Torno di soppiatto, allungandomi come un ombra oscura sulle vostre fantasie.
E stavolta, finalmente entro con passo baldanzoso nella mia comfort zone, dopo aver passeggiato su lidi soavi e armonici.
Vi avverto miei lettori, qua nulla è armonico.
Anzi.
Si nutre di paura, di illusioni, di ossessioni e di tanta tenebra.
Tanta quanta ne abita in questo nostro copro umano, spesso usato o abusato da quella malsana abitudine a fuggire.
Da cosa fuggiamo?
Gli stolti diranno da noi stessi, dal problema reale che ostacola la nostre fallace idea di felicità.
Ma non è cosi.
Vedete noi osserviamo soltanto il sintomo ma non analizziamo MAI, sottolineo mai, la malattia.
Possiamo identificare l’organo che è avvolto dal disequilibrio, magari proporre qualche rimedio per alleviare.
Ma la cura no, è impossibile pensarla, proprio perché ci sfugge l’origine del nostro malessere.
E cosi pensiamo che se avessimo più soldi, più successo, più attenzioni dell’amato, più possibilità lavorative o più cultura troveremmo la pace.
Pace da una sorta di strana frenesia che galoppa sempre più veloce dentro di noi.
In questo testo evocativo, ipnotico e dal suadente tono agghiacciante, ci prospetta personaggi indimenticabili e odiata, dove sfuggono le linearità del pensiero occidentale fatto di perfetti schieramenti.
Sfuggono perché essi stessi, barlumi di quell’anima tormentata, partecipano a questa macabra danza.
Ma essenziale.
Per secoli, per anni Crowley è stato definito in mille modi diversi. E quasi mai lusinghieri.
Lui capace di disgregare una rispettabile società di menti illuminate come la Golden Dawn.
Lui iniziatore ai più blasfemi riti in cui contava soltanto il piacere personale.
Un ansia di vendetta contro chissà quale torto inflitto all’uomo dalla divinità evanescente e sopratutto evasiva.
Evasiva a ogni domanda posta in preda al più terribile dei tormenti…
Chi sono mio dio?
Dove mi stai portando?
E perché con piedi scalzi, continuo a trasportare stanche membra, lungo questo acciottolato fatto di acuminati sassi?
E costretti a un tristo vagabondaggio, lasciamo impronte sanguinolente su questo percorso affannoso, circondati da feroci fiere attratte dal ferrigno odore del sangue.
Chi sono mio dio?
Perché sento questo vuoto che mi divora, questo enorme buco nero nell’anima capace di risucchiare le stelle?
Nessuna risposta.
Mai nessuna risposta.
Soltanto Aleister, vissuto a pane e pentimento durante i suoi difficili anni giovanili ha potuto collezionare, prendendo spunti da ogni dottrina, una parvenza di risposta.
Noi siamo qua per dominare.
Per afferrare tutto ciò che questa terrena vita ci offre per prepararci al viaggio finale.
Ovviamente la dottrina era molto, ma molto più complicata.
E forse meno razionale di come la sto descrivendo io.
Ma è quello che ho assaporato dal testo.
Non è importante tanto “la bestia” descritta, anzi accennata in questo testo sapete?
Neanche forse la risposta a quella lacuna nelle biografie rappresentata dai sui anni a Cefalù.
Importante è scoprire perché noi siamo stati attratti da Aleister. Perché lo siamo ancora oggi.
Poter asserire di conoscerlo crea attorno a noi una sorta di potente aurea, come se fossimo partecipi di quel banchetto eucaristico in cui il sommo nutre a piccoli pezzi bocche avide.
E qua di avidità ne abbiamo a iosa.
Chi desidera il comando, specie donne relegate a ruoli di minor spicco in questa strana e patetica commedia dell’arte.
Uomini che lo bramano il potere o semplici devianti inadatti al viver civile, o forse indispensabili perché la società, qualsiasi società si elogi e si contraddistingua.
Perché è soltanto la dicotomia noi e l’altro che, in fondo, ci fa esistere.
E questi partecipano a uno stesso reality show, dove la vita non è importante se non in rapporto a un fine ultimo.
Che è l’origine di ogni nostro male.
Ed è questa la consapevolezza che precede la cura.
Ogni descrizione, acuta, sarcastica e affatto bonaria ci descrive un essere totalmente sbandato.
Totalmente disorientato come se …fosse capitato per sbaglio, errore o dispetto in un universo alieno che deve poter plasmare a sua immagine. Altrettanto imperfetto, altrettanto soggetto a somme fragilità.
Altrettanto disperato nel suo tenace istinto di sopravvivenza.
Noi microcosmo, che ci muoviamo in un macrocosmo fatto apposta per contenerci.
O imprigionarci.
E cosi l’esoterismo diventa soltanto un mero mezzo di rivalsa, rabbiosa contro quel destino che ci appare fatto di catene. Dipendenze forse.
O frustrazioni.
In fondo le cronache di Cefalù questo mostrano.
O mi perdoni l’autore, questo mostrano a me.
E dietro al mistery perfettamente congegnato, in cui l’elemento onirico dona un tocco squisitamente weird, l’uomo si agita, come si agitano certe formiche costrette a vivere in un terrario.
La cui vista di un orizzonte più ampio è preclusa.
E nessun Dio chiamato con forza può liberarci.
Forse si incazza ancor di più perché anch’esso costretto a strisciare in un terrario…
Onirico e duro, ma al tempo stesso elegante e feroce, il libro di Mancusi non può che sedurci.
Anche se stavolta la seduzione profuma leggermente di zolfo.
Siete pronti a precipitare tra le braccia dell’abisso?
Io l’ho fatto e non me ne sono minimamente pentita.