“Tricofobia” di Ramis Bentivoglio. Scheletri.com. A cura di Alessandra Micheli

La paura fa parte di noi.

E’ una frase scontata ma reale.

Perché è solo quel paletto, l’unico che considero accetta ile ei indispensabile che frena la nostra masochista corsa verso l’abisso. Vedete la nostra vera essenza, il volto dietro al volto ha un sacco di ferite.

Qualcosa che ci portiamo dietro da eoni, colpe e rimorsi mai del tutto sopiti.

Come se davvero fossimo stati privati di un qualcosa di impellente, amore, abbraccio il nostro Eden.

Cacciati da uno stato idilliaco e precipitati a terra, dove ci siamo sfracellati al contatto con il duro suolo della terra.

Feriti, lacerati, soli.

Distrutti.

E ricomporci non è stato semplice.

Cosi come è successo a Osiride, qualcosa è rimasto nascosto, per tanto tempo, per secoli, senza che venissimo a conoscenza del posto segreto in cui è stato sepolto.

Dal nostro Seth.

Dal nostro caos.

O dalla semplice fatalità.

Ecco che vagare senza quella parte importante di noi fa male. L’abisso è la risposta a questo strano malessere, questo non sentirsi mai a casa.

Le sue lusinghe, le sue acuminate braccia, quell’oblio che ic promette con i sussurri…

Troppo seducente.

Ed è la paura a frenarci.

Proprio la paura.

Quella sorta di allarme vermiglio che ci intima di non andare.

Del resto l’oblio nasconde feroci fauci.

Ecco che l’horror in fondo, non è altro che un avvertimento dotato di un acuto suono, un rossastro barlume dal sapore di un divieto necessario, capace di scortarti protettivo, lungo il viaggio di riappropriazione di quel pezzo perduto di di te stesso.

Quindi si, l’angoscia parla di noi, di cosa ci serve per completarci, è il sesto senso che si accende e che ci guida, oltre l’abisso, laddove forse il sito segreto verrà un giorno svelato.

Possiamo conoscere la mancanza dentro il cuore di ognuno di noi, grazie a quegli infantili terrori.

Chi ha l’aracnofobia, chi il sommo terrore del fuoco.

O chi, come me, ha paure molto più banali, meno complicate che confluiscono nell’atavico tentativo di sopravvivere a un mondo ostile e impossibile da mappare.

La sopravvivenza.

Io devo sopravvivere a questo labirinto intasato da mille mostri crudeli.

Cosa c’è di più raccapricciante se non il rischio costante di perdere la vita, magari a causa di un virus, di una malattia, della nostra sconsideratezza, della imprevedibilità della natura, a causa di un insetto velenoso, di un fato arcigno e dispettoso?

E’ forse il terrore più comprensibile, che svela alla fine molto di quella mia insaziabile voglia di vivere, di indagare l’esistenza in ogni suo aspetto, quel egocentrico bisogno di leggere il libro segreto dell’io fino in fondo, fino all’ultima pagina.

Sarò io a decidere quando smettere.

Sarò io a usare la penna intinta di purpureo inchiostro e decretare il mio finale.

Per altre anime la situazione è molto più complessa e forse più interessante.

L’aracnofobia già citata, ad esempio.

Se analizziamo cosa si cela dietro il simbolo del ragno, si apre davanti a noi un mondo sconosciuto ma fecondo che però una volta disvelato si inchina e consegna alla resa tutte le armi per evolvere. Mentre io resto attaccata, in modo ossessivo, alla mia esperienza terrena, le altre inquietudini diventano una sorta di cammino iniziatico.

Come in questo testo.

Tricofobia.

Repulsione, anche morbosa, per peli, capelli, pellicce e ogni sorta di lanugine.

Tutti elementi che se analizzati, simboleggiano in modo archetipo proprio l’energia.

Ma attenzione, non quella soltanto positiva.

Ma istintiva, primigenia.

Ctonia.

Quella collegata con l’ombra.

Quella che, se non gestita, cresce in modo improprio come nella fiaba di Raperonzolo.

Ecco è la forma di potenza più pericolosa e..accattivante.

Fonte di forza e di dannazione.

Simbolo di domino e di sovranità.

Ma anche di connessione tra il regno ctonio e quello dei cieli.

Come in cielo, cosi in terra.

Questo potere fatto di luce e oscurità viene in questo racconto..manipolato.

Come?

La vitalità espressa dai capelli è una forza che ha i suoi cicli. Cade, rinasce e ricade.

Noi possiamo creare il cambiamento semplicemente accorciando o lasciando allungare la nostra chioma. Possiamo impoverirla quando poniamo freni inibitori alla fluidità di quel potere.

O possiamo lasciarlo scorrere libero in armonia con i suoi cicli.

I capelli diventano cosi la cartina tornasole del nostro benessere olistico.

Ecco che quella chioma diviene l’archetipo di una sorta di splendida e grandiosa giostra della vita.

Ma…quando una mano decide di fermare la corsa, tutto va in tilt.

Il carosello impazzisce, perde la sua identità originaria e si trasforma in altro.

Qualcosa di oscuro e pericoloso, poiché l’equilibrio tra cielo e inferi viene violato, il naturale svolgimento dei cicli si interrompe dando spazio all’entrata in scena di qualsiasi forma di abominio.

E sapete perché?

Perché intrappolare ogni energia psicologica, mentale o animica è beffare, o tentare di beffare il Dio Eco.

E’ manipolare la vita, senza rispetto, senza tenere conto delle conseguenze.

E cosi l’energia qua descritta viene bloccata.

Usata per..altro.

Per creare una sorta di universo parallelo, grottesco e distorto.

Fino a che ..

Non ve lo svelo.

Tricofobia è agghiacciante nella sua immediatezza, nella semplicità di immagini comuni e rese terrificanti.

E’ l’arte dello scrittore che sa giocare senza sensazionalismi, conoscendo l’origine segreta di ogni terrore.

L’uomo ha soltanto paura dell’ignoto.

E non c’è nulla di più ignoto dell’uomo.

Delle sue perversioni, delle sue ossessioni e del tentativo folle di sentirsi Dio.

“Bloody Mary, Bloody Mary, Bloody Mary. Raccolta di racconti horror” di Benedetta Giovannetti. A cura di Barbara Anderson

BHOOOOOOO!

Avete avuto paura eh? Confessatelo!

Non c’è nulla di cui vergognarsi sapete?

La paura non è altro che un’emozione primaria, di base universale, e appartiene a tutte le creature viventi, non è sintomo di debolezza ma ha la funzione protettiva; essa si manifesta in risposta a una minaccia reale o percepita e il suo scopo è quello di metterci in condizione di proteggerci e di salvarci dal pericolo.

Il corpo percepisce il pericolo e mette in allerta anche la mente.

In fondo ci piace provare emozioni forti, la paura è una di quelle, e quale metodo migliore c’è se non quello di sperimentare la paura attraverso l’horror? 

Si può vedere un film, o leggere un libro horror nella sicurezza della propria casa, provare le stesse emozioni di turbamento, di ansia e di agitazione seppur consapevoli che nulla ci potrà accadere perché si tratta solo di finzione.

Anche se ciò che immaginiamo a volte può inquietare e farci soffrire nella stessa maniera come se stessimo provando quelle esperienze nella realtà.

L’immaginazione e il reale sono entrambi capaci di scatenare le stesse reazioni della paura.

Non neghiamolo, siamo tutti affascinati dal buio, dal macabro e questo ritrova le sue radici nella cultura psicologica e umana. 

Essere spaventati è un’esperienza eccitante. Le scariche adrenaliniche, l’agitazione, è piacevole per moltissime persone.

Scrivere e leggere horror ci permette di provare questo rilassamento emozionale confrontandoci con le nostre stesse paure ma in un ambiente sicuro. Insomma provare il pericolo e la paura a una certa distanza; quella di sicurezza.

È bellissimo mettersi alla prova, vedere quali effetti abbia la paura su di noi. Seppur ciò che non conosciamo, ciò che risiede nell’oscurità, ci spaventa, siamo curiosi di vedere, di scoprire, di provare.

Essere spaventati è eccitante.

Ricordate quando eravate bambini? 

Avevamo paura del buio, paura del mostro sotto al letto, paura del vento che sbatteva alle nostre finestre, paura dei mostri, dei fantasmi, dell’uomo nero, delle streghe eppure speravamo che i nostri genitori ci permettessero di vedere film horror, che poi la notte avevamo anche gli incubi, e quando uscirono in tv i programmi televisivi a sfondo horror, così come le storie per ragazzi spaventose, per citarne uno “zio Tibia” il programma interamente dedicato al genere horror negli anni 1989/1990 trasmesso su Italia 1 che si ispirava a zio Tibia protagonista di Creepy il fumetto americano dell’orrore nato nel 1964. Insomma i racconti della cripta che io seguivo con passione, con terrore ma con una curiosità irrefrenabile.

Cresciamo con la paura che poi impariamo a domare e a controllare a volte, provando anche un’irrefrenabile attrazione per il macabro, per l’orribile. Un horror ben fatto dà grandi soddisfazioni, che sia esso cinematografico o letterario.

L’autrice Benedetta Giovannetti è riuscita a farmi provare di nuovo quelle sensazioni dell’horror degli anni 90, puro, innocente, accattivante, inquietante, malvagio, spaventosamente sorprendente e lo ha fatto con uno stile impeccabile, che attrae, che sorprende il lettore e che lo turba ma lasciandogli sulle labbra un sorriso un po’ simile a quello del Clown Pennywise.

Conoscete tutti la famosa leggenda di Bloody Mary, lo spirito evocato per rivelare il futuro che appare in uno specchio quando il suo nome viene canticchiato ripetutamente per 13 volte.

Si riferisce alla catoptromanzia, la divinazione che utilizza lo specchio o le sfere di cristallo per evocare gli spiriti.

Avete mai provato a fissare la vostra immagine allo specchio per un tempo prolungato? In una stanza poco illuminata? Sapevate che può causare delle allucinazioni? La vostra immagine può distorcere, diventare liquida, dando l’illusione del volto deformato.

La suggestione che si unisce all’esoterismo, all’occulto.

I racconti di Benedetta servono per sperimentare le notti insonni, da leggere al buio con la testa sotto le coperte e una piccola torcia per illuminare le pagine, creando un’atmosfera paurosa, che possa completare la narrazione così suggestiva.

Troverete case infestate, renne cannibali, scrittrici demoniache, virus che ci parlano e che vogliono entrare nel nostro corpo e portarci via con loro.

Chi è quella voce che ci chiama quel sussurro che ci attrae?

E in ogni racconto un’emozione e un turbamento descritto con tale talento, che coinvolge e che stupisce perché ci coglie di sorpresa facendoci saltare dallo spavento.

Dalle prove di coraggio che portano alla profanazione delle tombe, agli incubi di una strega vendicativa, alle fate di Natale che inseguono l’eterna bellezza. Perché si sa che le fate non sono poi così dolci e buone come alcuni possono pensare.

Molti racconti si svolgono proprio nella notte delle notti, quella di Halloween la notte in cui il regno dei vivi e il regno dei morti non hanno più frontiere. 

La casa perfetta, quella di Colby, e il dolcetto scherzetto, racconti uno dietro l’altro che sono deliziose chicche piacevolissime da leggere, racconti oscuri che ho letto con vorace avidità; racconti che danno il brivido della paura sia agli adulti che ai bambini. 

Ho letto alcuni di questi racconti alla mia figlia più piccola che si è divertita tantissimo insieme a me. Al buio con la nostra torcia a raccontarci queste storie, modificando il tono di voce nella lettura, per creare più pathos, più mistero, più angoscia. Le storie hanno insito un umorismo macabro piacevolissimo, mi hanno riportato al valore dell’immaginazione come forma di crescita e di esplorazione.

Un mix dove protagonista è lo spavento, la repulsione, la quotidianità fantastica e futuristica ricca di elementi soprannaturali surreali, grotteschi, mostruosi.

Ho percepito il piacere delle emozioni che aumentano sotto pelle, il senso di apprensione e di angoscia, la suggestione psicologica tanto che quando il mio gatto mi è passato accanto con la coda ho fatto un urlo che per poco il povero gatto mi muore di infarto per lo spavento.

Storie che alimentano la paura ancestrale del nostro inconscio, la paura della morte, del buio, dell’ignoto.

Storie che enfatizzano, che deformano la realtà che spinge con forza sulle fobie e le ossessioni della natura, aumenta il disgusto, l’angoscia, l’istinto di conservazione e sopravvivenza, la violenza, il dolore. Un connubio di paradossi grotteschi e divertenti che hanno un effetto assolutamente catartico che ci permette di comprendere l’incomprensibile che implode nel nostro animo.

E quando si finisce di leggere queste storie si tira un sospiro di liberazione e si apprezza con sollievo il ritorno alla normalità.

Un autore interessante che ha saputo giocare molto bene con le mie più intime paure, quelle di quando ero bambina e quelle che mi porto dietro anche ora che sono un bel po’ adulta.

Non abbiate paura, iniziate un racconto alla volta, fatevi trasportare all’interno del vostro inconscio, lasciatela scavare dentro la vostra anima e strappare via dall’interno tutto ciò di cui avete timore, le parole non possono farvi male, ma chissà questa potrebbe essere un’altra oscura, orribile, paurosa storia.

“L’ultima strega di Cabotina” di Andrea Giuliano Ion Scotta, Ali Ribelli edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Cabotina è ovunque.

E’ dentro di te.

Dentro di me.

Fuori.

Attorno a noi.

E’ la città sonnacchiosa e piena di storia, dove la fretta del vivere ci impedisce di osservare cosa si cela nel sottosuolo.

Maledizione o indifferenza, poco importa.

Importa che dei nostri ragazzi, di quella gioventù che ci è appartenuta e che ora è troppo lontana nei ricordi, a noi poco interessa.

In fondo l’abbiamo scordata no?

Abbiamo oramai messo nello zaino dei ricordi quelle sensazioni intense e a tratti distruttive che ci soffocavano, la notte nel letto in preda a mille pensieri, mille sensazioni e mille frustrazioni.

Cabotina diventa non soltanto il posto magico in cui cose oscure possono accadere.

O il luogo in cui la magia è stata sepolta dalla paura dell’ignoto.

E’ qualcosa dentro di noi, che inizia a marcire quando perdiamo il contatto con la parte di noi stessi capace di immaginare.

E siamo indifesi se essa diventa un ombra che stanca di essere ignorate assume forme feroci.

E terribili.

A Cabotina i ragazzi si sento spaesati.

A volte soli di fronte ai problemi che la vita ci regala, non visti come opportunità ma come prigioni da cui si può uscire soltanto restando chiusi in se stessi.

Lucia ascolta la sua musica.

èE cerca tramite le note di allontanarsi da ciò che la fa soffrire, cosi come fa ogni adolescente.

Si sente una sfigata, proprio per quella sua meravigliosa caratteristica, quella di colorare di mistero ogni cosa che la circonda. Un angolo buio che diventa una sorta di portale da cui i sogni possono intrattenersi in questa dimensione.

Un ombra che magari ride di noi e delle nostre difficoltà.

Lucia cosi come ogni ragazzo combatte il freddo dell’indifferenza con la fantasia.

E fin qua tutto scorre regolare.

E il libro potrebbe diventare uno di quei viaggi fantastici in regni dell’Altrove.

Però vedete se una città si ostina a non voler avere nulla a che fare con l’Altrove e viene costantemente rinnegato in sacrificio per ottenere un ordine fittizio…rischia di accumularsi nelle regioni ctonie non solo del sottosuolo ma di noi stessi.

E cosi Cabotina diventa un pò la Derry italiana.

Dove il male inizia a scorrere da ogni anfratto e assumere grottesche e orribili forme.

Poco importa se è un patto con il sacro dissacrato.

Se invece è un senso di colpa mia risolto.

Se è una maledizione creata da quella paura per l’ignoto che assilla NOI adulti.

Fatto sta che se l’ombra non viene omaggiata, nominata conoscouta scatena mostri.

Ed è quello che succede nel libro.

E cosi l’Altrove diventa una sorta di vulcano rigurgitante demoni, oscurità appiccicose, tentacoli famelici, e una dimensione che intende letteralmente fagocitare ogni emozione positiva.

Una tenebra che si nutre di malessere, dolore, paura e frustrazioni. Un mostro fatto di disinteresse, che cresce inizia a “divorare” ogni gioventù, ogni infanzia, ogni bellezza, ogni sogno.

E cosi anche qua si compie la parabola discendente di ogni civiltà: se non ascoltiamo i sogni, se non veneriamo e proteggiamo la purezza della giovinezza, il male può soltanto divorarsi e renderci suoi schiavi.

Serve coraggio.

Ma serve anche che la stessa Lucia sia toccata dal male.

Serve a lei come è servito ai bambini di Derry.

Perché cosi innocenti non possono sopravvivere a nessun orrore, e l’orrore purtroppo scorre dentro le nostre vene, sotto i fiumi delle città più belle, più prospere e più idilliache.

È la crescita.

E’ il percorso di ogni eroe.

E’ il destino di ogni uomo.

Quando tocchiamo il fondo che ci ricordiamo di avere ali candide per volare via dal fango.

E’ quando Lucia osserverà con coraggio ogni volto ghignante che acquisterà il potere stesso di sconfiggere ogni demone.

Per poter accendere la luce abbiamo bisogno della notte più nera.

Per poter osservare la notte dobbiamo accendere la luce.

Per ritrovarci, forse, dobbiamo perderla l’anima.

E lottare con unghie e denti per ottenerla di nuovo.

E non sarà certo la stessa di prima.

Non sarà più candida, non sarà più ingenua.

Sarà rattoppata, con solchi di lacrime ancora rosso vivo.

Ma sarà integra.

Sarà sporca di fuliggine.

Ma sarà più forte.

Sarà coriacea.

Sarà di nuovo tua e per nulla al mondo la baratterai di nuovo.

Ne per amore, ne per essere accettato, ne per omologarti.

E cosi l’ultima strega di Cabotina non è soltanto voce per quei giovani che oggi sono davvero in preda dello stesso mostro tentacolare e orribile del libro.

Serve a noi.

Perché per proteggere i sogni, la fantasia e la bellezza, dobbiamo forse prima perderle.

Cosi come Lucia perde e decide di accettare i doni del potere, quelli che spaventano perché ti fanno sentire più diversa di quanto mai ti sei sentita.

Cosi come Lucia alza la testa e decide di combattere anche se questo le costa ogni grammo di forze, se le costa lacrime e dolore.

Il male ragazzi esiste.

Cabotina lo racconta in modo simbolico.

Noi lo viviamo ogni giorno sulla pelle.

Ecco quel male inquadratelo.

Osservatelo.

Forse temetelo.

Ma poi rialzatevi e fissatelo negli occhi, fissatelo senza timore.

E ditegli un grosso no.

“Il girotondo delle anime piccole” di Miriam Palombi, Delos Digital. A cura di Gaia Puccinelli

Borgo La Croce è un borgo come ce ne sono tanti in Italia, con pochi abitanti, tutti conoscenti, con pochi bambini e con tantissime superstizioni che fanno arrivare le loro radici in un tempo lontano e che riecheggiano nel presente grazie alla suggestione del luogo e alle credenze delle persone. Ma per i bambini, quelle storie che sentono sussurrare agli adulti non sono altro che un gioco, un’invenzione dei grandi per spaventarli e farli comportare bene, rientrando presto.

Così, Dario, Samuele, Francesca, Paolo e gli altri credono che quella filastrocca che invoca la piccola bambina albina, scomparsa in circostanze macabre e misteriose, non sia altro che un ritornello da canticchiare mentre decidono chi dovrà contare per il prossimo gioco di nascondino. Non sanno che in questo modo hanno inciso un marchio sulle loro piccole anime; marchio che diventerà indelebile con la tragica morte di Dario, della quale tutti gli altri sono parzialmente colpevoli, richiamando la presenza di Claruzia, pronta a vendicarsi per la crudeltà della sua uccisione, reclamando altre anime piccole.

I superstiti si porteranno sempre il peso della morte dell’amico sulle spalle, conducendo un’esistenza tormentata dagli incubi e dai sensi di colpa, ma anche da fenomeni meno ordinari, come la sensazione che quella filastrocca abbia fatto cadere su di loro tragedie sempre più grandi. Consapevoli di quale fine toccherà, prima o poi, ad ognuno di loro, quando Claruzia avrà deciso di essersi divertita abbastanza.

L’orrore che permea le pagine sembra vivo e capace di trascendere la carta per perseguitare anche il lettore, perché non c’è solo l’elemento paranormale a infondere terrore, ma il gruppo di bambini (che poi vedremo crescere), è tormentato dall’ansia e dai sensi di colpa: emozioni e sensazioni in cui possiamo trovare un’affinità più facilmente. In questo libro troviamo esplicitate e portate all’estremo le conseguenze della superstizione e delle ripercussioni che trovano fine solo dopo generazioni.

La figura di Claruzia è ambigua, avvolta dal mistero, resa inquietante più da ciò che le accaduto che non da ciò che era in principio, una bambina trasformata in un essere crudele che reclama compagni di giochi per la sua piccola anima dannata.

L’autrice ha compiuto un lavoro magistrale nel trasmettere una delle emozioni più complesse da evocare nel lettore: la paura, che in questo horror è dosata con cognizione di causa facendo in modo che chi legge sia spaventato, ma mai troppo da staccarsi dal libro.

“Esistenze dondolanti sopra il bordo nero” di Antonio Pilato, Horti di Giano. A cura di Alessandra Micheli

So che il tempo in cui vivere è ricco di opportunità e emozioni.

E’ come vivere sempre sulle montagne russe,correndo al massimo della velocità.

Potete prendere ogni gioia a portata di mano, avere la tecnologia che spazza vie le tenebre create dall’irrazionalità che oggi, è imbrigliata nelle regole.

E chi non è al passo, verrà lasciato indietro, perché bisogna accelerare sempre, sempre fino a far scoppiare il cuore.

Lo vedo.

Quando giro per la mia città o anche altrove, vedo calendari riempiti di impegni, giornate programmate con cura, impegni, e quella voglia di vita che sfiora l’ossessione.

Vedo gente andare sempre la massimo, incontro a luci sempre più sfavillanti, tanto da impedire la vista del sole.

Vedo la fretta di cogliere ogni frutto da ogni albero, e l’angoscia e l’orrore di chi non può più farlo e si fa prendere dalla depressione.

Io osservo.

E so che questi sono i tempi della possibilità.

Per voi io sono pigra.

Per me voi siete i folli, che hanno avuto la colpa di abbandonare i lidi dell’Altrove, perché ignoto, impossibile da organizzare in un calendario moderno, impossibile da comprendere e da stringere per mano.

Voi guardate me, immersa in un mondo onirico che è manifesto, che è reale, carnale, tanto che ogni personaggio storto, ambiguo e terrorizzante mi cammina accanto, come se fossi scordata ogni istante, ogni giorno della mia vita, da Jack O’lantern, con la sua grossa faccia di zucca, dagli occhi fiammeggianti e dal sorriso perturbante.

Eppure quegli occhi riscaldano il cuore più di ogni vostra luce stroboscopica.

Mi dispiace perché mentre correte dietro la successo, allo strenuo tentativo di riempire i vuoti, vi scordate quel lato folle, strano, conturbante della vita, quello che oggi tentate di definire con una parola soltanto, weird.

E la ripetete, nella speranza che essa possa gestire, organizzare e controllare una forza atavica che sarà sempre più potente di ogni nostra limitatezza umana.

Weird, che spaventa.

Weird che seduce.

Weird che non si può definire, ma lo riconosci perché ha uno strano odore, e quella musica cantilenante che apre le porte di un maestoso cancello.

E dietro al cancello potete trovare di tutto, cimiteri in cui avvengono tondi balli frenetici. Castelli pieni di muschio dalle finestre simili e sparuti occhi.

Boschi in cui l’ombra fa da ristoro ma ha mani grandi, adunche eppure gentili, capaci di stringere la vostra e di portarvi alla fine della radura, laddove gobbe figure iniziano a cantare cori stonati.

Ecco il weird.

Quello che vive nascosto dentro di voi, che profuma di mare o di terra bagnata, di pioggia o di notte densa come inchiostro, che cola sull’anima nascondendola dalla luminosità del dolore.

Davanti a questo strano mondo le nostre limitate esistenze dondolano, attratte dal fondo dell’abisso, bisognose del suo mefitico abbraccio eppure terrorizzate dalla discesa. Perché forse se uno ha il coraggio di buttarsi dentro quel calderone..la voglia di risalire non l’ha più.

Ve lo dico io che ormai mi sono proprio sistemata in queste grotte.

Ve lo confermo io, che non sogno affatto la risalita.

Affatto.

Ecco che questa raccolta non è altro che la mappa capace di guidarci verso terre ignote, inesistenti per chi ha paura del fango che riempie le sue strade.

Attraenti per chi con il fango ci sa giocare e costruire forme strane, capaci di ricordargli il suo primigenio stato.

Esistenze dondolanti sopra il bordo nero.

Ecco cosa siamo.

In eterna attesa del coraggio capace di stringerci la mano e invitarci al tuffo finale.

Ogni racconto dietro l’apparenza del perturbante, dell’orrore, dello spavento, semplicemente ci risveglia.

Perché ogni attimo è pieno non solo di follia ma della spavalderia umana che alza il velo del consueto, per ferirsi con le lame acuminate di un altrove che non è altro che il frammento perduto della nostra anima.

Per molti i racconti saranno difficili da digerire.

Eccessivi, spaventosi.

Eppure seducenti.

Consci che leggerli ci metterà di fronte al nostro stato precario di burattini devoti al proprio carceriere, chiamato realtà.

Forse questi sono davvero pugni capaci di ferire.

Di farci male.

Farci morire alla nostra sicurezza di essere perfettamente inseriti in questo modo che corre, accelera e fugge dal mistero.

Ma vi assicuro che una volta letti, una volta che l’anima li assorbe, le note stridenti fastidiose, diventeranno nenie rassicuranti, dolci e piene di nostalgia, per un mondo che ci hanno costretto ad abbandonare in favore di qualcosa di illusorio da rendere leggibile.

Ma che ci manca, ci manca cosi tanto, da aver dovuto creare un genere fatto apposta per riportarci a casa.

Nera che porta via che porta via la via

nera che non si vedeva da una vita intera così dolcenera nera

nera che picchia forte che butta giù le porte

Nera di malasorte che ammazza e passa oltre

nera come la sfortuna che si fa la tana dove non c’è luna, luna

nera di falde amare che passano le bare

Fabrizio de Andrè

“I salmi dell’Apocalisse” di Miriam Palombi, Kipple. A cura di Barbara Anderson e Alessandra Micheli

Siamo energia. A volte oscura. A cura di Barbara Anderson

Ben ritrovati carissimi lettori oggi siamo qui per parlare di una nuova lettura, qualcosa di molto particolare, qualcosa di incredibilmente avvolgente.

Spesso la parola avvolgente ci dà la sensazione di abbraccio, di protezione; ma se ci soffermiamo sull’aspetto oscuro della parola quell’avvolgere potrebbe essere perfino inquietante ed è inquietante ciò che ho appena terminato di leggere.

L’inquietudine è una di quelle emozioni che amo trovare nelle letture che esploro.

Tutto ciò che scuote una porzione della mia anima, soddisfa le mie necessità di stimolazione emotiva di lettrice accanita.

Facciamo una piccola premessa:tutto è energia, siamo energia, viviamo di energia e questo è tutto ciò che esiste.

Si dice che se ci sintonizziamo sulla frequenza della realtà che desideriamo otterremo quella realtà
(A. Einstein).

Bisognerebbe sempre che prestiamo molta attenzione a ciò che accade dentro di noi, poiché è quello che abbiamo dentro che determina la frequenza con cui vibriamo nell’universo.

Alcuni di voi conosceranno probabilmentel’Orgone, il concetto che fu proposto negli anni 30 daWilhelm Reich un concetto che descrive l’energia esoterica, un substrato creativo associato all’energia vivente.

Tra le sue teorie Reich asseriva anche che il deficit dell’Orgone corporeo fosse alla base delle malattie come il cancro.

 (Vi invito assolutamente a fare una piccola ricerca sulle teorie e gli studi di Reich poiché sono molto affascinanti e interessanti)

Ma quindi questo romanzo tratta delle teorie di Reich? No ma ne esplora e ne dimostra in maniera assolutamente affascinante la possibilità.

In che senso? 

Difficile da spiegare la profondità di questa storia senza cadere in spoilers ma lasciatemi dire che cosa mi ha trasmesso questa lettura:

Il caos.

Sì il caos, il disordine primordiale, quello disegnato dalla mitologia greca, ciò che esisteva prima del resto degli dei e delle forze elementari: lo spazio, il vuoto, la voragine, l’abisso, il buio precedente la creazione del Cosmo.

No vi assicuro che non sto vaneggiando in preda a qualche sostanza stupefacente, ho elaborato e ricercato ciò che questo romanzo mi ha trasmesso ed è stato sorprendente sotto ogni aspetto.

La narrazione così profonda, così pregna di concetti importanti e primordiali, così attenta e minuziosa nella capacità di trasportare il lettore nelle viscere della sua storia; intrappolandolo nella curiosità, nella ricerca, nella scoperta di qualcosa di maligno, di malvagio non attribuibile al concetto di paranormalità né tantomeno a quello del Diavolo.

Qui si parla di qualcosa di più antico, di più profondo, nato precedentemente a tutto ciò che abbiamo sempre definito il male e la sua pura essenza.

Sapete cosa penso dei libri che leggo, essi sono dei viaggi che portano il lettore in un altrove reale o immaginario e vi garantisco che son rimasta esterrefatta quando ho compreso che questa storia mi stava portando in un luogo in cui sono stata e di cui ho dei ricordi piuttosto inquietanti. 

Se avessi letto questa storia prima di quel giorno in cui nel 1987 mi recai proprio lì in quel luogo durante una delle mie esplorazioni notturne con la mia migliore amica per le strade e i quartieri più cupi e sinistri della mia città natale, Roma: via dei Clementi, il quartiere Coppodè composto da edifici e strade progettate dal visionario architetto Gino Coppodè. Un luogo davvero bizzarro, affascinante, inquietante: 18 palazzi e 27 edifici in un mix di stili che vanno dalla Roma antica, al gotico, bizzarro e orientale.

Un’architettura che ha forti influenze di ispirazione simbolica e mitologica che rendono quel complesso architettonico soprannaturale.

Se vi trovate a Roma vi consiglio vivamente di visitare questo quartiere in cui sono stati girati anche molti film tra cui il famoso Profondo Rosso di Dario Argento.

Sembra un luogo di iniziazione esoterica, sembra il luogo che custodisce un portale, sembra quasi uno spazio in una rete di energia vitale fatta di strade, di vicoli, di edifici della Roma che pulsa di energia umana, storica e artistica.

L’autrice non avrebbe potuto scegliere un luogo migliore di questo per raccontarci la sua storia.

Date anche un’occhiata alla storia e alla vita dell’architetto Coppodè che apparteneva alla società Massonica e poi osservate, magari solo attraverso Google maps street view, quel quartiere e ditemi se non vi sembra davvero che sia un viaggio iniziatico.

Ne percepirete la forza sulla vostra stessa pelle un po’ come prima di essere colpiti da un fulmine dove l’effetto della stasi solleva i vostri capelli e la vostra peluria. Un’attrazione, una forza e un’energia.

I salmi della apocalisse è un romanzo forte e impegnativo che vi assorbe e assorbirà le vostre più intime paure.

Quante volte nel silenzio della vostra stanza di notte avete percepito i rumori, i suoni della vostra abitazione?

Come se questa fosse un’entità vivente.

Il legno delle scale che scricchiola senza che nessuno stia camminando sopra, le tubature che sembrano spostare l’acqua all’interno, piccoli passi di insetti che dalla soffitta sembrano correre all’impazzata da un angolo all’altro.

Tutto ciò che la nostra casa assorbe durante il giorno sembra quasi aprire le sue immaginarie fauci per rilasciare tutta l’energia che è rimasta intrappolata tra le mura, tra gli interstizi, tra le crepe di ogni parete, di ogni porta.

Quando parliamo di energie ovviamente dobbiamo tenere conto anche delle energie extra fisiche, oscure, quelle che non sono misurabili ma bensì percepibilidalla nostra psiche e dal nostro inconscio.

La lettura di Miriam Palombi ha riattivato una catena energetica nella mia testa, affascinandomi, aumentando la mia curiosità che mi ha fatto chiudere il libro più volte per andare a fare le mie ricerche, che mi permettessero di comprendere meglio ciò che stavo leggendo.

La scoperta di cose che avevo studiato, di altre che avevo letto, di cose che avevo visto con i miei stessi occhi, la voglia di esplorare il buio, l’oscurità, l’assenza, lo spazio che si crea tra la fitta rete di energia che ci circonda per poterla riempire con ciò che fa parte di me e della mia anima.

Partendo dal 1923 fino al 1998 scopriremo lettere antiche che celano inquietanti segreti e scoperte, Clara e il suo dolore per ciò che non porta più in grembo, Terenzio e i suoi specchi, Sveva e i suoi cupi sogni, Bruno il custode, i piccoli Sara e Elia.

Una narrativa intelligente, un libro che trasmette una forte energia attraverso le sue pagine, ombre che diventano reali, che si insinuano nell’anima del lettore, che scavano nella profondità dei nostri più effimeri segreti e paure.

I sussurri che sembrano voci, lamenti, che a volte ci danno la sensazione di chiamare il nostro stesso nome.

Ci si sente affascinati, ammaliati, attratti verso quel vuoto, quell’oscurità fino a essere trasportata all’interno di quell’edificio che sembra vivere di vita propria; che sembra un’entità viva dove la caldaia è il suo cuore, dove gli appartamenti sono la parte emorragica delle sue pulsioni, delle sue necessità, delle sue emozioni.

Cola dai muri quell’oscurità che si insinua nella nostra testa, che ci afferra per la gola fino a toglierci il respiro.

Un libro che attraverso la sua storia si nutre della nostra stessa energia. 

Cosa si cela tra le mura del palazzo Daceth? Quella struttura così complessa dove gli errori architettonici non sono un caso; dove le mura parlano, le tubature suonano, dove ogni crepa, ogni intonaco che si stacca dalle sue pareti ha bisogno di nutrirsi di ossa e di sangue, un edificio che sembra insaziabile dove alcune persone scompaiono dove altre sembra perdano la propria ragione fino ad impazzire.

Le pareti che si muovono, dove si sentono echi come di tamburi di un’etnia antica.

La pioggia e i lampi che illuminano le zone oscure di quell’edificio che sembra fermo mentre dentro di sé tutto si muove.

Tra la simbologia e la mitologia espressa nell’architettura dell’edificio; con il fascino della numerologia utilizzata da Coppodè per dividere e numerare gli appartamenti, numeri che sembrano salmi, che sembrano coordinate per l’inferno.

E la schizofrenia di Elia dopo aver subito il trauma per la scomparsa della sua amica da bambino, i ricordi del fuoco, le allucinazioni, il senso di colpa per la morte di sua mamma.

Si vive in bilico tra la follia e la realtà, tra la luce e l’oscurità e ci si perde cercando di capire se tutto sia frutto di un’allucinazione collettiva ossia pura ed essenziale, primordiale realtà.

Leggendo percepirete un’atmosfera putrida di morte che non vi spaventerà ma che vi attrarrà e vi sedurrà.

Noi stessi siamo come edifici costruiti sulle macerie dell’anima e del dolore, siamo strutture viventi fatte con intonaci di sangue, di lacrime e di fluidi corporei. 

Siamo un progetto folle di un antico architetto che gioca con le forme: quelle del cuore e quelle dell’anima, lasciando negli spazi vuoti il caos delle emozioni.

Abbiamo tutti una parte mancante, un vuoto, dei varchi tra lo spazio e il tempo.

Abbiamo paura dell’oscurità eppure è proprio nel buio che si aprono le porte è lì che la mente crea i suoi spazi.

Attraverso la storia di Elia impareremo a osservare, a comprendere, ad assimilare, ad abbandonarci e ad accettare la verità.

Tutto è necessario.

Anche il buio, anche il vuoto.

Anche la morte.

Soprattutto leggere questo romanzo che si infiltra come una muffa nelle pareti della vostra anima tra blatte e sangue, tra l’inizio e la fine della nostra esistenza.

Bello affascinante, macabro e spettrale.

***

Abbiamo bisogno dell’orrore. A cura di Alessandra Micheli

Sul finestrino opaco di umidità della mia finestra, mi sono ritrovata a scrivere

Nella sua dimora a R’lyeh il morto Chtulhu dorme sognando.

E mentre vergavo questo mantra, con attenzione e caricando la preghiera di ogni mio spasmo emotivo, mi sentivo sempre meglio.

Al che, fermata a contemplare la notte, densa di umidità cosi scura senza una luce all’orizzonte un po’ simile alla nostra Anima, mi sono chiesta perché una mitologia che dovrebbe terrorizzarmi, allontanarmi schifata dalla anormalità di quelle figure, è diventata per me una sorta di posto segreto.

Il mio posto preferito, quello in cui rifugiarmi quando la corda del mio io si spezza, perché troppo tirata dalla fatica, dalla frustrazione e dal tempo che avanza con ghigni malefici.

E cosi con questa domanda, ho guardato il libro sul mio comodino.

I salmi dell’apocalisse.

E so che dovrei provare lo stesso terrore ancestrale, di fronte all’oscurità dei simboli tracciati dalla penna di Miriam.

Ma quel palazzo, che risucchia la luce, simile a un terrificante buco nero, è al tempo stesso quasi rassicurante, quando ti chiama a appartenergli, e a lasciare tutta la vita razionale a marcire una volta chiusa la porta.

Palazzo Daleth è in fondo il ricettacolo di ogni male.

Assorbe l’altro e lo rende parte di se.

Usa quelle ley lines per creare un portale blasfemo, da cui lui il Caos Strisciante possa giungere, attraverso la strada fatta di stelle, e dominare questo piano di esistenza.

Noi, che leggendo Miriam e tutti i miti rivisitati di Lovecraft ci sentiamo finalmente parte di qualcosa, sappiamo che dietro l’orrore del racconto, il simbolo è davvero molto diverso.

Noi che viviamo in un mondo che apparentemente è ricco di bellezza, ci trasciniamo come morti viventi, lacerati, avvizziti, prosciugatati da una vita che scorre famelica su di noi e a tratti insensata.

Non ci sacrifichiamo per far parte di un alveare.

O vogliamo essere impastati con la calce perché sia costruita la porta verso oscure stelle. Non siamo cibo per i grani antichi o i servi di un caos strisciante.

Tutto finisce nell’oblio, nell’immondezzaio di un mondo che ci tratta come prodotti. Non siamo importanti in quanto umani, ma solo come mezzi perché il potere diventi sempre più grande.

Nel libro di Miriam, l’assemblea non sacrifica l’altro per cupidigia o per renderlo profitto. Ma lo fa in onore di una trasformazione, orribile per carità, ma che ha una sua aliena logica.

l’Altrove,nella sua veste più orrorifica vive e si sviluppa soltanto grazie a noi.

A noi.

E cosi in questo orrore cosmico possiamo trovare un senso alla nostra vita.

Che siamo soltanto un raccolto.

O il canale per attivare le linee di potere affinché la porta degli Dei si apra.

Non importa.

Importa che valiamo per la nostra interiorità.

Non perché siamo belli, famosi, potenti.

Perché siamo abili, furbi o scaltri.

Anche se serviamo da pasto.

Se serviamo da serrature.

E’ l’anima in pericolo.

Perché abbiamo un anima che vale.

E sentirci apprezzati per la nostra intera imperfetta umanità, ci fa stare bene.

Almeno in una parte segreta di noi.

Noi che ci accontentiamo di essere il sogno di un Dio dimenticato, morto e dormiente.

Noi che abbiamo grazie a quest’immaginario, la consapevolezza di portare sulle spalle un dolore profondo, un dolore che cerca di avere una spiegazione.

Una suo senso.

Un dolore che ci rende cosi grigi, cosi immobili, cosi alienati dalla perfezione che ci propongono come obiettivo irraggiungibile, che ci mostrano come unica base della civiltà.

Palazzo Daleth è imperfetto.

Tutto Coppedè è completamente disarmonico.

Eppure ci seduce, ci chiama a se.

Ci vuole accogliere e inglobare nella sua alterità eretta fiera e salda come baluardo eterno, un inno allo strano.

Allora i slami dell’apocalisse, la rivelazione suprema, lo scioglimento dei nodi, appare molto meno orribile di quello che ci accade nella vita diurna.

È vero, Palazzo Daleth è oscurità.

Ma nella vita di ogni giorno c’è qualcosa di peggio.

È la costante sensazione di non essere all’altezza.

Di non valere.

Di dover sempre dimostrare qualcosa.

Di dover per forza assecondare le aspettative di tutti.

Ecco io nei libri di Miriam non provo soltanto paura o terrore.

Mi sento accolta.

Dietro la recita oscura il ghigno pieno di aguzzi denti mi sorride.

Dietro la pantomima di me che lo ignoro, scappo lontano, le mani si stringono.

E si abbracciano.

In fondo l’orrore, cosi come gli dei venuti dal profondo dello spazio non è altro che una forma di amore.

Amore disperato.

Amore perché soltanto questo antro buio e tetro, ti fa sentire finalmente umano.

È grazie ai libri di paura che il cuore batte forte, che la mente si desta dal letargo e diventa vigile.

E’ grazie all’incubo che, forse, io mi posso risvegliare da questo lungo, tetro sonno, senza sogni.

E cosi se nella sua dimora a R’yleh il morto Chtulhu mi attende sognando, è a palazzo Daleth che io lo incontro, e scappando dalla sua verità, mi sento improvvisamente più reale di quell’immagine spenta di me, che cammina su strade sempre uguali, grigie e senza magia.

La genesi del male, Iris Bonetti, Odissea Digital. A cura di Barbara Anderson

Si dice che dal prodotto di un artista se ne riesca a carpire animo, sentimenti, emozioni e personalità.

Dopo aver terminato questa lettura la mia curiosità di poter conoscere personalmente questa autrice ha iniziato a prendere il sopravvento.

Una persona capace di stimolare un mix di emozioni, di sentimenti così intensamente forti è qualcuno che potrei considerare assolutamente un’anima affine.

Inquietante come le parole scritte sulle pagine di un libro siano capaci di scavarti dentro l’anima e di strapparti perfino il cuore.

Il legame che sono riuscita a instaurare con i protagonisti di questa storia è stato brusco, intenso, incontrollabile; quella voglia di proteggerli tutti, nessuno escluso perché travolti dalla pura essenza del male, dell’orrore, della malvagità.

Non neghiamo che la cover ti porta da subito nel cuore delle emozioni, del disagio, della sofferenza e della paura, ci mettono in guardia su cosa ci aspetterà aprendo quelle pagine: “anticipazione”.

Vi è mai capitato di pensare che l’amore che ci viene negato da bambini non riusciremo mai più a trovarlo da adulti?

Lessi un romanzo proprio su questo argomento qualche tempo fa e mai affermazione poteva essere più esatta.

Il bene perduto da bambini che ricerchiamo da adulti non ci può essere restituito proprio per il fatto che è il noi bambino che ne ha bisogno; il noi adulto ormai ha subito i traumi e il peso di tutte quelle mancanze.

Ovviamente molti di noi hanno la fortuna di crescere in una famiglia che gli vuole bene, che li protegge, che li sostiene ma questo privilegio non è concesso a tutti e alcuni bambini nascono, crescono e vivono un orrore e un disagio che plasmerà gli adulti che un giorno, se riusciranno a sopravvivere, diventeranno.

Quante volte quando ascoltiamo notizie d’infanzia abusata e negata tendiamo a prendercela con il nostro Dio?

Eppure il male non è stato creato da Dio, se seguite un po’ la teologia cristiana potrete verificare come il concetto di male e bene sia in realtà da attribuire al libero arbitrio. Il male è il risultato delle scelte dell’uomo di allontanarsi dal bene.

Basta tornare alle origini dell’uomo, ai fondamenti base della religione cristiana per esempio:

Adamo ed Eva e la caduta dell’uomo. La natura peccaminosa, la corruzione del diavolo. Il libero arbitrio.

Potente e significativa è proprio la libertà di poter scegliere il volto da indossare: poiché il bene e il male hanno la stessa faccia e siamo noi a scegliere quale delle due indossare.

Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima e che il nostro volto sia l’espressione della nostra coscienza e della nostra morale.

Una mia teoria ovviamente senza alcun fondamento scientifico.

In questo spettacolare romanzo il volto è ciò che viene strappato alle vittime che cadono nelle mani di un terribile e spietato serial killer.

Appena inizierete a leggere verrete catapultati direttamente in quello che ho percepito come l’inferno, lo stomaco del male che ti divora, che ti digerisce lentamente tra orrore, abuso violenza e disgusto.

L’autrice ci porta da subito proprio all’interno di quella cover che vi ha colpito già a prima vista. Un orfanotrofio putrido dove si trovano 8 bambini: Alis, Elia, Manole, Ioan, Cecil, Eric, Dora, Leo. Ognuno di loro con la sua storia, le sue angosce e paure, la sua consapevolezza che il male era tutto il bene che gli sarebbe stato concesso.

La fame di attenzioni, di premure, di affetto, li rende vittime delle attenzioni della badante Olga, una donna crudele e spietata che utilizza l’orfanotrofio per soddisfare le sue perversioni crudeli e criminali.

Attraverso una narrazione accattivante, coinvolgente ci ritroveremo a percorrere delle strade tempo-spaziali che si dividono di decenni.

Ciò che accadeva all’interno di quell’orfanotrofio e ciò che accade oggi tra le strade di Firenze dove un killer seriale sta terrorizzando la città e sta facendo impazzire gli inquirenti.

La spietatezza dei crimini che vengono commessi all’interno dell’orfanotrofio e tra le porte della bellissima città Toscana sembra aver portato il male fuori dalle porte dell’inferno attraverso un viaggio di qualche decennio e attraverso due città che sembrano non avere nulla in comune se non il modus operandi di un assassino. 

Tra Firenze e Torino saltando tra le mura putride di quell’orfanotrofio maledetto vivremo un’esperienza letteraria di quelle indimenticabili che ci fanno venire persino gli incubi la notte.

La mia bramosia di leggere, di capire, di scoprire come delle storie così lontane tra loro avessero poi invece qualcosa in comune. Il legame forte e predominante delle trame del maligno, della follia, della sofferenza, della vendetta.

Quegli 8 bambini diventano la proiezione di tutte le nostre paure, di tutte le nostre mancanze; quelle subite nel corso del tempo, ci sentiremo parte di quelle creature innocenti, che vengono sedotte dal male e che cercano di ricordare quanto sia ancora bella la speranza nel poter essere liberati da quella sofferenza, la liberazione che può venire dall’adozione, dalla fuga o perfino dalla morte.

Tutto è bene purché possa essere vissuto all’esterno di quell’inferno.

Con forti tratti folkloristici rumeni partendo dalla favola di Baba Dochia che viene fatta recitare a memoria ai piccoli orfanelli veniamo travolti dal fetore di fango e di vermi, volti tumefatti e gonfi di lacrime e quella piccola dignità; di ognuno di quelle creature innocenti che stanno per essere plasmate e controllate dal male.

Quando riusciamo ad allontanarci per qualche minuto da quell’abisso infernale dell’orfanotrofio incontreremo il nostro protagonista Leonardo Landi, un cronista investigativo, un uomo dal forte intuito che ha il dono delle visioni, premonizioni, che riesce a trasmettere dalla sua mente alla carta attraverso dei disegni. 

Sarà grazie alle sue qualità umane, investigative ed emotive che riuscirà ad arrivare alle radici del male, un male che, senza che lui stesso se ne rendesse conto, lo stava travolgendo e inabissando nel cuore degli inferi più oscuri.

Gli articoli di Landi sul killer pastore sono ormai diventati famosi. 

Sembra che da Firenze il killer si sia spostato a Torino e lui con la sua abilità intuitiva e premonitrice aiuterà il corso delle indagini.

Un grande puzzle dove i pezzi che lo compongono sono le vittime dell’assassino.

Vittime senza alcun legame tra loro. 

Chi è costui che si accanisce sui volti delle sue vittime?

Si dice che per comprendere dove stia andando un uomo bisogna conoscere il suo passato: dove ha vissuto e cosa lo ha trasformato.

Chi siamo realmente?

Pensiamo davvero di conoscere perfino noi stessi ma è una presunzione che non dovrebbe appartenerci poiché siamo il prodotto delle esperienze che affrontiamo e delle scelte che con il tempo faremo.

Ognuno di noi segue una strada che non è mai retta, ma ci sono incroci, posti di blocco, sentieri nascosti, ci sono esplorazioni che vanno fuori dal sentiero tracciato che ci permettono di esplorare l’ignoto della nostra mente e delle nostre emozioni.

La prosa di questo romanzo ha atmosfere a tratti gotiche, a tratti horror, tanto che il gelo del male e le fiamme dell’inferno alternativamente ci freddano e ci bruciano la nostra anima.

Perché questo serial killer si accanisce così sulle sue vittime tanto da strappare loro l’identità?

E se le vittime fossero parole che stanno cercando di raccontarci una storia? Di mostrarci il vero volto del colpevole?

Landi è astuto, intelligente, ma anche lui ha un suo passato fatto di perdita, di sofferenza, ha perduto i suoi genitori a causa di un incidente stradale, ha subito l’abbandono dalla donna che avrebbe dovuto sposare; sparita insieme a una bambina che non aveva mai avuto la possibilità di conoscere o di amare. 

Un uomo che ha sofferto per tutte le sue mancanze e per il peso delle proprie scelte personali e di quelle delle persone a cui aveva voluto bene.

Landi ha un problema di fiducia nei confronti della gente e delle donne, eppure si ritrova a collaborare in un team investigativo tutto al femminile.

Tra simbolismi, tra conflitti, tra gelosie, tra ricordi dolorosi, tra abusi infantili, tra la voglia di fare luce sui crimini che qualcuno sta commettendo con la speranza di chiudere un caso e di fermare il suo assassino.

Landi dovrà cercare di liberare le parole dalle vittime che ormai non hanno più il potere di parlare. 

Una piccola pecorella che sembra uscita da un vecchio presepe sembra essere una traccia, una firma lasciata dall’assassino che Landi ha soprannominatoil pastore, la pecorella è simbolo di mansuetudine di docilità.

Siete pronti a farvi trascinare nella profondità dell’orrore e della follia umana?

Siete consapevoli che dopo aver letto questa storia non sarete più gli stessi?

Vi guarderete allo specchio chiedendovi chi siete, cosa siete stati e dove state andando.

In questo libro c’è la pura essenza del male, l’atmosfera è a tratti claustrofobica e soffocante, la frenesia di voler voltare pagina leggendo ma anche la paura di scoprire cosa starealmente accadendo.

È possibile entrare all’interno di una mente malata e provare a cambiarla? Manipolazione.

La ricerca di poter vedere un aspetto affidabile di una persona malvagia, la verità, la menzogna, l’inganno, l’odio, la rabbia, la vendetta.

Ho adorato il modo in cui l’autrice ha giocato con le mie emozioni e con le mie aspettative. Mi è piaciuta l’enfasi, la rabbia, la passione di Landi, la sua disperazione e il suo dolore quando riesce a trovare l’ultimo pezzo per ricostruire il puzzle dei crimini efferati.

La violenza e il sadismo sono geneticamente trasmissibili?

Siamo capaci di commettere un omicidio o di amare perfino un assassino?

Chi è disposto a credere alla nostra storia, al nostro passato e alla nostra verità che non è di fatto mai assoluta?

Una vecchia canzone recita “io ti cercherò negli occhi delle donne che nel mondo incontrerò…”

Quante volte ho cercato le persone significative della mia vita negli occhi degli altri?

Ho sposato un uomo che avrei voluto avere come padre perché mi sono innamorata del modo in cui tratta me e i miei figli.

Siamo alla ricerca della felicità, dell’amore, dell’affetto, siamo alla ricerca costante di noi stessi.

Questo thriller è ricco di pathos, di adrenalina che ci viene iniettata con brutale violenza: un thriller dai sottogeneri sovrapposti con abilità tra cui il crimine, l’horror e la narrativa poliziesca.

Un thriller che suscita forti stati di animo e intensi sentimenti di anticipazione e di suspence. 

Capace di influenzare le emozioni del lettore, ci fa esplorare gli aspetti psicologici della paura, ci trasmette l’essenza dell’atmosfera horror: shock e paura che stimolano e inducono l’aumento dell’adrenalina.

L’horror che si concretizza sul punto di vista delle vittime, il thriller che si concentra sul punto di vista dell’aggressore.

Un romanzo dove il thriller tratta gli aspetti psicologici della paura e l’horror tratta gli elementi che quella paura la inducono.

Sorprendente, inaspettato, sconvolgente, emozionalmente potente. 

Un veleno che ci viene somministrato attraverso le abili parole di chi sa giocare bene con la mente del lettore.

Un romanzo completo, forte, con dei protagonisti che ci confondono, che ci depistano, che ci spingono senza pietà nell’abisso del male, là dove il male nasce, il bene muore e la verità è qualcosa che sarebbe meglio non cercare.

Complimenti all’autrice e alle sue capacità di portare il lettore direttamente all’inferno: ho avuto paura restando quasi incapace di muovermi, paralizzata da tutto l’orrore che con naturalezza veniva schiuso ai miei occhi. 

Mi ha tolto il sonno e anche un po’ la fiducia nel bene.

Il male vissuto ci spinge concretizzare il male che perpetreremo negli altri, che stanno forse solo cercando di essere a loro volta amati.

Una lettura che ferisce, che sorprende, che fa male ma che alla fine ci fa stare incredibilmente bene.

“Tamara” di Barbara Bottalico, Delos Digital. A cura di Barbara Anderson

Quante volte ho visto film alla tv, serie Netflix sull’argomento zombie?

Ricordo ancora il giorno in cui mio figlio mi obbligò a vedere la prima puntata della serie tv The walking dead

Pur di non sentirlo più angosciarmi, cedetti riproponendomi di vedere il primo episodio e poi basta.

Un basta che mi ha tenuta incollata a 10 stagioni e a ben 4 spin off!

Innamorata della storia, della trama, dell’ambientazione, sentivo quel disagio e quel terrore sulla mia stessa pelle a ogni episodio; mettendo perfino in discussione me stessa se mi fossi mai trovata in una situazione simile.

Una pandemia, un virus che riporta sulla terra i non morti.

Non sono vivi, non sono morti e si muovono spinti dall’impulso della fame.

E chi lo avrebbe detto mai che proprio io oggi sarei diventata parte di una di quelle storie?

No, non sono una zombie, o almeno non credo di esserlo ancora; anche se ogni tanto il dubbio mi assale. 

Io sono una sopravvissuta, o perlomeno sono sopravvissuta fino a ora a questa folle pandemia.

Cammino sola, emaciata, stanca, affamata e distrutta per le strade devastate di desolazione di morte e di terrore.

In lontananza li vedo muoversi lenti strascicando ciò che gli resta appeso di un corpo in decomposizione.

Sono a distanza di sicurezza, non possono raggiungermi se lo facessero sono armata fino ai denti (devo confessare che aver visto tutta la serie tv sugli zombie qualcosa mi ha insegnato sulla sopravvivenza e la difesa).

Le pallottole sono esaurite, ho una katana come Michonne una delle protagoniste della serie tv. 

L’ho rubata in un negozio di armi e da allora è diventata la mia affidabile compagna di viaggio.

A volte penso che la morte meriterebbe molto più della vita che sto vivendo ora… sempre in movimento in cerca di un rifugio, in cerca di protezione in cerca della possibilità di ricominciare.

Il mio passato?

L’ho dimenticato; è stato cancellato per sempre dalla mia memoria poiché l’unico modo per sopravvivere è lasciare indietro ciò che siamo stati e ciò che abbiamo vissuto. 

Forse sbaglio ma è tutto ciò che per ora mi tiene in vita: l’assenza di memoria, l’oblio dai ricordi.

Sento il rumore di ruote sul selciato, mi sposto per non essere travolta dalla polvere, chiudo gli occhi e mi riparo con le mani coprendomi la bocca.

Il veicolo frena e si ferma restando immobile davanti a me. 

Mi sento un po’ come l’uomo misterioso di Piazza Tienanmen in Cina, che si fermò davanti ai carri armati durante la rivolta a Pechino, bloccando l’avanzare dei veicoli.

Accidenti ecco che mi sta tornando in mente qualche ricordo, meglio scrollarselo subito di dosso!

Sollevo le mani e faccio una giravolta su me stessa per mostrare al guidatore del veicolo che sono viva, che non sono ferita, che non sono infetta.

Il camper maestoso e polveroso sembra abbandonarsi a un respiro di sollievo quando la porta si apre e saltano fuori una ragazza, un bambino e un gatto.

Un trio che non mi aspettavo di vedere ma che ero felice di aver incontrato. 

Tamara. Giuseppe e il gatto nero Anaken si spostano con questo camper blu, sul quale vivono o forse sopravvivono raccogliendo i sopravvissuti che incontrano e portandoli nei vari presidi di sopravvissuti: alcuni governativi, altri privati.

In base alle disponibilità di posti.

Mi invitano a salire.

C’è qualcosa che sa dicasa in quell’abitazione mobile provvisoria, ci sono libri di storia e di matematica sul tavolo.

Tamara ha cercato di creare una routine per il piccolo Giuseppe, una sorta di normalità, quella che io mi ero ostinata a dimenticare.

Lei desiderava ricordarla e farla vivere in qualche modo a questo bambino, non avevano un legame di sangue ma si erano trovati e si erano scelti.

Tamara come me ha imparato che fanno più paura i vivi e sono più pericolosi rispetto ai non morti, che non ci si può fidare di nessuno, che erroneamente tendiamo a definire la cattiveria di genere come se gli uomini fossero di indole più cattivi delle donne.

Quando il male non ha genere se non progenie malvagia.

Mi stanno accompagnando al presidio più vicino, dove le nostre strade si divideranno, il gatto acciambellato sulle gambe di Giuseppe mi fa rivivere quella sensazione di focolare, di casa che ormai non ricordavo nemmeno più che fosse mai esistita. 

L’innocenza di Giuseppe e il valore della famiglia quella che non necessariamente è quella in cui nasciamo ma quella a cui spesso o a volte scegliamo di appartenere.

Osservo Tamara, Giuseppe e il gatto, tra qualche dvd di vecchi film che forse a oggi insegnano lezioni più importanti di quelle del passato.

Ricordo qualcosa di nuovo, la storia dello studente che chiese all’antropologa Margaret Mead quale riteneva fosse il primo segno di civiltà in una cultura.

Lo studente si aspettava che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra, ma non fu così. Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito.

Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori non puoi fuggire dal pericolo, andare a bere al fiume o cercare cibo.

Diventi carne per i predatori.

Nessun animale sopravvive abbastanza a lungo perché l’osso guarisca. 

Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato al sicuro e lo ha aiutato a riprendersi.

Mead disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia.

Tamara non abbandona Giuseppe o il gatto, raccoglie chiunque incontri sulla sua strada,  non lascia nessuno solo con le sue paure, il suo smarrimento, il suo abbandono o la perdita dei riferimenti quotidiani.

Tamara porta la civiltà laddove qualcosa aveva distrutto il mondo come lo avevamo conosciuto.

C’è ancora molta strada da percorrere e un’infinità di pericoli da affrontare; ma la volontà di vivere e di proteggere i più deboli mi fa dimenticare per un attimo tutto l’orrore che ho vissuto.

Riemergono i miei ricordi, la mia famiglia, la mia infanzia, i giorni folli e felici anche quelli di poche ore prima che esplodesse questa pandemia. 

Era tutto normale e poi il Buio totale.

No, non voglio più fingere di dimenticare, voglio rivivere ogni momento come se fosse ancora oggi perché ciò che è stato e ora non c’è più potrebbe ricominciare e perché questo accada bisogna ricominciare tendendo una mano verso il prossimo. Il prossimo superstite, il prossimo giorno, il prossimo futuro.

Tamara è la speranza della possibilità che anche nei momenti più difficili della nostra esistenza possiamo fare il possibile e l’impossibile per far sì che la civiltà non venga dimenticata ne smarrita perché è insita nel genere umano.

Non ci estingueremo se ci sarà anche una sola persona disposta a tendere una mano in aiuto.

Ringrazio l’autrice Barbara Bottalico per avermi dato la possibilità di vivere questa breve ma intensa avventura.

“Non aprite quel libro!” di Chiara Sinchetto,Las Vegas Edizioni.A cura di Barbara Anderson

Avete presente il bottone rosso piazzato al centro di una piazza con un cartello a caratteri cubitali che dice: non spingete questo bottone?

Ecco. 

Cosa farà la maggior parte dei passanti tra cui io prima della fila?

Premere quel bottone per vedere cosa accade!

Può esserci un’esplosione, potrebbero uscire dei ballerini brasiliani semi nudi, potrebbe partire un flash mob o atterrare una navicella spaziale.

Potresti anche saltare in aria; ma la curiosità è insita nell’essere umano così come lo è la paura.

Un’emozione primaria.

Immaginatevi quando a una persona come me, totalmente fuori di testa, sfacciata, esuberante e curiosa, le dite di non fare una cosa. Ovviamente farà tutto il contrario di quello che le viene chiesto quindi a un titolo così: non posso fermarmi e non solo quel libro lo apro, ma lo spalanco e mi ci butto dentro di testa, come uno dei più abili nuotatori olimpionici.

Oggi mi sono tuffata in questo saggio; un esperimento assolutamente bellissimo che mi ha mostrato aspetti dell’horror di cui sono a conoscenza da anni (essendo amante del genere) ma soprattutto perché sono una che ama le emozioni umane, le pulsioni, le sensazioni, i sentimenti e anche la paura.

Questo saggio l’ho trovato assolutamente un elemento ricco di informazioni fattuali, con basi storiche del genere, valuta i significati, gli effetti sulle emozioni umane, facendo un excursus tra cinematografia e letteratura ma soprattutto mostrando al lettore un panorama ben diverso di quello che viene mostrato dai pregiudizi di genere che sono ahimè purtroppo molto comuni nella letteratura.

Io sono una lettrice a 360 gradi, leggo ogni genere perché amo spaziare, conoscere, scoprire cose nuove, sperimentare e mettermi in gioco. 

Da book blogger non pongo limiti alle mie letture e nessun pregiudizio, certo ho le mie preferenze come tutti ma mi lancio a capofitto in ogni libro cartaceo e non.

Se avessi sotto mano le tavole dei dieci comandamenti di Mosè incise su pietra, mi lancerei anche su quelle rischiando di rompermi la testa.

Attraverso questo saggio scritto con un’atmosfera piacevole, informativa, descrittiva, esplicativa, l’autrice analizza criticamente l’argomento horror utilizzando una comunicazione diretta con il lettore, descrizioni semplici con fondamenti etici, psicologici, sociali e morali con una responsabilità di testo veramente egregia.

Attraverso questo saggio l’autrice ci espone come l’horror in realtà ci parla di noi stessi.

E perché evocare la paura può aiutarci a esorcizzarla.

Ci parla di film (ho visto tutti quelli che cita nelle sue pagine), di libri (tutti letti anche quelli), saltando tra stereotipi, cliché comuni e un divertente e accattivante excursus nelle intimità più profonde dell’horror.

A me personalmente è sempre piaciuto avere paura, mi attrae, mi provoca forti emozioni, riesco perfino ad autosuggestionarmi attraverso una lettura; non necessito delle immagini di un film, riesco ad entrare nelle atmosfere Horror, nelle paure dei protagonisti, resto senza respiro, tremo, sudo, mi agito. 

Una delle sensazioni più belle è, come ci spiega l’autrice di questo testo, che la paura fa parte delle emozioni primarie. 

Da bambini avere paura è qualcosa che ci spaventa ma che ci attrae, che ci incuriosisce, e poi quella sensazione di correre tra le braccia di mamma e papà o nel loro lettone dopo un incubo notturno perché se siamo tra le braccia di mamma i mostri non possono afferrarci.

Quanto è meravigliosa questa sensazione? Crescendo la paura assume altri aspetti dall’adolescenza con la sua confusione con le sue incertezze, poi da adulti con quelle che sono la paura della vecchiaia, della morte, della solitudine. L’horror ci parla di problemi reali di disgusto, di orrore e terrore che sembrano essere la stessa cosa ma che non lo sono. 

Dallo splatter alla paura del buio, alla paura psicologica, alla fragilità mentale ed emotiva, alla violenza, al sentirsi inermi, braccati alla fine, l’horror è un’esperienza sociale, e anche politica perché gioca con i problemi reali e le reali paure: tabù, fobie paranoie, ansie della vita di tutti i giorni, facendocele esorcizzare. 

Horror non è solo mostri, sangue e violenza, è molto altro, è atmosfera e non servono i mostri per aver paura… cosa vi mette più agitazione e ansia la porta dello scantinato che si apre da sola e scricchiola o un mostriciattolo bavoso che vi viene descritto e mostrato in ogni dettaglio?

Nel buio di quello scantinato, dietro quella porta che si sta aprendo, ci sono le nostre personali paure.

Non voglio tediarvi a lungo ma vorrei veramente che leggeste questo saggio, soprattutto per chi non ama il genere horror per capirne tutte le sfumature e tutta la bellezza e il fascino che ha.

L’horror ci permette di lasciarci andare alle pretese di avere tutto sotto controllo in un contesto anche protetto che sono le storie che leggiamo o i film che guardiamo. 

Ne usciamo indenni perché i protagonisti della storia lo hanno vissuto al posto nostro.

Mostrandoci l’horror negli occhi dei bambini, degli adolescenti, degli adulti, horror come genere politico, come denuncia del potere e di classe, eco horror, lo slasher, horror psicologico e quello soprannaturale.

Da Ghostbusters a Lovecraft (orrore cosmico) a King dove in genere amicizia e amore sono le forze che salvano.

Leggere horror fa bene, fa bene ai bambini e fa bene agli adulti essendo un allenamento per reagire alle paure che potremo sperimentare nella vita. 

Mia figlia più piccola ha nove anni, legge horror da quando ne ha sei, guarda film horror e ne apprezza il fascino, e ne comprende il messaggio, non ha paura del buio, né dei mostri, né delle atmosfere cupe e oscure ma ha imparato che è dei vivi che bisogna aver paura.

Non dei fantasmi o dei defunti.

Per alcuni sono una madre sconsiderata ma amo mostrare la verità ai miei figli, fargli comprendere che tutti abbiamo bisogno di aver paura perché è la paura che ci permette di salvarci la vita e di proteggerci da situazioni e circostanze pericolose.

Crescendo la magia sparisce ma la paura resta, si trasforma, cambia, si modifica, e la paura resta di fondo la magia più attraente e affascinante.

Vi assicuro che non siete troppo grandi per crederci, né troppo forti per permettervi di non averne.

Grazie all’autrice per aver pubblicato un saggio che fa bene ai lettori, agli autori, agli scettici ma soprattutto che fa bene all’horror.

“L’ombra” Daniele Marassi, Edikit. A cura di Barbara Anderson

Torno a voi con un’altra lettura appena completata.

E vorrei riportarvi per un attimo ai ricordi forse di quando eravate bambini.

Non so voi ma io spesso trascorrevo le serate nel lettone con mia madre che al buio e con la luce dell’abatjour sul comodino accesa proiettava con le mani immagini fantasiose sul soffitto; utilizzando l’arte delle ombre cinesi.

Il cane, il coniglio, l’airone…

Muovendo le mani attraverso la luce, l’ombra proiettava giochi di immagini che sembravano vive come l’elefante che sollevava la proboscide.

I miei sorrisi, le mie risate e mia madre che imitava il suono degli animali che creava nella penombra di una flebile luce.

Ricordo anche quando ero bambina che nelle giornate di sole correvo inseguendo la mia ombra come faceva Peter Pan. La sua ombra era persino riuscita a scappare e a farlo impazzire nel tentativo di catturarla, poi ricorderete fu la sua amica Wendy a ricucirgliela addosso.

Ecco, le ombre sono la parte oscura della nostra immaginazione ma anche la parte che fa luce su ciò che di più segreto abbiamo rinchiuso nel nostro io.

La nostra vera essenza, la proiezione di tutto ciò che abbiamo cercato di soffocare, intrappolare tra  i segreti del passato, tra i ricordi più difficili; perché è nella luce che vediamo il bello della vita, mentre nell’oscurità si racchiude tutto ciò che ci spaventa, che ci fa paura.

Le notti nelle nostre stanze da soli, l’ombra oscura di qualcosa colpito dalla luce dei lampioni fuori dalla finestra riflette immagini distorte, che ci spaventano come se fossero creature ataviche, mostri infernali, qualcosa che si muove nell’oscurità e che vuole afferrarci, come chiazze di inchiostro oscure su fogli bianchi che ci mostrano la proiezione esterna di ciò che giace silente nella nostra mente.

Avete presente il test di Rorschach? Quel test psicologico in cui le proiezioni delle macchie di inchiostro da parte dei soggetti vengono registrate e quindi analizzate, utilizzando interpretazione psicologica e algoritmi complessi?

Alcuni psicologi utilizzano questo tipo di test per esaminare le caratteristiche della personalità e il funzionamento emotivo di una persona.

Ed ecco cari lettori che questo libro non è altro che un insieme di luci e di ombre, che si amalgamano e che ci portano dalla luce all’oscurità più profonda attraverso qualcosa di profondamente forte.

Ciò che colpisce subito del romanzo di Marassi è il suo stile originale, carico di frenetica energia, di entusiasmante prosa e coinvolgenti personaggi che prendono forma dal suo inchiostro fino a diventare reali, reali come la sua immaginazione, come i suoi mostri, come le sue emozioni.

Ha la capacità di portarci nel vivo della frenesia, della quotidianità, prendendoci per mano, sorridendoci e trascinandoci in qualcosa di profondamente oscuro, malvagio, misterioso, inquietante.

Quanta serenità ci dà la luce, l’illuminazione che ci permette di vedere tutto ciò che ci circonda? Quanta inquietudine ci dà l’oscurità?

Le notti senza luna, il buio in una stanza?

Eppure nel buio, nell’oscurità, c’è la contrazione di tutti i colori, c’è la possibilità di spegnere il mondo esterno con le sue suggestioni, le sue stimolazioni, di metterci in diretto contatto con quanto più di vero ci sia nella nostra essenza.

Il buio fa paura non perché ci sono i mostri ma perché riaffiora il nostro inconscio, e subconscio. Perché scava nei nostri rimorsi, nei nostri sensi di colpa.

Il buio fa luce con la sua oscurità su un’anima accecata dalla luce della quotidianità, della realtà che può apparire contorta, distorta, annebbiata.

La luce quando è troppo intensa ci acceca ancora più dell’oscurità.

Avrete fatto caso a come, quando state per lungo tempo in una stanza buia dopo un po’ gli occhi si adattano e riuscite a vedere le cose intorno a voi, invece se guardate una luce intensa e forte non c’è possibilità di adattamento. Osservando troppo a lungo una fonte luminosa intensa come il sole per esempio si diventa ciechi.

Fa pensare vero, questo concetto? O forse state trovando la conferma sulla follia della Anderson? La blogger che scava in ciò che legge e che come un’archeologa della lettura cerca di entrare nella profondità di ciò che legge.

Ecco io mi considero un’archeologa di storie, di parole, di letture.

Amo entrare nella storia e nella mente di colui che quella storia l’ha pensata e poi realizzata su carta inchiostro.

Leggendo questa storia vi sentirete assolutamente coinvolti dalla dinamicità della scrittura.

Le descrizioni dell’aeroporto con quelle vibrazioni di vita di tutti i passeggeri che vanno, che vengono, che trascinano le loro valigie, che perdono il portafogli prima dell’imbarco, quell’agitazione, quella noia dell’attesa del momento dell’imbarco. La famiglia con i figli stanchi, annoiati, chiassosi, il passeggero che sta lasciando sua figlia che vive lontano e che sta pensando se invece di salire su quell’aereo sarebbe il caso di restare qui a vivere con lei, la coppia innamorata che aspetta un bambino e in cui lui all’avvicinarsi del momento dell’imbarco ha un attacco di panico, ha paura che l’aereo precipiti, in fondo ha avuto un sogno che potrebbe essere premonitore, ha lasensazione che qualcosa vada storto, sente di dover proteggere la sua ragazza e suo figlio, sente la paura che lo sta soffocando e l’incapacità di controllare le sue emozioni e le sue paure. 

Si aggrappa al coraggio degli altri alla speranza che sia solo suggestione, si aggrappa a chi gli offre una parola di incoraggiamento, si aggrappa al fatto che ha saputo di aspettare un figlio proprio durante quella bella vacanza e forse quella notizia che lo ha reso felice lo sta divorando dal peso delle responsabilità future.

La mente umana reagisce in maniera strana quando è messa emotivamente a dura prova.

Ci sono famiglie in ritorno dalle vacanze infernali con i figli pestiferi, ci sono professionisti che si spostano per lavoro e che stanno per tornare a casa. 

Ci sono anime, essenze di vita uniche e speciali, comuni e straordinarie.

Brigitte, Iztok, Marta, Tommaso, Flavio… alcuni dei passeggeri dei quali conoscerete un po’ la storia, delle loro vite, di tutte quelle piccole cose, le buone azioni che possono far diventare il mondo un mondo migliore.

Personaggi così vividi e reali che riuscirete a percepire ogni loro emozione, ogni loro pensiero diventerà la vostra personale emozione.

Loro sono le ombre su cui proiettare i vostri ricordi, i vostri desideri e forse, anzi sicuramente, anche le vostre paure.

In ognuno di loro riuscirete a identificare una piccola parte di voi stessi.

E tra le storie delle persone che si trovano su quell’aereo inizierete a vivere un’esperienza un po’ particolare che vi darà le vibrazioni della serie televisivaLost e del film horror Final destination.

Immaginario onirico, realtà. Destino…

Un cocktail forte quando si racconta una storia horror che si avvicina molto alla nostra vita quotidiana, un horror che ritrova l’ambientazione più cupa e sofferta nella realtà piuttosto che in luoghi immaginari e fantastici.

Conoscerete Bimba, la giovanissima ballerina che si prostituisce con i clienti del locale notturno in cui lavora, scoprirete i segreti più oscuri della sua vita del suo passato, la vedrete esuberante, spregiudicata ma la vedrete anche trasformata in qualcosa che si rinnova, in qualcosa di nuovo, di pulito ma che manterrà intatta la sua essenza di acerba volgare audacia.

Valentina è una casalinga che sta aspettando che suo marito torni dal suo viaggio di lavoro, è sempre sola in casa con due figli adolescenti, Luca e Susanna.

Ha una bellissima casa, soldi da spendere, ma a gestire i due ragazzi da sola fa fatica, è insoddisfatta della sua vita, si sente persa e i figli la fanno sentire sempre inadatta inadeguata, sempre una donna che non fa nulla, che sta in casa tutto il giorno, che non sa cucinare che non ha stimoli, né ambizioni;  chissà forse è la sua immaginazione, la percezione che lei ha di se stessa che le fanno proiettare queste parole in ciò che i figli un po’ ribelli, un po’ saccenti, regolarmente le dicono o le commentano a ogni cosa che dice e che fa?

Valentina è sull’orlo di un baratro fatto di depressione, di dissociazione mentale di stress.

Flavio è su quel volo e presto tornerà a casa e aiuterà a gestire questi due ragazzi fuori controllo.

Le deve prendere sue medicine, le ha prese?

Ciò che sicuramente prende di recente sono alte dosi di alcolici, che le danno la sensazione di poter trovare la forza di superare quella insoddisfazione.

Era debole? Era instabile? Era triste? Era infelice? Era sola? Isolata senza un lavoro, casalinga: le sue frustrazioni prendono forma fino all’apice della follia nel momento in cui viene a sapere che il volo su cui si trovava suo marito è sparito dai radar.

Da quel momento tutta l’oscurità più profonda avvolge Valentina riportandola indietro nel tempo, nel suo passato, in ciò che era stata, in ciò che aveva vissuto.

Il dolore di aver perduto suo marito, il suo amore, colui che preferiva il lavoro alla sua compagnia, colui che tutti adoravano perché era bravo, generoso altruista buono; colui che lei aveva amato per ciò che era ma che aveva anche odiato per come la sua perfezione la faceva sentire imperfetta.

Gli incubi di Valentina diventano ombre reali, ciò che stava volando verso di lei era qualcosa di pesante, qualcosa di insormontabile, il buio che la chiamava, che la faceva salire gradino dopo gradino su ogni scelta e decisione che aveva preso nel corso degli anni che l’avevano portata a essere la donna infelice e triste che era ora.

Nell’oscurità della sua anima verrà alla luce la presa di coscienza con la realtà, ciò che si scontrerà con il suo rimorso, i suoi desideri ma soprattutto con ciò che era da sempre la sua vera natura.

La vendetta, il tradimento. La punizione al marito per la sua continua distanza; le promesse che sarebbe rimasto a casa più a lungo la prossima volta, il rapporto con sua madre, quello con i suoi figli ma soprattutto il rapporto più importante che è quello con se stessa.

Un libro bello fatto di crescente suspense, dove la paura vi avvolgerà lentamente facendovi venire mille dubbi su quanto ci sia di vero nella follia e di quanta follia possa esserci nella verità.

Un romanzo che dovete leggere in penombra facendo attenzione a tutto ciò che si muove intorno a voi nella vostra stanza ma soprattutto ascoltando tutto ciò che da dentro inizierà a saltarvi fuori.

Un horror fatto di atmosfere oscure, profonde come le profondità dell’anima umana. 

Bello

Il valore di ciò che abbiamo o di ciò che siamo, lo apprezziamo solo quando lo abbiamo perduto.