“Maschere e figure. Repertorio dei tipi letterari” di Paolo Ruffilli, Il Ramo e la Foglia. A cura di Alessandra Micheli

Oggi viviamo di ossessioni.

Riflettevo proprio su questo sapete miei amati lettori?

Tutto ci mette ansia.

L’età che passa.

Il voler vivere ogni attimo senza mai perdersi un opportunità.

E il collezionare qualsiasi emozione, non più oggetti.

Esperienze.

Azioni.

E sensazioni.

Ecco cosa ci ossessiona.

La quantità che va a scapito della qualità.

Anche nei libri è cosi.

Ora per carità io sono fermamente convinta che ognuno di noi ha la usa tipologia di lettura, il suo ritmo e i suoi gusti.

Esiste chi divora i libri ( ai miei tempi si chiamavano topi da biblioteca) e chi li legge con calma e quassi con agiata pigrizia.

Quello non è un problema.

Io leggo un libro al giorno se non di più.

Eppure riesco lo stesso a gustarmelo.

Semplicemente, il vero lettore subisce direttamente sulla sua pelle la teoria che il tempo non esiste, che è soltanto una percezione.

Se voi amate leggere, e iniziate un libro, il tempo si ferma.

E’ congelato e seppure vi sembrano trascorsi soltanto pochi minuti, in realtà scoprirete che, il vostro è un viaggio nell’Altrove, nel regno fatato.

E sulla terra sono in realtà passate ore.

Quindi no, non parlo di quantità in quel senso.

Leggete quanto volete, come volete e dove volete.

Bramosi e pieni di voglia di avventurarvi in tante dimensioni.

L’ossessione alla quantità che dico io è ben diversa.

Non si leggono i libri.

Li si mostrano.

Chi più ne mette.

Chi più spacchetta.

Chi più mostra.

E in questa sfrenata corsa atta a divorare come idrovora impazzita ogni tappa ci rimette la lentezza e il silenzio che tanto servono all’essere umano.

Mentre andate di fretta, infatti, non vi stupirete più.

Non sarete sulla vostra poltrona preferite, spettinati e disfatti, con un sorriso grande quanto il mondo e immergervi in una diversa dimensione.

Sarete perfetti nella location perfetta, con la tazza perfetta e il libro che deve far pandan con tutto.

E questo fa diventare quel essere senziente soltanto un oggetto di consumo.

Quello che vi interesserà è infatti, l’apparenza.

La cover bellissima, lo scenario bellissimo, l’outfit bellissimo.

Ma zero stupore.

Zero introspezione.

Che chi legge tanto come me fa autonomamente, individuando e amando ogni elemento del testo, che riporta a altri elementi, a altri testi, cosi come se davanti a noi, tornati bambini, si trovasse una meravigliosa matrioska.

Questa mancanza di stupore e di amore per il libro, vi rende anche un po’..come dire ossessionati da quello che Gregory Bateson chiama l’acme.

In cerca di quel picco di emozionalità da divorare, vorrete sempre di più.

Sempre di più.

E non sarà la voglia di sognare a guidarvi.

Sarà l’ossessione di trovare qualcosa in grado di stupirvi.

Ma come potete stupirvi se il vostro obiettivo è collezionare numeri, like e traguardi?

Ecco che cercherete l’originalità a ogni costo.

Fissati su piattaforme senz’anima, cercherete sempre il dato e sempre meno l’anima.

Ecco da dove deriva l’ossessione contro cliché, avverbi, struttura e compagnia bella.

E i cliché, che in realtà sono semplicemente simboli, archetipi, figure, e idealtipi, diventano tristemente ignorati.

Invisibili.

E non comunicano più. Non raccontano più l’anima dell’uomo.

Ne la loro volontà di andare sempre dietro a chimere.

Ecco che il libro, pieno di un calderone antico di simboli, di tipi logici alla Jung, viene ignorato.

Fino a non esistere più.

Perché è e diventa invisibile.

Ecco quando sarete ossessionati da questa parola, originalità, leggete il libro di Ruffilli.

E troverete un mondo.

Un tesoro.

Tipi maschere e figure.

Che ristabiliscono in modo immediato, semplice e accattivante una sorta di continuità con un passato che diventa presente e si prepara a crescere come futuro.

In ogni libro troverete un’idelatipo, o come direte voi un clichè.

E in quello non solo libri indimenticabili ma una parte di voi stessi.

Perché come direbbe Pirandello, ognuno indossa la maschera adatta allo scenario che si appresta a calpestare.

Con il sipario che si alza e un inchino a un consesso strano che assiste alla nostra recita.

E nel recitare una parte che è la rappresentazione di un lato di noi, forse siamo sempre più uomini e mano burattini.

Guitti forse.

Commedianti.

Sfaccettature di un infinito che i libri ci invitano soltanto a riconoscere.

Come patrimonio culturale è vero.

Ma sopratutto come mappa per un anima piena di meraviglie persino di ostacoli.

“Tempo-Musica” di Renato Caruso, Le Ruzzole editore. A cura di Alessandra Micheli

Ma il tempo, il tempo chi me lo rende?

Chi mi dà indietro quelle stagioni

Di vetro e sabbia, chi mi riprende

La rabbia e il gesto, donne e canzoni

E’ il tempo il peggior nemico di noi che vorremmo tutto e nulla.

Di noi sognatori che tentiamo di cristallizzarlo in un solo attimo, con uno scritto, un quadro o una canzone.

Con un gesto che pensiamo buono, e che speriamo ci consegni all’eternità. Con il ricordo che rende vivi persino coloro che stanno a ridere nella città di cristallo, lassù oltre le nuvole.

E tempo che io tento di sconfiggere con un libro, con le mie sensazioni fatte di carta, per lasciare un impronta su questa sabbia chiamata vita.

Chi ci rende il tempo passato a arrabbiarci o peggio a elemosinare gocce di stima e amore?

Nessuno.

Sono libri che non leggeremo mai.

Canzoni che non possiamo ascoltare perché quel treno fugge veloce.

Che vediamo volti che poi diventano evanescenti.

Che cerchiamo disperatamente di farci vedere perché il nostro volto sopravviva nelle menti altrui.

Il tempo.

Tempo che alcuni gabbano con una strofa.

O con la parola luminosa in questo buio che sai che ti att3ende dietro l’angolo.

E allora ti illudi.

Ti illudi che un ballo in fa diesis sconfigga l’oblio del treno che core veloce, su rotaie che sono arrugginite.

Che sia il modo per evitare che la polvere invada anfratti del stanze segrete dell’io.

E io che con il tempo ho questo rapporto di odio e amore, cerco di trovare una risposta ai miei mille perché.

In questo libro si affronta un tempo sicuramente diverso.

Fatto di pause e accenti.

Tempi che diventano figli di una matematica che ho sempre odiato proprio perché mi sembrava l’antitesi di un altrove che mi serviva da rifugio affinché il mio volto non avvizzisse mai.

E in questo libro però, tra teoria interessanti, io con quel cuore che batte come un tamburo, ho trovato un po’ di ristoro proprio a quei perché.

Ristoro perché la musica si rivela ancora una volta un serpente che sguscia tra le mani, incapace di essere tratteunto.

E io che quel tempo tento di gabbarlo, soltanto leggendo Caruso mi sembra di farci amicizia.

E con quella sua razionalità irrazionale, lo avvero meno minaccioso.

E per un istante smetto di correre via verso una qualsiasi chimera che profumi di eternità.

E se anche voi, voi come me in attesa di una goccia di immortalità avete pausa di quell’orologio che ticchetta implacabile, con questo libro forse troverete un po’ di sollievo.

Come un ramo che protegge dai tepori roventi dell’estate.

“Il bestiario di Lovecraft” di Antonella Romanello, Delos Digital. A cura di Alessandra Micheli

Proprio qualche giorno fa, parlavo del mio mito, Howie, con alcuni amici.

E notavamo l’impossibilità quasi di rinchiuderlo in quelle definizioni che tanto amiamo.

E’, infatti, un autore innovativo si, ma anche ribelle visto che ogni suo libro, ogni suo racconto deride e evade dai ristretti canoni delle categorie letterarie.

E’ horror?

E’ gotico?

E’ fantascienza?

Lovecraft è impossibile da raccontare.

Sia con le recensioni, sia con gli strumenti della logica.

Tanto che lui stesso si definisce strano, wierd.

Oltre le convenzioni della narratologia, in quei luoghi protetti dall’ombra c’è la sua meravigliosa poetica.

Fatta di tentacoli.

Di occhi fiammeggianti, di città ciclopiche capaci di procurare disgusto e vertigini.

Di strane creature, venute dallo spazio, informi e..aliene.

La sua fantascienza non è certo quella a cui siamo abituati, capace di allietarci con salti quantici mirabolanti, di stuzzicare il nostro genio e la nostra presunzione, capace di portarci direttamente in un epoca di tecnologia superiore.

E’ qualcosa di più oscuro che si connette con quei luoghi fatti di materia oscura, di galassie il cui occhio, fotografato dai satelliti, incombe con la sua eternità su di noi.

Ecco la sua è la fantascienza quantistica, quella non che propone la speranza di un avanzato grado tecnologico, ma che incentra il suo interesse sulla nostra origine e sull’origine stessa del cosmo.

E’ ontologica, discorsiva e tetramente affascinante.

Elabora concetti filosofici più che scientifici in senso lato e si sposa, pertanto, con il terreno fertile e incolto della magia.

Eh si miei amati lettori.

Ogni sua creatura è qualcosa di più immenso di uno scomposto ammasso di cellule.

Di una sorta di organismo alieno e fagocitante.

E’ fatto di inconscio, di terrori ancestrali e forse, sottolineo forse, di ricordi che sono situati in quella porzione di Dna che la mente conscia rifiuta, tanto da definirlo spazzatura.

Ecco la sua narrazione è molto più onirica, oscura di quella di altri maestri del fantastico ( genere da non confondere con il fantasy) e che ci scuote, ci affascina e al tempo stesso ci disgusta.

Sono creature al di la del bene e del male, di nietzschiana memoria, il cui grado di apprendimento li ha portati oltre la soglia della morale e persino dell’etica. Ogni creatura, dunque, parla di noi, di qualche strano lato del nostro io più profondo, oltre che di mitologie che sembrano uscire direttamente dal calderone di un mito che non è fatto per rassicurare, ne per farci crescere, ne per farci comprendere la bellezza di essere umano.

Siamo cosi soggetti alla legge di attrazione verso i grandi antichi, i loro servi gli Shoggoth.

Siamo però altrettanto consapevoli che gli stessi, che quel pantheon che ci guarda come se fossimo solo macchie su un copione ci provocano la repulsione dello schiavo che, illusosi di aver tolto il gioco, viene richiamato da un solo cenno a rimettersi quello stretto cappio.

E cosi il bestiario diventa non solo un viaggio, ma anche un ritorno a casa, a volte nostalgico, a volte riottoso.

E cosi tra richiami letterari, descrizioni, caratteristiche, questo bestiario diviene un po’ lo scrigno in cui abbiamo riversato molto di noi stressi.

Ogni soggetto analizzato ci parla, con voce sicuramente cavernosa, stridente, fastidiosa.

Ma il richiamo lo possiamo avvertire in quel brivido che scorre sottopelle e che non puoi, non ci riesci, a ignorare…

“Morte al libero pensiero” di Massimiliano Sternieri. A cura di Alessandra Micheli

Se posso parlarvi dei libri che mi danno un qualcosa non posso però consigliarvi cosa pensare, come pensare ne dirvi se siete on on parte di una massa. Questo perdonatemi non posso farlo.

Per me la massa e il rischio di omologazione non esiste proprio perché mi riconosco nel detto sufi nel mondo ma non del mondo.

E credo che questo continuo accenno alla libertà, al rischio di essere comandati nasconda altro, ossia una sorta di lite per potarvi dalla parte opposta di chi si sente nel giusto.

Di chi ha bisogno di ribellarsi.

Ma quello che predico da una vita è che se non vi riconoscete in un appartenenza, vi sentire solo viaggiatori presi a prestito non avete bisogno di contestare nulla.

Semplicemente siete ospiti.

Osservate, forse imparate, forse apprendere.

Come una vacanza in attesa che la vita si arrivi all’improvviso.

Non so se la libertà è morta.

Perché non so neanche come definirla.

Perché nello stesso momento in cui vi do la mia definizione e voi non rientrare in quella beh al tempo stesso la sto limitando.

Pertanto mi limiterà a raccontarvi cosa contiene questo pamphlet satirico e far decidere a voi se vi va di leggerlo o no.

Ma senza dirvi che ha ragione o torto.

Non lo so miei lettori.

Nel mondo della fantasia esiste tutto e il contrario di tutto.

Convivono affermazioni diverse.

Convivono entità che in questo piano del reale sono parti di diversi schieramenti.

Stenieri ha semplicemente paura di un appiattimento delle nostre menti.

Di una pigrizia che ci fa delegare costantemente.

Non solo la porzione di sovranità necessaria allo svolgimento di un istituzione quando la libertà sancita da dio, ossia scegliere.

E cosi qualcuno deve dirci cosa fare, cosa è giusto e sbagliato, come pensare. Devono probabilmente reclutare sostenitori all’una o l’altra causa.
E su una cosa concordo, manca qualcosa a tutti noi oggi: la curiosità.
Quella volontà di chiedersi perché, e se, i farsi la domanda delle domande, quella graaliana per intenderci tu cosa pensi sia il Graal?

Tu cosa cerchi?

Di cosa hai bisogno?

Che paura albeggiano dentro di te?

Perché le ideologia oramai lo sappiamo nascono proprio dai terrori.

Dalla pura della morte.

Dalla paura del cambiamento che la diversità porta con se.

Dalla paura della povertà.

E necessariamente a immolarsi per raccogliere su se in un olocausto salvifico tutti questi terrori che impediscono la vita ci deve essere qualcosa, un idea, un popolo, un entità in grado di raccogliere nel suo zaino tutto questo.

E poter essere combattuto.

Noi non sappiamo affatto quando figliano le camozze.

Non siamo affatto interconnessi con il tutto e quindi sofferenza, dolore, malattie non rientrano in uno dei rigidi schemi mentali che ci servono per rendere intellegibile il mondo.

Ecco questo piccolo strano e diciamocelo fastidioso libello un po’ riesce a svegliarvi dal torpore.

A farmi arrabbiare.

Non dovete credergli.

Ne dovete ragionare.

Ne dovete aver paura di rientrare nella categoria gregge.

E’ la parola dovete che non è assolutamente contemplata.

Leggerete una visione personale ironica e pungente sull’attualità.

Non so cosa dovete farci la vita è vostra.

E non sarò io ridefinirvi, ne sarà l’autore.

Quindi a voi la scelta leggerlo o no.

In ogni caso avrete scelto.

E non perché lo dico io ma perché avete il libero arbitrio.

Magari è giusto essere gregge.

Anche perché lo avete mai visto un gregge?

E’ un entità davvero straordinaria.

Non segue il pastore perché è privo di personalità.

Segue il pastore perché sa che lo porta alla fresca erba, all’acqua limpida e lo protegge dai pericoli.

E quando il pastore non è all’altezza beh il gregge, le pecore che sono animali interessantissimi lo ingnorano e trovano da sole la strada migliore.

Le capre sono più ribelli ma si fanno molto più male alle zampe.

La sintonia tra pastore e pecore non è affatto una dominazione, ma interazione e sinergia costante.

Quindi magari fossimo tutte pecore miei lettori!

E’ che a volte non sappiamo davvero cosa essere.

Se uomini o sogni.

Allora leggetelo pure.

E magari avrete la vostra soluzione personale, quella che sarà in sinergia con il vostro unico pastore: la vostra anima.

“La commedia di Dante. Lettura in prosa” di Claudio Rocco, Eretica edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Ormai Dante Alighieri è stra conosciuto.

E’ tornato di moda il sommo, forse grazie all’interessamento di alcuni vip che desiderano portare l’amore che hanno provato leggendo i canti a noi, cosi pronti ad accogliere i libri stranieri, ma cosi deplorevolmente ignoranti riguardo i nostri artisti.

Eh si.

L’Italia vive di ricordi, di nostalgie di vecchie glorie.

Vive di chimere che sono labili come il sogno.

Finendo poi di volute di fumo e lasciandoci spaesati e soli.

Dante è invece vivo e reale.

Lo è da secoli oramai.

Lo è perché aveva una carica etica, umana e di impegno civile bruciante come fuoco, capace pertanto di lasciare bruciature sul nostro territorio psichico.

Io sono stra felice che tutti oggi nomini la divina commedia.

Lo dico seriamente.

Il mio dubbio, il mio dramma è invece il farmi domande su domande, di non credere mai alle mode e di vagare con la mente incontro ai perché, ai se e ai forse.

Davvero conoscete Dante?

Avete mai ripreso in mano quel tomo odiato perché costretti da qualche spiritato professore a leggerlo, imparare, studiare la sua metrica?

Perché molta della magia della divina si perdeva nei tentativi, necessari certo, della parafrasi ossia della traduzione delle rime in una sorta di archeologia della letteratura.

Necessaria perché uno studente deve capire cosa legge.

Necessaria per apprendere i segreti dei sommi.

Necessari è vero ma…tutto questo studio causa la mancata goduria di un ritmo che è tutto nella perfezione di un progetto unico.

I miei anni di studio primario li ho passati a odiarla la divina.

Non comprendevo la delicata magia che si sprigionava dai versi proprio perché dovevo leggerlo con l’attenzione del critico in erba.

E invece, a volte, certi libri certe poesie, certi suoni vanno soltanto assaporati, come un vino corposo in un calice di cristallo.

E attraverso la rima si mostrano i significati tanto ricercati in età giovanile, posti in rilievo proprio da quel nostro non cercare, dal nostro godere soltanto della bellezza.

E la maledizione appesa al collo come l’albatros al vecchio marinaio, si dissolve e si comprende con un emozione vicina alla lacrime la magia.

Ecco io vorrei che questo mio percorso maturo, sofferto, in cui certi capolavori venivano detestati a causa delle costrizioni vivessero davanti ai vostri occhi e che i vostri occhi potessero conoscere la meraviglia dell’invisibile.

Claudio Rocco è la vostra opportunità.

E leggere una prosa di questa divin commedia si rivela un’esperienza a dir poco incredibile, e capirete perché questo tomo ha sfidato epoche e secoli.
E che diventerà per voi prezioso come i classici a cui tutti noi teniamo.

Fantasy e al tempo stesso critico.

Poetico e al tempo stesso agghiacciante.

E reale, perché in quelle pagine esiste la storia.

E finalmente quello che uscirà da questo momento tutto per voi non sarà l’esegesi, ne lo studio accademico ma puro vero piacere assorbito attraverso la diretta esperienza.

E Dante diventerà ancor più prezioso non più obbligo o vanto.

Ma bellezza.

Bellezza pura.

Immaginate la divin commedia come una stria che ha bisogno per vivere di voi, cosi come ne ha bisogno Tolkien, la Bradley o un Brett.

E capirete che, quest’esperimento è fondamentale, necessario e di vitale importanza per far risorgere la nostra dimenticata cultura.

“Grant Morrison. La vita e le opere” di Luigi Siviero, Eretica edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Sia chiaro a tutti voi lettori.

Non vi azzardate a considerare il blog una sorta di luogo in cui è la cultura a fare da padrona.

No, non signori miei.

Rifiuto ogni etichette di intellettuale o qualsiasi che mi identifichi come qualcosa di superiore.

E ogni volta che ci si atteggia a latori di cultura lo si fa per darsi una parvenza nobile, neanche fossimo al tempo di Luigi Sedici.

Quello che tento di creare, che vorrei comunicare a ogni recensione, a ogni narrazione del testo prescelto è l’importanza della comunicazione.

Non siamo divisi affatto in alto e basso, ne in superiori o inferiori, ne in lettori medi forti o deboli.

Siamo solo esseri umani che si tramandano, da secoli, informazioni mediante un codice.

E il mio interesse è semplicemente capire sia questo bisogno di informare, di scambiarsi messaggi, sia cosa questo comporta a livello fisico e psichico, sia a sottolineare tutte le sfaccettature di questo grandissimo dono, che di ci ha fatto. Che presuppone e ingloba una serie di valori, più o meno consapevoli, di scoprire, di inesattezze e imperfezioni e di emozioni.

Ogni volta che qualcosa comunica invade tutto il nostro organismo e non solo. Persino il nostro ambiente, persino ogni elemento di coordinate fisiche, matematiche e biologiche.

Perché come disse Bateson in fondo l’informazione che è alla base dello scambio di messaggi e quindi della comunicazione è la presa di coscienza di una differenza.

Ogni messaggio ci cambia.

Ci uccide e ci trasforma incrociandosi persino con le teorie che fanno tanto ridere i colti, come l’esoterismo e la spiritualità.

Ma noi non siamo ne soprannaturali ne meccanici.

Siamo in divenire, sospesi tra due mondi che si aprono dinanzi a noi. Comprenderete bene che ogni comunicazione (ripeterò questa parola fino alal sfinimento) è qua accettata.

Senza che soffra di un etichetta o di una gerarchia.

Arte, letteratura, persino disegni o canzoni sono riportati per uno studio o una curiosità multidisciplinare.

Ecco perché considero l’opera di Luigi Siviero necessaria a arricchire questo progetto blog: insomma conoscere i motivi alla base dell’opera di Grant Morrison, non ci fa assolutamente male.

E chi è mai sto tizio direte voi, con i vostri visetti ansiosi e entusiasti ( no cosi fa troppo Umbridge).

Dicevo chi è codesto mi chiederete con il vostro tono sarcastico e spesso saccente, teso a guardare il fantomatico pelo nell’uovo.

E’ un fumettista.

Piuttosto famoso tra parentesi.

Almeno nel variegato mondo nerd.

E lo so, tuonerete, come un blog letterario, cosi colto ( ma quando mai) parla di fumetti?

E cosi comprenderete lo spiegone di prima e pertanto alla risposta del perché vi rimando sopra.

Il fumetto è oramai sdoganato, spero come forma d’arte al pari dei videogiochi. E ha molto da dire di noi, del nostro mondo, delle origini e dei cambiamenti. Specie lui che nelle sue opere ha trasmesso se stesso, al pari di qualsiasi provetto romanziere.

E se la sua ARTE ha interessato persino gli studios di Hollywood interessati ai possibili adattamenti cinematografici delle sue opere, chi siamo noi per non raccontarvelo?

Non sarò cetto io ma Siviero.

Che lo ama e non ci ha solo trasmesso un fedele ritratto di Grant, ma coinvolge con quel suo amore eterno e da me condiviso verso questo folle genio che appartiene di diritto alla new Wave di scrittori di fumetti britannici e che è resta l’icona di anni meravigliosi, pieni di creatività e innovazione come gli anni ottanta e novanta.

E quindi…beh buona lettura!

“Animae Librorum” di Neri Carminati, Press Archeos. A cura di Alessandra Micheli

Spesso mi sentite affermare questa verità inattaccabile: il libro è un essere senziente.

E spesso alcuni di voi mi guardano straniti: come un ammasso di carta e inchiostro ha una coscienza?

E tante, troppe volte sono stata guardata come se fossi una portatrice sana di follia.

E non sapete quanto io, in realtà ne sia orgogliosa.

Ogni volta che scrivo con la penna su carta e lascio che il libro mi sussurri segreti ho un sorriso enorme, complice e misterioso perché so e lo so nel profondo che non tutti sono ammessi al suo cospetto in quel ballo in cui la carta prende vita e diventa il personaggio che tanto amiamo.

E non è pazzia è semplicemente il nostro amore e la nostra energia che infonde magicamente vita al testo inerme.

Come se fossimo negromanti o apprendisti stregoni che con quelle dita di fuoco imprimono anima a cosa inanimate.

Ma del resto il libro ha un cuore, di inchiostro per fare una citazione colta, ma è un cuore.

In cui l’autore stesso si è rannicchiato, al sicuro in questo cacofonico mondo, in disparte per creare un po’ quel mondo nascosto, segreto di cui tanti artisti parlano e tante canzoni elogiano.

E comprendete bene come ciò che mi ha attratta fin da subito sia stato il titolo di questo dotto eppur affascinante testo: animae librorum.

Allora, mi sono detta.

Non è solo una suggestione infantile quella che mi anima da tanto, troppo tempo?

E’ vero, il libro ha una sua strana coscienza, un anima che si rivela a chi ha la parola magica giusta, a chi ha la chiave adatta per piombare nel suo personale paese delle meraviglie.

Animae librorum ci parla davvero dell’importanza di questo strano oggetto/soggetto.

Fatto di fogli, di profumi antichi, di una sorta di vitalità che solo lasciando la superficie con i polpastrelli possiamo comprendere.

Ed è vivo poiché nel suo interno vive un cero e straordinario microcosmo, appartenente al regno micotico, o entomologico che si esso si nutre e che fanno di esso il proprio ecosistema particolare e unico.

E cosi sfogliando le pagine si immergono le mani in una strana foresta, fatta di versi, di parole, di metriche e si artifici letterari: li in quello strano mondo ctonio dove ogni emozione diventa un albero particolare da curare, la fauna ci fa comprendere come, il libro è qualcosa di più di oggetto.

Diviene soggetto.

Ed è questo che ci rende davvero lettori.

Allora la carta è la proiezione vitale di un sentimento inespresso, di un sogno accennato, un illusione perduta o una lacrima scesa a nitrire quell’universo incredibile che è protagonista di questo strano e al tempo stesso suadente testo.

E magari, dopo averlo letto sarà un atto sacrale lo scorrere e l’annusare le pagine.

Non più un vezzo intellettualoide ma un modo perché lui, il libro entri a far parte di te, a scorrere nel tuo sangue, inebriarti la mente e incantare i sensi.

“Storia della fiaba. Genere pedagogico. L’educazione estetica di Roberto Piumini. Analisi del testo le tre pentone di Anghiari” di Alan Rossi, Edizioni Helicon. A cura di Patrizia Baglioni

Le discriminazioni non esistono solo in campo sociale ma anche in quello letterario, sì, perché la letteratura per l’infanzia è sempre stata messa in secondo piano rispetto a quella per adulti.

La gerarchia non è casuale, ma culturale.

Come questo utilissimo saggio ci spiega, l’Italia a differenza di altri paesi come la Francia, è partita con grande ritardo nella produzione di testi per ragazzi.

I primi come il Giannetto di Parravicini, vennero utilizzati più che come testi di lettura e divertimento, come testi scolastici.

Siamo agli albori del Regno d’Italia e una scolarizzazione che vada ad unire un regno linguisticamente, oltre che geograficamente non è solo necessario, ma indispensabile.

È lo Stato stesso a stimolare il settore editoriale con concorsi mirati, e solo all’inizio del nuovo secolo si cominciano a produrre libri per bambini e l’inventiva italiana non si dimostra minore a quella europea: vengono pubblicati Pinocchio, Cuore e i numerosissimi libri d’avventura di Salgari.

E poi i periodici a cui collaborarono grandi autori come Pascoli, Grazia Deledda, Dino Buzzati, Il giornalino della domenica, Il corriere dei piccoli e Il giornalino di Giamburrasca di Vamba.

Sono questi i giornali che formarono le generazioni prima e dopo le grandi guerre, dobbiamo loro tanto, perché essi non furono solo strumenti di diletto, ma formatori di identità nazionale e sociale.

Essi hanno fatto gli Italiani per come li conosciamo.

Come Rossi ben ci spiega infatti tra la letteratura per l’infanzia e il territorio c’è sempre un legame stretto, a partire dal mito o dalle leggende che avevano il compito di spiegare l’inspiegabile e creare un riferimento culturale, una base da cui partire per conoscere il mondo circostante.

Le Fiabe riprendono tale funzione educativa e diventano ben presto una risorsa formativa, esse vengono utilizzate per stimolare la fantasia e trasmettere ai più piccoli insegnamenti pratici e morali con parole semplici e archetipi.

Perché se tutto inizia con “C’era una volta”, e prosegue attraverso uno schema che Propp ha ben sintetizzato, alla fine il confronto è tra il bene e il male fino a quando il lieto fine concede una meritata speranza al lettore.

Della Fiaba c’è bisogno, sempre, sia da bambini che da adulti e Roberto Piumini nell’epoca contemporanea la riprende con destrezza e creatività.

Piumini, come l’autore ci fa notare, è un poligrafo tra prosa e poesia, tra scritti per adulti e bambini.

Non solo, egli vicino al teatro e alla televisione, ha scritto, interpretato e portato la sua originale produzione in molteplici settori.

Versatile per natura, ha arricchito i suoi testi di dettagli e particolari di altri settori e soprattutto di contaminazioni sonore, ludiche: la parola spesso nei suoi testi diventa strumento di gioco e di conoscenza.

Rossi nel dettaglio analizza “Le tre pentole di Anghiari” dove ad essere scomodato è pure il diavolo che metterà alla prova il giovane Gianfino.

Il mio interesse verso il mondo pedagogico non è solo dovuto a una deformazione professionale, ho sempre avuto ferma convinzione che nella storia della pedagogia, si potessero riscontrare le origini di un popolo e, come questo testo dimostra, la fiaba è patrimonio culturale di un paese.

Ho quindi amato analizzare e leggere questo saggio che mi riporta l’amata figura di Piumini, scrittore di grande talento che da sempre affascina grandi e piccini.

Il testo, inoltre, è veramente ben scritto: articolato in interessanti approfondimenti eppur fluido e coinvolgente.

Non è semplice interessare e presentare con leggerezza un tema di stampo divulgativo, ma non dimentichiamoci che si parla di fiaba, siete dunque pronti a sognare?

Allora, buona lettura!

Alan Rossi nasce nel 1977 ad Arezzo e cresce a Sansepolcro, ha sempre avuto la passione per l’arte, l’interesse per la letteratura e l’aspirazione all’insegnamento. Animato da spirito di intraprendenza e viva curiosità ha vissuto numerose esperienze personali e professionali. Si è laureato con lode in Conservazione dei Beni Culturali e successivamente anche in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Siene; ha inoltre conseguito due Master di specializzazione universitaria. Da alcuni anni è, orgogliosamente, maestro elementare nella Scuola Primaria Senza Zaino di Pistrino (PG). Col presente saggio, ancora inedito, ha partecipato al Premio Letterario Nazionale “Scriviamo Insieme” di Roma e al Concorso Letterario “La Ginestra di Firenze” risultando premiato in entrambi.

“Il giallo. Origini, protagonisti e segreti di un genere” di Carlo Zaza, Giazira scritture. A cura di Alessandra Micheli

Del giallo molto se ne parla, ma poco si comprende.

Troppo tentacolare, troppo sfumato per poter avere un identità precisa e essere definito nei suoi aspetti essenziali.

Esiste il bisogno del delitto per poter scrivere il genere?

Servono indizi?

Serve un mistero?

E cosa dire dell’ambientazione?

È possibile poi definirne i limiti?

E quanta contaminazione può contenere affinché esso non diventi altro?

Ogni amante di questo intricato mondo si pone le fondamentali domande che scaturiscono dalla voglia, legittima, di non oltrepassare la soglia, di non sconfinare nel mondo altro della letteratura.

Eppure, nessun genere, come nessuna cultura del resto (fonte da cui tutta la letteratura discende) non può dirsi sicuramente pura.

Ed è questa convinzione che pone delle domande utili, se non al lettore almeno ai cosiddetti addetti ai lavori: recensori, blogger, editor e valutatore.

Come su può, infatti, corregge, o analizzare un libro se non partendo dalle sue basi e dalle fondamenta?

E cosi giallo, noir, thriller divengono sinonimi e ognuno si colora della tonalità che più piace al soggetto.

E cosi il libro diviene semplicemente frutto della percezione dell’altro, rischiando di perdere la sua identità.

Seppur contrastato dagli scrittori che accusano il gemere di limitare la propria creatività, esso diviene una sorta di indicatore del perché si scrive e del senso primario della comunicazione. Il genere, quindi, diviene una sorta di primo indizio sulla comunicazione che il creativo dona al suo destinatario, cosa vuole offrire di cosi importante, tanto da averlo spunto a raccontare.

Del resto le storie sono questo, memoria, informazione, percezione, necessità e sopratutto senso e significato.

E il giallo, come ogni altra forma di arte ha la sua necessità semantica e semiotica.

Ma la situazione resta confusa: cos’è quindi davvero il giallo?

Perché definite un libro in cotal modo?

Cosa occorre di essenziale, di fondamentale per poterlo collocare, almeno in parre, in un territorio preciso?

Pur tenendo con me, inciso nel cuore il motto batesoniano “la mappa non è il territorio” trovo estremamente doveroso ottenere una sorta di vademecum capace di orientarmi e di spingermi verso la meta: ossia la domanda.

Ho bisogno di emozioni?

Di adrenalina?

Di sogno o di comprensione del mio reale?

Ecco che il libro di Carlo Zara diviene una sorta di “bibbia” utile al recensore cosi come all’editor e sopratutto al lettore.

Che indirizzato al meglio può apprezzare il giallo e anche comprendere i suoi punti di fora.

Senza necessariamente ambire alla sua trasformazione in altro.

Ecco che la nebbia, nel proseguo della lettura si dipana e comprendiamo come in quel tipo di letteratura è essenziale il crimine, il delitto, la risoluzione di un mistero ma anche e sopratutto, cosa comporta l’atto criminale nella società e nel tempo in cui avviene.

Sono questi essenziali elementi, che si sfumano poi ad abbracciare anche altro, ma non necessariamente altro a donarci quella curiosità anche morbosa (ammettiamolo) che ci fa buttare a capofitto nelle acque torbide del male.

Differenza sostanziale e da me invocata a gran voce va poi eseguita sui generi spesso e troppo spesso sottolineo, confusi e usati in modo erroneo ossia noir e poliziesco.

Se il secondo è il “canovaccio DEL genere” il primo ha un ampia gamma di interesse oserei dire antropologico. Ecco le parole di Zaza:

Il vero aspetto differenziale è quindi nella soluzione del conflitto. Latente o effettivo che sia, nel noir il conflitto non ha soluzione, o comunque non importa che una soluzione vi sia o meno; perché l’interesse di chi scrive di noir non è risolvere il conflitto del crimine con la legalità, ma rappresentare il crimine nelle sue manifestazioni, siano esse psicologiche, interpersonali o sociali. Nel giallo, invece, la storia ha la sua naturale conclusione nella soluzione del conflitto e nella riaffermazione della legalità, quanto meno nel disvelamento del crimine.

Ed è questo l’aspetto che riesce a farci comprendere come l’attenzione al crimine non è solo una sorta di vena voyeuristica, ma la necessità tutta umana di dare un volto al male, una sua dimensione in modo da poterlo circoscrivere, per combatterlo.

“Orgoglio senza pregiudizio. Le ragazze di Jane Austen” di Cinzia Giorgio, Pink fattory publishing. A cura di Alessandra Micheli

Tutti parlano di Jane Austen.

Ma quanti in realtà riescono davvero a conoscerla?

E non dico soltanto a leggere i suoi libri.

Ma a carpire i segreti, spesso irriverenti, che ha inserito nei suoi straordinari libri.

Ah mia Jane!

Quanto tempo ho passato a cercarli!

Ore liete.

Ore immerse non tanto in atmosfere incantate, ma in quel passato che un po’ mi appartiene perché definisce il mio oggi.

Perché è dal passato che partiamo, è con il passato che dobbiamo fare i conti e forse saldare debiti.

La Austen, quindi, va conosciuta e compresa, altrimenti i suoi libri saranno sempre e soltanto definiti romanzi per signorine annichilendo il suo valore letterario, annientando la sua arte e i suoi intenti.

Jane e le sue protagoniste non raccontano soltanto la propria era, il proprio microcosmo ma irridono e spesso sono mezzi per mettere al bando difetti umani che, non appartengono soltanto alla piccola nobiltà di campagna, ma all’umanità intera.

Ogni società infatti ha le sue assurde velleità.

Chi il matrimonio ossessione della patetica signora Bennet, o chi il successo.

O chi idee strane che si annidano tra i spazi lasciati vuoti da una razionalità considerata nefasta.

Oggi più che mai la pari della protagonista dell’abbazia di Northanger è la letteratura che riesce a definire e spesso a influenzare i valori e i sogni. Cosi un tempo fu il romanzo gotico o quello sentimentale a dare ombra al buon senso.

Oggi è il rosa irreale, quello che rende i difetti pregi e i pregi banalità a insidiare le nostri giovani menti.

E anche quelle più mature.

Ecco che la Austen diviene immortale proprio perché i libri sono capaci di travalicare i tempi.

Sono capaci di congelare l’istante e il comportamento e donarcelo, intatto e immutabile.

Cambiano stili di vita e forse abiti.

Ma l’uomo e ahimè la donna, restano sempre eternamente alla ricerca di un senso da donare a questa bizzarra avventura, restano cosi incentrati alla ricerca dell’equilibrio tra passione e ragionevolezza.

Ecco che nel saggio di Cinzia Giorgio non solo rivivo i suoi immortali romanzi ma viene spiegata in modo lieve e affatto cattedratico, tutta la sua poetica.

Jane da questo libro risalta come una stella radiosa, come un innovatrice e come una perfetta donna di casa: accoglie, mette a proprio agio, offre svago ma sa intessere anche una conversazione profonda e intrigante.

Le ragazze di Jane escono dalla carta o dallo schermo di un PC e si rivelano a noi, più attuali e forti che mai con la loro capacità di affrontare i propri limiti, che sia pregiudizio o una sana prosopopea e conquistarsi la propria porzione di felicità.

Che non è il matrimonio in se, quanto la consapevolezza che, nonostante il percorso sia tortuoso e difficile, è da quell’affrontarlo che si esce migliori.

E’ il viaggio che si rivela, sempre e soltanto, crescita interiore.

E con una Tazza di te in mano, permettiamoci anche si sognare sulla più bella, realistica dichiarazione d’amore di ogni tempo: coscienti delle diversità ( non solo di ceto) speriamo in un Darcy che le affronta e le oltrepassa

Ho lottato invano. È inutile. I miei sentimenti non possono più essere soffocati. Dovete permettermi di dirvi che vi ammiro e vi amo ardentemente».

A trovarlo, oggi, un uomo capace di accettare che l’amore è soltanto e meravigliosamente amore.