e dormiente.
Noi che abbiamo grazie a quest’immaginario, la consapevolezza di portare sulle spalle un dolore profondo, un dolore che cerca di avere una spiegazione.
Una suo senso.
Un dolore che ci rende cosi grigi, cosi immobili, cosi alienati dalla perfezione che ci propongono come obiettivo irraggiungibile, che ci mostrano come unica base della civiltà.
Palazzo Daleth è imperfetto.
Tutto Coppedè è completamente disarmonico.
Eppure ci seduce, ci chiama a se.
Ci vuole accogliere e inglobare nella sua alterità eretta fiera e salda come baluardo eterno, un inno allo strano.
Allora i slami dell’apocalisse, la rivelazione suprema, lo scioglimento dei nodi, appare molto meno orribile di quello che ci accade nella vita diurna.
È vero, Palazzo Daleth è oscurità.
Ma nella vita di ogni giorno c’è qualcosa di peggio.
È la costante sensazione di non essere all’altezza.
Di non valere.
Di dover sempre dimostrare qualcosa.
Di dover per forza assecondare le aspettative di tutti.
Ecco io nei libri di Miriam non provo soltanto paura o terrore.
Mi sento accolta.
Dietro la recita oscura il ghigno pieno di aguzzi denti mi sorride.
Dietro la pantomima di me che lo ignoro, scappo lontano, le mani si stringono.
E si abbracciano.
In fondo l’orrore, cosi come gli dei venuti dal profondo dello spazio non è altro che una forma di amore.
Amore disperato.
Amore perché soltanto questo antro buio e tetro, ti fa sentire finalmente umano.
È grazie ai libri di paura che il cuore batte forte, che la mente si desta dal letargo e diventa vigile.
E’ grazie all’incubo che, forse, io mi posso risvegliare da questo lungo, tetro sonno, senza sogni.
E cosi se nella sua dimora a R’yleh il morto Chtulhu mi attende sognando, è a palazzo Daleth che io lo incontro, e scappando dalla sua verità, mi sento improvvisamente più reale di quell’immagine spenta di me, che cammina su strade sempre uguali, grigie e senza magia.