Lo Hijab mancante,Roberto Pegorini,Todaro Edizioni.A cura di Barbara Anderson

Todaro Edizioni e Roberto Pegorini ci presentano un nuovo romanzo: un giallo veramente ben sviluppato, dalla trama interessante e dai personaggi dalle caratteristiche umane ed emozionali altamente centrate e realistiche.

Conosciamo tutti lo hijab, il velo islamico ma contrariamente a ciò che si pensa il velo non è una pratica esclusivamente islamica. Anticamente anche in Italia  veniva utilizzato per proteggersi dalle intemperie, dal vento, dalla sabbia. 

Osservando il punto di vista religioso, il velo sul capo rappresenta l’umiltà e la sottomissione a  Dio;  principi che sono seguiti anche dall’ebraismo e dal cattolicesimo.

Basta andare in alcuni villaggi del sud Italia per trovare donne con il velo sul capo.

Le tipologie di velo sono molteplici nella cultura islamica. Lo hijab è una specie di foulard o sciarpa che copre testa e collo lasciando il volto scoperto. 

Simbolo per eccellenza di modestia e fede.

Ovviamente tutto ciò che è estremo e che è forzato prende una forma di violenza ma molte donne indossano il velo per scelta.

Tornando a questo romanzo. Lo Hijab o meglio la sua assenza diventa un indizio molto importante nel caso che l’abile ispettore Valerio Giusti e la sua squadra si troveranno a indagare.

Una giovanissima ragazza di 17 anni viene ritrovata morta, senza lo hijab sulla testa, come se la sua integrità morale oltre a quella fisica fosse stata deturpata e violata.

Umut è il suo ragazzo, un giovane pakistano umile, educato, modesto, il quale pensa che l’essere gentile nella vita sia il biglietto da visita più importante.

È innamorato della sua ragazza anche se le loro famiglie hanno forti disaccordi e attriti tra di loro.

Umut è un ragazzo pieno di sogni, che lavora nel ristorante pakistano di suo zio per potersi pagare gli studi e per poter costruire le basi di un futuro migliore.

La sua posizione da immigrato straniero e oltretutto islamico non gli rende la vita facile in una Milano che pulsa, che vive, che si muove veloce nella sua quotidianità fatta di lavoro, di pregiudizi razziali e religiosi.

Immaginate un ragazzo umile che all’improvviso si troverà a essere accusato dell’omicidio della ragazza che amava.

La prosa di questo romanzo è molto intensa e veloce, coinvolgimento immediato, connessione, intesa con i protagonisti, i quali appaiono ai nostri occhi come reali, tanto che il romanzo sembra di viverlo e non di leggerlo.

L’ispettore Giusti è un uomo dalla personalità spigolosa, una vita senza orari, un cuore infranto. Un uomo che aveva avuto una relazione complessa e che da sempre mente perfino a se stesso per paura della verità.

Nel mostrarci le vite dei protagonisti tutti scopriamo come è possibile comprendere il valore di ciò che abbiamo solo quando lo abbiamo perduto. Che anche i poliziotti hanno cuore e sentimenti, non sono immuni davanti alla morte con cui quotidianamente vivono, insieme alla criminalità.

No, non ci si abitua mai alla morte, al dolore delle famiglie delle vittime.  Fa sempre un male immenso e non è facile mantenere cuore e testa distaccati dall’empatia quando le vittime sono ragazzini o bambini innocenti.

Si arriva a mettere in discussione persino noi stessi, persino la nostra fede, perfino la fiducia in un mondo che sembra sempre più ingiusto.

La squadra di Giusti è una squadra dinamica e molto ben affiatata, avevano già lavorato insieme a un altro caso di omicidio; ma stavolta si tratta di una ragazzina ritrovata in condizioni terribili. 

Il vicequestore Giuseppe Cavalnese ha un rapporto con l’ispettore Giusti scanzonato, di confidenza e di sfottò, ma anche di profonda stima, rispetto e molta complicità.

La sovrintendente Melissa Gardini ha un passato particolare e qualche piccolo segreto che non si può tenere troppo lontano dall’occhio vigile della legge.

L’agente David Egger, il medico legale Giulia Decaroli, Mirko Bettoni, esperto in informatica che ho trovato davvero divertentissimo, un po’ fuori posto, un po’ impacciato.

Jessenia Rahimi è la vittima. Per la polizia preposta alle indagini chiamarla per nome potrebbe essere rischioso. 

Come è possibile tenersi a debita distanza dalla sofferenza dei genitori?

Come è possibile non contaminare il proprio giudizio con le opinioni personali?

Il giovane accusato di omicidio era agli occhi della sua clientela un ragazzo per bene, un’opinione diversa da quella che ora le evidenze stavano mostrando agli inquirenti.

Umut è braccato. Sta scappando con la sua colpa o con la sua innocenza tra le mani?

Umut è anche il capro espiatorio ideale per una società che giudica e condanna ancora prima di avviare un processo.

Un ragazzo islamico è il mostro ideale da sbattere sulle prime pagine dei giornali.

Conta di più la verità o le supposizioni? 

Quanto può essere dannoso un pregiudizio?

La vita è un oscuro gioco composto di fatti e di teorie, di supposizioni e di pregiudizi.

Come in una partita di tennis la palla balza da un individuo a un altro, ognuno ha la sua voce, ognuno ha la sua storia e ognuno di loro nasconde un segreto.

Nessuno è mai completamente onesto con gli altri e tantomeno con se stesso.

Gli eventi che si apriranno davanti ai vostri occhi li percepirete sulla vostra stessa pelle, l’aspetto umano, professionale e il complesso aspetto dei rapporti e delle relazioni interpersonali sia familiari che professionali e razziali sono complessità che viviamo quotidianamente.

Ognuno di noi ha i suoi traumi, siamo tutti vulnerabili, fragili, tutti abbiamo a volte una tremenda sete di vendetta, tutti possiamo commettere un errore.

L’ispettore Giusti troverà il coraggio di credere al suo istinto ma mettendo nella bilancia indizi e fatti, una bilancia che cerca di tenersi in equilibrio anche nella sua stessa vita. Perché siamo tutti santi e siamo tutti peccatori.

L’autore asserisce che scrivere è un atto estremo di solitudine poiché mentre si scrive si sta da soli con la propria testa, i propri pensieri, la tastiera, il computer o la carta e la penna… eppure questa solitudine quando il libro arriva tra le mani del suo lettore diventa comunione, condivisione compagnia.

Questo giallo mi ha toccato nel più intimo della mia sensibilità, la tragedia che viene esposta in modo sublime dall’autore ci mostra come le schegge del dolore facciano male a chiunque si trovi più o meno vicino al crimine commesso.

Ci sono conseguenze, ci sono emozioni devastanti e contrastanti. Cosa siamo disposti a fare per amore ma soprattutto quando è l’amore stesso che non siamo riusciti ad avere?

Il sacrificio estremo è spesso più estremo persino delle religioni.

La forza della giustizia e dell’integrità morale è l’arma con cui sconfiggere tutto il male che ci circonda e quello che abbiamo dentro di noi.

Complimenti sinceri all’autore che ha uno stile di scrittura davvero coinvolgente e fortemente emozionale ma anche una giusta carica di umorismo che trasmette al lettore quell’energia giusta per superare le parti più difficili di questa incredibile storia di fragilità, di traumi e di vulnerabilità umana.

Bellissimo anche il colpo di scena finale che mi fa sperare che Giusti posa tornare di nuovo a farci vivere emozioni e a farci scoprire nuovi indagini. 

“Gli insetti. Sinfonia in tre movimenti” di Barbara Bolzan, Delrai editore. A cura di Alessandra Micheli

E’ iniziato finalmente il salone del libro.

E immagino, o almeno mi illudo, di trovare facce felici davanti al libro dei loro sogni.

E non soltanto il gala degli incontri.

Spero che ognuno di voi vagando per stand ammassati, in mezzo alla confusione di una festa, possa ascoltare il sussurro che lo chiama.

Seguirlo e lasciarsi condurre a lui, quel testo che una volta sfogliato gronderà non soltanto emozioni.

Ma vi regalerà una chiave.

Quella chiave stringetela forte, perché aprirà proprio la porta nascosta in voi che da tempo, da anni forse, o da mesi chiede di essere aperta.

E so che la paura di scendere in antri nascosti di noi fa un sacco di paura.

Ricordare e affrontare ogni immagine che vi si piazzerà innanzi gli occhi sarà altrove.

Un viaggio agghiacciante tra insetti che strisciano lenti, e ogni di loro vi racconterà una piccola verità.

Quel brulicare che vi disgusta sarà, forse almeno spero, la vostra redenzione.

Perché dopo l’orrore, dopo aver gridato, maledetto dio, arriverà la salvezza.

E vi sentirete finalmente leggeri.

Perché il famoso zaino di cui vi parlo, quello che pesa sulle pelle durante le salite, sarà finalmente svuotato.

Allora lasciate che la voce vi guidi, oltre persino la trama, oltre la bellezza apparente della cover.

Lasciate che vi chiami.

Fidatevi di zia Ale.

Lasciate ogni certezze e andate alla ricerca di quella solitaria voce. Perché se non riuscirete a considerare il libro un qualcosa di vivo, di reale, allora non è il mondo che fa per voi.

Non diventerete mai suoi amici.

Magari sarete lettori, finirete nelle classifiche o indosserete il badge che vi acclamerà come divinità dei social.

Ma non sarete amici dei libri.

E quando qualcuno instaura questo sentimento con l’altro, libro o persona che sia, è pronto per crescere, per evolvere, per comprendere se stesso.

Il libro amico diventa uno specchio.

O una torcia con cui scenderete nelle cantine più anguste, nelle soffitte più impolverate a cercare parti perdute, ma fondamentali di voi stessi.

Io cosi ho sempre creduto.

Questo è il rapporto che ho sempre instaurato con il libro.

E oggi come amico ho proprio accanto a me, quello di Barbara. Abbiamo parlato moltissimo, ieri notte.

Parlato con toni soavi e con toni cavernosi.

Ho visto il paradiso e l’abisso.

Nell’abisso stesso mi ci ha accompagnato per mano.

Lui la mia torcia, presenza salvifica, io la coraggiosa, con lacrime agli occhi e il core che fa tum tum.

Cosa ho trovato, se soffitta o cantina non posso svelarlo.

E’ un vostro viaggio.

E’ il vostro momento unico e speciale.

Posso però dirvi che uscita fuori da quel viaggio, mi ha lasciato vuota e piena allo stesso momento.

Vuota perché ho svuotato il famoso zaino.

Piena, perché oggi, quello spazio l’ho riempito di cose migliori.

Ho tolto dolori e rimpianti e accolto bellezza e compassione.

Per me, per un senso di colpa che mi sono portata appresso per tanto, troppo tempo.

Ma cosa c’entra con il libro, direte voi?

Tutto.

In realtà basterebbero queste parole per raccontarvi la meraviglia di cosa ho letto.

Ma non mi fermerò.

Perché davanti al talento serve la riverita ammirazione e la gratitudine verso chi ha scritto non con l’inchiostro ma con il sangue che sgorga dall’anima.

E la Bolzan dentro ogni libro mette se stessa.

Tutta se stessa.

Non gli interessa di apparire, di farsi vedere, di creare voli pindarici con la sua conoscenza della scrittura.

Lei si dona.

Si dona a noi.

Generosamente, dolorosamente, totalmente.

E questo dono viene raccolto e rende schemi letti e riletti unici e speciali.

Di thriller psicologici in cui l’apparenza è un inganno, ne ho letti a iosa.

Archetipi raccontati in mille modi diversi.

Ombre descritte con tutti i colori della tecnica letteraria.

Ma con lei…

E’ come se fosse la prima volta.

Sospesa una sorta di boriosa consapevolezza di essere una brava blogger, una perfetta lettrice.

sospeso quel gioco delle parti in cui ognuno dei contendenti cerca di fregare l’altro, di essere più furbo, io mi sono ritrovata indifesa, e ingenua come una neofita davanti la suo sacerdote.

Non conoscevo il genere.

Non sapevo individuare il bandolo della matassa.

Era un labirinto intricato di immagini, descrizioni accennate, di sinfonie che non venivano mai concluse.

E con cupidigia, con ardore andavo avanti a assorbire, assaporare parole.

Fino alla nota finale che ha concluso ogni overture.

Sapevo, una parte di me sapeva dove saremmo finiti, in quella parte della casa dell’io ci saremmo rannicchiati.

Ma era una credulità sospesa, cosi come dovrebbe fare un fottuto, meraviglioso libro.

E il paletto del cuore si è allentato, lasciando che la mia arida riva fosse inondata da un mare di emozioni.

E’ stato uno shock.

E’ stata la rivelazione.

Sofferta sicuramente, perché se avevo inserito questo acuminato paletto, era perché quella stanza non volevo aprirla.

Volevo continuare a illudermi che nulla nella mia vita fosse cambiato.

Volevo restare in compagnia di fugaci figure evanescenti, a farmi compagnia, distrarmi dalla meta e a oscurare il sole della realtà.

La Bolzan non lo ha permesso.

Ha insistito con somma grazia e con elegante ferocia a condurre il gioco.

Perché lei stessa, aveva compiuto prima di noi il viaggio.

E in quella nota finale, quella che ho voluto conquistare in modo testardo, ho riscritto il mio di finale.

E’ questo che significa leggere.

E’ questo che auguro a ognuno di voi, che oggi disonorate il libro considerandolo mero gadget, occasione per farsi pagare i torti subiti.

Ricordate.

Non solo parti della vita che avete seppellito.

Ricordate il vostro dolore, chi siete.

E ‘ l’unico modo per tornare a essere umani.

Grazie Barbara.

Non dimenticherò mai il tuo dono.

“Mi fidavo di te” di Marcella Nardi. A cura di Barbara Anderson

Non si può restare indifferenti a un titolo così.

“Mi fidavo di te”, racchiude in quattro parole la delusione, la sofferenza, lo sconforto di chi ha sentito tradita la propria fiducia.

Ma che cos’è di fatto la fiducia?

È quella sensazione di essere al sicuro, la certezza di poter contare sull’altro così come quella di poter contare anche su se stessi.

La fiducia è un sentimento dinamico, in continua trasformazione nel corso della nostra vita.

La fiducia si costruisce, si scopre, si tradisce, si perde ma si può anche riacquistare.

In tutto ci vuole tempo, a volte molto, moltissimo tempo; è un sentimento di costruzione dove si deve edificare la propria fiducia sulle azioni, sulle parole, sui fatti, sulle scelte delle persone a cui teniamo.

Citando una frase del dottor Frank Crane (editorialista dei primi del 1900)

Puoi essere ingannato se ti fidi troppo.

Ma vivrai nel tormento se non ti fidi abbastanza

Insomma per avere fiducia negli altri bisogna indubbiamente avere fiducia in se stessi poiché bisogna lasciarsi andare, abbandonarsi alla volontà di credere nelle buone intenzioni dei sentimenti che ci vengono offerti, esposti.

L’autrice Marcella Nardi, tratta proprio di questo argomento: la fiducia, nel suo nuovo giallo thriller che vede le gesta dell’investigatore privato Roberto Pignatelli.

Il palcoscenico in cui si svolgono le azioni, le gesta e dove si intrecciano legami e sentimenti è la città di Taranto.

Il successo di una delle sue precedenti indagini, che vide un terribile serial killer assicurato alla giustizia proprio grazie al Pignatelli e alla sua agenzia investigativa, aveva fatto sì che le richieste dei suoi servizi aumentassero talmente tanto da dover richiedere extra aiuto nell’agenzia: una nuova segretaria, un nuovo investigatore, supporto per organizzare ed esaudire le richieste dei propri servigi da parte della clientela in aumento.

Ma Pignatelli non sempre deve risolvere casi di omicidio, spesso, anzi molto spesso, si tratta di mariti o di mogli che sospettano tradimenti, deve pedinare, scovare prove per rendere la rottura del matrimonio e il divorzio a vantaggio dei suoi clienti. 

Si dice che un sospetto sia già una mezza certezza e quando un cliente ha un dubbio sul proprio partner la certezza che egli sia colpevole è quasi garantita…

Mentre il nostro investigatore annoiato cerca di seguire i consigli del suo socio e amico Angelo che gli consiglia di avere un approccio più umano e comprensivo nei confronti dei suoi clienti; qualcosa nel parco Cimino sta accadendo: una giovane donna chiama il numero di emergenza perché qualcuno la sta inseguendo; è trafelata, preoccupatissima per la sua incolumità. 

Cerca di nascondersi, di fuggire e l’operatore dall’altra parte del telefono cerca di rassicurarla.

La polizia che sta arrivando, deve solo resistere un po’ più a lungo…

La tensione e il pathos crescente che si percepisce tra le parole di questa ragazza e dell’operatore del 113 ci mettono ansia, preoccupazione, ma anche speranza, le sirene della polizia sono vicine e Sofia De Florio verrà salvata…

10 passi…

5…

Scossa!

Così mi sono sentita in quella posizione di impotenza da lettrice che sta per assistere a una possibile tragedia ma che non può fare nulla per fermarla.

E ritorniamo nell’agenzia di Roberto Pignatelli che si occupa di tradimenti, di spionaggio aziendale, di qualche furtarello ma soprattutto che cerca di ritrovare un po’ anche la fiducia in se stesso.

Da quando sua moglie era morta, la sua vita non era più la stessa, la solitudine, l’amarezza e il dubbio che quella morte non fosse stata solo un incidente, la possibilità che la sua Veronica possa essere stata uccisa lo divora dentro. 

Un caso che la polizia aveva chiuso da tempo ma non lui, non la sua coscienza, non il suo senso di giustizia, non la sua ricerca della verità.

Roberto oltre al lutto per la perdita di sua moglie si ritrova anche a vivere un lutto familiare: quei lutti dove nessuno è morto ma dove a morire sono stati i rapporti incrinati per le scelte che abbiamo preso e che la nostra famiglia non ha né compreso, né accettato.

La sua famiglia benestante non aveva preso a buon occhio né l’idea di Roberto di entrare in polizia, non aveva accettato la donna che aveva deciso di sposare e ancora meno aveva accettato il fatto che egli avesse deciso di aprire un’agenzia investigativa privata.

Era un uomo con una famiglia che su di lui non riponeva alcuna fiducia.

A volte le persone ci deludono, a volte siamo noi stessi a deludere gli altri. Succede.

Il tempo davvero guarisce tutte le ferite?

No, non sempre anzi a dire il vero quasi mai.

Abbiamo veramente bisogno dell’approvazione altrui per essere delle brave persone?

Citando il grande Holmes: non è mai troppo tardi per diventare ciò che eri destinato a essere”

Le indagini di Roberto Pignatelli si intrecciano tra quelle per scovare l’assassino di sua moglie e quelle per scoprire chi ha ucciso la giovane figlia dell’amico di suo padre.

Le indagini che seguiranno non sono solo quelle sul caso che deve risolvere ma sono anche le indagini che Roberto dovrà fare su se stesso, raccogliere indizi, valutare, riflettere, ragionare, constatare i fatti, confrontare ipotesi, intuizioni, sensazioni.

Roberto non è perfetto come non lo è nessun essere umano. C’è qualcosa di oscuro in lui perché c’è qualcosa di oscuro in ognuno di noi.

Abbiamo tutti un lato buono e uno malato, come si suol dire tutto dipende dalla parte di te stesso che decidi di nutrire e quella parte sarà quella che crescerà più in fretta e che diventerà più forte.

Roberto ha pensieri cupi, oscuri, tanto che già quando era alle calcagna del famoso serial killer egli stesso aveva detto che Roberto aveva insito in lui un criminale seriale.

Lui a questa cosa non aveva creduto anche se a volte… forse qualcosa di atroce non era più in stato embrionale all’interno della sua anima e della sua coscienza.

La rabbia, l’odio, la vendetta, il dolore.

I traumi, quelli che segnano la nostra vita e quelli che disorientano il nostro equilibrio mentale.

Le indagini di questo caso saranno davvero interessanti, vedremo i passi di Pignatelli e dei suoi collaboratori ma vedremo anche i passi del killer, del male che viene braccato da altro male.

Marcella Nardi ci mostra la dualità umana. 

E tornando alla fiducia di fatto nessuno è mai completamente onesto con le persone nella propria vita. Tutti mentono, tutti celano segreti e cose che restano solo nostre.

Un investigatore privato però non può muoversi da solo, ha bisogno di contatti, di legami, di collaborazioni con la polizia e il suo passato da poliziotto gli ha lasciato qualche rapporto ancora solido all’interno del dipartimento. 

La narrativa di questo romanzo è avvincente; c’è una dose di umorismo, di leggerezza ma anche una profondità di emozioni e di sofferenze non indifferenti.

La narrazione segue linee inquietanti, quelle del crimine che viene commesso, quelle delle vittime che lo subiscono ma anche del dolore delle loro famiglie.

I corpi delle vittime di questo nuovo serial killer hanno una firma particolare, c’è la precisione, il calcolo, l’organizzazione ma c’è anche la rabbia, la brutalità, come se si trattasse di due persone diverse che si accaniscono sulle stesse vittime.

O forse di un individuo con una doppia personalità.

Il Dr Jekyll e Mr. Hyde che rappresenta per eccellenza letteraria la natura della dualità umana.

Le persone più rispettabili e oneste possono segretamente avere un lato oscuro e immorale nella sua personalità.

Riuscirà il nostro Roberto Pignatelli a fermare questo serial killer?

Riuscirà a riconquistare la fiducia in se stesso?

Riuscirà ad accettare di non essere perfetto?

Riuscirà a chiudere con il suo passato e vivere il presente?

Prima di poter chiudere con il passato però bisogna conoscere la verità.

Riuscirete a scoprire l’assassino?

Ma soprattutto riuscirete a non leggere questo romanzo tutto d’un fiato come ho fatto io?

Ricordate, ciò che sembra finito forse deve ancora cominciare.

“Odio il martedi” di Riccardo Seccarello, Laurana Editore. A cura di Micheli Alessandra

Bisogna stupirsi.

Sempre.

Stupirsi della bellezza del mondo.

Della resilienza che caratterizza noi esseri umani.

Della ciclicità di una natura che non si fa frenare dalle nostre follie, ma si fa strada a volte con una dura fierezza in questo nostro oggi segnato da tante troppe scelte errate.

E stupirsi di ogni atto di bontà, persino quello che tenace resiste davanti alla banalità del male.

E dei libri.

Ecco stupirsi di quanto la lettura sia una straordinaria forza in grado di stroncare sul nascere ogni nostro schematico tentativo di porre limiti alla vita, che distrugge pregiudizi e quella voglia sfrenata di catalogare e etichettare tutto ciò che ci circonda.

Il libro deve lasciarvi attoniti, con un senso di meraviglia appena nato, da proteggere in modo strenue e feroce.

Non deve coccolarvi, ma darvi a volte uno schiaffo sulla guancia, per svegliarvi da questo tepore in cui siamo precipitati oggi.

Non a causa dei problemi legati alla pandemia o alla crisi economica.

No, mio lettore.

Sono anni che ci spingiamo verso l’abisso, con quella voglia di criticare ogni valore senza mai provvedere a sostituirlo con altro.

E in questo vuoto valoriale, questo vuoto che risuona e ci fa malissimo, riversiamo ogni cosa.

Affinché il baratro sia nascosto da ogni possibile tentazione, perché vederlo ci fa un male cane, ci rende consapevoli di una fragilità che ci rende prede del più basso istinto.

Della vendetta per esempi.

O della volontà di rivalsa che non si ferma davanti a nulla,m nemmeno alla compassione.

Il libro fotografa non soltanto la volontà immaginaria dell’autore. Ma questi istanti terribili che noi pur vivendo ammantiamo di ogni possibile velo.

Un libro racconta la nostra realtà.

La racconta senza farsi distrarre dai rimpianti, e della capacità di tergiversare propria dell’umanità.

No.

Dobbiamo vedere.

Leggere.

Essere scioccati.

Dobbiamo pertanto avere la possibilità di salvarci dalla discesa. Odio il Martedì stupisce.

Stupisce perché se apparentemente deride il lettore, in realtà gli dona una verità cruda, raccontata con astuzia, sarcasmo, ma senza sconti.

E indaga davvero l’animo umano.

I pregiudizi che in realtà non sono altro che maschere indossate per sentirsi più sicuri.

Pregiudizi verso l’altro, quando esce fuori dalle righe precise di una società guidata da complicati schemi numerici.

A ognuno è assegnato un punteggio.

E chi riesce a salvarlo da ogni sottrazione, ha la speranza di poterlo aumentare.

E cosi diventiamo numeri.

Numeri che tentano di rimanere costanti a discapito di mille intricate leggi.

In questo mondo cosi soffocante ognuno di noi ha la sua zona di conforto.

E stranamente non è certo quella che vi ho inviato a abbracciare. Non lo stupore per la complessità della vita.

Non la voglia di andare a fondo nelle emozioni e nelle sensazioni, lo stupore di trovare qualcosa che non coccola la nostra infallibile tendenza a rinchiudere bel concetto.

La zona di conforto alla fine è proprio il pregiudizio, l’etichetta.

Lo schema.

Ogni personaggio di odio il martedì è mosso da una sorta di insoddisfazione interiore.

Che non è ovviamente indagata a fondo.

Perché indagarla significherebbe farsi sorprendere, delle complesse emozioni che si agitano dentro di noi, delle ferite e persino dei bisogni infantili che tentiamo di dimenticare una volta cresciuti.

I vuoi mai colmati dalla pace che dona l’accettazione serena della fragilità.

Ogni personaggio di bea della propria etichetta.

E di conseguenza fa dei limiti la loro forza.

La maliarda, il bel tenebroso, il virtuoso, la brava ragazza.

Un lato che tutti possono vedere, che in fondo rassicura, che divide in buoni e cattivi.

E in possibilità di redenzione o di dannazione.

E cosi l’altra parte, quella oscura esce piano piano cambiando le carte in tavola.

Il buono diventa cattivo.

Il furbo sciocco.

La donna perduta chissà, forse una Maddalena redente.

E questo cambiamento arriva perché siamo abituati a definire tutto, persino il finale del libro.

L’altra parte di noi non diviene soltanto descrizione, ma concetto esso stesso.

Di nuovo.

Ancora un altra incapacità di stupirci.

Altra confort zone.

Chi è cattivo in fondo si pentirà.

Chi è buono peccherà.

Fino a che in questo noir con sfumature legal, si stufa di prenderci in giro e sfera il colpo di grazia.

Rimescola ancora e ancora le carte.

Fino a raddrizzarle?

O distorcerle ancora?

Sta a voi scoprirlo.

Certo è che ancora una volta ci pone davanti il nostro peggior difetto.

Non possiamo cambiare nessuna anima.

Se il cambiamento non porta a una vera vivisezione del nostro disagio.

Se non affondiamo con una lama acuminata dentro di noi.

Non basta sentirsi a disagio sapete?

Perché cambierete soltanto giocattolo.

Il disagio non è altro che una torica per guardare dentro il personale zaino.

E iniziare a nominare cosa contiene.

Nessuno dei protagonisti lo fa.

Cambia soltanto registro, copione e maschera.

Ma alla fine restano soltanto patetici attori di una triste commedia dell’arte.

Nessuno stupore.

Nessun applauso.

Soltanto l’amarezza di un umanità che distratta si perde in illusioni e chimere.

Un libro graffiante, ironico, dal ritmo incalzante e dalla elegante ferocia.

“Il giorno dei limoni neri”, Alessandro Di Domizio, Laurana Editore. A cura di Barbara Anderson

Il sangue non sporca i giusti.

In questa frase forse si racchiude un po’ tutto il senso dell’integrità morale di un individuo eppure, il sangue è ciò che ci lega alla nostra famiglia.

La famiglia è il contesto di origine e di appartenenza, il luogo dove costruiamo le prime relazioni affettive, là dove i legami indissolubili si formano.

I legami di sangue vanno oltre la morte del corpo e non possono essere mai spezzati o rinnegati, l’appartenenza biologica sembra segnare le basi dell’appartenenza sociale e culturale di un individuo.

Ma se qualcuno tocca la nostra famiglia, se qualcuno osa ferirla, offenderla o minacciarla a quel punto l’idea del sangue, della vendetta diventa quasi una conseguenza dalle origini ataviche.

E anche i giusti possono diventare sbagliati.

Nel libro “il giorno dei limoni neri” si parlerà quindi di famiglia, ma una famiglia particolare sicuramente discutibile ma purtroppo una realtà sociale e culturale dei nostri tempi, reale, cruda, la famiglia mafiosa.

Ambientato all’interno di un carcere abruzzese dove vite, sangue e crimini vengono rinchiusi all’interno delle celle, chi sconta la sua pena, chi vive la propria storia e segue il proprio destino.

In carcere tutte le storie finiscono male. Ed è così.

Alcune storie non finiscono mai.

Il lettore si troverà scaraventato in un mondo diverso da quello esterno. Osserverà la vita all’interno del penitenziario, resterà stupefatto per ciò che accade al suo interno, i rapporti tra detenuti e agenti di detenzione, tra criminali appartenenti a diverse famiglie, legami, accordi.

Il mondo dei penitenziari è un mondo a parte, è il luogo di emarginazione per eccellenza tanto che le visite da chi vive all’esterno sono come un ponte tra il mondo di dentro e quello di fuori.

Il detenuto si identifica con il suo reato? Essere riconosciuti come persone non come il crimine che si è commesso è possibile?

Eppure ci sono similitudini tra il mondo esterno e quello interno. In fondo anche il grande Arthur Schopenhauer nella sua visione pessimistica del mondo ci porta alla domanda: e se il mondo fosse una prigione?

Egli osservò il dolore e la sofferenza che l’uomo prova nel corso della sua vita e concluse che non cerchiamo la felicità ma bensì di ridurre le sofferenze che sono parte integrante dell’esistenza. Nel mondo come nel carcere, nessuno sceglie di essere lì, non si può uscire o andare via fino alla fine della pena o della nostra stessa vita.

Siamo limitati da muri e confini sia nel mondo che all’interno del carcere.

L’autore Alessandro Di Domizio ci rinchiude in una prigione, insieme ai suoi detenuti ci fa assaggiare il sapore amaro della reclusione, là dove il cuore della criminalità sconta la sua pena; là dove si superano le barriere della giustizia e si alimentano legami e alleanze future, che portano vantaggi e rispetto all’interno della prigione ma anche all’esterno.

Ciò che ci mostra però sono anche le vite di chi all’interno del penitenziario ci lavora, le vite di chi è all’interno per gli errori che ha commesso segnando una linea sottile tra giustizia e criminalità che contamina l’una e l’altra, ritroviamo anche un corredo di simbologia e di rituali dei battesimi mafiosi, i riti di iniziazione per chi appartiene alla camorra, a cosa nostra, alla ndrangheta o a qualsiasi forma mafiosa possa esistere; riti di affiliazione, valori che li sostengono simili ad archetipi del pensiero umano dove ci sono codici di comportamento, legami eterni di obbedienza, di fedeltà.

Ricordo il grande giudice Giovanni Falcone, il quale spiegò il codice di comportamento mafioso: obbligo di conservare il segreto a costo anche della stessa vita.

Il dovere di non entrare in contrasto con altri uomini d’onore e di mostrare sempre un comportamento leale verso i fratelli di sangue.

Mai presentarsi soli al cospetto di uomini d’onore.

Il ruolo del sangue nelle cerimonie di iniziazione mafiosa riconosce il significato profondo del sangue stesso rivestito nella cultura folkloristica meridionale, una rappresentazione simbolica universale. Il sangue è l’elemento fondamentale della vita, il sangue che viene versato e che porta alla morte, il sangue e la sua sacralità rappresenta la trascrizione simbolica di vita e di morte.

E qui i legami di sangue sono forti in questa storia dove all’interno del carcere ci sono membri appartenenti alla stessa famiglia, padri, zii ma anche fratelli di sangue mafioso.

Seguiremo le vicende del detenuto il Torresino Giacomo Riesi che all’interno del penitenziario viene rispettato dai membri della sua stessa famiglia ma anche dagli altri uomini d’onore detenuti all’interno.

Giacomo verrà prelevato dalla sua cella per essere portato all’interno dello scantinato della prigione davanti a un cadavere, un agente morta uccisa e lasciata sul pavimento in una posizione fetale con indosso un abito da sposa. Su di lei oltre al sangue che cola dal colpo della pistola alla testa anche un’immagine sacra di Sant’Agata protettrice del carcere e una scritta: SANGU CHIAMA SANGU.

Giacomo aveva già visto una scena simile anni prima, 20 per la precisione, e fu il corpo di sua moglie ucciso con la stessa metodologia.

La direttrice del carcere conoscendo gli agganci all’interno della prigione del Torresino gli concede 3 giorni di tempo per trovare il colpevole.

Potrebbe essersi trattato di un suicidio?

Le donne per i mafiosi sono creature sacre e intoccabili eppure qualcuno ha deciso di violare il codice d’onore. O che sia stata uccisa da qualcuno all’interno del carcere, un altro agente, magari per gelosia, per il rifiuto di attenzioni troppo invadenti?

Giacomo sta rischiando il suo onore e la sua dignità ma soprattutto la sua posizione di rispetto all’interno del penitenziario e le altre famiglie rivali potrebbero utilizzare questo evento a proprio vantaggio strappandogli il suo ruolo privilegiato all’interno del carcere.

Tra nicchie segrete dove i detenuti nascondono fotografie, lettere, telefoni cellulari, tra le minacce dei detenuti alle famiglie degli agenti penitenziari, agli accordi, i favori, le concessioni, i permessi, Giacomo dovrà scavare all’interno della prigione attraversando un terreno minato cercando di non intaccare le relazioni e i rapporti interni dei detenuti, ma sarà anche combattuto dal rapporto conflittuale con suo padre anche lui detenuto nello stesso carcere; un padre che percepiva suo figlio come un uomo senza il vero senso della famiglia, un uomo che non andava mai a trovarlo nella sua cella nonostante lui avesse fatto di tutto per essere trasferito nella stessa prigione del figlio.

Scopriremo una realtà criminale forte, infetta, legami profondi rivalse vendette, tradimenti, scopriremo la clandestinità delle relazioni. 

La morte dell’agente Sara arriva in un momento troppo sbagliato, si stanno intavolando accordi tra le varie famiglie e ora tenere tutti a bada diventava difficile, Torresini, foggiani, catanesi tutti erano lì a osservare, ad attendere un passo falso, un passo di vantaggio.

Se Giacomo non sapeva proteggere una femmina, la sua autorità all’interno del penitenziario era in declino.

Conosceremo anime e creature che vivono all’interno del carcere tra cui lo scugnizzo Ciruzzo che cerca di superare l’esame all’interno del carcere per diventare ingegnere, conosceremo lo zio di Giacomo, Giuseppe e vedremo il piatto con i limoni neri.

Ogni limone che marcisce rappresenta un Torresino della famiglia che è stato ucciso. Anime che vengono intrappolate all’interno dei limoni. 

Il padre di Giacomo coltiva rancore e potere, e chi tocca un Torresino è un uomo morto sia fuori che all’interno del penitenziario.

Indagando, ascoltando le dichiarazioni di altri detenuti e degli agenti di polizia all’interno del carcere, Giacomo inizierà a scoprire verità nascoste ma non segrete perché gli occhi di suo padre avevano anche orecchie in ogni luogo di quel penitenziario e ciò che accadeva non restava mai un segreto.

Il perdono appartiene alla verità; e mai alla menzogna.

Tra i limoni neri e una piuma nera si inizieranno a scoprire verità; tradimenti, legami affettivi sentimentali illeciti ma anche il controllo, il potere, la paura e il coraggio.

Al di là delle sbarre scende il candore della neve invernale, sembra cercare di coprire con la sua purezza tutto ciò che di impuro esista al mondo, silente si posa sul terreno, coprendo tutto, nascondendo ciò che si trova al di sotto, forse per proteggerlo, forse per distruggerlo.

Cosa sta succedendo all’interno di quel carcere? Chi è libero di poter commettere dei crimini all’interno? Ci sono fantasmi? Attività paranormali?

Il carcere era un tempo un convento di frati e superstizione e omertà iniziano ad allearsi tra loro creando confusione e timori.

Tra l’odore della galera, il puzzo di sigarette, di sudore e di urina, quell’olezzo che si attacca al naso e alla pelle dei suoi detenuti ti logora dentro e contamina perfino la tua mente.

Chi aveva ucciso l’agente Sara e chi aveva ucciso sua moglie? Si trattava di un’organizzazione ostile a Cosa Nostra?

Le persone si possono vendere e comprare, ma possono venire acquistate anche con la verità. Tra rivolte dei detenuti, omicidi, tutto si complica tutto si amplifica, tutto si altera e si modifica. 

In carcere tutto sembra più complicato ma tolto lo sporco le cose sono forse stupide come la mente di chi quelle cose le ha pensate.

Il carcere è un mondo a parte e attraverso questo romanzo lo vivrete sulla vostra stessa pelle, vi porrete domande, cercheremo delle risposte, comprenderete la forza dei legami di sangue, i suoi riti che si tramandano di generazione in generazione come il rito del malesangue. Forte nel testo il linguaggio dei mafiosi, le strette di mano, il bacio sulle labbra, un’immagine sacra, un inchino, un tatuaggio, un linguaggio legato a tradizioni, ancorato a simboli. 

Inutile negarlo ad oggi abbiano una maggior sensibilità sul tema mafioso, e sappiamo che l’elemento comunicativo nel contesto mafioso è importantissimo tanto che ci sono stati moltissimi studi proprio sull’argomento.

L’ostentazione all’interno del carcere che simboleggia il potere.

Per mantenere potere bisogna mantenere la territorialità. I valori morali delle mafie seppur legati anche alla religione e al rispetto alla sacralità religiosa non possono venire accomunati. Mafia e credenti pregano un dio diverso, ma è necessario per sostenere il legame con il territorio e il potersi lavare la coscienza.

L’elemento del sangue rappresenta la rinascita, si entra in un mondo dove ci sono valori religiosi che giustificano il crimine; il bacio: sigillo di segreti, di unione e di rispetto.

Se avete letto il romanzo di Lara Ghiglione: così parlano le mafie potrete vedere come in questo romanzo Alessandro Di Domizio ha mantenuto fede alla veridicità del linguaggio della comunicazione, dei legami di famiglia.

Un autore che si è documentato, che ha sostenuto una profonda ricerca prima di raccontare una storia, un’indagine mossa dalla fantasia ispirandosi alla realtà quella oscura delle mafie.

Riporta anche alla memoria un vecchio film poliziesco degli anni 70 Black Lemon, anche questo svolto all’interno di un penitenziario.

Una storia avvincente, che ci mostra la profondità dei legami di famiglia, si percepisce la potenza radicale del sangue, quello con cui si viene al mondo e quello con cui si decide di affiliarsi.

Un romanzo che ci apre una nuova visione su qualcosa dalle radici ataviche che scavano nelle profondità della carne, della terra e della religione.

Il colpevole di quei crimini verrà portato alla luce, insieme a una triste e dolorosa verità.

Giacomo ha dei progetti non solo per se stesso ma anche per la sua famiglia, progetti che lo renderanno ancora più grande, ancora più temuto e ancora più potente.

Una lettura molto interessante, ma anche di sano intrattenimento.  

“Eclissi totale”, Filippo Mammoli, Dark zone edizioni. A cura di Barbara Anderson

Il lato oscuro della luna, avete presente? La bellezza della luna come si mostra ai nostri occhi, vestita di luce e d’argento, nasconde un lato oscuro, tenebroso, inquietante, forse misterioso, un po’ come gli esseri umani, che hanno insito in loro il lato che appare e quello che resta nascosto perfino a loro stessi.

Quello inesplorato o inesplorabile, quello che sembra irraggiungibile sì, ma che tende ad avere momenti in cui riesce a emergere, a infestare la parte dell’apparenza. E quindi dove è la pura realtà dell’esistere? In ciò che mostriamo al mondo o in ciò che nascondiamo perfino a noi stessi?

Ora, che si tratti di ironia della sorte, un caso o il piano misterioso del fato, ho letto questo romanzo proprio durante un’eclissi di sole totale.

Inutile dirvi che qui dalla lontana da voi Irlanda l’attesa per questo evento astronomico era stata affrontata con leggerezza, quasi con noncuranza praticamente da tutti, ma non da me che ho con la luna un legame emotivo non indifferente.

Io quell’energia potente l’ho sentita sulla pelle, provando una certa inquietudine e agitazione così quando ho letto il titolo di questo romanzo ho sorriso convinta che non fosse giunto a me in quel momento per puro caso ma perché era necessario che io lo leggessi proprio durante un’eclissi totale.

Filippo Mammoli è un autore che ha una dualità come la luna, capace di incantarci con bellissime poesie, sa anche intrecciare storie inquietanti, profonde e dalla forte suspence e con questo thriller ci parla di qualcosa di forte, di angosciante.

Si parla di suicidi, argomento molto delicato che affronta con rispetto ma anche con la brutalità necessaria per far comprendere al lettore il forte impatto di questo crimine in cui il carnefice diventa la vittima delle sue stesse azioni.

Chi decide di togliersi la vita è una persona mentalmente instabile? Fragile, vulnerabile? La depressione è senza dubbio uno dei mostri della nostra epoca più potente, silenzioso, che scava all’interno delle emozioni degli individui strappandoli alla voglia di andare avanti, di vivere, di affrontare problematiche fino a trovare una “soluzione” permanente per un problema a volte temporaneo ma che diventa insostenibile e l’unica via di fuga diventa proprio la morte.

O forse si tratta di pazzia? Quella mancanza di adattamento che il soggetto affetto esibisce nei confronti della società, spesso inconsapevolmente attraverso il comportamento.

O chissà che non si tratti proprio dell’influenza della luna, in fondo scientificamente è dimostrato che la luna così come il sole hanno un’influenza sulla terra con un impatto anche sul corpo, sulla mente e sulla consapevolezza umana.

La tristezza, l’euforia, l’ansia, gli sbalzi di umore, gli incubi spesso vengono stimolati dalla presenza del sole o dalla sua assenza così come anche da quella delle fasi lunari.

In fondo siamo tutti energia che entra in connessione con il Cosmo.

La terra come gli uomini che la popolano si sposta nel cosmo dove fluttua, facendo traballare quegli equilibri e tutti cerchiamo costantemente di ribilanciarci, di mantenerci in equilibrio, affrontando i cambiamenti che tendono a elevare perfino la nostra coscienza.

In questa storia molto intensa incontriamo il commissario Marcello Tarantini, che si trova a indagare su dei suicidi che tendono a susseguirsi un giorno dietro l’altro tra persone che tra di loro non hanno nulla in comune; né per età, né per genere, né per stato sociale.

Individui estranei tra loro che hanno deciso di porre fine alle loro sofferenze, lasciandole però ai loro affetti che devono rimanere a fare i conti con la depressione, il suicidio, trascinandosi dietro sensi di colpa, responsabilità e mancanze.

Questi suicidi sono un caso? O c’è dietro una regia che sta muovendo i fili?

Nei casi di suicidi le indagini vengono portate a termine rapidamente, si dà la triste notizia ai familiari, si raccolgono dati ed evidenze e poi si chiude il caso poiché il crimine commesso ha portato con sé anche il colpevole.

Così cominciamo da subito a incontrare le vittime della depressione Bruno, Fred, la giovanissima Giulia, Fausto…

Marcello non si rassegna, vuole capire, sente, intuisce che ci sia qualcosa di anomalo in questa serie di suicidi e decide di andare a fondo facendo indagini, scavando nella vita delle vittime, dei loro familiari, scovando qualcosa che li accomuna. Tutti stavano seguendo un percorso terapeutico senza frequentare gli stessi terapisti. 

Marcello è il nuovo commissario e deve affrontare le difficoltà del nuovo ambiente, conoscere e legare con i nuovi colleghi, le nuove dinamiche del commissariato, deve confrontarsi con un PM schietto e arrogante, desidera essere rispettato e non temuto ma la questora Grazia Lo Russo sembra non avere molta fiducia in lui, lo guarda con diffidenza anche perché Marcello è il classico toscanaccio con la battuta sempre pronta e i doppi sensi taglienti che non vengono compresi o apprezzati sempre da tutti.

Un’altra peculiarità di questi suicidi è che tutte le vittime hanno con sé un bigliettino con una parola. Bigliettini che sembrano pezzi di un puzzle da raccogliere e da mettere insieme per poter raggiungere il vero colpevole, che si tratti della depressione o che si tratti di qualcosa o di qualcuno che sta architettando tutte queste tragedie. E qui incontreremo i social. Gli influencer che per qualche manciata di follower decidono di cavalcare l’onda della morte per aumentare popolarità, la sensibilità della società in cui viviamo, l’apparire per esistere, il mettere in mostra orrore pur di poter raggiungere la popolarità.

Ma fino a dove siamo disposti a spingerci per una popolarità sui social? Di quali bassezze saremmo capaci?

Per quanto questo possa creare indignazione, purtroppo è la realtà dei nostri tempi e ognuno ha le sue responsabilità sugli effetti non solo delle parole che usiamo o che scriviamo ma anche delle immagini che condividiamo senza alcuna considerazione per le persone che sono emotivamente coinvolte.

Ma questa è la realtà e la realtà non gode di alcuna esistenza oggettiva. Assume la forma che decidiamo noi.

Marcello era un uomo dai saldi principi morali, diretto, schietto ma anche brutale. Aveva con l’esperienza però imparato a filtrare le sue reazioni alle provocazioni esterne. Aveva trovato un certo equilibrio.

Osserverete come questo romanzo ci mostra le responsabilità indirette, che nulla accade mai per caso e con le note della musica Rock degli anni 70 seguirete le indagini insieme al commissario e alla sua squadra.

In fondo non c’è più tempo e sembra perfino che non riusciamo nemmeno a trovare il tempo.

La paura del tempo che fugge, che ci paralizza nelle scelte della vita, che ci destabilizza perché oggi tutto è una corsa, tutto sembra avere fretta di accadere. 

Ma l’eclissi totale quella più inquietante è quella dell’anima e attraverso il tunnel degli abusi sessuali, psicologici, fisici, la manipolazione, la persuasione, la psicologia quantistica, atti di compassione, di pietà, osservando i giudizi della società che ci circonda, ascoltiamo la musica, quella che ci dà la carica, che ci cattura, che ci libera e che a volte è capace anche di ucciderci.

La scrittura di Filippo Mammoli è intensa, ma a tratti anche leggera, profonda nelle tematiche sociali ma anche delicata, alcune pagine sono come degli schiaffi, altre come delle leggere carezze che ci aprono gli occhi sulla profondità non solo del nostro essere ma anche sul fatto che c’è sempre un’altra possibilità, c’è sempre qualcuno o qualcosa disposto a lottare per la verità. 

I personaggi che incontriamo sono veri, credibili, con alcuni si entra in stretta connessione e anche se all’inizio sia il Pm che la questora non erano nella lista delle mie simpatie, andando avanti nella lettura ho compreso che quando si lavora in un ambiente così complesso non è facile mantenere il giusto equilibrio, quando si hanno delle responsabilità così importanti si rischia di dover risultare perfino antipatici. Ma ognuno ha il suo lato umano, ognuno cerca di trovare il giusto equilibrio tra la professione che svolge e la vita che cerca di vivere serenamente.

Riuscirete a scoprire cosa significano quelle parole, quelle frasi trovate sulle vittime dei suicidi? Riuscirete a mettere insieme tutti i pezzi, completando il quadro del caso, riempiendo gli spazi mancanti con frammenti di verità che scoverete tra le pagine di questa storia?

Ricordate che 

Iknow it seems hard sometimes but remember one thing. 

Through every dark night, there’s a bright day after that. 

So no matter how hard it get, stick your chest out, keep ya head up…. and handle it.”

So che a volte sembra difficile, ma ricorda una cosa. Dopo ogni notte buia c’è un giorno luminoso. Quindi, non importa quanto sia difficile, tieni il petto in fuori, tieni la testa alta… e gestiscilo.

( Tupac Shakur)

La luce risiede nella verità.

“Le bionde del Benaco”, Marco Ghizzoni, Laurana Editore. A cura di Barbara Anderson

Una cosa che faccio spesso quando leggo un romanzo è quella di proiettare le ambientazioni e i personaggi della storia nella mia vita presente e passata per vedere se ritrovo volti e luoghi familiari e spesso mi accade di rivivere situazioni, luoghi, atmosfere ma soprattutto emozioni che mi riportano nel passato o che mi fanno apprezzare anche di più il presente e guardare al futuro con eccitazione e curiosità.

Con questo esilarante romanzo mi sono ritrovata in un luogo dove ho trascorso le vacanze più belle quando ero poco più di una ventenne. 

Il lago più grande d’Italia, unico per il suo paesaggio, i suoi villaggi incantevoli, le antiche rovine, castelli, ville, forti e grotte circondati da uliveti, limonaie, oleandri, palme, acqua intensamente blu e cristallina: il lago di Garda incastonato come un diamante tra le colline moreniche e avvolto dalle catene montuose che lo fanno apparire come un fiordo proteggendolo e facendogli da scudo contro il vento e le intemperie, garantendogli un clima meravigliosamente mediterraneo.

Ma devo ammettere di aver trovato un’altra peculiarità nella lettura di questa storia che è in un certo senso tutta irlandese o per meglio dire celtica.

L’autore non mi ha dato la sensazione di distanza, in una scissione di ruoli dove lui scrive la sua storia e io la leggo.

Egli mi ha fatto riconoscere nel suo stile quello degli antichi Seanchai celtici.

Per chi non ha familiarità con il mio paese l’Irlanda vi dirò in poche parole di cosa si stratta.

Gli Seanchai erano antichi narratori, portatori e tramandatori di storie e leggende attraverso l’uso delle parole. Storie che non venivano mai scritte ma esclusivamente raccontate da questi abili narratori che tramandano antiche tradizioni, leggende popolari, storie di avventure, di fantasia, di eroi, di miti e di leggende.

Così ho percepito questo autore non come colui che semplicemente descrive la sua storia; ma come colui che me la narra, e mi vedo lì seduta sulla riva del lago, sotto un cielo accarezzato dal sole e un leggero vento che ascolto la sua storia, divertita, rasserenata, curiosa, che non riesco a staccare gli occhi dalle sue labbra che in questo contesto invece sono diventate una penna che egli stesso intinge nel lago e scrive con un inchiostro cristallino e vivace che mette allegria, che fa riflettere e che fa sorridere, che ci regala qualche ora di pura e totale serenità, la stessa serenità che da sempre ha trasmesso il Lago di Garda ai suoi visitatori.

Le bionde di Benaco è una commedia dove gli equivoci si susseguono uno dietro l’altro provocando uno scambio accidentale di elementi, di fatti, di situazioni, che creano errori di valutazione e diversi modi interpretativi non solo dei personaggi che vi si trovano a vivere ma anche del lettore stesso, che pensa una cosa e scopre invece di essere tutt’altro che quello che aveva immaginato.

Solo che in questo cocktail di equivoci non ci si confonde, non ci si perde, bensì ci si diverte e ci si ritrova.

I personaggi sono vari e ognuno con una sua caratteristica peculiare che diverte, che incuriosisce, che li mostra come attori di un palcoscenico di teatro che entrano uno alla volta a coinvolgere il pubblico e a farlo sorridere. Ciò che più ho amato è proprio l’equilibrio che l’autore è riuscito a trovare tra il dramma del suo protagonista De Tullio e la sua comicità, egli non appare mai troppo serio né troppo comico, appare umano nella sua più florida e umana rappresentanza.

Il nostro Commissario Umberto De Tullio è alla soglia dei suoi 50 anni; partenopeo trapiantato a Brescia con una madre invadente, che ama infiltrarsi nelle indagini di suo figlio, una donna curiosa, impicciona, ma soprattutto convinta di avere delle doti da poliziotta quasi superiori a quelle del figlio. De Tullio è single e a volte mi chiedo dove trovi la pazienza per sopportare l’invadenza di sua mamma e soprattutto come riesca a rispondere al telefono all’alba di ogni mattino prima di cominciare la sua già impegnativa giornata lavorativa.

De Tullio sul lavoro è un commissario attento e preciso. Quando è fuori servizio ci dà un po’ giù con gli alcolici per colmare tutti quei vuoti e quei sensi di colpa che lo affliggono nei momenti più solitari delle sue giornate.

La vita si movimenta quando gli viene affidato un novellino, un agente che deve svolgere accanto a lui il suo tirocinio, un agente bellissimo, avvenente, seducente, e soprattutto donna sotto ogni aspetto della sua femminilità. La novellina di fatto scuoterà un po’ gli ormoni del Commissario, quelli dei suoi colleghi ma anche quelli di chiunque si avvicini ai suoi occhi intensi e vivaci e alle sue forme sinuose e giunoniche.

Il Commissario De Tullio ha il suo fascino un po’ alla Fred Buscaglione o forse un po’ come una caricatura del famoso Fred; lui con il pancione bello prorompente, la testa pelata e il baffo da sparviero, di opportunità di conquista ne ha davvero poche soprattutto con una ragazza così giovane e bella.

L’apparizione di un cadavere sulla sponda del campeggio del proprietario tedesco Jurgen Mann non solo accenderà le indagini ma anche il lume dell’opportunità proprio agli occhi del piacente campeggiatore tedesco il quale aveva da tempo investito tutti i suoi averi per la ristrutturazione del suo campeggio e visto il clima piuttosto terribile in quel periodo, le entrate erano in calo e la stagione stava iniziando con il piede e con il clima sbagliato; ma un cadavere che galleggia proprio davanti al suo campeggio potrebbe essere l’occasione per attivare un bel po’ di turisti, di curiosi e di giornalisti.

Ovvio che la morte di una persona non fa piacere a Jurgen; si tratta solo di una piccola convenienza nata da un doloroso inconveniente, se si tratta di un incidente o di un omicidio starà alla Polizia scoprirlo. Ed ecco che arrivano il nostro Commissario e l’avvenente tirocinante seguita da una scia di colleghi lumaconi al seguito.

Ma come ci insegna anche il cinema, i morti a volte ritornano e come dicono i proverbi l’occasione fa l’uomo ladro, ecco che incontreremo anche Hemingway, avete presente il vecchio e il mare? Beh invece qui siamo al lago quindi il vecchio Hemingway è un insolito squinternato forse con qualche rotella fuori posto di pescatore che diventerà un testimone chiave ma del tutto inaffidabile e inattendibile.

Prendete il caffè con Manfredi il barista che si preoccupa più delle pozzanghere sul pavimento che delle rivelazioni del vecchio che forse gli sta raccontando un crimine veramente accaduto.

Jurgen mi ha fatto impazzire tra il suo desiderio di farsi vedere e conoscere, di fare pubblicità al suo campeggio, ma anche la sua semplicità nei rapporti con le donne che da tempo non gli restano indifferenti, nemmeno l’avvenente agente con la sua professionalità riuscirà a mantenere le dovute distanze, o forse sì?

Insomma chi è morto, chi è resuscitato, chi è stato l’assassino o chi è il vero testimone e il reale criminale? Che cosa sta succedendo in tutto questo marasma di follia?

Tra i fratelli Graziano e Ezio uno largo e l’altro lungo, un guardiapesca impiccione, una vittima che racconta una serie infinita di bugie. Dov’è che la verità galleggia? Ovviamente le acque del lago conoscono non solo le risposte ma anche le “avvenenti” bionde che diventeranno protagoniste assolute di questa folle avventura investigativa e umana. Sarete affascinati dalle idee imprenditoriali del tedesco Jurgen, sarete affascinati dal metodo di insegnamento di De Tullio capace di sfruttare i meccanismi psicologici attraverso anche la maturazione dell’attesa, il far calmare le acque per poi affrontare le onde inquiete delle indagini, ma il crimine c’è stato davvero e se sì quale? Perché? Come? Ma soprattutto, dove?

Il lago diventa un palcoscenico dove, sotto il cielo, sotto le stelle, al di là dei sogni, dietro ogni delusione si può sempre cogliere una nuova opportunità e se spesso si beve per dimenticare a volte si beve anche per celebrare una vittoria, un successo e anche una gioia.

Ho amato De Tullio, la sua tristezza e il fatto che comunque alla fine le mamme hanno un istinto infallibile e indiscutibile.

De Tullio avrà anche la pancia ma a me è piaciuto da impazzire.

Se state cercando una via di fuga dalla quotidianità e dal peso delle responsabilità questa lettura fa assolutamente per voi, è una via di fuga fantastica.

“Atra Nox, Minturnae e la notte nera di Caio”, Antonio De Meo, Ali Ribelli Edizioni. A cura di Barbara Anderson

Iubentium tibi lector!

Se siete “archeologi” nell’approccio alla lettura, come lo sono io, indubbiamente non riuscirete a frenare il desiderio non solo di leggere questo romanzo ma anche di scavare oltre le sue pagine. Analizzando, esplorando e ricercando tutto ciò che possa esservi di aiuto alla totale immersione e comprensione, non solo della storia che Antonio De Meo abilmente ci racconta, ma anche del periodo storico straordinario in cui si svolgono gli eventi e le abili indagini.

Non vi nego di aver subito un salto spazio temporale, di essermi sentita totalmente immersa tra il passato e il presente.

Il passato che mi teneva legata alla storia e l’ambientazione del romanzo e il presente in cui ricercavo materiale che mi mostrasse i resti di quei luoghi, i reperti storici che son rimasti come una firma su quelle terre consacrate a un tempo straordinariamente imponente. Quello del grande Impero Romano. 

Sono nata e vissuta per molti anni a Roma e i luoghi dove si svolgono questi eventi li ho un tempo percorsi (Formia, Minturno) ma ad oggi riesco ad apprezzare molto di più i paesaggi, lo stile architettonico, lo sfarzo e la bellezza di un’epoca che resterà per me sempre una delle più affascinanti dall’esistenza dell’uomo sulla terra.

Ed eccomi qui addirittura ad avere tra le mani fogli stampati da un computer, come si fa per le ricerche di studio: carta che mi mostra la bellezza architettonica della Villa di Mamurra con i suoi interni, il suo stile architettonico.

Villa Mamurra locata nel bellissimo Parco di Ulisse prende il nome dal suo proprietario Lucio Mamurra (Marco Vitruvio Mamurra), cavaliere romano originario di Formia, prefetto degli ingegneri di Gaio Giulio Cesare, fu anche il primo romano a costruire una villa di marmo.

Villa Mamurra è una spettacolare abitazione che ci mostra la forza, l’abilità architettonica e il lusso del suo tempo; attraverso le pagine di questo romanzo, che unite a ciò che resta di quella abitazione completano ai nostri occhi un’immagine di qualcosa di straordinariamente bello, che si affaccia proprio sulla bellezza di un mare che ha visto la gloria di un impero straordinario.

Lucio Mamurra era un nemico del grande Catullo e in questa storia è anche il padre di Caio; colui che ci guida in questo giallo storico.

Caio è un uomo di valore, legato alle sue radici, alla sua famiglia, alla sua appartenenza sociale, percorre le strade della sua bellissima cittadina a testa alta, con incedere fiero, maestoso, importante, ma soprattutto con un cuore afflitto dal dolore.

L’atmosfera con cui De Meo ci avvolge è antica, poetica, austera a tratti, ma maestosa nella sua bellezza e autentica nelle vibranti situazioni e emozioni che il lettore si trova a vivere.

Caio soffre di quella solitudine, di quel senso di vuoto e di impotenza; afflitto dal suo dolore, solo, sotto un cielo che sembra stia riversando tutte le lacrime di un universo inconsolabile.

Dopo aver perso suo padre, ora anche il suo amato fratello Publio era morto a causa di una brutta malattia e il suo dolore, la sua sofferenza, si trascina come se fosse un lungo manto di agonia su quelle strade, le stesse che regolarmente aveva percorso in periodi più felici osservato da a un cielo terso.

Caio e Publio erano figli di un padre che li aveva allontanati per molto tempo ma ciò che la vita a volte separa il sangue, riunisce. Il fratello perduto e ritrovato, gli era stato restituito solo per un breve periodo fino al momento in cui io Dio Plutone lo aveva portato via con sé nel regno Averno.

Caio ora finalmente ha sepolto suo fratello proprio all’ingresso della sua dimora e mesto nel suo dolore e in quella voragine di sofferenza che lo avvolge si sente morire anche lui.

Caio vive il suo lutto, il suo dolore con dignità e con somma devozione, si lascia trascinare nel baratro della sofferenza in silenzio, avvolto dall’inedia del lutto e il dubbio perfino dell’esistenza dei suoi dei, gettandosi nel vicolo cieco di domande in cerca di risposte che non sa dare.

Si lascia consolare dalla sua abitazione, dal mare, dal paesaggio straordinario che ora appare oscuro, avvolto da nubi e temporali interiori. Si abbandona alle sue letture soprattutto trovando conforto nel testo il Consolatio scritto per la morte dell’amata figlia da Cicerone.

La filosofia a volte aiuta ad affrontare argomenti che il cuore e la ragione rifiutano di comprendere.

Le sue passeggiate sono rigeneranti mentre elabora il suo lutto e sembra quasi tenere per mano il lettore, che silenziosamente lo accompagna in questo viaggio della vita che inevitabilmente tutti dovremo prima o poi affrontare.

Osservando le gesta e inseguendo i pensieri di Caio; comprenderemo che il dolore non lo si può cancellare, ma che bisogna attraversarlo andando oltre, senza mai dimenticarlo.

Le descrizioni dei luoghi e delle gesta dei protagonisti di questo bellissimo giallo sembrano dipinti su un’antica tela con minuziosi dettagli delicatamente stupendi.

Quando il suo amico giunge a fargli visita nel vederlo distrutto dal dolore cerca in qualche modo di fargli capire che lui è presente e che, seppur affranto dalla perdita dell’amato fratello egli doveva gioire del fatto che gli dei gli avevano concesso di ritrovarlo prima che egli morisse facendo perdere ogni futura possibilità di recuperare il loro rapporto.

Agli occhi del lettore si ricostruisce non solo l’architettura di quei luoghi ma anche quella di un uomo giusto, della sua vita, della forza, del suo intelletto e della sua vasta cultura. Mentre l’Impero Romano sembra aver riportato alla fioritura un terreno arido, rinnovato grazie ad Augusto colui che riportò l’Impero alla pace e al benessere, rinnovando lo stato romano, il tufo stava diventando marmo.

L’impero stava ritrovando il suo splendore, l’amico di Caio riesce a distoglierlo dalla sua chiusura verso il mondo convincendolo a recarsi con lui a teatro per assistere a uno spettacolo.

Controvoglia Caio si reca con lui in questo teatro e assiste a uno spettacolo inquietante non solo per la bravura del suo attore principale ma anche per l’infelice morte in cui questi stramazza a terra davanti a un pubblico sconvolto, infastidito, sconcertato.

Una morte naturale?Oppure un omicidio che sembra stato scenografato proprio per avvenire così pubblicamente; sotto gli occhi di tutti. 

Caio in quel momento ritrova un nuovo rinnovato interesse, quello per la verità.

La morte di un attore non è importante in quel periodo storico quanto quella di un uomo di famiglia nobile e di posizione politica importante; un attore è un uomo qualunque e la sua morte può passare facilmente impunita poiché a nessuno interessa trovare il colpevole; ma a Caio interessa la verità e inizia a svolgere le sue indagini.

Così Caio si getta nella vita, nelle persone che sono state vicine all’attore deceduto, osserva i dettagli, riconoscendo nell’apparenza del cadavere il metodo di assassinio tipico dei romani, quello da avvelenamento, Caio seguirà piste, alcune delle quali anche pericolose per la sua stessa incolumità. Ascolterà pettegolezzi, storie di mariti gelosi, di lussuria e di vendette.

Caio attraverso la morte di un uomo qualunque riuscirà a ritrovare la sua stessa voglia di vivere e di andare oltre il suo dolore.

Un giallo dove troverete complotti, congiure, tradimenti, scritto da un autore di talento che grazie alla sua familiarità con i luoghi riesce a darne una descrizione sublime mostrandoci Minturnae per come essa era vista dai romani che vi si insediarono dopo aver visto l’importanza strategica e commerciale della sua vicinanza al mare e che divenne poi un importante porto commerciale del Mediterraneo, il suo tempio, il foro, il teatro… oggi alcuni reperti sono ancora lì a ridosso di un mare e di un cielo che sembrano riportare in vita le vicissitudini di Caio, di suo padre, del suo impero, della sua epoca, della sua storia.

De Meo ci mostra anche come ciò che ben conosce come l’archeologia lo aiuta a conquistare il lettore avvicinandolo allo studio delle attività umane, analizzando, recuperando materiali, manufatti, architettura dell’epoca; i suoi paesaggi culturali, facendoci vivere il tutto come un’esperienza sociale e umanistica di inestimabile valore.

Un giallo storico che ci mostra la completezza nelle sue descrizioni, nella cura ai dettagli storici e architettonici, l’accuratezza e la ricerca dei dettagli rendono questa lettura assolutamente piacevole e avvincente.

La notte che cambiò ogni cosa, Jane Shemilt, Newton Compton Editori. A cura di Barbara Anderson

Quante volte ci siamo sentiti dire, ripetendo anche a noi stessi che il passato bisogna lasciarselo alle spalle, quante volte abbiamo cercato di dimenticare per poter andare avanti, cercando di vivere una vita serena, lasciando indietro ciò che è stato, ciò che siamo state e ciò che abbiamo subito, sofferto, accettato.

Invece poi crescendo, diventando mature ti rendi conto che non si può vivere il presente se non si fanno i conti con il passato.

Non siamo struzzi che possono nascondere la testa sotto la sabbia, non siamo criminali che devono seppellire la colpa e il peccato sotto macerie di vergogna e di rancore.

Siamo persone, esseri umani fatti di debolezze, di fragilità ma anche di forza e di coraggio e in determinati momenti nella vita bisogna far riemergere quei ricordi, quelle memorie anche dolorose per poterle analizzare, comprenderle, per poter risanare quello che dentro di noi è stato danneggiato. E non può farlo nessun altro se non noi stesse.

Sì, qualcuno che incontreremo nella nostra vita potrà ascoltare, comprendere, sentirsi dispiaciuto per il nostro vissuto, ma siamo solo noi che possiamo perdonare noi stessi.

La notte che cambiò ogni cosa è un romanzo che parla di abusi, lo fa in maniera schietta, diretta, non addolcisce la pillola omettendo situazioni ma ce le mostra per quello che sono, in maniera molto reale ma allo stesso tempo trattando le vicende con rispetto e con la giusta compassione.

Purtroppo alcuni argomenti non possono essere addolciti o resi più digeribili, il male, la cattiveria, l’abuso non è una medicina; è una malattia terribile e va vista per quello che è, se la si vuole davvero debellare.

Sophia ha 13 anni, vive con i suoi genitori e il fratellino in una bellissima villa in Grecia, non ne sono i proprietari ma sono i custodi che si occupano dell’abitazione durante il periodo di assenza dei ricchi proprietari inglesi e che fanno da domestici quando questi giungono in estate per le vacanze. I proprietari sono una famiglia benestante inglese Peter e Jane, con la loro figlia Julia.

Peter è un uomo d’affari che porta spesso con sé ospiti in vacanza in modo di approfittare del caldo, del sole, della bellezza dell’isola, per placare gli animi dei suoi competitori e trarre affari concludendoli sempre a suo vantaggio.

Un uomo che sa quali corde tirare per far muovere il suo mulino. Jane, sua moglie è una donna bella, ma che ha la mano forte sull’alcol con cui sembra annebbiare la sua mente e le sue infelicità; subendo in qualche modo la ricchezza e il benessere quasi come fosse un disagio.

La giovane Julia è più grande di Sophie, è bella, magra, anzi magrissima, affascinante e sembra anche sempre molto triste e distaccata.

La famiglia di Sophie viene apparentemente trattata con rispetto dalla famiglia inglese e dai suoi ospiti ma è da subito chiaro ed evidente che è tutta apparenza e finzione. Gli inglesi non hanno nessun interesse per quelli che considerano semplice manovalanza e servitù.

Tra gli ospiti questa volta anche una coppia di colleghi del padrone di casa e 3 ragazzi adolescenti.

Sophie sta diventando grande, il suo corpo sta cominciando a mettere in evidenza forme e morbidità di cui quasi non si rende conto, osserva gli ospiti, aiuta sua mamma e suo padre alla cura della casa, della cucina, con umiltà e determinazione, si occupa del suo fratellino ma è anche lei ancora solo una bambina.

Ha sempre avuto una simpatia per la giovane Julia tanto da averle perfino preparato un regalo, solo che Julia ha altro per la testa e sembra non avere nessun interesse per la ragazza o almeno non più come qualche anno fa.

Il padre di Julia è un uomo ambizioso, capace di vendere non solo l’anima al diavolo per il suo tornaconto ma anche sua figlia, tanto che ne usava la sua giovane avvenenza per distrarre i suoi colleghi; permettendo a essi di avanzare attenzioni su sua figlia.

E se questo vi turba, beh aspettate di leggere la storia, di vedere cosa accadrà alla piccola Sophie.

Quando si sta subendo il proprio dolore personale, il proprio trauma, si diventa ciechi sapete?

Non si fa più caso a nulla, nemmeno a quello che sta accadendo a noi stessi; si diventa assuefatti, ci si lascia annientare psicologicamente e mentalmente affondando sofferenza, dolore e vergogna dentro la propria anima, sperando che resti giù nel fondale, consapevoli del fatto che dentro di noi il male cova, si alimenta, si nutre e tende a distruggerci.

Il salto temporale dalla Grecia del 2003 all’Inghilterra del 2023 è quasi immediato, la narrazione verte su due periodi temporali e su due Paesi diversi, inizialmente nulla sembra essere collegato, eppure il collegamento, il filo conduttore sottile c’è e lo troverete seguendone le piste nascoste abilmente tra le pagine.

Julia è una donna bellissima, che vive con una famiglia perfetta in una casa da copertine di arredo, lei e suo marito sono giovani, avvenenti, bellissimi, perfetti, lei è una moglie perfetta, una brava cuoca, una mamma straordinaria. La bellezza spesso nella società di oggi rappresenta il potere, il successo, la perfezione.

Solo che Julia è infelice, le attenzioni di suo marito le sembrano collegate alla sua bellezza, al suo essere perfetta e inizia a sentirsi sopraffatta da tutte quelle aspettative. Lei dentro non si sente né bella, né felice ed è grata del fatto che suo marito può vederla solo fuori, che non potrà mai vedere realmente chi è all’interno della sua anima.

Julia ha una figlia: Lotty, nata dal suo precedente matrimonio, Lotty non ha un buon rapporto con il patrigno. Julia ha anche una mamma anziana affetta da demenza e si sente sola nella sua inadeguatezza e sofferenza.

Il giorno in cui incontrerà Lauren la psicoterapeuta scolastica della figlia, le cose cambieranno perché Julia riuscirà ad aprirsi, a mostrare se stessa a questa professionista che sembra dedita ad ascoltarla, a incoraggiarla ad amarsi, a essere se stessa e a smettere di compiacere gli altri.

Julia tornerà anche in quella villa in Grecia per allontanarsi dal marito e ritrovare non solo se stessa ma la verità su quello che accadde sotto i suoi occhi quell’estate alla famiglia che si occupava della casa dei suoi genitori. Scoprirà segreti, vergogne e sofferenze che presa dalle sue disgrazie non aveva nemmeno realizzato stessero accadendo.

Per tutta la lettura proverete un senso di angoscia, di impotenza, ci sono stati momenti in cui avevo capito cosa stava accadendo e urlavo alla piccola Sophie di scappare, di correre via, ci sono stati momenti difficili durante la lettura ma necessari, essenziali alla comprensione di ciò che era necessario per poter ottenere verità e giustizia.

A che età comprendiamo che apparteniamo solo a noi stesse? Che il nostro corpo, la nostra anima, i nostri desideri, sogni e obiettivi sono solo ed esclusivamente nostri e che nessuno deve permettersi di decidere per noi avvalendosi del diritto di uso e di possesso?

Lauren, la psicoterapista, una donna elegante, bella e decisa vi lascerà sconvolti perché riuscirà a scavare a mani nude una verità che sorprenderà il lettore così come sorprenderà la bellissima Julia.

Bisogna accettare le persone per ciò che sono e se queste commettono degli errori a volte il perdono non è contemplabile, la vendetta indubbiamente sì.

Una lettura intensa e ricca di passione dove l’amore per se stesse delle protagoniste va in crescendo, più la verità inizia a emergere più queste donne ritrovano la loro vera essenza e forza.

“Pacem Nutrio”, Manuela Stangoni, Self Publishing. A cura di Barbara Anderson

Sapete? A volte la relazione con un romanzo per noi recensori inizia ancora prima di leggerlo.

In che modo? Entrando a contatto con gli autori prima che la lettura ci venga proposta.

Manuela Stangoni mi aveva contattata personalmente per una recensione e dopo averle detto che poteva inviare la richiesta alla mail ufficiale del blog abbiamo iniziato a parlare.

Non del romanzo che aveva scritto ma di cosa siamo, di chi siamo, di cosa facciamo nella vita. Abbiamo trovato dei grossi punti in comune, addirittura facciamo la stessa professione.

Parliamo di tutto tranne che della storia che ha scritto perché quella la scoprirò poi leggendo.

Quando poi ho iniziato a leggere il romanzo ho sorriso, perché nella sua scrittura dallo stile fresco, semplice, ma profondo ho ritrovato quella donna con cui avevo parlato qualche giorno prima.

L’ho percepita così vera nella sua scrittura, così naturale, come se quello fosse il suo ambiente; il suo porto sicuro. Quello che per me è la lettura, per lei è la scrittura.

Insomma ho avuto la sensazione di ritrovare una persona a me familiare eppure non ci conosciamo davvero ma attraverso il suo romanzo non solo l’ho conosciuta ma l’ho anche scoperta per il suo talento, la sua purezza d’animo, il suo saper parlare del presente, affrontando una storia ambientata in un futuro distopico.

Che poi di fatto mi ha fatto riflettere di come anche noi oggi qui nel nostro presente siamo assuefatti e condizionati da un vivere che ci viene mostrato come il vivere liberi; come il vivere buono da un élite che ci alimenta con bugie e falso benessere: quello dell’apparenza, quello del consumismo, quello del vivere una vita da schiavi che sono stati illusi di avere la libertà di poter scegliere.

Pacem nutrio è una storia che ci rapisce, che ci stupisce e sorprende, che in alcuni momenti ci fa provare disagio, paura, anche rabbia nel vedere un popolo che vive a testa bassa chinandosi in segno di gratitudine verso dei benefattori che sembra abbiano concesso ai loro cittadini di vivere una vita senza guerre, senza invidie, senza conflitti, dove tutti sono perfettamente uguali nelle case in cui vivono, gli abiti che indossano, il cibo di cui si nutrono.

La storia inizia con un messaggio d’amore; quello di una mamma a sua figlia Aura, impavida e immota, che la paragona con delicate parole al corallo che resta immobile al cospetto del vento e delle onde.

Incoraggiando la fermezza, la stabilità, quella che auguriamo a tutti i nostri figli; la forza di restare impassibili e rimanere con il cuore saldo, senza lasciarsi mai sopraffare dalla paura.

Mantenere la lucidità, la concentrazione sui propri obiettivi, poi le parole di Jack, che è tuono e armonia, che insegue i suoi sogni, che ne ha una visione completa, capace di sfondare muri, di superare barriere per realizzare ciò in cui crede e spera.

Jack conosce già le difficoltà della vita, qualche sapore di fiele l’esistenza glielo aveva già offerto.

Ma sia Jack che Aura non resteranno immobili, passivi, inizieranno a fare quello che facciamo tutti prima di prendere una rincorsa, fare un passo indietro prima di partire a tutta velocità ed è proprio con una corsa che inizia questa straordinaria avventura.

Siamo a Dazzling in un tempo post apocalittico, dove dopo una terribile catastrofe che, a causa di un’enorme esplosione, aveva dimezzato la popolazione e distrutto qualsiasi apparecchio elettronico e tecnologico. Un’élite di controllo e supervisione era riuscita a riportare pace, stabilità e benessere per tutti; illudendo il popolo assuefatto dall’unico alimento disponibile e regolarmente distribuito ai suoi abitanti: il pacem nutrio.

Dazzling è diviso in 7 settori, ognuno con il nome di un colore dell’arcobaleno.

Aura, la nostra eroina, vive nell’ultimo settore, quello viola, insieme a suo padre.

A Dazzling non ci sono libri, non esistono letture, le scuole sono solo di formazione dei bambini in modo che comprendano le gerarchie e le regole del vivere sotto il controllo dell’élite.

Ma la mamma di Aura aveva cresciuto sua figlia insegnandole segretamente a leggere, nascondendo i libri sotto il pavimento della sua stanza, le scriveva aforismi e citazioni all’interno dell’armadio su pezzi di carta segreti. L’aveva alimentata con l’informazione, con la lettura, con la ferma convinzione che la conoscenza è quella che ci porta alla libertà.

L’importanza di leggere, di conoscere, di imparare, di scoprire.

Se le spie del capo supremo di Dazzling, il Chiarificatore, avessero scoperto quei libri, avrebbe potuto rischiare anche la vita e di spie a Dazzling ve ne erano molte.

Ognuno controllava il suo vicino, ognuno aveva gli occhi puntati sull’altro allo scopo di mantenere quell’equilibrio e quella pace fittizia.

La mamma di Aura era andata via lasciandola indietro, lasciandola sola, indossando abiti non conformi alla loro uniforme Viola e uno zaino in spalla.

Aura era stata abbandonata da sua madre e quell’abbandono le lascia dentro un trauma che le rende difficile perfino chiamare suo padre papà, perché mantenere un certo distacco con lui le faceva avere meno paura di perderlo.

Aura è debole, non ce la fa a correre; tutti a Dazzling sono stanchi, lenti e affaticati, riescono a malapena a fare le mansioni assegnate, tutto il resto sembra andare a rallentatore. Non si ha memoria del prima del Dazzling, non si ricordano alcune emozioni, sembrano tutti come degli automi, che si alzano, lavorano, tornano a casa, si nutrono e poi ricominciano.

Un ciclo perenne dove tutto è sempre uguale privo di stimoli e di emozioni.

Eppure Aura ha voglia di correre, ci prova, ce la vuole fare anche se non ce la fa. Abbandonarsi a quell’esistenza in nome della pace e della felicità era ormai naturale.

Gli adulti non hanno più memoria, non la ha suo padre John, eppure sua mamma Lia per quanto nei suoi ricordi si comportasse da folle, sembrava non aver perso la connessione con la sua vita passata, sembrava viva, lucida, lo sguardo di fuoco e il cuore libero.

Aura da ragazzina adolescente inizia a porsi delle domande, a guardarsi intorno, comincia ad avere un pessimo rapporto con il nutrio tanto da arrivare al punto di digiunare e di nascondere e gettare via il cibo di cui non si alimentava perché se fosse stata scoperta sarebbero stati guai seri.

Smettendo di alimentarsi aumenta la fame ma anche la lucidità, la consapevolezza.

Le domande nella testa diventano sempre più nitide, inizia a vedere ciò che la circonda e ciò che accade ai suoi amici e cittadini in quel luogo così lento e grigio; la stanchezza inizia a sparire e riesce di nascosto persino a trovare la forza di correre. Aura inizia a scoprire tutte le bugie che le erano state raccontate, inizia a vedere la verità, a cercare le risposte alle sue domande.

Che differenza c’è tra il vivere e l’esistere?

Una differenza netta e insieme Aura e il suo amico Jack, scopriranno di avere molte cose in comune tra cui il non assumere il pacem nutrio. Aura imparerà cosa significa essere liberi, imparerà a procurarsi il cibo da sola nel bosco, anche attraverso la caccia.

Imparerà che non è vero che tutto ciò fuori di Dazzling è contaminato, che gli animali sono infetti e che le acque sono impure.

Aura e Jack sono un po’ come Adamo ed Eva che disobbediscono alle regole e assaggiano il frutto proibito. Il frutto della conoscenza, quella che ci dà la possibilità di decidere cosa fare, dove andare e anche come vivere.

Il bosco dove ci sono frutti commestibili, dove ci sono animali da cacciare e di cui nutrirsi, una fonte di acqua cristallina e fresca ha ai miei occhi rappresentato proprio la vita con le sue opportunità, i suoi lati oscuri, i suoi pericoli, i rischi da dover affrontare, gli ostacoli da superare.

Nel bosco ci sono le opportunità e i pericoli per le scelte e le decisioni.

Se in nome della pace e della stabilità dobbiamo perdere i valori come quelli dell’amore, dell’amicizia, dell’altruismo e dell’idealismo di che colore è questa vita?

Qual è il colore intrinseco delle cose?

Attraverso questa bellissima avventura che ci lascia senza parole e ci fa sentire legati alla giovane Aura e ai suoi amici scopriamo che l’amicizia è anche abbracciarsi e sentirsi.

In un luogo dove la pace sembra preconfezionata, dove la scuola di iniziazione comincia in tenera età, inculcando quanto il settore rosso sia benevolo e generoso, inculcando la devozione e la riconoscenza per il cibo che viene offerto e gli abiti che vengono consegnati.

Sapete che non c’è bugia più grande di una falsa verità ripetuta?

Anche mia madre mi diceva sempre che più si ha la necessità di ripetere la verità più questa è falsa.

La trasformazione della riconoscenza in sottomissione avviene in maniera così subdola da far raccapricciare la pelle al lettore che si sente coinvolto in qualcosa di cui è intrappolato.

Jack e Aura diventeranno se stessi il giorno in cui smetteranno di seguire le regole, smetteranno di essere alimentati da qualcosa di artificiale che inebria e offusca mente ed energie.

Insieme saranno come un branco di lupi che uniti seguono la loro strada in cerca della verità, attraversando i vari settori e portandola alla luce.

Quando Aura inizia a scoprire perché la mamma avesse dovuto lottare per dare a sua figlia un nome non previsto dalle regole sociali, inizia a vedere che dietro quella apparente follia c’era la spinta per sua figlia di trovare se stessa e scoprire la verità.

Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio.

Siete pronti a scoprire la verità che si cela dietro ogni settore? Siete disposti a rischiare la vita per la vostra libertà, siete pronti a pagare il prezzo più alto in nome dell’amore, della verità e della libertà pagando con il sacrificio?

Siete pronti a fare un passo indietro prima di iniziare a correre?

Ricordate che chi va via dalla vostra vita troverà sempre il modo per starvi vicini anche quando non ci sarà più.

In questa bellissima storia dove i protagonisti condividono il desiderio di vita e di libertà forse riusciremo ad aprire gli occhi guardandoci intorno, identificando tutto quel pacem nutrio con cui veniamo alimentati da tempo per far sì che le nostre menti vengano illuse e assuefatte e la verità resti sepolta.

Forse sarebbe ora di alimentarci con la conoscenza e leggere resta il cibo più puro con cui alimentare la nostra testa, il nostro cuore e la nostra anima.

Dopo aver letto questo romanzo vi sentirete non solo più liberi ma anche più vivi.

Una meravigliosa scoperta questa autrice e una storia che racchiude un bellissimo messaggio sociale e morale.

Quando aprite un libro aprite una pagina della vostra esistenza, quando un libro riesce a portarvi via dalla realtà che vivete, avete la chiave della vita che meritate di vivere.

I libri sono le porte attraverso le quali accediamo dentro noi stessi.