“Cambio di stagione” di Maurizio Cometto, Delos Digital. A cura di Jessica Dichiara

Viaggio allucinato tra critica sociale e realismo magico.

Chiudo il romanzo e il mio primo pensiero è: caspita! Sta roba dovrebbe entrare nelle scuole. La storia, con tutte le sue sfumature, può essere insegnata in molti modi. Uno di questi è presentare le conseguenze. Il genio qui sta tuttavia nell’uso del fantasy.

Non è la prima volta ovviamente che il fantasy viene utilizzato per veicolare messaggi e idee eppure la capacità di ripercorrere i fatti da parte dell’autore mi ha fatto immediatamente pensare ai classici. Quelli che pur cambiando la storia mantengono stabile il significato.

Ma facciamo un passo indietro e partiamo dal titolo: Cambio di Stagione. Cos’è? La prima cosa che mi viene in mente è quel lavoro estenuante che molti di noi fanno due volte all’anno. Trasferire i vestiti pesanti nelle scatole o nei sacchi porta biancheria per fare spazio nell’armadio a quelli leggeri e viceversa.

La particolarità di questa operazione sta nella possibilità di buttare ciò che non abbiamo più intenzione di mettere. Alcuni di noi lo fanno senza troppi tentennamenti, altri fanno più difficoltà perché dentro quegli abiti hanno vissuto e non è facile lasciarli andare così provano a trovare qualcuno a cui regalarli.

Il cambio di stagione porta in ogni caso con sé nuovi spazi, nuovi profumi, colori di cui avevamo perso la memoria. Dopo averlo fatto ci sentiamo più leggeri. Pronti a ricominciare.

Il cambio di Maurizio Cometto avviene a Torino, una città già nella realtà intrisa di mistero e di magia. Strade deserte. Silenzio totale. Una strana luce all’orizzonte.

A finire nei cassetti è la realtà com’è sempre stata. Appesa nell’armadio a portata di mano c’è la giusta proporzione delle cose. L’importanza del lavoro ad esempio che non può stare costantemente al primo posto perché finisce per masticare ogni spazio.

La trama non è uniforme ma somiglia più a un puzzle di pezzi perfettamente incastrati. Il disorientamento è garantito fin dalle prime pagine. Un disorientamento che diviene però presto meraviglia perché pur essendo difficile prevedere il susseguirsi dei fatti la storia o meglio le storie rimangono solide nei contorni.

Un’antologia decisamente strana con Fabrizio, il protagonista, a fare da collante tra una serie di racconti simili alle puntate di una fiction per capirci. Intorno alle trame dei singoli racconti ruotano come satelliti attratti dall’uomo grandi temi come la crisi economica, le malattie, la “solita politica” che vanno a rompere l’equilibrio creando delle emergenze in grado di rivoluzionare tutto, destabilizzando l’umanità.

Un’umanità che si lascia sconvolgere per poi tornare tranquillamente a parlare, a lamentarsi, a vivere.

In effetti Maurizio Cometto non ha fatto altro che estremizzare i nostri punti deboli, ci lascia scoperti per un po’, senza difese, per poi tornare a coprirci e farci credere che “non è successo nulla”, che “va tutto bene”, che “possiamo stare tranquilli”.

Se chiudo gli occhi mi sembra già di sentire la colonna sonora dello squalo.

In alcuni passaggi sembra ripercorrere la curva della vita, con le incertezze, le prese di posizione chiare e passionali della giovinezza, le delusioni, il disincanto degli adulti, la rassegnazione e poi di nuovo una porta aperta verso il mondo che non si potrà mai vedere con la speranza che possa essere diverso, che possa essere migliore.

Scoprire il mondo di Khepri, un mondo che conoscevo pochissimo e che porta con sé il fascino di una religione millenaria mi ha commosso e spinto a ricercare e quando un libro riesce a farti percorrere la via della scoperta ha sicuramente assolto due volte il suo ruolo.

Quello del viaggio in ogni luogo dello spazio, del tempo e della fantasia e quello interiore che si traduce in una crescita personale. Non sono più quella che ero prima di sfogliare queste pagine e ringrazio di cuore il blog che mi permette di vivere tutto questo.

Una roba veramente particolare e forte che tuttavia sa mantenere la leggerezza del fantastico, che lascia aperta la porta al futuro, che ha il profumo dell’impossibile e la speranza sempre viva.

Cometto si riconferma un autore capace di stupirmi, conoscitore del genere e fiero esponente del fantasy made in Italy. Destinato a scalare le classifiche e a far parlare di sé e delle sue opere.

Consiglio per la lettura: se avete un gatto in casa, tenetelo a portata di carezza.

“Stranizza” di Valerio La Martire, Rizzoli. A cura di Alessandra Micheli

Ho posticipato la scrittura di questa mai recensione, finché non ho sentito le parole premere per uscire.

E quindi eccomi a voi.

E non ho certo titubato perché dovevo criticarlo.

Ma perché i pensieri si affollavano ed era una giostra frenetica e vorticosa. Emozioni, sensazioni e perché no, rabbia, si agitavano dentro di me.

Complice il momento storico che stiamo vivendo, quando siamo tutti gioiosi e allegri senza renderci conto che ci stanno fottendo la libertà.

E quindi, quando tutto è troppo, o too much come direbbe Enrico Luccisano, io mi prendo tempo entro in me stessa, nel mio luogo felice e cerco, tento di decifrare tutto quel caos.

E’ una storia reale quella di Valerio, una storia completamente diversa da quella che mi ha fatto conoscere quest’autore.

Fantastica e deliziosa Elyss, completamente diversa da Stranizza.

Che ci costringe a fare i conti con noi stessi, con quella società che ci vede, a nostro malgrado forse, protagonisti.

E forse complici perché silenti.

E cosi eccomi a voi e vi chiedo scusa se i toni saranno feroci.

Se andrò a toccare corde sensibili di ognuno di voi.

Ma ahimè io ho bisogno oggi di parlarvi.

Di buttare fuori il groppo nella gola, di dirlo a alta voce e sperare che, una volta analizzato questo groppo, possa portare a un mondo diverso.

Eh si miei lettori.

Perché possiamo anche raccontarcela, possiamo tentare di pararci il culo con ogni scusa ma aveva ragione chi doveva che, in fondo, siamo noi con il nostro pensiero a creare giorno per giorno il mondo che ci circonda.

E se solo pensiamo che l’amore abbia limiti, regole, e identità allora siamo fottuti.

Ve lo dico sinceramente.

Siamo fottuti.

Lo siamo quando invochiamo l’orgoglio di raccontare al mondo con cui decidiamo di andare a letto, come se questo ci identificasse in un modo particolare.

Lo siamo quando orgogliosi diciamo ehi io ho amici gay.

Beh io non so voi ma ho amici.

E come passano il loro tempo, sempre che non rubino, non facciano atti delinquenziali, beh non me ne frega proprio.

Pensate se poi mi interessa con chi vanno a letto.

Se consenzienti, se di comune accordo, la loro vita intima è qualcosa che non mi interessa.

E che non racconta nulla di loro.

O raccontano i gesti, magari i libri, le parole e i silenzi.

Lo raccontano i sogni e persino i sorrisi e le lacrime.

Non certo la loro fottuta identità sessuale.

E cosi tenace nel mio pensiero, non categorizzo neanche l’amore.

Amore è amore.

Amore è crescita.

Amore è rigore e compassione.

E’ quel momento di estasi che ci fa sentire triturati, farina pronta per essere impastata e diventare pane nel convitto delle Enneade.

Non credo che chiedete al grano se è maschio o femmina.

Magari controllate se sia marcio dentro.

Se sia solo pula e non chicco.

Ecco questo interessa più dell’identità sessuale.

E credetemi, il marcio non ha razza, religione, sesso, pensiero.

E’ tutto una scusa.

E’ semplicemente qualcosa andato a male perché ha preso troppa pioggia o troppo sole.

Ecco stranizza mi ha fatto riflettere sul nostro maledetto bisogno di delineare, circoscrivere, gerarchizzare, confinare.

In parole, in etichette, in stereotipi.

Come se questo ci aiutasse a muoverci più agevolmente in un mondo sconosciuto e forse per quella sua costante inteleggibilità, pauroso.

E di questa storia, tratta da un delitto d’onore, che di onore non ha neanche l’ombra, tutto si dice tranne che era amore.

Perché se definissimo questo bisogno di toccarsi, di sentirsi di vedersi amore, allora dovremmo completamente cambiare la nostra percezione dell’altro. Perché potremmo amare anche il diverso.

Chi ha un altro ceto, chi ha un altra idea.

Chi si veste in modo strano.

Chi ascolta musica che ci hanno insegnato a temere.

Chi ama il suo stesso sesso, perché è cosi concentrato sull’anima, che le linee del volto o della biologia se ne frega.

Ecco riconoscere Stranizza come un libro sull’amore ci costringe a riguardare tutto.

La donna che si ama se si può raccontare tramite una gerarchia.

L’uomo che si ama se risponde alle aspettative dei deboli considerati forti.

Chi nasce in un mondo eh che diamine non può certo pensare di essere qualcosa di incatalogabile.

Perché i protagonisti non sono neanche dei dissidenti.

Eh no.

Quelli ci servono per mantenere in atto ogni costruzione sociale.

Loro erano…schegge vaganti.

Incognite in un equazione prestabilita.

Anime che se ne fregavano dei contorni.

Ecco stranizza.

Almeno io cosi l’ho vissuto.

E la rabbia è per ogni giorno, in cui per celebrare la libertà, ne ammazziamo un pezzettino.

Uno per volta.

Sempre di più.

Fino a che restiamo burattini, chiusi un un maledetto barattolo in attesa che qualcosa cambi il maledetto finale.

Io non posso credere che abbiamo ancora bisogno del sangue per garantire i diritti di ognuno a essere il cazzo che vuole.

Non credo che voi miei lettori permetterete questo.

Perché voi leggete, sognate e amate.

E questo vi deve spingere a ribellarvi a ogni tentativo di schiavitù.

E che stranizza sia il vostro urlo per questa guerra, che dobbiamo, lo dobbiamo a Giorgio e Toni, vincere a ogni costo.

E forse sopratutto, lo dobbiamo a noi, perché siamo esseri umani e non burattini nelle mani di mangiafuoco.

Preso a calci dentro a quel barattolo.

Mentre il mondo fuori andava a rotoli, Per vent’anni e trentamila secoli… Di qua, di là. Di qua, di là. Ehi amico, Dammi l’apriscatole. Sono stanco d’essere un giocattolo, Per vent’anni e trentamila secoli, Di qua, di là. Di qua, di là. Perché ti nascondi, Dai vieni qui, Giochiamo un po’! Impariamo ancora, se tu lo vuoi, A ridere… Sai cos’è, che non va, Chiudere in scatola la libertà.

Renato Zero

“Jake Livingston. La vendetta dei fantasmi” di Ryan Douglas, Fanucci editore. A cura di alessandra Micheli

Avevo davvero voglia di un libro leggero e spaventoso.

Uno capace di calmare quella mia anima sempre in corsa, in cerca dei pezzi sparsi della sua immagine, infranta oramai da tanti troppi mesi.

Eh si miei lettori.

A volte ho proprio bisogno di scappare un po’ da me, da quella mia ossessione a cercarmi, a definirmi a conoscermi di nuovo.

A scappare un po’ dal dolore, quello che non riesco più a accettare.

E persino dalla mia diversità, da quello strano modo che ho di sintonizzarmi nel mondo.

Io che amo il sogno e lo ritengo reale.

Che credo nelle dimensioni che si abbracciano e si baciano.

Che semplicemente guardo il cielo e so che le nuvole definiscono una strada, che prima o poi mi troverò a attraversare.

Io che non amo le costrizioni, le etichette, ne quel successo che diventa cosi importante per tutti.

Io che quando i giochi diventano da adulti, scappo e mi ritrito in quell’universo che sembra uscito direttamente da chissà quale altrove.

Non è facile essere diversi.

Ne a livello di sentimenti, di identità e persino di gusti.

Essere controcorrente sembra quasi una condanna.

Avere una sensibilità diversa ti fa apparire uno strano mostro, con una sintonizzazione fallata e inquietante.

E cosi a volte grazie a certi libri, dimentico ogni dramma piccolo o grande che vivo come accentuato.

E Jack Livingstone mi sembrava il modo migliore per scappare.

Cosi ho preparato la mia vaglia e mi sono messa in attesa della nuova tappa del viaggio.

Sapevo che si trattava di orrori, di fantasmi crudeli, e di quella strana ma necessaria adrenalina che offusca ogni mio pensiero.

Non c’è bisogno di altro se non di leggere, lasciarsi avvinghiare dal tetro e dal terrore.

E gioire per un istante almeno, di una totale libertà.

Ma non si scappa da se stessi.

Ne dalle verità che devono comunque portarti a un latro livello di comprensione.

Non si scappa da se stessi.

Non se sai che in fondo l’universo ti ama, cosi tanto da volerti felice e sereno.

E non si può esserlo se si mente, se si nasconde dietro un velo ogni piccola ferita, se si fa finta che non è infetta, che non sanguina e che non faccia male.

Un male cane.

E cosi dietro l’abile e fidatevi terrificante, ghost stories, Jake nasconde molto altro.

Cosi tanto altro, da farmi versa cocenti lacrime sulle pagine.

E le stesse hanno bevuto assetate proprio quell’univa, importante preziosa lacrima.

Allora il libro mi ha sorriso.

E mi ha detto di non preoccuparmi.

Che il viaggio mi avrebbe fatto si male, ma donato la vera libertà.

Che è quella di capire, comprendere affrontare i miei demoni.

E di demoni questo libro ne ha tanti.

Ha il demone del pregiudizio.

Quello che ti pianta un coltello nel cuore e lo gira e rigira feroce.

Perché ti incatena in una descrizione che ti limita e non ti appartiene.

Ti mutila e non ti rende facile camminare.

Perché ogni sguardo di disapprovazione segue ogni movimento, mai davvero giusto per le convenzioni e per quel ruolo che ti hanno appiccicato sulla pelle. Come si riesce a essere amanti di se stessi se quello stesso te diventa vanesio, indefinito e falso?

Non si può.

Ecco il razzismo, il pregiudizio è la peggior condanna che la società può produrre.

Frena il cammino di chi è limitato dallo stereotipo.

E nuoce a chi usa lo stereotipo stesso.

Perché a furia di pensare per schemi, perde di vista il mondo, che è bello perché cangiante e cosi complicato, complesso e meravigliosamente folle.

E se non resi più a vivere i colori, beh allora sei tipo morto.

E poi abbiamo il demone della violenza, quella che fa nascere dentro di te l’ombra della vendetta.

E solo quella diventa l’unica voce che ti rimane.

Rinchiuso in una gabbia, isolato dal resto del mondo, con la voce otturata da un silente pianto, cosa ti resta per farti udire dall’altro?

Lo sparo, lo schiaffo, il sangue.

Punire quella società che permetta la vita di quei demoni.

Anzi li nutre e li coccola.

E ce li scaglia contro perché la voce che grida da troppo fastidio.

Rischia di scegliere chi dorme, rischia di far tremare il cuore e se il cuore trema può ferirsi e lasciare che il rosso inondi la propria visuale.

E non è certo il rosso del sangue, della violenza.

Ma è il rosso dell’amore.

E forse è l’amore, la compassione e il dolore stesso a permettere non solo a Jake di frenare il male.

Ma anche a me di piangere sulle ultima pagine e di non rischiare di svanire, cosi come svaniamo di fronte ai torti e all’indifferenza.

E per questo grazie Jake.

Grazie perché hai accettato la tua diversità.

Ma soprattutto mi ha donato un arma che non ho mai avuto il coraggio in questi tre anni di impugnare: la speranza.

E se ancora quell’arma brilla di luce intensa, posso ancora salvarmi.

Per chi come me non si trova più.

Che la stesa luce che oggi mi guida possa brillare sul suo cammino

E per te, che lassù sei e resti la mia speranza.

“S’io fossi foco” di Lodovica San Guedoro, Felix Krull editore. A cura di Alessandra Micheli

Vallo a spiegare adesso, Alessandra, perché ti innamori di un autore.

Vagli a raccontare delle sensazioni che spesso nulla hanno di oggettivo e che semplicemente scaturiscono in un riconoscimento.

Come se ci fossero amici separati dalla nascita e incontrati per caso, lungo una strada buia.

Con la san Guedoro è stato amore a prima vista.

O riconoscimento a prima vista.

Un’amica lontana e mai dimenticata, una passione scaturita da un certo modo di fare letteratura e che, diciamocelo, è quello che da bambina mi ha sedotto e fatto innamorare.

E non è facile, credetemi, elencarvi i motivi per convincervi che questa pazza signora è la lettura giusta per tutti coloro che un po’ si sono stufati di certi schemi rigidi, che ci propinano come letteratura fatta bene.

Un libro deve raccontare senza raccontare.

Deve mostrare ma non svelare.

Deve incuriosire ma sempre con decoro.

Deve essere politicamente corretto, epurato da ogni tono surreale che il lettore non può comprendere appieno ma solo intuire.

Deve si denunciare ma senza esagerare.

Deve essere educato, silenzioso, pulito, diretto, susseguoso sempre equilibrato.

E dov’è finito il flusso id parole senza virgole che tanto amavo sulla bocca di Miss Dalloway?

Cosa ne è della delirante invettiva di un Rimbaud incazzato con il mondo?

Non ci sono più.

Racchiusi nei cassetti di una memoria che si fa nostalgica, che mai si senta a suo agio in un mondo dritto che non ha posto per noi sghembi.

La San Guedero è una ventata di freschezza in questo stantio grigiore.

La San Guedoro è la voce fuori campo, l’Erinni che si scatena senza compassione e senza trovare alibi su un mondo che siamo perdendo. Un mondo che scivola via allontanandosi dalla bellezza, dal buon gusto e dalla creatività.

Un mondo che addita l’immaginazione e la rottura di schemi oramai vetusti, come il peggior crimine che si possa fare all’arte.

Quell’arte nata in seno di Prometeo, reo di rubare il fuoco a divinità intoccabili.

Ecco Lodovica lo fa.

Ruba il fuoco fregandosene di regole e dei lettori assuefatti alla banalità.

E ci regala un libro assurdo eppure molto coerente.

La follia allora non è dell’artista che crea parole come fiamme.

Un libro in cui il suo sarcasmo non si ferma e ci accusa, deride irride e mette di fronte alla decadenza che Noi abbiamo voluto, celebrato e mantenuto.

Ma di quel mondo che si nega al fuoco purificatore.

Al fuoco che dovrebbe bruciare le nostre marce abitudini.

Un fuoco necessario per illuminare le ombre del bosco e ridonarci le vesti di Vasillissa, la Dea liberata dal gioco delle consuetudini, dalla routine delle abitudini, per abbracciare la natura selvaggia e incomprensibile della Baba Yaga.

La San Guedoro non fa sconti.

E in questo mondo politicamente corretto, in cui si è attenti alla forma e mai alla sostanza, ecco che sul podio del colpevole saliamo noi, immagini sfiorite del femminino sacro.

Noi, che invece di proseguire per la STRADA della libertà ci adagiamo e ci vantiamo di essere immagini perfette di un maschile che ci rende si tutte fate e poco streghe, ma che nel farlo ci ingabbia.
E noi ci pavoneggiamo davanti allo specchio, fingiamo di non vedere le catene ai polsi che tintinnano, rendendoci più simili a laceri fantasmi che a eleganti e fiere Morrigan.

Noi, che siamo sempre meno lupe e più statuine, ballerine costrette da un malefico carillon a ballare per la gioia di chi ci osserva, dobbiamo prendere le sue parole, feroci come lame, e lasciare che esse ci feriscano.

E che il sangue grondi sui sogni perduti e formi di nuovo la parola libertà.

Grazie Lodovica.

Attraversando e riattraversando il pianeta per dritto e per sghembo, non ha visto altro che donne nude, donne semivestite, donne svestite, donne in atto di svestirsi o di rivestirsi, donne che si atteggiavano come porchette su piatti da portata, donne che simulavano orgasmi o che li avevano, donne che gridavano, gesticolavano, inveivano, si divincolavano, supplicavano, ordinavano, ordivano, si contorcevano come contorsioniste di professione, donne che facevano le astronaute o le sceriffe o le Nembo Kid o le sterminatrici galattiche e poi, però, avevano paura di andare in ascensore, donne che piangevano, donne che si suicidavano, donne che imprecavano, donne che venivano violentate con e senza il loro consenso, con o senza tacchi, con o senza silicone, donne che si pittavano come indiani sul piede di guerra e indossavano perizomi, chiamati tanga, per prodursi in danze lubriche, donne che facevano le sdolcinate sbattendo enormi ciglia finte, donne che facevano table dance e sedute spiritiche, donne fortissime e donne debolissime, tutte svitate, tutte convinte di essere bellissime e insuperabili, il fiore della creazione, il sale della terra e contemporaneamente delle sceme, tutte fuori di sé, tutte pronte a denudarsi e a vendersi, le giovani perché fin dalla nascita non avevano mai visto o conosciuto altro che donne nude, le vecchie per dimostrare di avere tutti i requisiti per competere con le giovani, le adolescenti per dimostrare di essere già donne, le sportive per dimostrare di essere sexy, le intellettuali per dimostrare di non essere, poi, così burbere e di avere delle tette anche loro, essere donna ed essere nuda erano una sola cosa, una donna non poteva non essere nuda e quella nuda non poteva che essere una donna… Donne, donne, donne, da una parte, e, dall’altra parte del fossato, uomini, uomini, uomini, con le barbe non fatte, che ininterrottamente le fotografavano o le guardavano in fotografia e dicevano bella! e si masturbavano… “Porca miseria, ma che avete sulla Terra?!

“La casa di incubi e stelle” di Chiara Casalini. A cura di Alessandra Micheli

Mentre cerco di radunare le idee per scrivere la recensione di Chiara ho davanti agli occhi il tramonto incantato della mia città.

Nonostante le lamentele (che strano, nessuno ha mai da ridire) sul caldo, il covid, il caldo e il covid, un aria stranamente fresca, che sa di tempi antichi, smorza un caldo asfissiante.

Il cielo risplende di colori, tra cui un rosso che, stranamente, dona alla mia proverbiale pigrizia una sorta di carica strana, quella che mi ha tolto dal mio amato amico divano e mi ha fatto mettere qua al pc, per cercare di raccontarvi questo libro.

Nelle orecchie ho il solito (che barba, che noia) Roberto Vecchioni con una canzone adeguata “Comici spaventati guerrieri”.

E in effetti, i protagonisti di questo libro assomigliano davvero ai protagonisti non solo della canzone, ma del libro di Benni.

Si è vero.

Per molti di voi attratti dalla patina scenografica che spesso gli autori usano come specchietto per le allodole ( sono dei notori bastardi) qua si parla di ragazzi.

Di giovani uomini, di giovani donne che sbattono il muso con il male.

E il male non è, purtroppo, nel demone di turno.

Mi piacerebbe raccontarvi una storia irreale, fatta di oscure luci e di mostri ghignati cosicché possiate una volta concluso il libro, tornare alle vostre comode vite.

Ma io non sono Chiara.

Non vi metto alla prova come ogni vero scrittore dovrebbe fare ( perché è giusto, dannatamente giusto che muoviate il culo alla ricerca del senso). Io vi spiattello la verità bella nuda e cruda.

Vi accerchio con la realtà.

Vi torturo l’anima, perché voi quell’anima la dovete risvegliare, con la consapevolezza che qua non si parla di amore o di redenzione.

O meglio non solo.

Qua si parla di abusi.

E gli abusi, che lo vogliate o no, sono reali.

Sono vivi e ridono davanti al nostro bisogno di volgere lo sguardo altrove e imitare gli struzzi.

Una bella sabbia in cui ficcare il nostro rugoso collo.

E nessuno vede, nessuno sente, nessuno aiuta.

Nessuno interverrà a impedire a un uomo senza coscienza di sopraffare dei bambini per renderli altri futuri uomini senza la stessa coscienza, con la stessa sete di violenza.

Perché vedete chi tocca un solo ragazzo, una sola donna, un solo bambino vuole perpetuare la stessa violenza con cui è cresciuto.

E’ così geloso delle possibilità altrui, da tagliare nettamente ogni possibile alternativa di scelta.

E cosi costruiamo tutti noi un mondo distrutto, anche le madri che non reagiscono, i vicini che fingono di non sentire, gli amici fieri di quell’abisso in cui sguazzano, ognuno incapace di vedere le stelle.

Esso è simile a uno zombie, un cadavere che si trascina sbavante per inerzia.

Non è reale ma per noi è immortale, invincibile, l’unico amico che possiamo abbracciare.

E cosi la casa di incubi smette di avere delle finestre.

Perché se ci fossero, beh noi vedremmo quanto sono belle le stelle e quanto forse sono vicine da toccare.

E sapete cosa fa muove il cielo e le stelle?

Proprio quel sentimento eterno osannato, meraviglioso, che fa commuovere solo attraverso un sorriso e che nonostante i tentativi di azzittirlo con la violenza verbale, non smette di abbracciare quel testone di Simone.

Che essendo un uomo, è un coglione e al dolore sfugge e si butta a capofitto nella distruzione.

E invece Sonia con tutte le ferite, con l’orrore che si porta dentro sa, come sa ogni donna, che l’amore è un balsamo.

Allora prende per mano con un sospiro rassegnato questo stolto e lo fa specchiare nel cielo sopra di lui.

Per vedersi finalmente, privo di pregiudizi e paure.

E allora la casa di incubi svanisce.

Perché il dolore in fondo, come dice il mio amato Vecchioni, non è un cazzo di niente.

Mentre noi siamo uomini.

“Tutto questo mare fra noi” di Beatrice Tauro, Cinquemarzo editore. A cura di Alessandra Micheli

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È la seconda volta che mi trovo in difficoltà a recensire un libro.

Mi capita quando esso rievoca lontani ricordi che custodisco dentro di me, quasi con una gelosia strana e il terrore che, un volta tolti dal cassetto della memoria, essi possano fuggire via.

Quei ricordi di un lontano passato, sono tutto ciò che mi resta di un sogno, il mio quello di diventare ponte capace di unire due cultura distanti, eppure così simili perché fatte da uomini, da esseri umani, da appartenenti allo stesso universo.

Ecco che il mio desiderio di un tempo, era unire la diversità affinché assieme potessimo costruire quel mosaico di cui tanto parlo nelle mie recensioni.

Ne parlo perché io l’ho vissuto per alcuni, meravigliosi anni, gli anni del mio lavoro come mediatore culturale.

Immagino che pochi di voi conoscano questa vocazione, perché non è un mestiere, assolutamente.

È la volontà, nata dalla curiosità e dalla consapevolezza, che la diversità sia un valore e che l’immigrazione sia la risorsa con cui il nostro mondo, la nostra cultura può sopravvivere e rendere omaggio alla vera natura dell’uomo: evolversi.

Da dove arrivano questi concetti non so spiegarlo.

Io ci sono nata con la coscienza che il colore, la religione, le attitudini siano sì un marchio di riconoscimento, ma anche solo un piccolo dettaglio.

Perché nell’altro mi ci potevo specchiare e solo con il rapporto con l’altro io potevo definire me stessa.

Solo dal racconto di storie diverse io iniziavo a scrivere la mia, solo con gli occhi stupiti di occhi simili ai miei, diversi solo per il colore ma partecipi del medesimo miracolo, quello di percepire, nominare e rendere tale la realtà potevo capirmi, conoscermi e nominarmi.

Potevo scoprire la mia composita anima, amandola per tutte quelle sfumature.

Ho sempre pensato che tutti noi appartenenti a questa dimensione umana fossimo simili all’arcobaleno.

Colori diversi ma nessuno capace di brillare da solo.

Capite che per chi come me ha nel DNA il concetto di umanità, quella vera quella fatta da sangue anima e corpo, trovare la strada per congiungere due isole distanti, fosse scontato.

E così ho iniziato a comprendere il mondo, prima dal lato fisico e poi mentale, culturale, etnografico.

Diventare mediatore, ossia ponte che unisce, era naturale.

Amavo così tanto scoprire i racconti, le storie degli altri, le leggende che la possibilità di toccare con mano quelle persone, era un dono incredibile. E in tutte le leggende, in ogni tradizione non potevo non ritrovare tracce di noi, noi esseri scesi qua in terra per una scommessa, per amore o per un cieco errore.

E cosi cantavo tra me e me mentre mi aggiravo per i corridoi del San Gallicano, le parole della bellissima canzone di Jon Bon Jovi, Santa fe:

they say that no man

is an a island…

And good things come to those who wait

dicono che un uomo non è un isola

e le cosa buone capitano a chi sa aspettare

Nessun uomo è un isola circondata dal mare, che fissa l’orizzonte in cerca di nemici, di invasori.

Terrorizzato di perdere la propria unicità, che il territorio gli scivoli come sabbia tra le mani.

Nessuno è solo in mezzo al nulla, ad attendere il giorno del giudizio, in una posizione di assoluta difesa con le armi in mano.

Siamo tutti interconnessi.

Tutti in attesa di un’occasione migliore che possa asciugare le lacrime, che calmerà il dolore e che ci darà una meta da raggiungere.

Magari a piedi, finendo per lasciare impronte di sangue sui sassi lungo il cammino.

Ma un opportunità capita a chi sa aspettare, a chi infonde la speranza in essa, a chi sa pregare quel dio invisibile e benevolo.

E che ci restituisca non solo il nostro essere persona, ma anche il senso di parole che oggi, più del gesto, ci terrorizzano.

Migrante,che non è un gerundio come il signore dei citofoni pensa.

Non è neanche un anatema o un cliché.

Né un’etichetta che ne esaurisce l’essere.

È un viaggio.

Migrare significa spostarsi, ma non solo con il corpo anche con la testa. Chi affronta il mare, impervio fino a lasciarci la vita, lo fa sopratutto con la sua anima.

È quella che trasloca portandosi appresso il sua corpo.

Devi cambiare tu per primo, accettare che i tuoi sogni, nel posto che hai eletto a casa, siamo impossibili da realizzarsi.

E non soltanto perché non hai seminato bene, e innaffiato il tuo giardino con le lacrime.

Semplicemente per una svista.

Perché dio quel giorno dormiva, o era distratto.

E ti ha collocato non nel giardino delle delizie, ma nella geenna del terrore.

Ha infarcito il tuo silenzio di bombe e lastricato le strade di morti.

Fino a che o ne resti assuefatto o ne resti disgustato.

Sono gli ultimi quelli capaci di dire no, e non semplicemente voltare gli occhi, che prendono e salpano in barconi di fortuna.

La loro mente ha immagazzinato un dolore oltre ogni limite.

La disperazione ma anche la smania ribelle di dire no, voglio una vita diversa.

Voglio che il sole baci anche me perché sono stanco dell’umidità delle ombre.

Che ghignano soddisfatte per la distrazione e il sonno di dio.

Migrare non è solo un viaggio.

È  una forma di redenzione che deve passare per l’abisso.

Ma non la redenzione di chi lascia l’orrore, o la povertà, o le culture arroccate su se stesse e i propri privilegi.

Ma la nostra di redenzione.

Di noi convinti che in fondo bastiamo a noi stessi.

Convinti di essere il popolo eletto di turno.

Convinti della necessità dell’oblio che possa cancellare ogni verità. Convinti che in fondo chi ha la ricchezza è perché è stato graziato dall’amore divino.

Il resto sono peccatori, sono miscredenti, sono fannulloni.

Mentre noi probi, meritevoli non ci accorgiamo che nelle nostre opulente tavole, banchettiamo con cibo contaminato dal loro di sangue.

Tragica direte voi?

Per ogni migrante morto in mare una coscienza è stata pagata, è stata comprata.

È stata corrotta.

Per ogni morto in mare c’è un simpatico gadget per noi.

Nato dal petrolio, dallo sfruttamento, dalla malavita, dalla nostra stolida complicità.

Per ogni morto in mare è l’umanità che paga lo scotto più alto: si perde. Perché perde il valore autentico di ogni persona.

Non ci servono persone, ma merci da utilizzare finché non ne resta più nulla, finché una vota spolpato lo lasciamo a marcire negli angoli dell’esistenza.

Private del loro nome, della loro identità e rese indistintamente prodotti. E chi non partecipa al grande gioco della vita a quella musica cacofonica e stonata è solo un folle, un matto o un idealista.

Come se il temine stesso ideale, fosse la peggior onta di questo strano secolo senza dignità.

Ma non tutti sono disposti a ascoltare la musica del passo d’oca del Re assiso sul trono.

C’è chi decide di cambiare proprio melodia.

Chi alla distanza emotiva contrappone l’empatia.

Chi allo sfruttamento contrappone la cooperazione.

Chi alla paura contrappone la speranza, chi alle ruspe contrappone la vanga con cui crearlo il giardino.

Chi alla violenza verbale atta a costruire muri con cui oscurare la vista dell’altro, contrappone il martello per abbatterle quelle distanze.

Chi invece di lasciare che le erbacce stritolino gli alberi, contrappone la falce con cui eliminarle quelle erbacce.

Tutto questo mare tra noi è cosìun libro non solo di denuncia ma di speranza, oggi che il migrante è diventato l’acerrimo nemico di una società morente.

Perché solo una società così habisogno costantemente per esistere del cattivo di turno.

Cantiamola una canzone diversa.

Anche se questo ci costerà qualche perdita.

In fondo Amina paga lo scotto di voler essere una voce capace di cantare la fine della canzone cambiando non solo i suonatori ma le note.

E cosi ogni personaggio di questo libro.

Ma la bellezza del canto finale, sconfiggerà anche la morte nascosta in questo mare, che ci divide e invece dovrebbe unirci.

Non lasciate che del denaro insanguinato, compri la vostra coscienza

Ma la tua coscienza è l’unica cosa che puoi portare nella tomba

Jon bon Jovi

“Le piccole volpi del deserto” di Rossella Gazzelloni, Haiku editore. A cura di Alessandra Micheli

 

Le piccole volpi- Rossella Gazzelloni

 

Leggere questo libro non è affatto facile, specie per chi come me certe realtà le conosce le ha viste e sopratutto ha assistito alla perdita di tanti troppi amici. Cadere nel vizio, nella dipendenza, nell’illegalità è troppo facile.

Basta un frustrazione mai confessata, un senso di inferiorità che si tramuta in un desiderio cocente di rivalse.

Basta un torto subito, una ferita mai del tutto rimarginata, un senso profondo di ingiustizia che serpeggia nelle vene, mischiandosi al sangue.

Quella voglia di volare, di emergere di mordere la vita.

E di essere più forte della maledetta convenzione che divide gli esseri umani in privilegiati e in segnati.

Basta una parola, un no, una noncuranza o una frase tagliente “se non cambi farai una pessima fine” per scrivere sul foglio della vita già la fine.

Io l’ho vissuto

Nel mio mondo apparentemente idilliaco c’era la costante divisone in meritevoli e senza speranza.

Non ci crederete ma io stessa ero finita in quella categoria.

Eh si a sei anni stentavo a leggere.

Non so per quale motivo, ma mi rifiutavo proprio di imparare, di seguire quella maestra dall’apparente sorriso radioso, che per me nascondeva una certa snobbistica ipocrisia.

E cosi ero agli ultimi banchi, quelli dei ribelli, quelli dei ragazzini difficili, quelli lenti, secondo questa oscura visione, nell’apprendimento.

Insieme a me c’era il mio migliore amico, quello che oggi è purtroppo perduto in quel deserto che stavano costruendo davanti a lui, al suo sguardo innocente e inconsapevole.
In quel tu non appartieni alla categoria dei prediletti si formava il futuro di ognuno: chi lo accettava come una spada di Damocle sulla testa, chi restava invischiato nella sua appiccicosa invadenza.

Chi, pochi, invece ne usciva spronato dicendo ora di farò vedere.

E io per fortuna, per lascito materno, per carattere o per ribellione, molto più matura nonostante i miei sei anni, di quella di tanti miei compagni, decisi di fargliela vedere alla maestra.

Infatti eccomi qua a fare dei libri il mio spazio privilegiato.

Io che stentavo a fare della parola la mia guida.

E adesso il libro è il mio luogo felice e forse il mio lavoro.

E’ un grande risultato, direte voi. In realtà credo che in quel deserto pieno di frasi fatte, di atroci pregiudizi, di destini segnati da alcuni per fare sentire migliori gli altri si formino dei grandi vortici.

E quando il vento crudele soffia le piccole volpi, ragazzini con tuta la vita davanti vengono risucchiati, confusi con la sabbia, con i sassi, con i detriti fino a far parte di quella stessa entità cosi fumosa.

Fino a annullarsi per divenire perduti.

Inesistenti, destinati al male, destinati a ferire costantemente se stessi.

I ragazzi descritti nel libro sono i miei compagni di allora, che non sono riusciti a tenere la mia mano.

Il vento era troppo forte e noi troppi fragili.

Ero troppo piccola per poterli trattenere.

Ci sarebbe dovuto essere un adulto a dire no.

A difenderci, a darci altre possibilità.

E oggi sono io a pensare alle nuove piccole volpi assediate dai tanti sciacalli senza etica ne dignità decisi a non lasciare che la vita trionfi, decisi a trascinare con se tutte le anime possibili come se esse potessero pagare il loro debito.

E cosi eccoli sulla strada tracciata dagli irresponsabili, da chi in fondo odia tanto la vita da ferirla strappando a lei i suoi figli, il dramma continua con le stesse note con la stessa musica, ma con diversi suonatori.

Le piccole volpi del deserto non è soltanto un romanzo di accusa.

E’ un romanzo dove la vita chiede di essere finalmente rispettata.

Dove morderla non significa andare oltre i limiti, trasgredire o dimostrarsi uomini cosi come la società menzognera ci presenta gli eroi.

Significa SOLO amarla cosi tanto da onorarla con il sorriso.

E di sorrisi veri, qua in questo splendido libro non ci sono.

Possono esserci ghigni, o ferite sulla faccia.

Può esserci riscatto solo lasciando il cuore e l’anima intatta e non avvelenandola con l’oblio.

Allora leggetelo e ricordate anche voi i vostri amici perduti e onorateli non con lacrime ma con il coraggio di scegliere sempre la luce e mai le tenebre.

E a te amico caro, perduto chissà dove, conserverò io il tuo sorriso bambino.

E magari un giorno te lo restituirò intatto e puro come quando eravamo bambini.

“Ribelle senza causa” di Vincenzo Cantarella, Scatole Parlanti. A cura di Alessandra Micheli

Ribelle senza causa- Vincenzo Cantarella

 

Essere ribelli oggi sembra quasi una sorta di colto passatempo.

Quasi uno status di radical chic, di boriosi intellettualoidi che si beano della loro sapienza e si vantano di una sorta di ozioso rifiuto di chissà cosa.

Si è ribelli contro un sistema che nessuno sa cosa sia, perché troppo fumoso, troppo evanescente, troppo lontano da noi.

In fondo, lo si è attraverso post sui social, sulle foto di libri pomposi su intangramm.

Ribelle è oramai un altro modo per essere allineato con il potere.

Un post moderno che è una medusa tentacolare, che ha infettato tutti e che ha lanciato una ferita purulenta su ogni coscienza.

Anche su chi un tempo aveva grandi ideali.

Su chi mai e poi mai avrebbe ceduto e rinnegato l’ideale.

Cosi quando ho letto Ribelle senza causa, un libro che sentivo di dover leggere, mi sono venute in mente le parole dell’unica canzone di Vasco Rossi che io abbia mai amato, Stupendo.

E mi ricordo chi voleva Al potere la fantasia

Erano giorni di grandi sogni sai

Erano vere anche le utopie

Ma non ricordo se chi c’era Aveva queste queste facce qui

Non mi dire che è proprio così, Non mi dire che son quelli lì…

Però ricordo chi voleva
Un mondo meglio di così
Sì proprio tu che ti fai delle storie ma dai
Cosa vuoi tu più di così

E cosa conta chi perdeva
Le regole sono così
È la vita ed è ora che cresci
Devi prenderla così

Vasco Rossi

Negli apparenti sproloqui del nostro protagonista ho ritrovato un intera generazione, distrutta, demotivata e delusa.

Delusa.

Che parola terribile.

Noi che volevamo davvero cambiare il mondo.

Noi che volevamo non solo criticare e demolire ma proporre un alternativa valida a questa tentacolare medusa.

Noi che aborrivamo la finanza sposata con la politica.

Si noi, ribelli senza causa, innestati in un mondo che no può accettarci, che tanta di sedurci ma che ci rigetta.

Perché troppo alieni, troppo distanti da quel pensiero che si tiene intatto a furia di rammendi.

Oggi, dove pure il dissenso non è che una forma nascosta del consenso, essere rivoluzionari come ci raccomandava un comandante, morto per fortuna ancora puro, incapace di insozzarsi con i segreti oscuri di una politica che aveva venduto l’anima a Mammona, bisogna soltanto chiudere gli occhi.

E accettare di comportarsi nel miglior modo possibile. E cosi quei gironi che come dice Vasco

di grandi sogni

dove erano vere anche le utopie

sono sacrificati per divenire un perfetto yuppies.

Inserito nel sistema e deciso a vendere cara la pelle del popolo facendolo diventare massa.

Deciso a sostituire l’uomo con un suo perfetto clone a cui manca, però il potere decisionale.

Deciso a fermare corrompendo ogni soggetto incapace di diventare ingranaggio di una macchina che macina coscienza per trarne un uomo nuovo, perfetto in ogni occasione interscambiabile e capace di adattarsi.

Un uomo che accetta il futuro deciso a tavolino in cui la crisi non ha fatto che scoperchiare il vaso di pandora delle debolezze, che lungi dall’essere aborrite divengono il consueto e il politicamente corretto.

Uomini finti inseriti in una post modernità glaciale e immutabile, in cui nulla di nuovo o di innovativo, sconvolge la regolare routine del sistema.

Dove le regole:

sono cosi ed è ora che cresci.

E io, come Santi sono incapace di crescere.

Non in quest’Italia che assomiglia sempre di più alla visione post apocalittica di Cantarella. Non in un sistema che mania guadagni sacrificando volti divenuti sempre più indistinti e confusi.

Non in una società che deride chi, seppur nella disillusione più pura, tenta di mantenere intatta la sua etica.

E cosi al pari di Santi mi rifugio in quelle canzoni Rock che promettevano la rottura definitiva di quel muro omertoso di complicità e connivenze e che, invece erano la disperata fuga del folle e del sognatore, in un luogo desolato, dove essere accolto da un portiere di notte che ti prometteva che da quell’hotel non saresti mai più andato via.

Al pari di santi ho sentito sempre di più e lo sento tuttora la mia alienazione, il mio dolore forte di chi non riesce più a avere tra le mani la causa giusta per cui proporre un azione politica.

Ma al contempo troppo abituato ormai a ribellarsi.

E cosi questo libro è dedicato a tutti noi, che usiamo la musica per evadere, per creare il nostro oblio, il nostro Hotel California.

A tutti noi arrivati al bivio della vita a fare i conti con un se stesso che per mantenersi puro ha ricevuto cazzotti in faccia, e mostra quasi con orgoglio i lividi.

A tutti noi ribelli senza causa, eroi romantici catapultati in un mondo distopico eppure cosi tangibile in ogni orrore quotidiano.

Noi che nonostante tutto preferiamo i fantasmi del nostro passato, ai demoni in giacca e cravatta che lanciano slogan pesanti come bombe.

E in questo mare di rassegnazione, forse potremmo essere si giunti all’epilogo finale, meno fulgido di quanto sognavamo, ma con quell’ideale stretto nel pugno, cosi forte da essere colorato con il sangue del nostro disfatto credere.

Racconteranno che adesso è più facile

che la giustizia si rafforzerà

che la ragione è servire il più forte

e un calcio in culo all’umanità

Ditemi ora se tutto è mutevole

se il criminale fu chi assassinò

poi l’interesse così prepotente che conta solo chi più sterminò

Romba il potere che detta le regole

cade la voce della libertà

mentre sui conti dei lupi economici

non resta il sangue di chi pagherà

Tutto si perde in un suono di missili

mentre altri spari risuonano già

sopra alle strade viaggiate dai deboli

la nostra guerra non si spegnerà

E torneranno a parlarci di lacrime dei risultati della povertà

delle tangenti e dei boss tutti liberi

di un’altra bomba scoppiata in città

Spero soltanto di stare tra gli uomini

che l’ignoranza non la spunterà

che smetteremo di essere complici

che cambieremo chi deciderà

Pierangelo Bertoli

“Il soffitto di cristallo” di Gianni Perrelli, Di Renzo editore. A cura di Alessandra Micheli

Il soffitto di cristallo- Gianni Perelli

 

Sono sempre stata refrattaria alle definizioni.

Le odiavo e scappavo da esse come se fossero demoni a rincorrermi.

E una di quelle più aborrite era Intellettuale.

Cosa significava?

Che ero un gradino sopra gli altri?

Intellettuale per me era una parola abusata, inutile.

Tutti noi ci basiamo sull’intelletto e tentiamo, in questa strana vita, di orientarci al meglio, pensando, riflettendo, raccogliendo dati e proponendo teorie.

Per ogni cosa specie riguardante il nostro ambiente.

Che non è solo quello geografico o simbolico ma, sopratutto, politico.

E la politica, volenti o nolenti, ci invade ogni anfratto dell’anima e dell’organismo.

Siamo decisi a creare uno stato, con un territorio, un popolo, un’autorità decisionale espressa nei modi più consoni alla nostra cultura.

E cosi abbiamo il mondo della rappresentanza, laddove si compie il miracolo più impensato: Signora sovranità passa dalla mani del popolo a quelle del suo delegato che, resterà tale, finché sceglierà saggiamente di immergersi nella Maat cosmica e trarne le giuste leggi perché armonia regni.

Sognatrice?

Non direi.

Diciamo che sul senso politico della democrazia ho passato giorni interi a riflettere.

Mentre le mie coetanee guardavano, annichilendo il pensiero non è la RAI, girotondo di apparenza, predecessore dei social pieni di carine immagini che oggi funestano il nostro ovattato mondo, io riflettevo su questi temi.

Intellettuale?

Migliore delle altre?

No.

Semplicemente educata all’esercizio della vera libertà: il pensiero.

Un pensiero che crea mondi, universi, valori e stati.

Il pensiero che domina sovrano spingendo i più a indossarlo come una veste di cui andare orgoglioso.

E altri che lo usano indebitamente come arma per sfondare il tetto di cristallo.

Ed eccoci al tema del libro.

Intellettuale oggi è un valore, che ci permette di capire come dietro l’apparenza ci sia un derisorio tentativo di convincerci che la sostanza non serve, che tutto può essere cultura e che possiamo indossare i migliori alibi per non pensare.

Intellettuale è chi, con in mano il libro di Perrelli, inizia coraggiosamente a vedere.

E non solo il trito e ritrito, mi si scusi il sospiro esasperato, tema della parità di diritti, ma la realtà delle nostre situazioni, del nostro essere cittadini, del nostro votare, del nostro sentirci uomini.

Non esistono i pari diritti.

Perché oggi forse non esistono proprio i diritti.

Tutto è un dovere, un io posso, un io devo.

Un apparire.

E per apparire in modo da esistere, significa necessariamente sgomitare.

Oggi non ci sono assolutamente i diritti.

C’è alibi del io posso, io devo essere, io farò.

Non c’è il posso?

Potrei?

Dovrei?

Il diritto è una forma di domanda che nella sua pomposa genesi rimanda a altre domande.

E per rispondere necessariamente dobbiamo rivolgerci all’altro.

Come il diritto alla libera espressione.

Che non significa sparare ogni scoria che ci ronza per una testa non allenata alla differenziazione, ma una caotica fuoriuscita di disordine. Possiamo dire tutto e il contrario di tutto urlando invano il nome della libertà.

E se noi stessi siamo oramai orfani di diritti, il rappresentante non fa altro che cavalcarle l’onda dicendoci le frasi che il nostro disordine brama.

Non una logica analisi della situazione, con tutti i pro e i contro.

Ma slogan, frasi banali che titillano il nostro uomo qualunque sdoganato in questo secolo confuso.

Il soffitto di cristallo viene distrutto.

Da una donna.

Una portatrice di ideali nata in senso a una borghesia aliena dal contato sociale del popolo.

Che non considerato, non compreso, non individuato e nominato, diviene massa.

E la massa, si sa è ben controllabile.

Una forza caotica da usare a proprio piacimento, a cui elargire briciole. Una forza che è lo specchio distorto della nostra carenza interiore.

Non crediamo più alla politica.

Ne alla sua necessità primaria, ossia permettere la libera crescita e la possibilità equa di sviluppare talenti.

E non solo di soddisfare bisogni.

L’entità politica si rese necessaria per un evoluzione del concetto di solidarietà del clan, in un ottica più grande, più globalizzata.

La città doveva divenire quello che era la piccola comunità: luogo di incontro, scontro mai violento, dialettica e possibilità, tramite questo diritto alla discussione, a trovare la forma migliore per far prosperare tutti.

Per dare una possibilità al futuro, perché gli ideali non divenissero ideologie, perché l’umo non diventasse anonimo o qualunque.

Perché ognuno all’interno dell’agorà si sentisse libero.

Era il sogno del perfetto mosaico, laddove ogni parte di un disegno era importante sia nel tutto che nel singolo elemento.

Ogni elemento era uno schizzo di pittura che assieme agli altri trovava la sua collocazione, il suo senso il suo obiettivo.

Qualcosa non è andato.

La libertà non ci è piaciuta.

Mano a mano abbiamo perso il gusto della decisione e ci siamo orientati verso il fallace sussurro di Mammona.

L’apparenza, il sedersi aspettando un miracolo dall’alto, la suadente forza dello slogan e della faciloneria, il togliersi il pesante fardello dell’ideale e dell’impregno.

Oggi il patto è stato sancito.

E la libertà di decisione è stata uccisa.

Nessuno sa chi è il malevolo criminale che ha materialmente compiuto lo sfarcelo.

Forse il politico deciso a sfondare quel tetto di cristallo.

Forse noi stessi che desideravamo qualcuno che lo sfondasse.

Forse la crisi che ha cercato di gabbarci creando non politici ma burattini protagonisti di una commedia alla De Filippo.

E cosi il libro diviene satira politica sociale.

Perrelli racconta ogni nostro dramma con penna feroce e incalzante.

Non ci risparmia descrizioni accurate di cosa siamo noi oggi.

Ne risparmia le accuse verso i sognatori, rei di aver sognato e di aver perduto lo slancio iniziale.

L’idealista un novello martire messo da parte dagli oscuri sotterfugi di una politica che si era stufata di essere coerente.

I soldi erano come melassa capace di appiccicarsi alle mani e era impossibile sottrattosi alla sua malia.

Una donna che tentava di dare un senso alla sua soddisfacente vita, ma cosi fredda e anonima da costringerla ad abbracciare l’ideale non tanto marxista, quanto sociale della sinistra.

Una donna che, appunto perché fortunata, aveva il sommo dovere di elargire a suo modo la stessa fortuna alle periferia non solo cittadine ma del mondo.

E che credeva di poterlo fare in politica.

Uomini che fingono un dibattito e che in realtà si abbracciamo finita la diretta TV, concordi che in fondo è meglio fregarlo quel popolo involontariamente costituitosi in massa.

Io so il valore della politica.

Per quanto disgustata, arrabbiata, delusa al pari di Paolo non sono mai riuscita a diventare una Livia.

Eppure la amo ancora la politica.

Amo le sue infinite possibilità.

Amo quella sua fragilità quella sua innocenza insozzata dai desideri egoistici.

Amo ciò che è stata e amo ciò che poteva essere.

Nonostante tutto continuo a credere che il sistema politico democratico possa accontentarsi in un connubio favoloso con l’ansia riformista del comunismo.

Senza divenire dittatura.

Ma non è necessario sfidare la fauci del parlamento per agire.

Non è necessario rischiare di esserne inglobati.

Non è necessario sfidare il tetto di cristallo.

Esso è li per ricordarci i pericoli e i limiti.

Per ricordarci che, sfondarlo, significa ferirsi e cercare a ogni costo un sollievo.

Significa farsi bendare le ferite, causate dagli aguzzi pezzi di vetro, da qualcuno.

Senza immaginare che quel qualcuno userà le suddette ferite per manipolarci.

Il soffitto di cristallo non fatto per chi agli ideali ci crede davvero.

Livia lo capirà.

Paolo lo ha già compreso.

Quello che il lettore invece dovrà comprendere, è quello che si svolge all’esterno dei due protagonisti alla ricerca di un identità perduta: la grottesca recita a nostro discapito.

Quel nostro essere massa usata da interessi altri.

Quel nostro addormentare la coscienza civile con l’iper-tecnologizzazione che ci rapisce in un mondo diverso, in un dimensione totalmente edonistica, lasciando gli sciacalli a dividersi le carcasse. Quello che il lettore dovrà capire è il momento di oggi, fatto di foto di solo godimento e non di schiaffi sul volto.

Di glamour e brillantini e non più di lavoro, sudore e rivendicazioni.

Di virtuale e non più reale.

Quello che il lettore dovrà fare è piangere lacrime di sangue su una libertà rinnegata.

Da parte mia ringrazio l’autore, perché ha risvegliato in me la voglia di fare politica.

Anche attraverso una recensione, uno scritto, un dialogo.

Lo ringrazio perché oggi sono fiera, assurdamente fiera, di essere un intellettuale.

“Le voci dell’autorità” di Marco Purita, 96 Rue de la Fontaine. A cura di Alessandra Micheli

Le voci dell'autorità- Marco Purita

 

E’ bizzarro come certi libri arrivino al momento giusto, proprio quando mi frullano nella mente pensieri specifici.

Ultimamente, in occasione di vari articoli che hanno evidenziato una patologica tendenza societaria, ho iniziato a riflettere sull’iper-tecnolocizzazione del nostro vivere quotidiano.

E non posso non collegarmi alle funeste previsioni del grande Baudrillard, quando in un libro da me amato, leggevo questa profezia auto avveratasi: la televisione ha ucciso la realtà.

E in fondo non è quello che accade oggi?

Il virtuale, lo smartphone, il tablet, i PC sempre più minimal, invadono il nostro mondo sostituendosi all’esperienza diretta.

Non più tattile, non più visiva ma soltanto percettiva.

E noi produciamo continuamente la rappresentazione di una rappresentazione, di un reale che è sempre più irreale, che esiste soltanto nel momento in cui la figura diventa padrona e protagonista.

Ogni esperienza diventa, quindi, immagine.

Persino la lettura, ed è questo il dramma che mi inquieta, diviene soltanto feticcio, mostrato con orgoglio, adornato di orpelli che hanno lo scopo di rappresentarlo e che, ironia della sorte lo annientano.

Se un tempo la foto e la visione dell’oggetto rappresentato veicolavano un messaggio o intendevano creare un effetto dirompente su alcuni valori della società, oggi la foto è anti-messaggio.

Sostituisce cioè la fatica di pensare e diviene essa stessa protagonista.

Non è, dunque, il significato alla base, ma l’immagine che quindi può essere priva di significante.

Come ben sappiamo dagli studi di A Adalbert J. Ames e di Bateson la realtà stessa, ciò che noi vediamo e consideriamo vero, distinto dal mondo fantasioso dell’immaginario, è un prodotto personale del nostro cervello. Tutto diviene quindi relativo e pregno di elementi che appartengono alla semiotica o per dirla alla Pareto, all’universo dei residui illogici.

Ogni nostra visione è dunque costruzione mentale seguita da un atto inconsapevole di arricchimento di idee, valori, ossessioni, paure e sogni.

Nonostante l’esistenza di codici comuni (ci sono elementi che diamo per veri grazie a una voce esterna come l’Autorità sociale) ogni visione è parziale, determinata e ricca di interiorità.

E per questo l’esperienza diretta è cosi ricca e cosi pregna di elementi comunicativi, perché nasce da una costante interazione noi e l’altro, noi e il mondo, persino noi e dio. L’immagine stessa rappresentata dalla foto è fonte di introspezione, di conoscenza e di scoperta dei particolari se.

Cosa accade se, invece dell’esperienza diretta sostituiamo l’esperienza virtuale?

La foto di un libro posta a servizio dell’altro, costruisce una realtà alternativa, costruisce l’interpretazione su un interpretazione di qualcun altro, soltanto che, questo altro diventa indistinto e invisibile.

Ecco perché nelle voci dell’autorità questo sistema paragonato a un grande fratello orwelliano, diviene evanescente, lontano ma profondamente autocratico; donandoci solo il godimento di un risultato, foto, internet, tablet si sostituiscono al nostro personale pensare, a un attività in cui entra il libero arbitrio.

Oggi siamo tutti influenzati da qualcuno o qualcosa.

L’influencer voce di un autorità esterna resa più perniciosa dalla sua invisibilità e dall’incapacità di determinare la fonte, ci manipola decidendo per noi cosa leggere, cosa comprare, cosa indossare, cosa vedere e persino come pensare.

E questo rende ferrei certi concetti dati per buono, che in un felice tempo passato potevano contraddire.

Ma in questo circuito in cui tutto è possibile in cui tutto è raggiungibile, siamo prigionieri.

Prigionieri felici e assuefatto, addormentati e narcotizzati dal costante bombardamento di immagini.

E’ l’autorità scelta non per bisogno, non per necessità, non per convenienza, ma solo per un piacere effimero, per un godimento immediato di una sosta di estasi di plastica.

Emozioni, sentimenti, sesso, rabbia, ogni turbamento sano diviene fattore di show business, con il risultato di distruggere le emozioni e renderle soltanto fruizione omologata e stantia di prodotti.

L’amore è un prodotto.

La rabbia è un prodotto da vendere.

Persino il sesso e gli ideali sono commercializzati.

E cosi l’arte, cosi la religione, cosi ogni valore umano.

Ecco che l’autorità diviene una sorta di divinità lontana, distaccata dal mondo, decisa a comandarci come burattini senza un vero motivo, se non una reiterazione stantia di un sistema che, ci serviva, ma che abbiamo fatto diventare un eggrergora.

In pratica ciò che era necessario e subordinato all’uomo, diviene vivo e deciso a vendicarsi subordinando l’uomo.

Concetti difficili?

Diciamo che il sistema politico sociale ci serviva per vivere, come direbbe Hobbes una vita serena, tranquilla non minacciata dall’homo lupus.

Era e lo sapevamo, un artificio nato per un esigenza quella di vivere di godere dei propri talenti e di aver soddisfatti bisogni primari e secondari. L’autorità era si necessaria, ma con la possibilità della sua deposizione qualora per un egoico sogno avesse distrutto il patto per cui essa era stata creata.

Oggi, con l’avvento della tecnocrazia e dell’iter-tecnolocizzazione, l’autorità si è staccata dal consenso popolare, ha ucciso il senso della rappresentanza, ha deposto il cittadino portatore della sovranità ed è diventa un dominatore assoluto.

Decide per noi, ci muove con i suoi intricati fili e assorbe per nutrirsi delle nostre primigenie energie.

Ma sopratutto, si nutre di libertà.

L’autorità è un eggregora che necessita della nostra anima per crescere e prosperare.

Ecco che si insinua nella nostra testa, cosi come fa con Mirko Pagnotta, impadronendosi del libero arbitrio della creatività che viene essa al suo servizio.

Perché allora diventa cosi accentratrice e sopratutto perché agire proprio sul pensiero, sull’azione e sulla cultura?

E qua entra il concetto portante del libro di Purita: il concetto di polis. Polis anticamente era tutto ciò che, muovendosi l’uomo produceva.

Polis non era solo l’agorà regno del dibattito politico.

Polis era la cultura, la comunità, la società, il pensiero, gli ideali, i valori i limiti, i tabù e i sogni.

Da questo antico concetto si evidenzia come polis o politico è tutto ciò che caratterizza l’umo.

Politici sono i gesti, politici sono i sorrisi, politica è la comunicazione politici sono i libri.

Perché agiscono su questo organismo che i greci tanto amavano.

Ogni nostra microscopica azione, anche la più banale, incide sulla polis totale, la nostra porzione di libertà manifestata in ogni passo agisce sull’intero corpo sociale persino sul tipo di regime che ci comanda.

E se noi  ci poniamo come zombie o cyborg programmati da questa aliena autorità, diamo vita al sistema che ci comanda.

La società iper-tecnologica è creata quindi da un autorità che noi abbiamo scelto di rendere reale, viva e carnale.

Il libro di Purita racconta in modo onirico, come è gusto si racconti il mondo e la realtà e la nostra dimensione umana vittima e carnefice, di questo orrenda distorsione, di questo patto faustiano di uomini che non sono riusciti a reggere il peso del libero arbitrio.

E che hanno reso ogni azione, persino quella che nei tempi passati era di distruzione del vecchio ordine, soltanto un modo per accrescere un autorità che continua a parlare alla testa dei tenti assuefatti, dei tanti prigionieri, dei tanti liberticidi.

Di tutto coloro che sono costretti a rigurgitare nel flusso virtuale la loro essenza più pura.

Persino il dolore che, al contrario è la porta verso la libertà.

Siamo noi aver ucciso la realtà.

Siamo noi stessi a esserci imprigionati in un gabbia dorata.

Siamo noi a aver ucciso signora libertà.

Perché se è vero ciò che asseriva Giorgio Gaber libertà è partecipazione, delegando il nostro consenso a qualcun altro, a entità invisibili e irreali, abbiamo rinunciato davvero la nostro diritto e dovere più grande.

La libertà è responsabilità verso se stessi.

Marco Purita