“Cronaca dei giorni d’acciaio” di Elia Pasolini, Dark Zone. A cura di Alessandra Micheli

Piccola premessa.

Raramente parlo dei libri che acquisto.

Ed esiste un motivo molto preciso.

Io so udire la loro voce.

Infatti, quando mi accosto a un determinato testo, lo faccio perché mi chiama.

Non su suggerimenti o facendomi convincere dagli imbonitori. Anche perché le sporadiche volte in cui ho seguito dotti suggerimenti sono sempre rimasta delusa.

Perché molti seguono la moda, la volontà di compiacere una determinata casa editrice, in certo loro snobismo letterario o il desiderio inconscio di avere accanto soltanto un feticcio.

Da mostrare in elaborate sessioni di spacchettamento, o in foto ricche di fronzoli e di accattivanti, plastificati sorrisi.

Io no.

Mai.

Compro quel testo, sicura che il viaggio che in prospetta mi lascerà soddisfatta proprio perché mi chiama.

Mi dice ehi Ale sono qua per te.

E cosi lo prendo tra le mani, lo osservo, sorrido e instauro con lui il patto eterno tra lettore e storia.

Quello che mi permette di sospendere l’incredulità e di lasciare da parte tutto il mio ruolo sociale, la mia maschera e ogni orpello possibile e immaginabile.

Siamo io e lui.

E tra noi scorrerà fuoco, rabbia, lacrime gioia.

Tutto quello che renderà quelle pagine vissute, sfiorate più e più volte, divorate e persino segnate da idee e sensazioni, perché un libro non deve MAI essere intonso.

Se volete viverlo davvero.

E non succede cosi anche con i libri omaggio delle case editrici?

Si e no, mio lettore.

Li è un bel salto nel buio, un allontanarmi dalla mia comfort zone, una voglia folle di essere stupita, devastata, il bisogno di avere tutte le certezze ridotte cenere.

Ed è il motivo per cui sono una blogger.

Leggere sempre si, ma conscia che tutti i generi che arriveranno a me, non saranno confortevoli, ne asseconderanno le mie aspettative. Mi distruggeranno, per potermi poi far rinascere.

Con Elia non è stato cosi.

Sapevo che mi sarei innamorata.

Sapevo che il suo mondo era il mio, quello di cui avevo un disperato bisogno, una sorta di necessario ritorno a casa.

E sapevo che dentro averei trovato tutti i temi a me cari, la critica sociale, il divario insormontabile tra scienza e soprannaturale, reminiscenza di batesoniana memoria.

E persino la volontà di essere distrutta nelle sue certezze.

Che devono poter crollare ogni giorno per poter essere sostituite, fino a che possa diventare fluida come acqua.

E’ il mio sogno, il mio bisogno primario.

Quello per cui leggo, quello che mo fa rialzare ogni volta.

Ogni volta che qualcosa mi fa crollare la mia personale a torre di babele.

Lo stesso dramma/benedizione del mio alter ego, Josian.

Eh si.

Lui è una parte fondamentale di me.

Quella che vuole essere plasmata da ogni dato che stona con la teoria con cui ti hanno cresciuto.

Quella che sente il potere non già come un desiderio da realizzare ma come un fardello.

Josian che è la speranza del nuovo, quel nuovo che può nascere soltanto:

quando ogni certezza crolla.

E’ allora che

è tempo di un nuovo potere.

E quello di cui secolo dopo secolo abbiamo avuto bisogno.

Un nuovo paradigma con cui osservare il nostro reale.

Un nuovo sogno da raggiungere.

La terza via da creare con intelligenza, un pizzico di follia e di indisciplinata spensieratezza.

Servono eretici, ribelli.

Servono persone che non hanno paura che, nel loro corpo cosi perfetto si innesti qualcosa di alieno…

E cosi in un regno di Stehir che è in fondo una Londra mascherata, dove le caste diventano emblemi di potere, la scienza fa bizze con la magia.

Fino a sognare l’unione blasfema per eccellenza: la tecnetica.

Fantasia?

Non proprio.

Seppur questo testo è del tutto un’intelligente e perfetto steampunk esiste molto realismo in quelle ardite scene accattivanti create dal nostro menestrello.

Eh si mio lettore.

Ancora oggi noi ci dibattiamo nel dilemma dei dilemmi, quello che separata mente e natura, che distingue esoterico dal materialistico, che gerarchizza soprannaturale e meccanico.

Tanto che seppur Einstein ci prova a porre una linea di fusione tra magia e scienza, noi non siamo ancora pronti a accoglierla.

Perché ognuno dei due reparti detiene il potere assoluto sul suo piccolo mondo segmentato.

Gregory Bateson se ne accorse.

La cibernetica propose una tregua e una sorta di interconnessione. Persino la chiesa propone timidamente un’amicizia strana tra Galileo e Bibbia.

Ma è difficile che si abbassino le armi, se la posta in gioco è la sopraffazione dell’altro.

Unire parti di un tutto separate da secoli significa davvero creare il terzo potere. La terza via.

L’apprendimento terzo.

Significa creare un modello tutto nuovo, con le sue potenzialità e i suoi pericoli.

E nulla, meglio dello steampunk ci mostra come potrebbe essere.

Nessuno meglio del meraviglioso Pasolini ci descrive la passione e la sconsideratezza di chi osa andare laddove anche gli angeli esitano.

E mia come oggi credo che cosi abbia bisogno proprio di questa sconsideratezza, di questa imprevedibile follia.

Proporre un modello di civiltà altro.

Proporre un modo di vivere, amare e agire completamente nuovo. Affrontare con la speranza difficili giorni d’acciaio.

Credere che il caos non sia altro che la porta della redenzione.

E’ tutto qua, in questo libro.

E non potevo non raccontarvi cosa ho provato a leggerlo.

Andavo sul sicuro, certamente.

Ma questo sicuro mi ha soltanto confermato quanto sia indispensabile unire e mai disgregare.

Anche se ciò che bussa alla nostra porta è alieno, o diverso.

Che si tratti di idee o di persone.

Aprire la porta sempre e lasciarsi stupire.

E’ questo il segreto del buon vivere

quando ogni certezza crolla

è tempo di un nuovo potere.

Fate vostro questo strillo.

Tatuatelo a fuoco nell’anima.

“Codex Cthulhu, Codename Kelpie” di Uberto Ceretoli, Delrai edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Posso dirlo?

Mi sei mancato Chtulhu.

Tu che dormi beato nell’oscurità di quella città sommersa, tra alte guglie e ciclopiche costruzioni.

Tu che sogni di me, anche in questo momento, con quell’espressione impenetrabile, ignara dei secoli che passano.

Mi sei mancato perché in fondo, la tua orrorifica presenza diventa quasi rassicurante.

Sei te stesso, padrone di una linearità che non ha sbalzi o tentativi di scalare le stelle, proprio perché, in fondo, le stelle stesse vivono in te, in quella memoria prescosmica che ci è cosi aliena.

Ma che al tempo stesso suscita in noi un acuta nostlagia.

Mi sei mancato anche oggi, che il mondo umano tentenna nascondendosi dietro l’apparenza di progresso, noi decadenti troppo pavidi per ammettere la presenza dei mostri dentro di noi.

E in quella città antica, quella che funesta o allieta i nostri sogni, tu attendi, quasi morto, in un sonno ristoratore, lontano dalle altrui miserie.

E cosi Ceretoli decide di, se non svegliarti, almeno donarci la meraviglia di quel tuo occhio di brace, aperto con gelida compassione su di noi.

E lo so che dovrei temerti, che dovrei provare disgusto per quella descrizioni che hanno il compito di ammonire chi ti evoca.

Ma ogni qualvolta tu sorgi, in fondo ci comprendi meglio di qualsiasi divinità a nostra immagine.

Siamo noi a giocare una partita a scacchi con il potere.

Siamo noi a essere il peggior predatore presente sulla terra, nascondendo le nostre follie dietro alti ideali, alti propositi, barricandoci dietro convinzioni non meno blasfeme dei canti a te dedicati.

E cosi tra mito e realtà, Ceretoli non ci porta tanto a conoscere te mio sommo antico, quanto a conoscere il nostro modo di agire, la società in cui ci troviamo a barcamenarci alla meno peggio, in una sorta di viaggio interiore tra lande desolate e marce, molto più della tua dimora, molto più macabre di Innsmouth.

Perché siamo noi a volerti usare.

Siamo noi a avocarti con intenti oppressivi verso il nostro stesso simile, noi che abbiamo deciso grazie alla ribellione al creatore, di poter essere migliori.

Noi che abbiamo rinnegatola nostra origine di schiavi.

Noi che potremmo davvero essere molto più di un tuo pigro sogno.

E in questo primo racconto, i cattivi sfumano, e forse l’unico a essere davvero onesto con se stesso sei tu, quando gigantesco sorgi dalle salmastre acque.

E ci comprendi.

Oh, la tua seduzione è quella.

Quella di leggerci nel profondo e di donarci non soltanto la risoluzione di ogni dramma quanto la comprensione del Dio.

Un dio che sa che, in fondo, sostituirebbe un padrone con un altro, cambiando i suonatori e mai davvero la musica.

Ed è con quell’incontro terrificante, sia nel primo immaginario (cosi definisco l’arte id Ceretoli) che nel secondo, è proprio la scoperta del terrore a svegliarci.

A metterci davanti a ogni nostra debolezza e forse, se non a renderci migliori, almeno a farci accettare ogni lato del nostro essere.

Non siamo speciali.

Non siamo certo altro che frammenti del tuo sogno.

Non siamo nulla di che.

Ma se sopportando la vista del Dormiente, o del Kelpie, o di qualsiasi altra creatura dell’incubo, resisteremo alla seduzione dell’ignoto, sopportando la vista dell’abisso, avremo la possibilità di riscrivere la nostra storia.

Da parte mia non smetto di sentirti vicino a me, nonostante tu sai alieno e pauroso. Nonostante tu sia davvero alieno.

Ti sento vicino perché quando i miei occhi si chiudono e osservo le tue grottesche fattezze, a mio malgrado so dirti di no.

No, per ora.

Non rinuncio al dono della ribellione.

Magari un giorno rinuncerò a lottare.

Per ora non faccio altro che mostrarmi degna dell’eterno scontro con te.

Ceretoli riesce a ridare forza al mito, riunendo in soli due racconti tutta la letteratura da noi, pazzi e folli, tanto amata.

E le suggestioni letteraria che ne derivano, rendono quest’avventura cosi bella, cosi intensa, cosi suadente che è molto difficile poi lasciarla andare.

Che è impossibile, davvero, lasciar andare.

Grazie Uberto.

Non solo per raccontarmi ogni volta storie diverse eppure unite da uno stesso filo conduttore, ma anche perché rinnovi in un solo tocco, il mio imperituro amore per i libri, libri che non dormono come il mio amato Cthulhu, ma che sono svegli e con ancora tanto da raccontare.

“Il Cerchio di Pandora” di Mala Spina, Neropress edizioni. A cura di Jessica Dichiara.

Nel collegio granducale Bella Leocadia entrano dei ladri per rubare un oggetto misterioso.

Una studentessa, Serafina Farandola, riesce a salvare un pezzo dell’oggetto rubato e si trova immersa in un’avventura costellata di intrighi e di indizi.

Dove portano gli indizi? Nel luogo dove risiedono tantissime profezie, un luogo misterioso ed estremamente affascinante di cui rimangono degli strani dischi dai cerchi concentrici… le uniche vestigia rimaste di Atlantide.

Sebastiano, quello strambo della scuola, uno strano figuro insolitamente alto e magro, con una postura un po’ ingobbita, con un cespuglio di capelli neri spettinati, la faccia da ragazzino e gli occhi rotondi e celesti sempre sgranati.

Sebastiano è l’aiutante della nostra avventura fantastica che ha come scopo quello di evitare l’espulsione di Serafina e forse non solo quello.

Il bello di questi romanzi fantasy non troppo lunghi è che riescono a farti fare un’avventura in poche ore e l’uscita dalle pagine viene avvertita dal lettore come una sorta di risveglio. Qui in particolare riesco ancora a sentire la voce minacciosa della rettrice che mi avvisa di non rompere niente, di non perdere niente.

Serafina ha veramente un bel caratterino e viaggiare con lei diventa presto un’esperienza che non vedo l’ora di riprendere a ogni interruzione e più vado avanti, più mi viene voglia di proporre la lettura ai miei figli che darebbero un nome a tutte queste materie strane e un volto a questi mostri.

Se solo avessi detto, se avessi fatto…

Sento spesso i miei ragazzi affrontare i problemi con questa frase, forse perché la giovinezza si culla nell’illusione di poter rincorrere il tempo e all’occorrenza fermarlo o rimandarlo indietro per poi sbattere inevitabilmente la testa con una realtà che non sempre ci permette di rimediare.

Però magari questa volta riesco a non fare un pasticcio, oppure… ci finisco proprio dentro, in mezzo, ma proprio immersa fino al collo!

Deve aver pensato proprio a qualcosa di simile Serafina prima di svenire per la botta che i ladri le hanno procurato. E qual è l’istinto di un essere umano giovane in questi casi? Negare, negare, sempre negare, anche e soprattutto l’evidenza.

Il primo ostacolo è cercare di capire cosa i ladri stavano cercando e cosa lei dovrà provare a recuperare per poter salvare il proprio futuro.

Accattivante la costruzione del linguaggio, della terminologia fantasy specifica per questo romanzo che lo rende frizzante e simpatico. Veloce il ritmo della narrazione, dei progetti e dei pensieri legati ad ansie e preoccupazioni.

Cara Serafina, sono stata bene in tua compagnia, non sei affatto stramba come sostieni tu, sei capace di ragionare in maniera veloce e di fare forza sul tuo spirito di sopravvivenza che ho avvertito subito come forte e determinato.

Mi hai fatto ridere e ripensare con simpatia alla mia follia perché in effetti non riuscivo a trovare nulla di strano in tutto ciò che di volta in volta ti accadeva. Grazie per avermi assecondato, per aver concentrato su di me parte delle tue energie.

Grazie per avermi visto e per esserti ricordata di me sulla strada del ritorno anche se la cosa più saggia da fare sarebbe stata un’altra.

Mi volto e ti vedo svanire come un sogno fatto tanto tempo fa di cui stranamente ho ancora memoria, un sogno di fughe rocambolesche, irruzioni e corse a perdifiato.

Consiglio per la lettura: preparate un bel bagno caldo per gustare le ultime pagine, anche perché vi sentirete pieni di polvere.

“Tsunami” di Marco Romani, Delrai edizioni. A cura di Jessica Dichiara

Lo steampunk è quel genere letterario che porta la storia fuori da se stessa. “ Come sarebbe il passato se il futuro fosse arrivato prima?”. Lettura strana e particolare senza dubbio ma anche molto stimolante per gli appassionati di genere fantasy e fantascienza.

Siamo tra la realtà e la fantasia insomma e a farci compagnia troviamo Ishmael e il suo PTSD – Post – Traumatic Stress Disorder che sembra trovare pace solo nel fumo di sigaretta e nelle sedute di psicologia.

La notte porta con sé ansia e paure che l’alba sembra cancellare o quantomeno attutire. Ishmael si rilassa nel percepire le persone intorno a sé. Appare molto schematico nelle relazioni.

Nel locale dove decide di andare una sera insieme a degli amici vi è una giovane donna con i capelli corvini che comincia il suo spettacolo musicale e dà il via a una serie di eventi imprevedibili in cui i pensieri di questo ragazzo avranno un ruolo decisivo.

Entrare in empatia con questo personaggio è veramente facile perché il suo disturbo lo rende fragile ma anche molto interessate agli occhi del lettore che facilmente riesce a immaginare scenari veramente fantastici.

Ishmael è un nome biblico, il nome del figlio ripudiato che Abramo ebbe dalla schiava Agar. È anche il nome del narratore del celebre romanzo Moby Dick, un nome che richiamava l’idea di orfano, vagabondo, esule, diseredato.

I capitoli brevi accontenteranno chi è abituato a una lettura veloce e scorrevole mentre le dettagliate descrizioni chi ha bisogno di vivere la lettura come un viaggio assaporando anche visivamente tutte le tappe.

I pensieri e le sensazioni come già detto saranno i veri protagonisti di questo romanzo che spinge il lettore ad uscire dalla propria confort zone per farsi involucro capace di accogliere timori, turbamenti, ansie e tanti, tanti dubbi.

La salma sacra di Cernatia è sparita, il tesoro più prezioso di tutta la nazione. La città viene praticamente isolata e per Ishmael questo significa non avere possibilità che la farmacia venga rifornita dei suoi farmaci per l’ansia.

Dormire senza medicine è impensabile per lui che non riesce a controllare i ricordi. Il cervello ogni volta viene costretto a rivivere il trauma e il corpo affaticato avrebbe presto ceduto alla stanchezza, bloccato fatalmente nel ricordo.

È una trama decisamente steampunk quindi completamente fuori dagli schemi dall’inizio alla fine. Ma è anche un’anfora piena di riflessioni profonde sulla vita, sulla capacità di resistenza dell’essere umano, sulla deriva a cui è destinato chi vive senza appigli, senza luoghi fisici e psichici in cui rifugiarci.

Siamo diventati la nostra stessa fine del mondo”

Siamo noi la causa alla fine e siamo noi le conseguenze perché la vita riguarda l’uomo così come la morte. Abbandonando il legame con la terra creiamo un distacco impossibile da colmare. Il pianeta ci chiama ma noi lo ignoriamo e nel farlo firmiamo la nostra condanna.

È un romanzo che varca le famose colonne d’Ercole per spingerci a pensare all’al di là come un luogo difficile da concepire eppure reale, tangibile. E lo sguardo mortale che possiamo rivolgere al futuro non è altro che quel tendere a un bene superiore verso cui il tempo inesorabile di ogni creatura converge.

Realtà e illusione si mescolano a creare uno spettacolo a cui tutti sono invitati ad assistere. Uno spettacolo che ha il suono della musica dell’universo. Affascinante, macabro, inquietante, bello, veramente bello.

Consiglio per la lettura: fatevi una playlist con le canzoni che danno il titolo ai capitoli e mettetele in sottofondo mentre leggete questa storia un po’ pazza in un mondo che lo è altrettanto.

“Codex Innsmouth e codex Nokken” di Uberto Ceretoli, Delrai edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Arrivate in un soffio le feste e già concluse.

Cosi velocemente, quello scintillio di luci e quei canti cosi soavi lasciano il posto a una tetra malinconia.

Ricominciare la vita di tutti i gironi, aver sfiorato la magia e poi perderla, cosi improvvisamente con quel reale che è tornato serafico a bussare insistentemente alla tua porta.

E lo stress, quello che deriva da quell’impatto con impegni e con le pretese di ognuno che smessi gli abiti del buonismo natalizio veste di nuovo la maschera da carnefice.

E noi vittime di questo banale scorrere dei giorni, tutti uguali senza neanche quell’evanescente ma prezioso senso di attesa.

Persino il cielo, lontano dai fasti del sole che torna sembra piangere con voi.

Eh si voi.

Perché io quella festa zuccherosa proprio non la sopporto.

Mi sta stretta.

Mi stanno sul gozzo le luci sfavillanti, i sorrisi bonari, quelle infinite riunioni fatte di brindisi e cacofonia.

Odio il rituale del volemose bene, che mi stacca e costringe a abbandonare i luoghi impervi oscuri ma cosi rassicuranti dei miei mondi immaginari.

Per me la magia è ogni giorno.

Ma è fatta di caligine fumosa, di segreti inconfessabili e di strane mostruose ombre che mi sussurrano negli angoli.

E pertanto il ritorno al reale non ha senso alcuno.

Io abbandono le ridenti valli dei regni festivi per tornare, felice e persino coccolata, in balia degli esseri partoriti dalla mente di Howard.

Torno a Innsmouth, tra i flutti di un are burrascoso alla ricerca di quella città ciclopica dove il sommo Chtulhu sogna.

Di noi pedine in questo gioco di scacchi cosmico.

E a aiutarmi in questo ritorno a casa, ci ha pensato la Delrai edizioni, capace di accaparrarsi il re dei sogni oscuri, di quelle tetre voci che assomigliano a una nenia antica, sgraziata ma cosi suadente: Uberto Ceretoli.

Non nego che parlavi del maestro, del figlio dei grandi antichi, perché i suoi scritto non sono altro che la possibilità di codificare voci che noi tutti, amanti del weird sentiamo, nel codice che ci è più familiare.

Lui ha le visioni, macabre, agghiaccianti, di isole lontana dall’umanità, di posti dal putrido sentore di pescato e di marcio, ma capaci però di essere mano mostruosi del genere umano, di noi cosi abietti nel cercare di mascherare il nostro volto bestiale dietro l’apparenza logica di valori, di sentimenti, di impegno sociale e di onorabilità.

Non siamo forse ibridi al pari degli abitanti di Innsmouth?

Non sarà la nostra cupidigia a svegliare dal sonno eterno il Nokken?

Lo potrete capire, comprendere soltanto immergendoci in questo tomo affascinante e al tempo stesso capace di far risuonare nelle nostre menti un rintocco tetro, di una campana che suona sgraziata.

Ascolterete sussurri, passi strascinati, rumori grotteschi.

Vedrete idoli blasfemi e al tempo stesso mentre rabbrividirete di terrore, vi sentirete molto più a vostro agio con i mostri nati dalla fantasia antica di Lovecraft e dipinti di nuovo dalla maestria di Ceretoli.

Perché quello che il nostro meraviglioso talento fa risaltare non è solo la volontà di far si che i miti degli antichi non vadano mai perduti.

Ma anche di poter porre in rilievo quanto l’uomo sia terrificante, sia cosi perfettibile e al tempo stesso cosi deciso a sottomettere, uccidere, ingannare, ghettizzare, molto più degli abitanti deformi di Innsmouth.

Che lo sono in virtù di un antico patto o di un ricordo che latente viene stuzzicato dall’incontro con il mistero: non siamo in fondo, che incubi nati dal sonno del Dormiente.

E noi ci illudiamo di poter dominare questo cosmo che ci sfugge e ci è alieno. Che in fondo non è altro che un palcoscenico su cui noi danziamo come patetici burattini. E mentre dividiamo tutto in categorie, mentre ci scanniamo tra fratelli per una terra che non è ami stata nostra, Dagon sorride e mostra le sue fauci acuminate e gioca, gioca con le nostre menti, con la nostra illusione, con quella superbia che di fronte all’orrore si sgretola e svanisce, come la nebbia davanti al sole del giorno.

Codex Innsmouth e Codex Nokken sono qualcosa di cosi meraviglioso e di cosi spaventoso che parlarne è impossibile.

La sua malia vi chiama inesorabilmente.

Vi avvince e vi rapisce.

E’ poetica e maledetta al tempo stesso.

E non posso non amare il coraggio di una casa editrice che permette a quella oscura malia di non svanire, di continuare a intessere incantesimi perché il sogno di Chtulhu non smetta mai e poi mai, di brillare dentro di noi.

Volenti o nolenti.

“Collezione privata” di Eveline Durand, Delrai edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Eccomi di nuovo, dopo giorni e giorni davanti al foglio bianco.

L’emozione è sempre la stessa gioia perché le parole mi mancano e premono per uscire e paura, paura di non avere più nulla da dire.

E non perché i libri siano diventati muti, ma perché la bellezza mi offusca la mente, rapisce i sensi e doma quella mia ribelle anima.

E leggere è come avere una mano gentile che tiene le briglia di quella mente che, inutile che lo nascondo fingendo di essere razionale, preme rabbiosa per aprire la porta dell’altrove.

E so come l’atrove sia per me fonte di giubilo ma anche trappola, trappola da cui è impossibile sfuggire.

L’immaginario, il bizzarro l’inconsueto, la fantasia sono tentazioni, sono diletti da cui non riesco e non voglio sottrarmi.

Quindi è solo il libro a reggere il fragile filo che separa la veglia dallo stato di sogno.

Un filo lieve, un velo che troppo spesso, ultimamente, si solleva aprendo davanti ai miei occhi scenari di incanto e disperazione.

Tutto quel mondo che ho dentro allora si può riversare libero e indomito su questo bianco foglio che attende, con bramosia le mie parole.

E cosi orsù Alessandra, inizia a raccontare cosa hai visitato in questi gironi, centellinando le pagine, con una pigrizia inusuale per i miei standard.

Pronta a gustare lieta ogni frase,ogni capitolo, ogni descrizione. E davanti a me si è aperto un mondo, un mondo distopico, claustrofobico eppure suadente con quei suoi caliginosi e oscuri richiami.

Con quel castello sullo sfondo e i suoi sbuffi di vapore, le sue bizzarre creature e un signore del maniero dal cuore avvizzito, lentamente stritolato da demoni ghignanti.

Ecco come si apre ai miei occhi collezione privata.

Siamo in pieno steampunk.

Non fatevi ingannare dalla maestria della bravissima cantastorie che perfidamente dissemina false piste fingendo, per i non avvezzi al genere, che quest’avventura ha altri profumi rispetto a quelli quasi sulfurei del vapore, della tecnologia usata per fra brillare un impero morente.

Che ha il colore eterno di quel sentimento a cui persino Dante, con quel suo afflato di ardo civile, ha infine chinato sconfitto il capo.

L’amore esiste ed è davvero ben rappresentato in ogni sua sfumatura.

L’amor canale, l’amore per la scienza, l’amore traditore, l’amore bugiardo, l’amore fraterno, l’amicizia e persino quello che richiede come pegno la fiducia e ogni barriera costruita per non guardare mai più dentro di noi.

Dentro l’abisso dei nostri fallimenti, dei peccati e delle ossessioni.

Esiste questo sentimento in ogni pagina.

Esiste nelle sue più incantevoli colorazioni cosi come nelle più torbide e grigie fino al nero profondo.

Quello che macchia la sua purezza rendendolo comunque sacro, perché il sacro di dibatte sempre negli estremi.

Ma c’è qualcosa in più.

Un mondo che si presenta davanti a noi in tutta la sua magnificenza e il suo degrado, immagine di quella sfrenata sicumera e orgogliosa imperfezione che si mostra la mondo come medaglia guadagnata dopo una guerra atroce contro la superstizione.

Collezione privata è steampunk in ogni sua intima essenza.

Lo è perché accetta ogni suo canone, non solo la tecnologia portata all’eccesso ma anche i limiti che hanno spunto ogni autore a immaginare un mondo anacronistico: quello dell’apparenza.

Il mondo descritto dalla Durand è quello che noi nerd amiamo con tutta la forza: è caotico, brillante, capace di gridare il suo successo ma anche marcio, decadente, capace di sgretolarsi, nonostante il suo fulgido apparente splendore davanti ai nostri occhi attoniti.

In questo universo cosi profondo la manifestazione più evidente del progresso è soltanto quello di trovare un altra modalità per rendere la società stratificata e ordinata in gerarchie.

Solo i possessori del giusto status possono impadronirsi di ogni comodità.

Solo coloro scelti secondo canoni mai davvero etici dal potere possono concedersi il lusso di pavoneggiarsi con macchine di alta tecnologia o con collezioni di creature incredibili.

Solo loro possono sfidare il tempo e la natura con una sfida costante a quel Dio eco che, prima o poi, se non in questo libro in un altro si ribellerà al suo aguzzino.

E cosi nel castello di Enoch si ripete la farsa voluta dall’imperatrice scellerata, stolta e leziosa, decisa a godere del prestigio più che a mantenere intatta la comunità su cui dovrebbe regnare.

Si ripete la messinscena del potente che si diletta con i suoi trastulli, china il capio e accetta lo status quo.

E per farlo deve chiudere coscienza e cuore in una campana di vetro.

Mentre il tempo scandisce i minuti che gli restano prima che quel muscolo muoia asfissiato.

Cosi il creatore di quel mondo al contrario avanza con passo pesante e orgoglioso verso l’abisso.

Ma la nostra cantastorie dopo averci descritto con mirabile arte il suo personale universo steampunk deicide di cambiare le carte in tavola.

E grazie a alleati impensabili immette nelle scena un personaggio stravagante, ma necessario, capace di strappare a morsi quel copione trito e ritrito.

Stila.

La ragazza senza passato, senza memoria e pertanto capace di innovare proprio perché…tutta da riscrivere o da riscoprire.

Lei senza status, senza quindi pregiudizi o preconcetti, senza bagagli emotivi è libera, totalmente libera di scrivere la sua storia.

Senza regole e senza limiti.

E in quella riscrittura beh è ovviamente scontato che ci cada anche il signore del maniero, il crudele Julian.

Attorno a loro il mondo dell’imperatrice Cristina tenta di andare avanti.

Ma è Stila che lo ha inceppato.

Che ha stravolto ogni gerarchia.

Sarà lei sa donare una ventata di aria nuova e la possibilità…di pensare in modo diverso.

Dopo quell’uragano fatto di passione, intrighi amore e vapore, tutto sarà possibile.

E sono certa che la ribellione continuerà nel prossimo capitolo, regalandomi un altra emozione, da custodire come il bene più prezioso dentro di me.

Un libro splendido, adatto a tutti noi amanti di quelle astenosfere ma anche a chi si approccia per la prima volta al contorto, meraviglioso, ma mai limpido mondo dello steampunk.

“Nicolas Grimm. Caccia all’esule” di Fabrizio Fortino, Dark Zone. A cura di Alessandra Micheli

 

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La bellezza non è perfezione, non è simmetria; è provare quel senso di pace, sentire armonia. Meraviglia che scopre, chi cerca, chi non smette mai di cadere e provare paura, per cercare di uscire dai guai.

Cherries on a swing set

Sono queste le parole che hanno illuminato il buio della mia mente, mentre tentavo di recensire uno dei migliori libri mai letti.

Eh si è da un bel po’ che sogno di leggere e raccontarvi caccia all’esule.

E mi sono chiesta perché ero cosi fissata, pazzamente fissata con questo testo. Poi mi sono risposta è steampunk.

E lo steampunk rappresenta tutto quello che per me è bellezza.

Non la perfezione, non la meravigliosa organicità di un testo, immacolato nella sua composizione, con quello stile riconoscibile e logico. La meraviglia non è cosi scontata.

Essa vive nel fango e fa nascere rose. Essa è negli angoli della vita, laddove neanche gli angeli esistano. E’ tra la logica che apparentemente domina, ma che nelle sue crepe riversa verso di noi l’arcano segreto del soprannaturale.

Lo streampunk è magia.

La magia di una scienza resa fatata, assurda e anche contro il suo tempo.

Nonostante spesso i libri si rivolgono all’ambientazione vittoriana spesso la stravolgono e la superano.

E’ oramai scritto da me in ogni dove che quel periodo non fu affatto leggiadro come ci mostrano.

E’ fatto di luci e ombre, progresso reso al servizio del potere e oscuri meandri in cui l’abisso rigurgita dolore, disperazione e sconfitte.

Il vittoriano non è solo scintillante nella sua alta e sofisticata ingegneria. E’ anche la povertà estrema dell’abominio umano.

I compromessi, quella pruderie che ammazzava la poesia considerata pericolosa, quell’immaginazione che rendeva le donne non già divinità da riverire ma povere isteriche da curare.

E caccia all’esule questa oscura dicotomia la racconta perfettamente.

Tecnologia che ci strabilia, conoscenze che ci seducono, anche se i termini come eugenetica richiamano oscuri recessi della memoria fatta di corpi e sentimenti straziati.

Ci intriga la capacità di manipolare l’altro mondo, tanto da asservirlo all’uomo, come se l’essere umano fosse la nuova divinità da venerare.

Ma al tempo stesso Nicolas Grimm si trova davanti alla menzogna.

Alla crudeltà.

Agli intrighi sordidi di una società che perde letteralmente pezzi di se, diventando davvero un macilento cadavere vivente.

Si trova davanti ai peggiori sobborghi di Londra, dove anime dannate subiscono l’onta e l’affronto di essere cavie da sacrificare sulla scacchiera del potere.

E cosi Londra mangia il suo popolo, lo divora per mostrarsi fiera e regale al mondo.

E nel leggere questo strabiliante libro, la malinconia si assale.

Perché in fondo.. è quello che succede a noi.

Dominatori orgogliosi di un mondo di carta che si straccia piano piano.

E in fondo siamo tutti Grimm, convinti della propria strada eppure messi terrificantemente alla prova.

E l’unica soluzione è rifugiarsi all’interno di se stessi per trovare la voce antica della saggezza, quel grillo parlante che da tempo ha smesso di ammonirci.

Disperato anche lui di fronte a una grandezza che è solo una maschera ridicola della decadenza che ci assale.

“Steambros Investigation. Brother War” di Alastor Maverick & L.A. Mely, Dark Zone. A cura di Alessandra Micheli

SteamBros Investigations. Brothers war- Alastor e Mely

 

E’ molto difficile recensire il terzo libro di una trilogia che ti ha appassionato cosi tanto, da entrare quasi con elegante prepotenza nel tuo mondo interiore.

Ho scritto fiumi di inchiostro per i libri di Alastor Maverick e L. A. Mely.

Pieni di passione e meraviglia, l’incanto di parole che mi trasportavano in un mondo totalmente dominato dal vapore, dove il vittorianesimo si sposava con quella tecnologia affatto simile alla nostra.

Mentre la nostra tecnologia è capace di divorarla l’anima, quella raccontata da Alastor e da ogni Steampunk che si rispetti, è il risultato di un genio umano che da Tesla fino a Babbage accoglieva l’eredità di Leonardo da Vinci, quella di essere capaci di muoversi attraverso le stringe del tempo, si aprire con nonchalance, le porte segrete che congiungevano i mondi e sconfiggere i tanto cari elementi newtoniani come tempo e spazio.

E cosi, seppur in una apparente semplicità, i miei due autori aiutavano il neofita, spaventato dall’estrosità complessa del genere, terrorizzato da coloro che lo catalogavano come faccenda privata dei nerd, ad addentrarsi nei mondi incantati creati dal vapore.

Nei loro libri non manca certo la feroce critica sociale di ogni libro vittoriano e neo-vittoriano.

L’intelligenza diviene la penna satirica con cui deridere a tratti ironicamente a tratti ferocemente, il degrado di un essere umano che troppo spesso da protagonista diviene comparsa o peggio burattino, manovrato da qualche strano e inquietante re assiso sul trono.

Lo denunciavano i Nomadi ricordate?

C’è un re che non vuole vedere, c’è un re che non vuol sapere…mentre fiumi di sangue si versano per il suo crudele diletto.

Capite perché, oggi, nello scrivere avverto quasi un lutto intenso?

I miei amati Nicholas e Melinda ci hanno detto tutto ciò che era in loro potere.

Sono cresciuti attraverso il difficile percorso di un eroe che, per esserlo a trecentosessanta gradi, deve anche o sopratutto, de-costruirsi.

Crollare, essere quasi smembrato, affinché possano ri- costruirsi.

E tutto questo avviene solo se si affronta il lato oscuro, guardare oltre l’egocentrismo e rinunciare a qualcosa, che sia la ferrea logica di Melinda o l’amata perfezione del nostro Nick.

Devono per poter crescere e magari andare incontro a altre avventure.

Devono, perché davanti a un mondo che è minacciato da un male un male difficile da definire perché sottile, sotterraneo e anche in un certo senso giustificato, devono divenire esempi, esenti da quelle adorabili imperfezioni che ci hanno accompagnato in questo lungo viaggio.

Melinda si troverà di fronte a un intelligenza che non è altro che un bel muro contro un umanità che non capisce, perché non si sente capita.

La perfezione estetica di Nick sarà il suo unico tentativo di allontanare mancanze e fragilità.

Il rigore dell’eroe che appare in tutta la sua radiosità, non è altro che la rabbia celata contro chi, con le vite degli altri, ci gioca.

E il male non sarà altro che la conseguenza non solo dell’indifferenza, ma del mancato rispetto verso l’umanità delle persone.

Ecco che in un mondo votato all’apparenza, come quello vittoriano, ma cosi simile al nostro si comprende la necessità del capire, comprendere, amare ogni uomo, nonostante ogni apparente inadeguatezza.

Non dobbiamo essere adeguati.

Dobbiamo essere umani.

E allora come loro ultimo regalo gli steambros ci fanno ammirare la loro ctonia saggezza, nascosta dietro una caricatura divertente dei loro difetti: conti solo tu, la tua essenza, la tua anima, i sogni che pensi che il resto del mondo rifiuti, con la tua fragilità bellissima e la tua manchevolezza.

Che sarà cosi agli occhi del mondo consuetudinario, ma per l’universo è solo il tuo raro, unico talento.

E cosi la vera guerra gli steambros la combattono contro se stessi, regalandoci un atto finale pieno di nostalgia, rimpianto e una sorta di tuffo al cuore.

Perché le loro avventure non finiranno mai è vero, ma per noi sarà un duro, lacerante arrivederci.

Anche se il libro non si conclude con l’ultima pagina, già sento la mancanza dei fratelli Hoyt.

Mi mancano come mancano gli amici partiti per un lungo viaggio.

E resti li in un limbo sospeso, con la lieve speranza che un giorno, spero non lontano, torneranno a bussare alla tua porta.

Io li aspetto.

E voi?

A me già mancano.

 

“Il pentacolo. Legancy of darkness. La saga completa” di Mirian Palombi, Dark Zone. A cura di Alessandra Micheli

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La tecnologia in un’era distrutta, quasi spogliata di ogni naturalezza, è l’unica speranza di rinascita.

Scrivevo cosi, a proposito dei due volumi precedenti di Legancy of the darkness.

Del resto sono e resto una fervente ammiratrice della scienza, colei che permette di accendere una luce in q uesto strano buio che ci avvolge.

Una speranza per noi, che cosi fragili ci scontriamo con la nostra mortalità.

Del resto, la nuova tecnica, ha come obiettivo quello di renderci potenti, simili a quel dio che ci ha creati, ma che gioca con noi come il gatto con il topo.

E ammetto che in questo periodo di caduta di foglie, di sentimenti e di gioia, ho guardato agli esperimenti descritti dalla brava Miriam con un pizzico di bramosia: creare uomini nuovi, uomini potenti, uomini senza coscienza, dediti solo al lato godurioso della vita.

Esseri invincibili, senza quella capacità profonda di provare amore, dolore, e compassione.

E mi rendo conto che il sogno delirante della nuova scienza è semplicemente quello: impedire al cuore di pulsare e sanguinare.

Cosi ogni personaggio descritto, ambisce a lasciare un segno in quelle parole che grondano inchiostro come bellissime lacrime su di noi, sull’anima straziata di chi come me, cerca pace in un libro. In fondo cerchiamo tutti la stessa cosa che: scappare dal dolore terreno.

Trovare uno scopo.

Trovare la propria strada e tramutarla in sete di prestigio.

Li, assisi sul trono della nuova tecnica, fingiamo di essere Dio.

Di manovrare quei gretti simili che non sanno o non vogliono sapere che, come direbbe Voldermort, non esiste bene o male, ma solo il potere e la goffaggine stolta di non afferrarlo.

Poi però, davanti al prezzo da pagare, la mia anima ha detto no. Preferisce continuare a soffrire, dubitare, sentirmi anche morire vivendo la vita, piuttosto che sacrificare l’altro sull’altare delle mie frustrazioni, o della mia incapacità di vivere appieno ogni sfumatura dell’esistenza.

E cosi che in fondo fanno tutti i protagonisti del pentacolo.

Sono io che, mi sento pervasa da una dolce malinconia, o tu Miriam, li hai colorati di un umanità cosi nostalgica, e cosi lieve da suscitare in me amore persino per la bestia, vittima dei suoi istinti?

Sono io che vedo la vita diversa o in Elizabeth, in Ghalad, ma persino in Soliman ho visto quella vena di carità, che forse mancava nei libri precedenti?

La delicatezza qua regna sovrana.

Anche nell’orrore, anche nelle perversioni che la scienza porta con se. Che non sono altro quelle di credere che, basta la ragione a rimettere le cose a posto.

Basta la tecnica a ricucire i corpi e i cuori.

Ma senza anima, senza quel soffio vitale, senza la follia di un dio che ci ama cosi tanto da regalarci il mondo e che ci stima cosi tanto da essere convinto che siamo in grado di superare le prove più assurde e atroci, non esiste una vita.

Esiste un’imitazione, un sopravvivere, un muoversi.

Ma non è vita.

Ed è questo che scopriranno i nostri personaggi in questo terzo capitolo, che mai come i precedenti ha saputo toccare corde segrete del mio cuore.

La natura era intervenuta donando a tutti loro capacità straordinarie. Alcuni di quei poteri erano terribili, e provenivano dal lato oscuro dell’animo umano. Non importava quanto doloroso fosse stato raggiungere quella consapevolezza, e se quella fosse l’eredità delle tenebre. Tutti loro avevano in fine accolto quel dono.

Ed è vero.

Il legame dell’oscurità è in fondo un vero e prorpio dono, un opportunità.

Ed è attraverso ogni lato oscuro che noi possiamo creare meraviglie. Cosi come è reale il contrario, ossia che attraverso la meraviglia, l’arcano, possiamo scovare il lato oscuro.

E’ tutta una questione di equilibrio.

E sapete cosa ci tiene in equilibrio?

L’amore.

La compassione.

Quella speranza di non fallire, di riuscire a volare di nuovo, nonostante ali strappate.

NOTA

Per le recensioni dei primi due volumi si rimandano ai seguenti link 

https://lesfleursdumal2016.wordpress.com/2018/06/18/legacy-of-darkness-il-pentacolo-e-il-respiro-del-diavolodi-miriam-palombi-dark-zone-editore-a-cura-di-alessandra-micheli/

 

https://lesfleursdumal2016.wordpress.com/2018/06/18/dentro-il-libro-viaggio-attraverso-la-simbologia-del-libro-di-miriam-palombi-legacy-of-darkness-libro-i-e-iidark-zone-editore-a-cura-di-alessandra-micheli/

 

 

 

 

 

“Victorian Vigilante. Le infernali macchine del dottor Morse” di Vittoria Corella e Federica Soprani, Nero Press editore. A cura di Alessandra Micheli

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La scienza per me è una vera passione.

Ma questa passione non è libera di scorrere impunemente.

Non è tutto lecito in suo nome.

Non è una scusa per venerare qualsiasi impulso o curiosità, scevra da un senso di rispetto per qualcosa di immanente che io chiamo l’eterno.

Amare e venerare la scienza è una forma di fede, quella che ti spinge a incontrare dio nei numeri, nei dati, negli esperimenti, accompagnato da un costante senso di meraviglia e riverenza.

E’ l’emozionarsi davanti alla perfezione delle formule chimiche, davanti all’intramontabile immutabilità delle costanti di natura.

Al meraviglioso viaggio nel vero paese delle meraviglie, che è possibile compiere con un microscopio, laddove una goccia d’acqua è un piccolo cosmo, dove un soffice fiocco di neve è una mirabile opera d’arte.

Ed è cosi in ogni appuntamento con la storia naturale, l’etologia, la botanica la biologia e la chimica.

E cosa dire dell’astronomia?

Quell’incontro con la maestosità di un universo in crescita che ci fa sentire spaventosamente piccoli ma parte di un progetto meraviglioso. La scienza è connessa con la religione, quando con rispetto e pudore intende capire i legami che ci uniscono in questo ingranaggio perfetto e sentirsene parte.

E’ la conoscenza che ci fa, semplicemente, osservare il sublime volto di dio, un dio che non è separato da noi da chissà quale distanza siderale, ma è immanente.

Nessun vero scienziato è ammantato dal sogno di onnipotenza.

Perché il potere fa parte del mondo e il vero scienziato è si nel mondo, ma non del mondo.

E’ sacerdote e bambino, è incanto e gioia.

Responsabilità e rispetto.

Perché quando si è consapevoli di far parte di un organismo che ci contiene e ci trascende, si è più attenti, più partecipi e più responsabili di ogni singolo filo invisibile che ci lega uno all’altro.

E questo senso di appartenere alla grande ragnatela dell’esistenza, ci rende maniacalmente attenti a ogni azione, perché essa non generi un onda d’urto che ne danneggi l’incredibile bellezza.

Chi ama la scienza non sogna l’immortalità, perché si sente già immortale interiorizzando la massima che “nulla si crea e nulla di distrugge”.

In victorian vigilant, il senso autentico della scoperta scientifica, viene perduto nel mare impetuoso e oscuro del sentimento di rivalsa.

A muovere il dottor Morse non è l’amore per la conoscenza, ma la volontà semplice e bambinesca di urlare a un mondo distratto “ora ti faccio vedere chi sono”.

E solo un uomo davvero senza dio, inteso però come coscienza, può manipolare il corpo e non usare le capacità per migliorarlo, ma piuttosto per dominarlo.

In un adrenalinica corsa verso il riparare torti reali o apparenti, Victoiran vigilante si muove sulla scena di un’epoca vittoriana che sta lentamente decadendo.

La grandeur britannica è in asfissia.

I sentimenti di rappresaglia delle sue colonie sono voci sempre più potenti.

Le contraddizioni tra la volontà di mostrarsi come guida al mondo, cosi come dovrebbe fare un vero impero e le sue atroci contraddizioni sociali la stanno spezzando.

La società inglese è un morto che cammina, cosi come tanti romanzi perfettamente ci descrivono.

Non è un caso che i romanzi neovittoriani, descrivono la società oramai decadente usando il simbolo del vampiro, colui che pur deceduto non rinuncia a succhiare la linfa vitale di tanti poveri elementi sacrificabili, non a caso scelti tra i perdenti che brulicano i dock o White Chappel.

E’ una nazione alla ricerca di un nuovo senso da dare alla sua esistenza, di nuovi valori e di un nuovo sentimento comunitario che il colonialismo non può più dare.

Ecco che la soluzione la si ritrova in un finto amore per una scienza, che non è altro che una nuova maschera per il vecchio musicante che spavaldo non cambierà mai le sue note.

E sarà sempre la volontà di potenza degli uomini che si sentono piccoli e spauriti davanti al tempo che passa, a un evoluzione che non guarda in faccia i nostri bisogni, a una legge, quella della retroazione, che ci fa scontare le nostre sviste.

La scienza del dottor Morse è il gesto disperato di chi non riesce a trovare una via alternativa alla logica di dominazione, che sta mostrando tutte le sue falle, lasciando che il mare della vita la inondi, la distrugga e la devasti.

In questo scenario tipicamente e deliziosamente decadente e steampunk nel suo originario senso (la bellezza del progresso al servizio dei più miseri obiettivi) coinvolge uomini e donne che tentano di vivere al meglio in questo mondo disperato.

Rachel che in un ultimo atto di redenzione cerca di riparare alle sue scellerate visioni.

Mordecai vittima e carnefice inconsapevole come l’eroe graaliano dei suoi doni.

E i due eroi, stesse facce di una medaglia chiamata giustizia: Percy e Malachy.

Entrambi i volti di quell’umanità che desidera ancora fregiarsi dell’aggettivo umano e che ha solo due strade davanti a se per la redenzione: la purezza dell’ideale e il coraggio di scendere nell’abisso.

In questo mondo che crolla, Percy è l’eroe classico, puro, guidato da alti ideali incapace di soccombere alla tentazione.

Ma pertanto evanescente, come la notte a cui appartiene e troppo irraggiungibile per poter essere imitato.

E poi c’è l’uomo di ogni giorno, che cade, si ferisce, rimane gemente e piangente nell’abisso.

Sbaglia, odia, compie errori.

Ma proprio per questo lì, in quella profonda voragine capace di attutire tutti i rumori, è cosi coraggioso da alzare lo sguardo.

E vedere le stelle.

E decidere in un atto difficile ma sublime di raggiungerle.

Che sia amore, o rimpianto, o dolore, il vero eroe non è il puro, il paladino perfetto.

Ma chi crolla e piange si suoi errori e da quelle lacrime fa nascere una coscienza nuova:

Alla fine siamo frutto tanto delle nostre colpe quanto dei

nostri meriti. Combattiamo nelle tenebre senza sapere se

meriteremo la luce. Combattiamo perché non possiamo fare

altro. Perché qualcuno lo deve fare. La guerra ha delle regole

che non appartengono agli uomini, non appartengono a Dio.

Appartengono solo a chi la combatte.

A chi vigila nell’oscurità notte dopo notte.”

Che un vigilante, un paladino, possa lasciare e pagine di questo libro disperato e poetico e irrompere in  questo post moderno traballante, specchio di quella società che ieri crollava.

Oggi, il nostro orgoglio umano non fa altro che contemplare una   società morente, incapace di distogliere lo sguardo attonito dall’orlo di un abisso senza fine, oscuro e senza speranza.

E allora come nell’epoca vittoriana anche oggi abbiamo bisogno di eroi, di ideali da stringere a noi.

Anzi.

Tutti noi dobbiamo essere eroi di ogni perduto, faticoso giorno.