La storia del nostro viaggio inesplorato: la silloge Assolo per mia madre di Maria Pina Ciancio

È da queste pagine che mi scorgi adesso/ io che non ero dentro le tue attese/ ma che tremavo se la voce ti tremava/ e che cadevo per intero dentro i tuoi allarmi ciechi// […]” ‒ “Del pianto a mani nude”

Edito da L’Arca felice nel 2014, la silloge “Assolo per mia madre” di Maria Pina Ciancio si presenta al lettore con poesie e frammenti in prosa che raccontano il rapporto dell’autrice con la propria madre, venuta a mancare nel 2011.

La silloge è suddivisa in due parti: nella prima parte Maria Pina Ciancio riporta alla mente la sua infanzia in rapporto alla madre, brevi versi che tramandano “rituali e gesti antichi da lodare/ a priori”.

La seconda parte, invece, è incentrata sull’abbattimento della figlia conscia dell’ormai imminente perdita.

Ho un dolore che smuove radici/ e bellezza e richiude lo sguardo negli occhi/ Ciò che il mio pianto non dice non era la fine, né il dopo/ ma il mentre del tempo in cui scorre ignare la vita// Ti prego, madre, di queste mie mille incertezze/ (ingabbiate tra offese e paure)/ allontanami adesso dal petto le streghe e i confini/ le voci accalcate alla testa// avvicina una mano o lo sguardo e cercami ancora bambina/ solo un istante solo una volta// per l’ultima volta”

“Assolo per mia madre” è un prodotto artigianale di alta qualità lavorato in Italia su carte pregiate su progetto grafico di Ida Borrasi, impreziosito dalle grafiche di Giuseppe Pedota, dalla prefazione di Lucio Zinna e dalla sopracitata nota critica di Mario Fresa.

Maria Pina Ciancio, di origini lucane, è nata a Winterthur in Svizzera nel 1965. Ha lavorato per molti anni come insegnante a Chiaromonte in Basilicata, recentemente si è trasferita a Roma nella zona dei Castelli Romani. Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia alla narrativa e saggistica, vincendo importanti premi letterari. Ha fatto parte di diverse giurie letterarie ed è presente in svariati cataloghi e riviste di settore; dal 2007 è presidente dell’Associazione Culturale LucaniArt. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “Il gatto e la falena” (Premio Parola di Donna, 2003), “La ragazza con la valigia” (Ed. LietoColle, 2008), “Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro” (Fara Editore 2009), “Assolo per mia madre” (Edizioni L’Arca Felice, 2014), “Tre fili d’attesa” (Associazione Culturale LucaniArt 2022 con stampa dell’artista Stefania Lubatti), “D’Argilla e neve” (Ladolfi, 2023).

Written by Alessia Mocci

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Perchè amiamo tanto Agata Raisin? A cura di Alessandra Micheli

Perché amiamo tanto agata Raisin?

Quante volte, soltanto oggi vi siete sentite imperfette, sbagliate e poco adatte a questi anni che vanno troppo di corsa?

Quante volte avete tentato di raccontarvi, di illustrare anche i lati meno nobili della vostra anima e avete trovato di fronte soltanto muri?

Quante volte ancora vi siete sentite soffocare dalla definizione che vi veniva data di volta in volta, soltanto perché alcune aspettative non possono avere l’onta di essere disattese?

Io troppe volte miei lettori.

Tante, innumerevoli.

Tante lotte per farmi capire con il dubbio atroce che ogni mia rimostranza era la prova lampante di una inadattabilità al mondo sociale.

Sociale badate bene, non sociale.

Perché quello è solo l’umana manifestazione, concreta dell’eterno bisogno di etichettare, categorizzare l’essere umano.

Per quanto ci ho provato a raccontarmi, per quante porte io abbia aperto mi sono sempre sentita messa in discussione non già per una sorta di sprone a crescere, ma perché la mia volontà di aver rispettato il mio piccolo posto nel mondo veniva a cozzare contro l’ingombrante presenza di qualcun altro.

E cosi ciò che per noi è semplicemente un bisogno atavico, nato con la prima socializzazione, ossia comunicare e farsi comprendere, diventa una sorta di atto ribelle pari a quello di Prometeo, di Icaro o di Eva.

E sapete perchè?

Perché soltanto la volontà di sfuggire a ogni categorizzazione dell’io rappresenta un pericolo.

Noi dobbiamo continuare a recitare a soggetto, in un palcoscenico che non ci interessa, per una sceneggiatura che non ci rappartiene.

Ma è come se fosse una legge scritta.

E in questa legge c’è sempre chi dovrà avere ai suoi piedi uno stuolo di adoranti e inconsapevoli burattini e non dovrà mai mettere in discussione la sua comfort zone.

Neanche se questo ferisce voi.

Neanche se quel restare fissi in un limbo ripetuto in continuo ferisce voi. Neanche se il luogo è per voi, e sottolineo per voi, malsano o incapace di poter far esprimere in ogni vostra potenzialità.

Ecco io ci lotto quotidianamente.

Contro quel muro di gomma in cui ovviamente rimbalzo contro.

Contro chi mentre tu indichi la luna, fissa semplicemente il dito.

E cosi molti di voi si sente scomodo, si sente quasi in dovere di dimostrare a quel palcoscenico che qualcosa, al di fuori del ruolo scelto vale.

E tenta alla fine di soddisfare ogni aspettative, estetica, umana, mentale.

Ecco che persino i nostri eroi dei libri, quella coccola di carta che dovrebbe profumare di libertà diventano semplici modelli da ripetere all’infinito. Quindi se mi chiedete perché si ama cosi profondamente Agata Raisin, la risposta non potrà mai essere chissà quanto articolata.

La amiamo perché è imperfetta.

La amiamo perché nonostante i suoi sforzi di dimostrare che in quel mondo lei può garantire la sua adesione, è sempre troppo sulle righe,

sempre troppo politicamente scorretta.

La amiamo perché anche nei suoi assurdi progetti d’amore lei è autenticamente fiera della propria solitudine.

La amiamo perché in fondo non ci sta a essere etichettata, non può soddisfare le aspettative grigie e monotone di chi insegna che c’è solo una verità, solo un modo per essere felici.

La amo perché non sarà mai fuori posto.

E lo sa e a volte il dolore della consapevolezza è feroce e scava una voragine dentro di se.

Ma quella voragine la sa sempre riempire con qualcos’altro.

Amo Agata specie oggi, oggi che mi sembra di essere afona, di non poter più gridare e ricevere ascolto.

La amo perché ogni volta che la leggo, so che non è importante che qualcuno ti ascolti.

E’ importante avere sempre la forza di gridare.

E chissene frega se non ci ascoltano.

Se fraintendono.

Se giudicano.

Se non capiranno mai.

Un grido raggiunge sempre il cielo.

E questo che conta.

Visto che bisogna dirlo, visto che bisogna parlare di sé,

visto che il cuore non ti arde più in petto come un tempo,

anche se l’amore, credo, non lo si può definire,

ma visto che bisogna parlarne, allora ascoltami.

Ma ho solo la mia anima

per parlarti di me,

oh, soltanto la mia anima,

la mia anima e la mia voce,

fiamme tanto fragili

sulla punta delle mie dita,

armi patetiche

per parlare di me.

Natasha St-Pier

La figura della madre in poesia: Delle madri, libro di Marina Minet. A cura di Alessia Mocci

[…] Sbiadisco le sembianze – l’istinto è quasi infermo/ le attese della sera già scemano sul volto/ fermando un altro inverno come istante/ Ancora sono madre/ lo dico ad ogni passo, mentendo al mio calcagno/ con le domande uccise/ e i batticuori sepolti nella schiena// […]” – “Ancora sono madre”

Delle madri”, raccolta della poetessa Marina Minet, è un prodotto artigianale di alta qualità ed edito nel 2015 su carte pregiate da Edizioni L’Arca Felice. Cinquantasettesimo titolo della collana “Coincidenze”, curata da Mario Fresa, è stato pubblicato in 199 esemplari numerati. Le illustrazioni presenti portano la firma del pittore Roberto Matarazzo.

“Delle madri” è strutturato in due parti, nella prima troviamo le liriche: Il grembo prodigioso, Madri, Mancanze, Mi hanno sottratto un nome, Sigillo, Leghe, Onde, C’è un pezzo di carne in ogni cosa, Del respiro, Ancora sono madre, Colori imperfetti, Di Figlio; nella seconda: Alle tue mani, Eri tu, Il nervo che ci scalda, Del perdono, Neve a Settembre, L’incendiaria cognizione (disincanto), Lascia che sia, Anche le querce oscillano talvolta, Di Madre, Prima di partire, Epilogo, Ciò che non dimentico. La silloge si apre con L’amore dentro e oltre l’imperfezione, prefazione della poetessa Maria Pina Ciancio, e termina con due Note finali a firma di Mario Fresa e Pierino Gallo.

Ancora sono madre/ In questa scelta, spogliandomi le ossa/ conservo questo credo come coperta illesa/ Sotto la nebbia, stordendomi le mani/ somiglio appena al vento che incide le montagne/ Oltre l’ignoto, che al dubbio m’impaurisce/ non cedo l’illusione e penso ancora/ ai nastri che ho intrecciato/ pesando il pane insieme alle mie colpe// […]” – “Ancora sono madre”

Come suggerisce il titolo, Marina Minet tende ed intende trattare il tema della maternità ristabilendo una connessione con un vicino passato, se ragionato attraverso la linea temporale, ma di così atavica memoria da esser oggi inserito nel rituale della mitologia. Così appaiono le madri che, nell’azione di pesare il pane, si sporgono verso il ricordo della creazione dei cestini con i nastri intrecciati bilanciando le mancanze come i peccati che hanno solcato i giorni. L’anima – πνεῦμα – esente dalla materia somiglia al vento che vaga oltre l’ignoto senza cedere all’illusione perché intenta nel gesto antico del pane. Simbolo del nutrimento fisico e spirituale, il pane è presente in altri tre versi di differenti canti accostato al silenzio, all’essere ed alla comunione: “col silenzio accanto al pane”, “in fondo siamo pane”, “il vino e il pane, in comunione”.

Tatto, battito, canto, senso, artiglio, angoscia, cuore e nome: la madre descritta da Marina Minet è in equilibrio tra la gioia del generare ed il patimento dato dall’estenuante ricerca del senso stesso della vita. Contrappeso che trasporta in riflessioni gravi e gravide di parole quali destino e sfortuna: “[…] Non so se sia dei luoghi/ la causa del destino/ o se sia il sangue, la fonte dei lamenti/ che ci portiamo dentro senza nome/ come sfortune incolte/ Oppure se dovunque sia del sé/ la scelta d’ogni singolo paesaggio/ che attraversiamo nudi/ fino a sfinirci gli anni// […]” (“Alle tue mani”). Parole nelle quali la madre è presentata con le due contrastanti immagini della fortezza da espugnare e del grano che, libero, oscilla, come se la mente – l’atto del parlare – fosse quella guerra atta alla conquista mentre il gesto – l’atto del cogliere – fosse la pace atta alla semplicità.

Maria Pina Ciancio sottolinea nella prefazione: “Vibra in questi versi l’esaltazione della maternità (“il grembo prodigioso”), delle sue fasi e dei suoi mutamenti, l’amore verso i figli e viceversa. Un amore primordiale e viscerale carico di infinite sfumature e mutamenti, che mette a nudo tutta la forza espressiva e l’originalità stilistica della sua poesia. La capacità di ascoltare voci e silenzi (fuori e dentro di sé) e di tracciare attraverso i versi, mappe illuminanti e folgoranti di pensiero.”

La Sardegna non è palesata in alcuna lirica eppure la presenza è avvertita dai lettori che ne hanno avuto conoscenza, esperienza. Marina Minet cela e disvela l’isola inserendola nel dialogo come figura di madre: “[…] La fierezza uguale ai gigli/ è l’esempio che mi hai dato/ sorvegliando il mio respiro e l’orizzonte/ mentre il mare ti scalfiva le ferite/ canzonando la speranza ch’era il cielo// […](“Eri tu”), versi in cui l’immagine percorre l’estesa spiaggia di Sorso – paese d’origine della poetessa – nella quale si può ammirare una distesa di gigli bianchi che, nei mesi estivi, fioriscono selvatici e spontanei. Ed ancor più il giglio è rappresentazione della madre se viene accostato al mito greco nel quale dai seni di Era, impegnata a nutrire Ercole, caddero alcune gocce di latte che in alto formarono la Via Lattea ed in basso i gigli.

[…] È il bagliore di quel mare che mi manca/ […] La mia terra è un vento informe […]” – “Prima di partire”

Teresa Anna Biccai, in arte Marina Minet, è nata a Sorso in Sardegna. Tra le sue pubblicazioni: “Le frontiere dell’anima” (Liberodiscrivere® edizioni, 2006), “Il pasto di legno” (Poetilandia, 2009), “So di mio padre, me” (Clepsydra Edizioni, 2010), “Onorano il castigo” (Associazione Culturale LucaniArt, 2012), “Lo stile di Van Van Gogh” (Associazione Culturale LucaniArt, 2014), “Delle madri” (Edizioni L’Arca Felice 2015) e Scritti d’inverno (a cura del premio Città di Taranto, 2017); si citano i romanzi collettivi al femminile “ESTemporanea” (Liberodiscrivere® edizioni, 2005) e “Malta Femmina” (Ed. Zona, 2009); il poemetto in prosa-poetica “Perdono in supplica d’impronta esangue in monologo d’augurio al pasto” (da Amantidi – Vittime, Magnum Edizioni, 2006); la fiaba per bambini pubblicata nell’antologia “A mezz’aria” (Liberodiscrivere® edizioni, 2006); il racconto-poema “Metamorfosi nascoste” apparso nell’antologia “Unanimemente” (Ed. Zona 2011); compare nell’Antologia di Poesia Femminile “Voci dell’aria” (Exosphere PoesiArtEventi Associazione Culturale, 2014), in “Teorema del corpo – Donne scrivono l’eros” (Ed. FusibiliaLibri, 2014) e nella plaquette collettiva “Le trincee del grembo” (Associazione Culturale LucaniArt, 2014).

Mario Fresa nella Nota finale scrive: “In questi versi, l’amarezza e il male che così spesso feriscono l’esistenza assumono il timbro e il colore di un’impreveduta dolcezza che sembra tutto assolvere e liberare; sembra, dico, perché sempre si avverte la presenza, lontana ma fortissima, di un’ombra lunga, di un aspro e duro patimento che, mostrandosi dal fondo del suo amaro silenzio, vuole potentemente rivelarci – in un istante – l’ineffabile incomprensibilità di ogni evento umano.”

Pierino Gallo nella Nota finale scrive: “È nell’esatta congiunzione tra la memoria e i luoghi che si espleta la catarsi del poeta, ed è in questo vento informe che occorre ricercare la ricchezza della poesia di Marina Minet.”

Written by Alessia Mocci

Info

Acquista il libro http://edizionilarcafelice.blogspot.com/2015/06/marina-minet-delle-madri.html

Sito autrice https://ritualimarinaminet.wordpress.com/

Fonte

La rubrica riflessione sulla letteratura presenta “Considerazioni sul retelling della fiaba moderna”. A cura di Alessandra Micheli

Sapete cosa è il retelling delle fiabe?

È la semplice rivisitazione, in chiave moderna di un contenitore di archetipi e simboli.

La fiaba, in fondo, non è altro che il modo con cui a società si racconta, si legittima e si autoproclama tale.

E questo lo può fare attraverso un percorso di apprendimento ai valori che la costituiscono che viene chiamato in sociologia socializzazione.

E questo approccio, quest’iniziazione alla vita di comunità, alla polis intesa in senso greco, avviene attraverso vari canali come la famiglia, la scuole, gli amici e ovviamente la cultura.

E’ grazie a questi incontri che il bambino in procinto di diventare uomo apprende le consuetudini, i valori, la morale e l’etica.

Negli ultimi casi c’è poi da fare un distinguo: la morale rappresenta la forma che l’ethos ossia il collante societario prende forma in una determinata epoca, con determinate condizioni ambientali e in un determinato contesto economico e politico.

E quindi è soggetta, ovviamente.

A variazioni.

Non per nulla si parla sempre di morale borghese, morale socialista, morale cattolica o morale vittoriana.

Diverso discorso riguarda l’etica.

Essa non è altro che il raggruppare ideali e idee che rappresentano la stella polare capace di guidare ogni organizzazione umana: da quella nomade, a quella organizzata, dalla più semplice alla più complessa.

Tanto che lo stesso Sant’Agostino parlava di verità eterne, immutabili e concordanti per ogni tradizione umana conosciuta.

Tutte le civiltà hanno avuto, ad esempio, i loro comandamenti donati dal dio prescelto e tutti hanno su per giù lo stesso sentore: rispetto per il cosmo e per dio, rispetto per l’altro e la meravigliosa scoperta della complessità umana.

Che presuppone lo scontro e il dialogo tra due forze distinte e complici la stabilità e la tendenza dell’uomo al mantenimento della propria zona di conforto e l’evoluzione che presuppone come punto di riferimento l’esaltazione e l’accettazione della differenza.

Persino nella bibbia si trovano descritte queste due forze con due nomi evocativi Jahve colui che è ( e ovviamente per essere devo smettere di diventare) e Elohim la forza che va oltre ( e per andare oltre devo smettere di essere).

Questi due concetti rispondono al nome di tradizione e innovazione, di caos rigeneratore e ordine.

E in fondo a una lettura più esoterica le fiabe raccontano proprio di questa dualità che deve, per poter essere davvero umani, trasformarsi in monismo. Ecco che il retelligng di ogni fiaba, pur portando innovazione alla morale deve poter rimanere fedele all’etica e quindi all’archetipo che racconta.

Non interessano tanto i manifesti politici e ideologici, che passano e sono di interesse limitato, quanto una mappa per poter renderei l mondo che ci circonda e la sue innovazioni intellegibili.

Il retelling non deve solo dimostrare e narrare i cambiamenti sociali e della comunicazione politicamente corretta ma evidenziare il proprio nucleo segreto, esoterico ossia come il bambino indifeso, lo sciocco inconsapevole può diventare uomo.

Ecco che ogni narrazione fiabesca affonda le sue radici nel calderone della fiaba e del mito che gira attorno concetti sempre diversi tra i quali l’incarnazione dello spirito della giovinezza, il simbolo di colui che rifiuta la società in cui viene inserito, il mito dell’eterno ritorno, la fantasia che plasma il cittadino che lo rende sempre più umano e meno membro della composita gerarchia sociale rigidamente strutturata.

Ma che, al tempo stesso può trasformasi in una forza catastrofica, lesiva appunto dell’etica che deve poter nutrire e definire i rapporti.

pertanto ogni fiaba ha sfaccettature che la rendono estremamente complessa; da un lato la fantasia viene esaltata come la spinta all’innovazione ma non solo anche alla capacità di contestare i valori fondanti la morale e ripensarli in chiave diversa.

Ma è anche il caos che lungi da costruire usa la contestazione soltanto per distruggere senza proporre l’alternativa.

E per questo possiamo dire che, a volte i personaggi delle fiabe sono androgino.

Ma nel senso esoterico del termine ossia convivono in esso elementi che possono riguardare la solarità come elemento lunare, l’uomo e la donna, innovazione e staticità.

L’eroe del mito è colui che tutto ingloba, che tutto comprende e che tende a diventare padrone del tutto.

E’ un androgina che viaggia con la sacralità del concetto religioso e che sfocia in una sorta di ribellione capace di raccontare la forma che quella ribellione prenderà.

Non riguarda, quindi la sessualità nel concetto moderno o la teoria del genere.

Ma si incentra sulla dialettica tra noi e l’anima, tra noi e l’ethos societario che non può essere esauribile nella prigione del concetto.

Ciononostante, oggi, ogni fiaba si presta a un’interpretazione che possa portare avanti la lotta che tenta di demolire il concetto di genere e che è cosi espresso nel testo suddetto.

Eppure il substrato simbolico non è solo stufo di essere immesso in gerarchie rigide e in un contesto sociale strutturato in modo netto con i suoi ruoli affatto interscambiabili.

L’eroe androgino, di ogni mito, rappresenta il rifiuto delle convenzioni che poco hanno a che fare con la vera crescita.

Ossia con la possibilità di guardarsi dentro e trovare i propri talenti.

L’dea del retelling queer, invece, ha una valenza politica, nel senso greco del termine.

Dialoga sui valori, sugli schemi societari.

E’ la forza che lotta contro la definizione di donna e uomo e vuole essere totalmente libero da poter decidere il proprio sesso e la forma che la sessualità prende.

Interessante assolutamente.

E legittimo in quanto ho sopra esposto come il retelling debba raccontare, appunto la società.

Il problema però e il rischio è di interpretare un simbolo secondo la visione moderna che è, a differenza di quella antica, molto meno sfumata.

Oggi dobbiamo lottare contro i concetti sostituendoli con altri concetti. Dobbiamo lottare contro le definizioni sostituendole con altre definizioni.

Non è un vero ripensamento del diritto umano di esistere, quanto la “lotta” tra diverse ideologie che pretendono di definire non solo l’uomo ma i rapporti. Questo diventa un po’ soffocante.

Lasciando in disperate e forse un po’ contestandolo il vero messaggio del testo: non è la definizione a farci esistere.

E’ la libertà di essere complessi, sfumati e la possibilità di essere descritti in più modi.

Uomo e donna sono concetti biologici che poco interessano.

Anche la possibilità di proporre una terza definizione appare uno sforzo di contestare non la dualità presente nel mondo e proporre il monismo, quanto di arricchire la dualità rifiutando però la sfumature necessaria a un mondo interconnesso e complesso.

L’orgoglio che un retelling deve poter proporre è quello umano: la libertà di essere persona prima che soggetto dialetti e la libertà di essere definito per le azioni, per le passioni, per la propria interiorità.

L’eroe fiabesco che, a parer mio deve uscire dal retelling invece, è un eroe che cerca se stesso.

Che non vuole essere definito se non per quello che ha dentro.

Ed è il vero messaggio innovativo di questo tempo frammentato alla disperata ricerca non dell’umanità ma di una nuova ideologia.

L’apparenza ed il sesso è apparenza, non serve per poter narrare l’uomo: la mappa non è il territorio e a ogni definizione netta ( perché anche la sfumata è netta in quanto non si concentra sulla vera protagonista ossia la mente) ci porta sempre più lontano dal territorio che resta la caverna oscura da cui è difficile sfuggire.

Non è improntante per chi ama la fiaba, in quale definizione si riconosce.

E’ importante l’uso che ne farà della fantasia e il colore che darà alla sua anima.

Perché come direbbe Poullain de la Barre a definirci non è il sesso.

Ma la mente.

La rubrica Riflessioni sulla letteratura presenta”LIBRI, LIBRONI, LIBRETTI E AUDIOLIBRI”. A cura di Alfredo Betocchi

Libri, libretti, libracci, libroni, libriccino, libriciattolo, libruccio etc. etc…

Quale miglior argomento ci potrebbe essere, per un Blog che si occupa di letteratura, se non quello sui libri?

Per dare un tocco culturale a questo articolo è obbligatorio spiegare ai lettori cos’è un libro, anche se potrebbe parere superfluo:

“Il libro è un insieme di fogli stampati o manoscritti, rilegati dentro una copertina”.

Non è sempre stato così e non è sempre così oggigiorno.

In realtà nei secoli passati, l’uomo ha usato svariati materiali per lasciare ai posteri il proprio pensiero: “pietra, argilla, legno, corteccia d’albero, pelle di pecora, papiro e pergamena.”

Oggi esistono anche forme diverse: su CD, KOBO o in vari formati elettronici come il file variamente declinato in kindle e simili.

Il termine LIBER, LIBRI originariamente col significato di “pellicola sotto la scorza degli alberi”, serviva prima dell’uso delle foglie di papiro, a indicare il supporto sul quale scrivere. Si ignora l’origine certa della parola, alcuni la fanno derivare dall’antico slavo “lubŭche vuol dire “scorza”.

Il termine “liber” è in uso solo dal II secolo d. C.

Al tempo dei greci e dei romani i libri erano fogli ricavati da pelle di pecora, papiro o dalla pergamena, arrotolati intorno a un bastoncino e legati da un nastro. Per questo motivo erano chiamati anche “Volumen” dalla parola “volutus” avvolto.

Dal movimento del girare è nata la nozione geometrica e da questa quella del libro.

E’ incredibile come oggetti così delicati e deperibili abbiano potuto attraversare i secoli e giungere fino a noi.

Il Codice o libro di pergamena manoscritto fu utilizzato largamente durante il Medioevo. Grazie agli amanuensi, gran parte della cultura antica si è salvata ed è conservata ancor oggi nelle nostre biblioteche.

Con l’introduzione della “carta” portata dagli arabi nel secolo XI, mutuata dall’Impero della Cina e con l’invenzione dei caratteri mobili inventati da Johann Gutemberg (1400 – 1468 ca), tipografo tedesco, l’Europa e poi il mondo intero è entrata nell’universo della carta stampata e dei libri come li conosciamo oggigiorno.

Sarebbe qui eccessivo fare la storia del libro, né basterebbe lo spazio per un articolo di poche pagine, basti dire che quest’invenzione ha fatto fare un balzo enorme alla cultura dell’umanità.

Oggi esistono miliardi di libri in tutte le lingue del mondo e, grazie ad essi, l’analfabetismo è sensibilmente calato in tutti i continenti.

Tra i libri-non libri, citerei quelli fatti a immagini, colorati, divertenti e dedicati ai più piccoli. Si insegna in questo modo ai bambini a maneggiare un volume che attragga il loro interesse e li instradi all’amore per i libri veri.

Come accennato all’inizio, esistono anche libri virtuali, non cartacei.

Molti lettori contemporanei preferiscono leggere un “libro” attraverso un dispositivo multimediale, facendo scorrere le pagine virtuali con un “clic”.

Altra cosa sono i libri “audiovisivi” formati da un “compact disc” nel quale un attore legge un libro. Molti apprezzano questo sistema per leggere romanzi o altri generi letterari ma soprattutto è un sistema utilissimo alle persone non vedenti.

Durante la presentazione di un mio romanzo, la Biblioteca che mi ospitava mi regalò un CD nel quale un bravissimo attore aveva registrato la lettura del romanzo in presentazione. Fu per me una scoperta sbalorditiva, mai avrei immaginato l’uso che si poteva fare di un libro. Mi resi infine conto che la Biblioteca in questione era ospitata presso un Istituto per ciechi e le persone non vedenti facevano spesso richiesta di CD per accedere ai contenuti di un libro di loro gradimento.

Questo sistema è molto più fruibile e piacevole di un libro scritto in caratteri braille.

Sarebbe un’opera meritoria se ogni scrittore potesse dare modo alle persone non vedenti di conoscere i propri romanzi/poesie o quant’altro attraverso un audiovisivo.

“Niente di personale. Sfogo di un recensore”. A cura di Alessandra Micheli

diii

Venite pure avanti, voi con il naso corto, signori imbellettati, io più non vi sopporto, infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio perché con questa penna vi uccido quando voglio.

Venite pure avanti poeti sgangherati, inutili cantanti di giorni sciagurati, buffoni che campate di versi senza forza avrete soldi e gloria, ma non avete scorza; godetevi il successo, godete finché dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura.

Guccini

Sapevo che lo avrei fatto.

Sapevo che la mia voce interiore non sarebbe stata zitta non tanto di fronte alla nuova esilarante polemica in corso, ma al principio che, nel suo interno, viene sostenuto da tanti, da troppi.

È quello che in fondo mi interessa.

Vedete ogni posizione che prendete, parla molto di voi non solo dell’idea politicamente corretta, ma dei famosi residui paretiani, ossia le motivazioni illogiche alla base di azioni apparentemente logiche.

Ecco che la situazione da una visuale superficiale è questa.

Qualcuno attacca un sistema e le parti del sistema reagiscono, invocando come scudo alibi e slogan triti e ritriti.

E già così analizzata la situazione dovrebbe far riflettere molti: perché mi sento indignato quando qualcuno, in modo più o meno condivisibile, la porta in superficie?

La spiegazione che ho ricevuto è stata il modo o la forma con cui la critica è stata fatta. E io ho ribadito, quindi se vi avessero dato delle superficiali o peggio delle attentatrici del senso stesso del libro in modo, sarebbe stato più accettabile?

Se invece dell’ironia pungente o sarcastica, avessero analizzato cosa in quel sistema che sostenete non va, vi sareste indignate di meno?

Se mi dicono stronza in modo dialettale o per vie traverse, sempre stronza mi hanno dato. E io come ogni soggetto senziente mi faccio la seguente domanda: perché mi definisci stronza?

Ma non tergiversiamo.

Allora, visto che il problema è stato il tono eccessivamente polemico dell’invettiva, proviamo a vedere se il grattacapo è il modo o la forma, o la sostanza che ne viene fuori. E per farlo nel mio modo pseudo- saggistico individuo subito il soggetto (badate bene ho parlato di soggetto e non oggetto) del disquisire: il libro.

E di conseguenza al libro viene fuori un intero mondo, editoria, blogger, letteratura e soprattutto (ed è quello che più mi interessa) ethos societario.

Cos’è questo ethos?

Lo spirito dei tempi usato, come mezzo di spiegazione da tantissimi filosofi. Ogni epoca ha il suo spirito e questo permea di arcani significati tutto il nostro agire. In pratica l’ethos non è altro che il residuo logico paretiano .

Ma evitiamo il mio amato filosofeggiare.

Il libro in questione come scrive la meravigliosa Viviana Viviani, smette di essere soggetto per divenire oggetto. O come meglio spiega lei (che ha più talento della sottoscritta):

.. Il libro sta diventando un oggetto estetico, venduto per ragioni che hanno sempre meno a che fare con la scrittura: la bellezza della copertina, la fama, magari dovuta ad altro, di chi l’ha scritto o di chi lo promuove, la fascinazione che si è riusciti a creare intorno all’autore. Ho visto in pochi anni siti di recensioni trasformarsi, iniziare ad avere come sponsor cosmetici, mobili, alimentari, vestiti. Sui social compaiono foto di libri ovunque, non solo vicino alla tazza di caffè, ma in equilibrio su una mensola, di fianco a una bella lampada di modernariato, d’estate appoggiati all’ombrellone o sulla sdraio, d’inverno con il berretto in testa. Manca solo mettergli il cappottino, come al cane. Il libro come feticcio, gadget, arredo. Ma li leggiamo davvero, tutti questi libri in passerella, tirati a lucido con un perfetto make up? Se il libro potesse parlare, credo oggi griderebbe proprio i più famosi slogan del femminismo storico: non sono un oggetto, ho qualcosa da dire, sono mio! Non le voglio queste tovagliette, non mettermi il rossetto, sono allergico ai fiori. E a meno che tu non voglia davvero leggermi, lasciami un po’ da solo. Perché ammettiamolo, c’è una leziosità in quelle foto, una grazia artificiale che mal si sposa con la sofferenza che la vera letteratura porta con sé.

Viviana Viviani

Un pezzo un po’ lunghetto mi direte voi, ma che non potevo citare, come si dice a Roma, a spizzichi e bocconi.

Casomai se siete troppo pigri per leggerlo ve lo spiego io con il mio becero modo schietto e devastante: il libro non è più un qualcosa di vivo che apre le porte di altre dimensioni, tra cui inconscio, immaginario (un po’ il paese della nostra balda Alice) o dell’onirico. Diviene mezzo, anzi catena per aderire ancor più saldamente alla terra.

Attenzione.

Io sono una persona profondamente realista.

Amo la realtà in tutte le sue sfumature altrimenti non ambirei a divenire saggista. Ma c’è un grosso ma. Io AMO la realtà perché essa è in grado di spiegarmi, o almeno ci prova, il più grande mistero umano, ossia la mente. La mente produce continuamente attraverso la percezione e quindi la comunicazione tutto ciò che ci circonda. È grazie a Ames e Bateson, che questa arcana verità ha preso piede: tutto ciò che produciamo nasce dalla mente e nella mente si ritrova un po’ tutto, dalla logica all’illogica, dai sogni agli oggetti, dai pensieri ai più oscuri e remoti impulsi. E la mente cosi considerata è tutto ciò che fa muove e quindi vivere l’uomo. Non è più il cuore a pompare vita ma la testa. Da questo primo dato si può quindi comprendere che tutto ciò che ci collega al reale e quindi anche la parola è frutto di un processo straordinario che parte proprio da lì, dal vostro testone. E cosi è il libro. Considerare, quindi il libro un mero fatto estetico ne distrugge l’identità, senza però che questa sia sostituita da qualcos’altro.

Mi spiego.

Nel momento in cui volete rendere il libro fatto estetico, dovreste anche completare questa “rivoluzione” (o “involuzione”): cosa vi porta essere profondamente esteti?

Che cosa rende importante e quasi vitale trasformare un qualcosa di così immaginario in un mero fatto di vista?

E qua casca l’asino.

Anzi casca proprio tutta la fattoria.

Anche l’estetica nasce da bisogni incontrollabili ossia bearsi di bellezza. Sì ho fatto la rima.

L’estetica è il tentativo supremo di scoprire in modo molto prometeico il senso e il segreto del fuoco: la percezione del divino, del cosmo, dell’armonia, della matematica, dei numeri, insomma di tutto ciò che regge in un perfetto mosaico cielo e terra.

Però non credo che sia questo il vostro tentativo. Perché, udite udite, il libro grazie alla musicalità matematica della parola, già lo fa.

Allora che rivoluzione è mai creare qualcosa di già esistente?

Quindi non è una ricerca filosofica sull’estetica. Perché accanto a oggetto estetico si accompagna il venduto. E allora tutto precipita dalle alte zone della filosofia e della filologia per divenire puramente marketing. Che usa sì i mezzi a sua disposizione come il virtuale, ma per vendere. E chi vende presenta un prodotto che richiama, un po’ come fanno i fischietti dei cacciatori, la preda che si vuole ingabbiare.

Su marketing e pubblicità si è scritto a iosa.

Ma io che, ahimè, ho tentato di lavorarci vi dico che, a volte essa si collega con una sottile manipolazione. Vi incantate sui colori del detersivo, sui volti noti che lo sponsorizzano e mentre lo usate vi riempite di bolle. Perché magari contiene allergeni. Sì lo so non si dovrebbe fare, ma questa è storia vissuta.

Se il libro diviene solo un qualcosa di commerciale, qualcosa che va venduto, non necessariamente si sposa con l’amore per il contenuto. Nel senso che imbelletti il pacchetto, lo compri, ma a volte lo mostri fiera e orgogliosa come un feticcio. Magari non ti serve neanche. Magari non ami neanche leggere. Ma lo prendi perché fa fashion, fa moda, fa glamour e perché postando foto hai mille e passa followers. E ti senti importante. Uno perché sei sempre un venditore, due lo sei perché apparentemente ti occupi di cultura. Cioè vendo e propongo un libro mica calzini o detersivi.

Il problema è che un libro non è un qualcosa di utilità primaria o serve per soddisfare un bisogno primario. Non è detto che un libro necessariamente possa servire a tutti. La cultura è qualcosa di così vasto che non sempre si collega con la lettura di un libro. Attenzione libro. Non giornale, non pamphlet, non enigmistica. Libro.

Che tutti noi dobbiamo avere la possibilità di saper leggere è un diritto primario. Che questa sia collegata con il libro è una scelta. Neanche un diritto.

E quando la Viviani parla di leziosità e di grazia superficiale, parla proprio di una mancata comprensione dell’anima del libro. Un libro vive. Non comunica solo emozioni, parla proprio.

Per chi legge i personaggi di carta sono reali vivi quanto noi.

E soprattutto il libro serve a chi tenta di rispondere all’annosa domanda cos’è l’uomo, attraverso la visione di qualcun altro, in un’altra epoca, in un altro contesto sociale, in un altro paese. E la visione che l’autore dà di me come archetipo uomo che spiega la fascinazione del libro.

Ma non è un obbligo. Non dobbiamo tutti leggere nonostante leggere sia consigliato a tutti. Leggere è un’attitudine mentale, cosi come è l’arte.

E qua torniamo alla concezione di molti del testo. E inizieranno sicuramente i problemi.

Che facciamo, andiamo a osservare più da vicino le reazioni a questo svelamento del mistero lettura?

Siete sicuri?

Bene, procediamo.

Premesso che nonostante io non sia una fautrice del libero pensiero, convinta come sono che esso debba essere disciplinato, non lasciato scorrere a pene di segugio, capisco anche che, essendo in democrazia, ognuno ha l’opportunità di dire la sua. Tralasciando la questione che non si sa neanche cosa sia la democrazia, accettiamo questa superficiale pretesa.

Non ci interessa, dunque, che il sistema piaccia.

Può piacere.

Magari essere più onesti e non trovare chissà quali scuse filosofico morali e ammettere che, a noi, quel sistema porta benefici e non vogliamo rinunciarci. A tizia porta visibilità e possibilità di pavoneggiarsi, all’altra la possibilità di dare sfogo al suo “esibizionismo”, a Caio la possibilità di vendere appoggiandosi alle influencer. Digressione.

Influenzare qualcuno significa possedere o ottenere la possibilità di intervenire nella determinazione o nella modificazione di un fatto. Talvolta, nel caso umano, in rapporto con una posizione di autorità o prestigio. In sostanza si pensa che X possa cambiare l’idea di Y anche con l’uso della manipolazione (Operazione di condizionamento o controllo oppure di modificazione o alterazione) .

Quindi qualcuno riesce a far acquistare il libro grazie a vari mezzi. Attenzione, comprare non leggere. Perché per vendere basta il marketing, per far interessare serve la cultura.

E quindi poiché il libro è stato per troppo tempo oggetto di cultura distante dalla “massa”, quasi racchiuso in una teca, piace (bella scusa ragazzi) che esso scenda perché in quell’isolamento culturale l’uomo è stato troppo solo. Solo. Il problema è che la lettura stessa, cosi come la scrittura, è un mero fatto personale che vive e si alimenta in solitudine. Quando si scrive, o si legge ci si rifugia o si entra in una dimensione di pura estasi, in un mondo incantato dove vivono le TUE idee, i TUOI ricordi, le TUE esperienze e la TUA PERSONALE capacità di interpretarle. Eh si caro mio lettore, la lettura, così come l’arte, è un fatto privato, quindi solitario. Se poi uno legge un libro con diciotto persone è perché soffre di personalità multipla. Anche se io leggo in un treno affollato, o in un mercato, mi ritaglio un angolino tutto per me agli angoli dell’esistenza, cosi come direbbe la bravissima Simona Accarpio. Quindi lettura e arte nascono in solitudine e poi si espandono nella moltitudine. Bellissimo. Meraviglioso.

Allora cos’è questa acrimonia sulla solitudine? Paura? Rifiuto?

O c’è altro?

Sì c’è altro. La solitudine che accompagna il libro viene rifiutata quando esso non è oggetto di discussione, non è tra le mani di qualcuno, non è venduto insomma. Che poi io con il libro tenti di piantare chiodi nel muro poco importa. In fondo contenti voi no?

Però così facendo offendete due cose: il vostro presunto talento e la vostra dignità di scrittore/lettore. Nel senso che se i primi a non crederci siete voi e vi accontentate delle briciole, pensate gli altri. Se per uno scrittore è importante vendere a prescindere che ci siamo lettori o per il lettore è importante accumulare libri per darsi un tono, in fondo prendete in giro voi stessi e l’hobby o il talento che pensate di possedere. Perché anche leggere, fidatevi, è un talento. Il talento di bussare alla porta del libro, viaggiare tra le sue pagine e scoprirvi i segreti e persino i significati nascosti. O che non sapevano di essere stati infilati a forza dalla fantasia del baldo signor X.

E aggiungo altro. Il libro non può essere fatto democratico, perché appartenendo al lato più segreto del nostro io, è una specie di iniziazione. Il libro lo devi cercare. Devi volerlo, devi pregare come Bastian, che da bianco divenga pieno di scritte. Devi essere un moderno cavaliere armato della tua spada e giungere sulle rive del castello del Re pescatore e riceverei il premio per aver superato mille strade impervie, aver affrontato mostri e draghi e salvato la principessa anima dalla tentazione. Altrimenti non è un libro.

Il problema, quindi, è che se uno sdogana la tendenza a coronare di orpelli il libro non lo rende protagonista. Lo rende schiavo di una sua intenzione. Se uno legittima la propensione al libro a essere un mero elemento decorativo (siete autori editor, editori o arredatori di interni? Mah) sta dicendo proprio l’opposto: non me ve ne frega un cazzo del libro, io voglio una bella immaginetta priva di contenuto.

Oh ripeto, contenti voi.

E non è affatto un buon inizio. È proprio la fine.

Chiusi i giochi, addio sogni e benvenuto sistema che, con il tuo ghigno dici fessi a tutti noi che tentano di configurare apparenza e sostanza, forma e contenuto.

Avete perso.

La foto non è più la foto che sveglia le coscienze così come era quella di Rose Parks o del muro di Berlino che cadeva a pezzi, o di Armstrong sulla luna. È un coreografico cacofonico brulicare di brillantini e di lustrini, un lezioso insieme di elementi soltanto e sottolineo soltanto, visivi.

Il messaggio qual è?

Perdonatemi eh, ma arriva solo “carino”.

E poi vi incazzate pure se qualcuno ve lo fa notare.

E il vostro lavoro è rendere carino un libro o parlarne?

E se ne volete parlare con le foto, perché attenersi a regole dettate da chissà chi?

In realtà voi accettate il sistema dove l’abito fa il monaco, dove la perfezione fa da padrona, dove il difetto del corpo è un’onta, dove la chirurgia estetica tende a renderci tutti uguali. E l’imperfezione che rendeva perfetto il tutto viene totalmente rifiutata. Non vi dirò che questa tendenza non è pericolosa; ma a rinnegare il fango in favore dei diamanti si rischia di creare un mondo omologato, un mondo stantio un universo che rischia il collasso. E il libro, in genere, a casa mia, nel mio mondo fatato, si è da sempre ribellato a tutto ciò

Noi stessi quando leggiamo non siamo così. Non abbiamo il tavolino perfetto, il tovagliolo in tinta, i fiorellini freschi, i capelli impeccabili e i braccialetti perfetti. Anzi, è più facile che diventiamo un po’ animali, nel senso buono. Un libro appassionante è un’esperienza totale, può richiedere un certo abbrutimento. Non è roba per signorine, di entrambi i sessi, sia chiaro. Di solito si legge stravaccati, i vestiti non devono stringere, meglio una tuta o un pigiama. Il trucco dà fastidio, gli occhi si arrossano, bisogna poter piangere. E poi Bukowski con la tovaglietta colorata ci si pulisce il culo. Houellebecq non si può leggere con i fiori sul tavolo, a meno che non siano rigorosamente appassiti. Se leggi Henry Miller o Anaïs Nin, ai capelli non ci pensi, la doccia la fai dopo, anche perché durante la lettura tutto può succedere.

E cosi adeguarsi per sopravvivere significa barattare quella forza indomita che aiutò Rosa Park a sedersi sul pullman per il quieto vivere. Se la signora Rosa avesse ragionato come voi, si sarebbe accontentata della sua vita, e non si sarebbe seduta sul davanti dell’autobus.

Se Palach avesse deciso che, per sopravvivere doveva adeguarsi la sistema e magari attendere un cambiamento che da chissà quale cielo sarebbe precipitato a terra, non avrebbe lottato per la libertà. Se Galileo non avesse sognato e rifiutato il quieto vivere, non avrebbe contestato la chiesa.

E voi mi direte, quelli sono casi eccezionali.

La storia è piena di gesti simili. Il problema è che voi siete oramai così assuefatti alla dittatura invisibile, che non siete più capaci di agire. Siete oramai anestetizzati dall’idea che siete, in fondo uomini qualunque. E infatti è così che apparite. Così che volete apparire.

Perché a voi non interessa che il libro si legga, ma che se ne parli. Non vi interessa che il libro sia raccontato, vi interessa vendere, essere lodati, ammirati, resi importanti, di successo, vi interessa influenzare, appoggiare, non comprendere o condividere.

Vi interessano ragioni diverse e interessanti da un punto di vista sociologico (nel senso che potrei grazie a voi sviluppare almeno 5 saggi sulla società decadente o sulla crisi della rappresentanza che Mongardini spicciami casa) ma che:

l’alternativa, in teoria più vicina ai lettori, degli influencer rischia di arrivare a vendere più libri, forse, ma per ragioni altrettanto sbagliate. Ragioni tra cui la scrittura è sempre all’ultimo posto.

E cosi quando dietro la lode al mio misero lavoro, mi viene consigliato di cedere al sistema, inserendo accanto a recensioni che dovrebbero, in teoria bastarvi, quando vedo che mi abbandonano coloro che ritenevo guerrieri, perché il cammino intrapreso è impervio e difficile, non mi cascano le ovaie. Mi rendo conto semplicemente che eravate delle illusioni: non condividevate un sogno. Semplicemente guardavate il mio dito mentre indicavo la luna.

Io sono solo un povero cadetto di Guascogna, però non la sopporto la gente che non sogna.

Gli orpelli? L’arrivismo?

All’amo non abbocco e al fin della licenza io non perdono e tocco, io non

perdono, non perdono e tocco!

Guccini

Ultimo dato.

Per favore, in nome di Simone e Betty, non confondete e non usate il femminismo per giustificare le vostre ambizioni.

Simone e le suffragette non hanno lottato perché noi postassimo foto di centrini. Ma per il diritto di voto, di ereditare, di indossare i pantaloni, di divorziare, di studiare e di entrare in politica. Non c’entra nulla il sessismo con la vostra accettazione del sistema. Anzi. E proprio il vostro raccontarvi attraverso l’estetica che dà un calcio in culo al femminismo.

Se volete essere femministe fate come me, date un’alternativa all’idea che a noi piacciono solo i centrini e il tè. Bevete birra, fumate sigari, vestire hippy, evitate che so di farvi vedere perfette e siete un po’ Patty Smith. Scrivete poesie incazzate come Alda Merini, studiate astrofisica come Margherita Hack. E impegnatevi in politica come Nilde Iotti.

Insomma, fate la differenza.

Il femminismo è una cosa seria.

La rubrica Riflessioni sulla letteratura presenta ” Perché la fantascienza?” A cura di Alfredo Betocchi

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Parlare della fantascienza potrebbe sembrare facile a una persona disattenta, informata superficialmente dalle notizie che cinema e televisione, a volte, diffondono in proposito.

A dire il vero, l’argomento ha implicazioni psicologiche e di costume molto profonde e non è certo questa la sede per analizzarne tutti i suoi aspetti, tuttavia la materia è intrigante, coinvolgendo in essa quasi tutte le attività umane con le sue paure, le manie, le speranze e le attese.

Nel genere letterario della Fantascienza possono trovarsi un po’ tutti gli altri generi: dal Giallo al Comico, dal Romanzo d’Amore a quello Storico. L’Autore di Fantascienza, essendo il creatore della sua opera, la può plasmare a piacimento, inserendo all’interno qualsiasi stile.

Si può affermare che la Fantascienza è nata con l’uomo: cosa sono, infatti, i miti più antichi, in ogni parte del mondo, se non superbe invenzioni nelle quali Dei, monarchi, animali mostruosi o luoghi irreali evocano nei popoli immagini fantastiche?

Quelle storie nulla hanno da invidiare alle moderne avventure di astronavi e alieni tra pianeti sconosciuti che tanto appassionano i lettori.

La base di tutto, la molla che muove la fantasia umana è l’insopprimibile volontà di sopravvivenza e di affermazione. La vittoria sul “cattivo”, la difesa della propria specie ma anche l’anelito di conoscere, di scoprire, di lanciare nuove sfide oltre l’orizzonte, per poter dire: «Io sono colui che sa, perciò sono il vincitore!»

La vita ci ha insegnato, purtroppo, che spesso siamo perdenti, che la crudele società ci usa come birilli, sballottandoci qua e là, immergendoci nel grigio tran-tran quotidiano tra le nostre frustrazioni esistenziali (bollette, tasse, seccatori d’ogni genere, file interminabili in autostrada sotto il sole, ecc.).

Per fortuna abbiamo ancora un’arma, l’ultima: la Fantasia.

L’uomo ha brandito quest’arma sin dai suoi albori, inventando e sbaragliando i tetri fantasmi del duro vivere quotidiano. A partire dal 3200 a.C. quando a Ninive, capitale degli Assiri, fu incisa su cilindri di terracotta la storia del re Etan che volava felice attraverso i cieli; poi in India, nel romanzo “Ramayana”, che descrive i viaggi extraterrestri del mitico principe Rama e delle guerre che Dei buoni e cattivi intraprendevano su gigantesche macchine volanti che sputavano orribili fiamme.

Generalmente, ai nostri tempi, si fa risalire l’origine della fantascienza moderna allo scrittore francese Jules Verne (1828-1905). Questo scrittore, a differenza dei predecessori (ricordate il Barone di Munchausen e l’Orlando innamorato sulla Luna?), aggiunse un tocco di tecnologia ai suoi racconti indimenticabili (20.000 leghe sotto i mari, Dalla Terra alla Luna, ecc), rendendo plausibili ai lettori le avventure dei suoi personaggi, non più esseri fantastici ma uomini e donne in carne ed ossa. Egli si dilungava in spiegazioni tecnico-meccaniche dei mezzi usati dai suoi protagonisti per affrontare le loro incredibili avventure.

Nel ‘900, la paternità del genere detto “Fantascienza” spetta sicuramente all’inglese Herbert George Wells (1866-1946). Chi non conosce romanzi come “La Guerra dei Mondi”, “La macchina del Tempo” o il famosissimo “Uomo Invisibile”?

Dopo di lui vi sono stati autentici giganti della letteratura fantascientifica; un nome per tutti, Isaac Asimov (1920-1992). Questo scrittore ha scritto, per la fantascienza, praticamente di tutto: nei suoi romanzi, (celeberrimo il ciclo della “Fondazione”) si trova ogni genere letterario: dal giallo (nella serie “I Robot”) al romanzo storico, a quello d’amore e al saggio politico.

La Fantascienza ha saputo anche evocare nella gente superstizione e terrore con i suoi racconti plausibili di pestilenze, di diluvi, di catastrofi cosmiche, di paura per alieni aggressivi. Ha dato tuttavia alla Scienza, quella vera, l’impulso per affrontare nuove prospettive positive, obbligandola ad inventare e a sperimentare strumenti utili per l’umanità.

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Da quest’impulso è nato, per esempio, il Progetto SETI che si propone di cercare, con l’ausilio di tutti i volontari astronomi dilettanti del mondo, altre “voci” nell’Universo che non ci facciano sentire troppo soli.

Ha convinto pure gli astronomi a puntare con decisione i telescopi su stelle vicine e lontane e a scoprire più di tremila pianeti extrasolari. Grazie al successo mondiale del genere letterario della fantascienza, nessuno più dubita che un giorno troveremo un’altra Terra e, forse, esseri viventi con cui confrontarci.

 

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I voli di fantasia di tanti scrittori hanno rimosso nella gente i sospetti verso la tecnologia, facendone accettare, non ostante i tragici errori (Chernobil, Fukushima !), le invenzioni più ardite, impensabili solo cinquat’anni fa (I-pod, nuove leghe metalliche, cellule staminali e, forse, la riproduzione della Vita…!)

Vorrei aggiungere un elenco dei soggetti connessi al genere della fantascienza:

  1. La conquista dello spazio nel nostro tempo.
  2. La conquista dello spazio in un futuro remoto.
  3. L’invasione del nostro pianeta da parte di alieni ostili.
  4. L’invasione del nostro pianeta da parte di alieni messaggeri di pace.
  5. La guerra atomica.
  6. Storie ambientate dopo la fine della guerra atomica.
  7. I mutanti.
  8. La guerra galattica.
  9. La vita dell’uomo sulla Terra in un futuro remoto (implicazioni morali e sociali).
  10. La vita degli uomini di mitiche civiltà scomparse (Atlantide, Mu, ecc.).
  11. L’uomo alla conquista dell’immortalità o dell’onnipotenza.
  12. La cibernetica (robot o calcolatori, amici od ostili).
  13. La telepatia, l’invisibilità e altre manifestazioni parapsicologiche.
  14. Paradossi della fisica (buchi neri, universi paralleli).
  15. I viaggi nel tempo.
  16. Storie psicologiche di personaggi umani in ambienti alieni.
  17. Storie fantastiche di argomento medico (per es. “Viaggio allucinante”).
  18. Storie di fantasmi, buoni e malvagi, lupi mannari, vampiri e simili.
  19. Altri temi… che non mi vengono in mente ma che, se vengono a voi, fatemelo sapere…

 

 

 

L’Autore di questo articolo ha pubblicato una “Trilogia delle Streghe” e “Ramesse XI”.

 

Cosa si legge ad Halloween? A cura di Alessandra Micheli

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E anche quest’anno ci siamo.

Il giorno più terrificante, più magico, quello in cui ogni barriera crolla e irrompe una meravigliosa libertà.

Le convenzioni sociali spariscono.

I legami tra morti e vivi si rinsaldano, tanto che i nostri antenati, gli spiriti e ogni entità iniziano a scorrazzare allegri in mezzo a noi.

Nessuna realtà, nessuna divisione tra materiale immateriale.

Nessuna compostezza.

Solo una sana, indispensabile follia che anima non solo strade e vicoli, ma sopratutto i nostri cuori.

Halloween o Samahin, al pari del Carnevale festeggia il caos primordiale, quello da cui tutto nasce e in un certo senso si rinnova.

E’ nello scompiglio che legittimiamo di nuovo i valori che fondano il nostro patto sociale, o li sostituiamo, certi che il tempo non torna indietro ma procede in un movimento a spirale.

E in ogni attività umana che si voglia dire creativa, Halloween/Samahin fa sentire la propria indomita forza.

E’ costume che a ogni 31 ottobre bussi alla porta il terrore: storia sanguinarti, storie anche di redenzione, orrore e paura capaci di immolare in un olocausto salvifico le peggiori pulsioni umane.

Ma oggi io vorrei celebrare l’altro lato di Halloween quello della magia, dello stupore, dell’incanto che si avverte quando, il mondo altro, ci stringe in un abbraccio che scalda l’anima.

Pronti al viaggio incantato?

*****

FAR PACE CON LA MORTE: BUCANEVE E IL REGNO SOTTERRANEO, DARK ZONE EDITORE, DI PAOLO FUMAGALLI

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Bucaneve richiama i lontani racconti celtici ricchi di creature assurde, magiche eppur tetre, abitanti a volte dispettosi, a volte benevoli delle regioni denominate Regno dei Faerie.

Ed è in quella dimensione da sogno laddove abitava lo spirito eterno del Weird, il controsenso, dove i valori, le convezioni, le regole trovavano nuove formulazione, che emerge il racconto poetico, oscuro e meraviglioso di Bucaneve.

Che diviene a tutti gli effetti la regina di Samahin nella sua veste di divinità sotterranea nella forma di fanciulla, si comporta nel regno sotterraneo come una divinità solare in conformità con l’antica tradizione, diviene così una Dea brillante che non trova contraddizione con l’oscurità, con il nero, con il “dark”.

IL SEGRETO VA SVELATO E FORSE COMPRESO. LA TRILOGIA DEI LYNBURN ( COMPOSTA DA UNPOSKEN UNTOLD UNMADE) DI SARA REES BRENNAN TRISKELL EDIZIONI

 

Davvero il segreto permette a noi di vivere in armonia?

La separazione tra il regno dell’incanto e quello mortale è separato da un sottile e impalpabile velo.

Magari i maghi, gli stregoni il numinoso vive tra di noi, ma fingiamo di non accorgercene.

Quando però il velo si strappa è necessario che il non detto, il segreto irrompa nelle nostre vite e le stravolga.

Perché solo allora i nostri veri valori verranno allo scoperto.

IL REGNO DEI FAERIE COME NON LO AVETE MAI VISTO: GLI EREDI DELLA FOGLIA DI GIUDITTA ROSS, TRISKELL EDIZIONI

 

Giuditta Ross è a parer mio una delle migliori penne in circolazione.

Capace di creare mondi da sogno popolati da creature mitologiche, quelle che spesso arricchiscono le nostre visioni notturne.

Ecco danzare in un caleidoscopico girotondo fatine, licantropi, streghe, e persino un burbero e inacidito vampiro.

Ma se apparentemente i suoi urban sembrano seguire la scia letteraria moderna, vi informo subito che Giuditta è molto vintage.

E’ talmente imbevuta di mito che le sue creature sono molto diverse da quelle a cui ci hanno abituato edulcorati libri fantasy.

Le sue fate “ le fae” sono come la vera tradizione vuole: volubili, capricciose, di una bellezza surreale la stessa che colora le nostre fantasticherei quelle notti lontane di mezz’estate, nel meriggio dorato, come sussurrerebbe la voce soave di Carrol.

Sono l’essenza stessa dell’ecosistema, da lei traggono vigore e a loro donano fecondità, e nuova linfa vitale.

State pur sicuri che laddove tocca il suolo il piede di fata, la natura gorgoglia rigogliosa, e accarezza grata quelle regali appendici.

E proprio perché partecipi di quel ciclo ecologico, esse sono e devono essere suddivise in due coorti distinte e al tempo stesso gemelle: la corte dell’inverno, denominata unseelie e la corte dall’estate, la seelie.

Questi aggettivi non hanno nulla da spartire con la concezione orientale del mondo, ossia divisa in bene e male. Semplicemente sono due colori che partecipano essi stessi a creare il favoloso mosaico composito che noi chiamiamo madre natura.

QUANDO IL DIAVOLO DI METTE LO ZAMPINO… IL BALLO DEL DIAVOLO E ALTRI RACCONTI DI GAIA CASSARI

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Se non si vuole che la vita diventi arida, si atrofizzi, e avvizzendo muoia, serve solo una cosa: movimento. E’ la stasi continua, il reiterare vecchi schemi mentali, l’accucciarsi su se stessi, sulla rassicurante abitudine che crea il crollo di civiltà e persino delle persone.

Una volta entrati nell’ottica immobilistica del benessere, l’uomo di ferma. Ma non solo fisicamente.

Non sperimenta più, non cerca più, non ha domande, non ha curiosità. Tenta solo, in ogni modo, di non perdere ciò che la società gli ha così benevolmente elargito: le gabbie, spesso sono gabbie auree.

Spesso il via libera allo scorrere indomito di impulsi atroci, per nulla “umani”, che serve a convincerlo a non cambiare.

Ma senza movimento la persona muore. Inesorabilmente. E forse rischia, in una fredda notte di fine ottobre, di rendersi semplicemente conto, di non aver mai davvero vissuto.

Di non avere la passione che spinge oltre, quella che ci fa sacrificare noi stessi per dare vita a un sogno. Il libro di Gaia è un viaggio, a volte oscuro a volte poetico all’interno dell’essere più misterioso dell’universo: l’uomo.

BLAKE SAGA DI SIMONE ALESSI

Raccontare, descrivere, immergersi nel regno di Blake non è affatto semplice.

Eppure è una mistica esperienza che consiglio a tutti. Blake è l’apertura attraverso cui, tramite lo shock, iniziamo a conoscere la storia dell’uomo e dei suoi dei, nella straordinaria parabola della creazione.

A cosa serve la religione?

Cosa spinge l’essere umano a rappresentare e dare vita alla divinità e al sacro?

Blake con immagini, con poesie, con accadimenti spesso oscuri poiché simbolici, ce lo svela.

Ma ce lo svela nel criptico linguaggio dell’esoterismo, ossia la disciplina in grado di penetrare nelle regioni celate, che formano la vera realtà. Tutta la filosofia di Alessi abbraccia questa verità: per poter essere, esistere e darsi una forma, seppur spirituale, Dio, i Dei, il sacro deve trasformarsi costantemente.

RITROVARE SE STESSI. ALICE NEL LABIRINTO DI ROBERTA DE TOMI

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L’alice di Roberta De Tomi siamo noi.

Noi tutti che affrontiamo riottosi quella fase chiamata socializzazione. Alice perde o dimentica quel weird dove brillano i sogni, dove la linfa vitale incomprensibile dell’arte dimora.

Alice dimentica il suo nome. Dimenticando il suo nome scorda la sua essenza. Troppo presa da sé stessa, quella che sboccia in un mondo di luci sfavillanti pieno di promesse, di amore, di lucentezza, di armonia. Smette di raccontarsi storie assurde. Smette di assaporare l’aroma speziato di un tè servito da teiere sbeccate, in un ricevimento bizzarro e assurdo.

Smette di parlare con i fiori e ascoltare la voce degli insetti. Sono solo insetti in fondo, puoi approcciarti solo con un atteggiamento scientifico. Le porte sono porte, il cibo sostiene le cellule e gli organi.

Non fa crescere né rimpicciolire.

Un coniglio è solo preda quando non è un adorabile animaletto da mostrare all’altro come segno di status. Un cappellaio si occupa di farci apparire al meglio. Il the non è una gara di indovinelli, ma un preciso rituale con un profondo senso di condivisione dei valori sociali. Ecco perché il bisogno mio e di Alice del paese delle meraviglie diviene un forte richiamo. Per non avvizzire in ricordo di amori perduti, di opportunità non sfruttate, per non ascoltare il coro del dissenso, dell’anatema sociale. È il bisogno di bagnarci alla gelida fonte del non senso, di nutrirsi di fantasia senza briglie di accettabilità. Correre in un mondo senza confini, immaginaria dimensione di delicata, piacevole, bonaria follia.

E UN PO’ DI ORRORE PER SALUTARVI

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Vi ho mentito.

Vi avevo promesso libri fantastici e nessun orrore.

Ma Non potevo resistere. Un libro di veri orrori ve lo devo consigliare. E pertanto ho scelto uno dei più belli in assoluto:Biancaneve zombie di Elena Mandolini, Dario Abate editore.

Lo ammetto.

Ho sempre odiato Biancaneve.

Nonostante il mio interesse antropologico per le fiabe, la pallida principessa proprio non la sopportavo.

Cosi anonima, cosi vittima degli eventi.

Cosi totalmente inutile. Cosa faceva di avvincente?

Nulla.

Restava rilegata in casa, in balia di una pazza fissata con il ritocchino, fissata con gli specchi e invasata più di una partecipante al reality del grande fratello.

E la dolce, svenevole Biancaneve?

Tutto il giorno a lavare e cantare, sognando il vero amore capace di trascinarla via con sé, un inetto a cavallo, con un’orrida calzamaglia. E mentre sognava un giorno migliore mi dicevo da bambina: tonta scavalca la torre, prendi un’iniziativa, una sola.

Insomma oltre a cantare cinguettando con i passerotti fa qualcosa!

E cosa faceva?

Nulla.

Accetta che un rozzo cacciatore, un altro tonto incapace di mettere due parole in fila, la porti in un bosco e lei lo segue.

Docile come un baobab.

Era una pianta, non un essere umano, portata dal posto A al posto B. E quando resta sola nel bosco, invece di darsi una svegliata, cantava. Di nuovo.

Neanche fosse la Callas rediviva. Ma per fortuna incontra i sette nani che la salvano…mettendola a pulire, lavare, spazzare cucinare e rammendare.

E lei canta.

Invece di prenderli a badilate sulle gengive, canta.

E canta anche quando la matrigna, altro mirabile genio, passa per caso nel bosco, bussa alla casetta e le porge una mela cosi rossa da far impallidire quelle del miglior supermercato Conad.

Ma l’inetta canta ancora.

E la mangia.

Per fortuna lì c’è il colpo di scena tanto agognato e si strozza.

Finalmente un po’ di azione mi dico.

E resta nella bara di cristallo, circondata dai sette premi Nobel, con torsolo di mela ancora in bocca, bella e inutile più di prima.

Capite perché io speravo che entrasse in scena Godzilla e la divorasse intera lei, la mela e i geni che la circondavano?

Oppure speravo che il dandy vestito d’azzurro cadesse da cavallo o che so, fosse divorato da uno sciame di locuste carnivore?

Beh le mie preghiere di bambina sono state esaudite da Elena.

Infatti, il genio che è in lei (saremmo mica sorelle?) ha immaginato uno scenario totalmente differente e per nulla strano per il proseguo della noiosa favola, in grado di donargli un po’ di ritmo, di pathos e di azione. La bella e inutile, e completamente inetta Biancaneve è morta.

Sta lì ammuffita nella sua bella bara.

E aspetta il bacio del tonto la dovrebbe risvegliare .

La domanda che si pongono menti eccelse come le nostre è: come si risveglia?

Quale effetto avrà il bacio del sommo rincoglionito?Come diventerà Biancaneve riportata indietro dai morti come una novella Euridice?

Che effetto avrà la morte sulla sua umanità?

Sparirà perché in grado di distruggere il tabù che separa la vita dalla morte, tabù infrangibile soltanto in una particolarissima notte, o diventerà…altro?

A voi la scoperta.

*****

CONCLUSIONI

Di libri meravigliosi a Halloween, ce ne sono parecchi. E citarli tutti è impossibile.

Cosi vi regalo quelli che a ogni fine ottobre leggo io, affinché lavorino sulla mia anima e la prendano per mano, portandola a liberarsi della forma di bruco per diventaste farfalla.

Quale tipo di farfalla, sarà la vostra scelta. Io amo diventare ogni giorno una falena testa di morto.

Ma io in fondo, sono la Signora Oscura per eccellenza

Felice Halloween a tutti.

La rubrica Riflessioni sulla letteratura presenta “Basta un libro”. A cura di Alessandra Micheli

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Nel nostro mondo cosi frettoloso e cosi immediato, non abbiamo quasi tempo per goderci il viaggio.

Divoriamo kilometri su kilometri in questo strano percorso chiamato vita. Viaggiamo alla velocità della luce, riducendo le ore che servono per arrivare ovunque.

Ma non conosciamo più la strada per il nostro cuore, il centro pulsante di tutta la nostra esistenza.

Quella strada ci è preclusa perché presuppone una pacatezza che questo nostro mondo non ha.

Stimoli, occasioni, capacità di raggiungere tutto il mondo con un click adombra la nostra voglia di scoperta, di ricerca e perché no quel senso unico che ci permette di bearci gli occhi durante il viaggio.

Troppo presi dalla meta ultima.

E mentre ci affanniamo a raggiungerla, ci sfuggono dettagli cosi minimi ma al tempo stesso cosi meravigliosi da valere ogni sforzo.

Allora è necessario tornare al vero senso del viaggio, quello della continua scoperta di noi stessi.

E non servono biglietti per mete sconosciute e esotiche.

Basta un libro.

E un libro portandoci dentro il centro della nostro io, terra sconosciuta e per molti desolata, perché ignota, può essere una perfetta “terapia dell’anima”.

Innanzitutto la terra risulta arida e desolata perché non usiamo la creatività. Abbiamo tutto subito, immediato e a disposizione, tanto da non dover cercare e sforzarsi.

Un libro accende la fiaccola che permette la visione interiore e quindi permette di raccontarci storie.

E tramite quel racconto iniziamo a seminare piccoli miracoli in quel luogo brullo.

Un libro poi ci permette di innaffiare quelle piccole piantine con il fuoco della passione.

Accende tutti i sensi specialmente quello legato la senso della bellezza.

Un libro sdogana il dolore.

Nei libri esso è vissuto attraverso un filtro, mentre le pagine aiutano a esplorarlo e a sperimentarlo.

Fa meno paura ma al tempo stesso, proprio perché privo di quella sana ritrosia caratteristica del nostro sistema difensivo, ci racconta non le nostre ferite, ma quello che esse celano.

Non è l’amore perduto, ma la volontà di provare emozioni che viene tradito. Non è la delusione per un amico che ci lascia, ma la nostra volontà di credere che viene mal riposta.

Non è la morte ma la nostra umana incapacità di accogliere nuove forme dell’io

Un libro riconduce il dolore alla sua vera funzione: ci indica i posti da sistemare, le emozioni da riordinare, i sentimenti da purificare.

Ultimo ma non meno importante aiuto dal libro: ci narra le storie di cui abbiamo bisogno.

E non quelle che ci piacciono, o che ci servono per evadere, ma proprio quelle che curano le nostre ferite e che leniscono le nostre mancanze.

Un libro è semplicemente una sorta di autocoscienza, di autoanalisi per…semplicemente amare di più quel magico dono che ci ha fatto una divinità lontana: quello di dare nomi, di creare la realtà e di custodirla, come un qualcosa di prezioso da tramandare alle generazioni future.

Leggete e costruite il vostro futuro.

“Discorso sul fantasy: limiti e virtù del genere” A cura di Alessandra Micheli

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Una delle caratteristiche principali delle persone è quella di osservare sempre la pagliuzza negli occhi dell’altro senza mai comprendere che il proprio occhio ha una trave enorme.

Manca non tanto il dialogo, manca la volontà di considerare l’altro un vero interlocutore.

Di dialoghi, di comunicazioni sui social specialmente, ce ne sono a iosa. Io propongo la mia visione e tu o rispondi contestandola e qui di mettendo un muro allo scambio, o sei in religioso silenzio a inebriarti delle parole del guru di turno.

Questo presuppone che, non hai la comunicazione atta a trasformare l’informazione in esso contenuta, quanto a presentarla come l’unica l’alternativa valida e possibile.

E questo nell’ottica della contrapposizione e della sopraffazione. Ecco che non manca il dialogo, manca il dialogo costrittivo e non aggressivo.

Nel campo della letteratura, che dovrebbe essere fulgido esempio di virtù e etica, si assiste a un proliferare di idee mutuata, pare da lettura di saggi e manuali.

Di un interpretazione letterale delle regole come se, oggi, la fantasia che dovrebbe essere il primo passo per la costrizione della narrazione, in fondo spaventi.

E non può ricordarmi questa tendenza l’idea che un certo islam ha dell’immaginazione.

Essa è considerata disordine, perché proponendo un’ altra visuale, un’ altra prospettiva, presuppone la possibilità neanche tanto remota, dello sfaldamento dei preconcetti che reggono le società. Attenzione, non quelle scaturite dal patto politico, ma quelle scaturite dai singoli cittadini che propongono la loro idea di decoro, di convenienza e di perbenismo.

Ecco esserci due società: la reale e la non scritta.

Una eretta secondo i criteri della logica e del bene comune, esorcizzando il terrore dell’eccesso di libertà.

L’altra chiusa, moraleggiante, morigerata che esorcizza il terrore del mutamento. La letteratura, nata dai menestrelli, ossia dalla tradizione orale con lo scopo di legittimare i cambiamenti che i tempi portano con sé, si è arroccata il diritto di decidere cosa è bene e cosa è male, cosa è in e cosa è out.

E tutto retto da complicità che non hanno assolutamente il profumo dell’arte.

Ma della commercializzazione, rendendo evidente come, oggi, la polis si stia imbarbarendo nel senso della tecnocrazia.

Pertanto contro un certo schema identitario, nel quale stento a riconoscermi, ho proposto una visione diversa della scrittura. Non granitica, non improntata alla reiterazione pedissequa di regole che dovrebbero agevolare il flusso dei pensieri, ma che in realtà sembrano ingabbiarlo che consistere in una eterna e fondamentale falsificazione del reale.

L’interesse sociologico ma anche umano della narrazione è nella sua capacità di filtrare gli oggetti reali, interpretandoli alla luce della percezione ( secondo gli studi di J. Ames) e propendendo, dunque un qualcosa che pur partendo dalla verosimiglianza se ne stacca riempendo di incongruenze.

La narrazione segue lo schema di emissario-messaggio-rumore- e ricezione.

Ma mentre il rumore nella comunicazione viene costantemente monitorato al fine di eliminarlo, affinché l’essenza del messaggi risulti pura e non degradata, nella letteratura è nel rumore, nelle incongruenze, nella mancanza di coerenza che si riversa il mondo che, a chi come me è fissato con psicologia e sociologia, interessa.

E’ nell’apparente distorsione del messaggio che ci cela l’universo da scoprire.

Pertanto, la creazione in ogni opera di significati e mondi che non aderiscono alla realtà, diviene la ragione d’esistere dell’attività del recensore, che lì, in quelle radici non logiche, i famosi residui parietani, trova materiale per arricchire il proprio mondo interiore e esteriore.

Neanche i generi più ammantati di realtà, come il verismo e lo storico, devono sfuggire alla legge che vuole la coerenza vivere affianco della fantasia sfrenata.

Neanche questi sfuggono alla capacità della mente di filtrare gli oggetti e gli elementi e trasformarli in percezione.

E la prosa narrativa è questa libertà umana di raccontare se stessi, la visione del mondo attraverso elementi che nella nostra mente conscia non troverebbe spazio o sarebbero aborriti come disordine.

Al contrario del saggio che si sforza di essere verosimile, la narrazione è essenza creativa in continua trasformazione.

Una delle polemiche che più infiammano gli animi è sicuramente quella che partendo da questi concetti, sostiene che nel fantasy tutto è possibile se si è in grado di maneggiare le tecniche narrative.

Vero?

Un falso aborrito dagli editor o dai seguaci del purismo letterario?

Ritengo quest’affermazione portante una verità inespressa e poco piacevole, che si scontra con il dogmatismo che, purtroppo, investe ogni idea che si fa ideologia.

Oggi l’ideologia del fantasy regna sovrana, tanto da far affannare provetti autori a spiegare in modo razionale le loro fantasie irrazionali.

Devo spiegarti la magia, le leggi di questo mondo e in cotal modo, si smetta di creare porte verso altri universi, laddove la regole devono per forza di cose, per esigenze emozionali essere stravolte.

Leggo perché voglio entrare in uno stato di sogno e la ragione deve scendere fino agli abissi della coscienza raccogliendo le forse per porre in critica il mio mondo “reale”. Presupponendo che il reale non esiste, ma lo facciamo esistere per non scendere nei meandri della pazzia.

Le leggi servono all’umano per muoversi attraverso un mondo un universo fatto di sottilissimi fili, di interconnessioni chiamate caso, casualità, costanti numeriche o semplicemente Dio.

La scienza serve per rendere intellegibile il mistero.

Se nella vita conscia dobbiamo credere all’oggettività a ogni costo, tradendo la parte oscura di noi, essa per non divenire assassina feroce deve essere titillata appunto dall’arte, dal bizzarro, dal non senso, dalla distorsione delle leggi umane.

Quale sono le leggi del fantasy?

Il fantasy deve essere verosimile.

Andiamo a indagare il senso etimologico di verosimile.


Verosimile ossia Conforme al vero, fino al punto da garantire la probabilità o la credibilità di un fatto anche non avvenuto, non documentato, non atteso.

Qua l’accento è dato sulla parola che regge l’intera struttura semantica: conforme non aderente al vero.

E questo perché conforme significa:

più o meno corrispondente nella forma o nell’aspetto.

Più o meno, non totalmente.

Quindi il fantasy può permettersi un volo pindarico.

 

Se fosse reo di aver fallito nella sua comunicazione si sarebbe detto: aderente al vero:

Che è a stretto contatto, attaccato, Strettamente corrispondente.


Capite la differenza?

Altra idea.

Il fantasy deve essere credibile.

Ora, uno scritto per essere credibile deve:essere:

Accettabile come vero, verosimile, attendibile.

Allora dove sta la credibilità di uno scritto che crea e costruisce altre leggi, altri mondi e considera validi assunti come magia e esistenza di stati evolutivi diversi da quelli accertati dalla scienza?

Se la credibilità è riferita alla trama allora si sfalda tutto il discorso sulla narrazione: i libro diviene saggio, ossia resoconto documentato di un fatto dato per ipotesi.

Se invece riguarda la sua verità interna allora esige un dato fondamentale: il fantasy deve avere la capacità o meno di spingere il lettore a una libera scelta: la sospensione dell’incredulità.

E cos’è questa sospensione?

Arriva l’etimologia e svelarci l’arcano:

La sospensione dell’incredulità, o sospensione del dubbio (suspension of disbelief in inglese), è un particolare carattere semiotico che consiste nella volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze secondarie e godere di un’opera di fantasia.

Ecco che la parola chiave la pietra d’angolo di tale forma narrativa, è proprio incongruenza.

Ossia mancanza di coerenza, quella che oggi è tanto invocata


Incongruenza: sostantivo femminile indicante mancanza di convenienza o coerenza o comportamento, discorso privo di Coerenza.

La coerenza, che è la base di molti scritti diviene un mero dato accessorio, se riguarda la forma può essere valida, tipo stile in prima persona che disturba se cambia improvvisamente in terza.

Coerenza come intima connessione e interdipendenza delle parti, intreccio fabula, significato.

Ma se si interpreta la coerenza come

Costanza logica o affettiva nel pensiero e nelle azioni.

Allora la sua validità decade.


Quindi, quali sono i criteri per giudicare valida un opera di fantasia?

Sostanzia,mente ritengo siamo vari, ma posso identificarli come espressione pura del carisma dell’autore che tramite il mezzo scrittura e le sue tecniche rende una fantasia degna di essere vissuta, sospendendo il giudizio logico.

Nel libro le parti devono danzare assieme con la stessa musica, senza sbalzi eccessivi di stile e di tensione. Presenza non cacofonica e equilibrata di incongruenze e al tempo stesso di reale, seppur falsato nell’interpretazione unica dell’autore.

Questo si esprime nel dato eterno del significato.

Ma sopratutto, il puro talento che riesce a farvi sorvolare la logica,la ragione per immergervi in un mondo che la vostra mente cosciente NON accetterebbe mai.

Leggere è e resta un atto di sospensione consapevole dello stato di veglia paragonabile al sogno.