Rosso, Bianco e Sangue Blu – il nuovo film su Prime Video a tema LGBTQIA+. A cura di Giulia Previtali

Tratto dal libro di Casey McQuiston, Rosso, Bianco e Sangue Blu racconta della relazione “impossibile” tra due membri d’élite: il figlio della presidentessa americana e il secondogenito della famiglia reale inglese.

Sembrerebbe la solita favola ed è qui che ci sbagliamo: i due protagonisti non sono da salvare, non sono un principe e una principessa. Sono un principe, sì, omosessuale, e un ragazzo bisessuale americano. Un amore che scuote il mondo perché è sotto gli occhi di tutti, purtroppo.

Alex Claremont-Diaz, figlio ispanico-texano della presidente degli Stati Uniti è un rubacuori e fa continuamente disastri internazionali, Henry invece è il fratello del futuro erede al trono d’Inghilterra ed è ligio al suo dovere.

Inizialmente, i due si odiano, Alex per rancori passati e Henry invece semplicemente per la sua “negligenza” o non curanza – tutta una facciata – delle regole e del decoro.

Henry fa trovare il numero di Alex tramite i servizi segreti e i due cominciano a conoscersi, a chiamarsi, a messaggiare, a flirtare.

Ma è la notte di Capodanno che Henry decide di prendere coraggio e baciarlo e, sebbene non se lo aspetti, Alex ricambia.

Alex scopre così l’Amore, nel vero senso della parola, e la reazione della madre è una delle più toccanti.

Sei la B di LGBT. Sai, la B non è solo una lettera.

C’è delicatezza nella famiglia di Alex, ma al contrario c’è brutalità e crudeltà nella famiglia di Henry che non accetta la sua G nella parola LGBT.

Così, mentre Alex è in Texas per aiutare sua madre a farsi rieleggere – e conquistare nuovi elettori, un giornalista pubblica i loro messaggi e le loro mail, anche quelle più intime e private.

Mentre il mondo crolla, viene impedito ai due di sentirsi ed entrambi sembrano crollare.

È a quel punto che Alex vola a Londra, pronto a trasgredire le regole e a dire al mondo quando ami Henry..

La reazione del pubblicò è quella che dovrebbe esserci: sostegno, amore, comprensione.

Perché l’Amore è Amore.

Love is Love, e non c’è discorso che tenga.

La rubrica cinema e parole presenta. Due film a confronto: La morte ti fa bella V/S Sette anime”. A cura di: Aurora Stella

Visto che precedentemente avevo analizzato due film che potevano (in qualche modo) essere associati all’evoluzione divergente (antenato comune che dà origine a due specie diverse), oggi vorrei dare spazio all’evoluzione convergente (due specie diverse che arrivano a sviluppare caratteristiche comuni).

Nel caso di questi due film, il prodotto dalle caratteristiche comuni sarà l’ossessione per la bellezza in tutte le sue sfaccettature.

Chi non è attratto dalla bellezza? Chi può rimanere insensibile di fronte ad essa? Esiste una bellezza oggettiva oppure non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace? E la bellezza interiore come si stabilisce? Con l’autopsia? Esiste in quanto forma oggettiva o anch’essa è soggettiva? Si basa su una morale o sull’etica?

Potremmo stare qui tutto il giorno a porci domande sulla bellezza, ma sappiate che la risposta universale non esiste. Esistono però tentativi di decodificarla. Così si è compreso che, per ogni cultura, esistono dei canoni di bellezza che possono essere impacchettati, brevettati e venduti. Per i greci, ad esempio, la bellezza risiedeva nelle proporzioni e nella simmetria. Può sembrare strano, ma ancora oggi noi ragioniamo secondo lo schema del rettangolo aureo lasciatoci dai nostri antenati e trasformiamo la bellezza in un’equazione. Nel corso del tempo qualcosa può essere stata modificata, ma grossomodo simmetria e proporzione non ci hanno mai abbandonato. Gli occhi azzurri colpiscono di più se sono grandi e magari inseriti sotto una capigliatura scura. Gli occhi marroni, pur essendo più comuni richiamano la terra, il legno, rimandano a qualcosa di caldo. L’altezza è ritenuta “mezza bellezza”. Le gambe dritte sono meglio di quelle storte. Per alcuni i piedi piccoli (da qualche parte ,nel mondo, con il mio piedino “35” sarei venerata), per altri le mani curate sono sinonimo di bellezza.

Di una cosa però sono certa. Per gli uomini la bellezza è rimasta più o meno invariata, per le donne ha subito metamorfosi più drastiche. Se c’era la fame erano ritenute belle le donne grasse, se c’era abbondanza e libertà spadroneggiava la bellezza androgina.

E per la bellezza interiore? Stoltamente (anche prima che il Lombroso ne facesse un manuale) era sempre associata alla bellezza esteriore. Ancora oggi, in quasi tutti i contesti, se una persona è bella è anche buona. Il cattivo è sempre brutto. E, in questo contesto deformato, anche alcune caratteristiche ritenute belle, se calate in una circostanza di malvagità possono essere associate al brutto.

Non avete capito niente, eh?

Ve lo spiego subito.

Gli angeli hanno i capelli biondi, i demoni hanno i capelli neri. Anche tra le principesse Disney è così. Cenerentola e Aurora sono bionde. Biancaneve è l’eccezione. Dopo c’è Ariel che è rossa, Belle che è castana e così via. Una donna dai capelli neri è ritenuta buona solo se non appartiene all’etnia caucasica. Mulan e Jasmine sono buone anche se con i capelli neri, ma solo perché un’araba e una cinese bionda sarebbero improponibili.

Qualcuno ha provato anche a rimescolare le carte e a tirare fuori cattivi belli (basti pensare a Gian Maria Volontè nel ruolo del cattivo nei film di Sergio Leone) ma sono e restano sempre eccezioni. Nella mente di molti se sei bello, alla fine diventerai anche buono. Se sei brutto magari potrai compensare con la bontà, ma sarai sempre un’eccezione.

E questa assurda ricerca dell’armonia tra proporzioni e simmetria conduce a una mania: quella della costante e continua ricerca dell’eterna bellezza che coincide con l’eterna giovinezza e si prova a ricorrere a ogni mezzo. Dal nettare e ambrosia degli antichi dèi greci, alla ricerca della pietra filosofale (che però garantiva la vita non la giovinezza). Passando per vari e strampalati elisir. Tutto, pur di non vedersi appassire.

Ed ecco qui che si può anche morire pur di essere belle per sempre, come in La morte ti fa bella. Perché la vecchiaia è una storpiatura delle proporzioni. La forza di gravità ci schiaccia sempre più al suolo, lasciando visibile la curvatura della nostra figura, la pelle perde tono e il tempo si diverte a scavare solchi sul viso e fa raggrinzire mani e collo.

L’immortalità senza la bellezza è un’immortalità inutile. Non si allunga la vita, si allunga solo la vecchiaia. E in un mondo che viveva già di apparenza nel 1992 (figuriamoci adesso) non poteva tollerare la bruttezza.

E così, mascherata dietro a una rivalità per un uomo, (Bruce Willis che è fantastico in questo ruolo da sfigato) si affrontano Maryl Streep e Goldie Hown a colpi di tutto ciò che capita. Dalle fucilate alle coltellate agli intrighi per annientarsi reciprocamente, fin quando non comprendono che fare fronte comune è meglio. Soprattutto se il tuo corpo morto richiede un tagliando ogni tanto e soprattutto se hai a disposizione un marito /amante che di mestiere fa il chirurgo plastico.

E mentre le due morte viventi cercheranno ogni mezzo per accaparrarsi il loro meccanico di fiducia, proprio lo sfigato Bruce Willis, inguardabile dietro gli occhiali e una improbabile pancetta, (per l’epoca era al massimo della forma) e l’atteggiamento da Fantozzi della situazione riesce a scavalcare l’ostacolo di non essere altro che un uomo manipolato dalla bellezza esteriore e per quella aver stranamente vissuto invano. Solo la bellezza del cuore riuscirà a fargli dire che la vita comincia a cinquant’anni. Ammirabile e voluta non a caso anche la partecipazione di Isabella Rossellini. Proprio ei che aveva resistito fin oltre i quarant’anni come testimonial di prodotti di bellezza, ma presa a calci nel fondoschiena perché ritenuta vecchia, appunto. Stupida vanità del mondo consumista: reclamizzare un prodotto di bellezza utilizzando uno bello e giovane. Anche l’acqua fresca, se sei bello e giovane, ti mantiene tale. Se volete convincermi che un prodotto sia vincente, prendete una ragana, trasformatela in una fata, forse penserò che il prodotto vale.

Forse.

Da cinquemila anni a questa parte non è cambiato proprio niente.

Mi viene in mente, a questo proposito, la scena del combattimento finale dell’Ultimo samurai, dove un morente Ken Watanabe osserva i fiori e si rende conto che non esiste un fiore perfetto perché in realtà lo sono tutti.

Ecco il segreto della bellezza. È la bellezza interiore che fa fiorire quella esteriore. Diventi bello nel momento in cui qualcun altro ti vede bello.

Ed è quello che accadere in Sette anime, dove Will Smith, per riparare un danno irreparabile, sceglierà di dedicare la sua vita alla ricerca di qualcuno che sia meritevole del dono della vita e possa godere appieno della bellezza.

Tuttavia, sia nel primo che nel secondo film, la ricerca della bellezza porta inevitabilmente alla morte anche se per motivazioni diverse. Nel primo caso perché è l’unico modo per interrompere il ciclo naturale degli eventi e paradossalmente aprire una via all’immortalità. Si muore per rimanere giovani e belli anche se, proprio come accade per i manichini occorre avere cura del proprio corpo. Nel secondo si muore per donare la bellezza a chi ne è stato privato.

In entrambi i casi, pur partendo da presupposti diversi, contesti diversi, generi diversi, finalità diverse, entrambi i film convergono nell’unica direzione a cui la bellezza porta, se non le si mostra il rispetto dovuto. L’ossessione.

Che sia per donarla che per riceverla la bellezza esula dall’ossessione. La bellezza esiste solo per la contemplazione e anche nel decadimento e nell’errore occorre imparare a guardare in altre direzioni.

La rubrica cinema e parole presenta. “Due film a confronto: Hero V/S The last duel.” A cura di: Aurora Stella

Anche se provengono da tempi diversi e da culture diverse, sono accomunati dal medesimo filo: raccontano versioni diverse di uno stesso episodio.

Nel primo (Hero)la morte di tre nemici giurati dell’imperatore della Cina, nel secondo (The last duel) una violenza subita da una donna e la sua ostinazione nel voler portare in tribunale la vicenda. Ora mi potreste obiettare che per costruzione sono film troppo diversi. Benché entrambi ambientati in epoche lontane Hero non è propriamente storico, ma ha degli elementi fantasy, mentre l’altro attinge addirittura alla piccola storia.

La mia risposta è “non mi interessa”.

Qui la contrapposizione è sul modo di narrare. Lo scontro tra Occidente e Oriente si gioca qui. Vi faccio l’esempio con la biologia e l’evoluzione. Esiste un’evoluzione convergente e una divergente. La prima sviluppa caratteristiche simili in due specie co antenati diversi, la seconda invece fa sì che da un antenato comune si sviluppino specie diverse. In questo confronto siamo in un esempio di divergenza. Partendo da episodi reinterpretati (antenato comune) ci si evolverà in due narrazioni diverse.

The last duel in breve.

Ci sono tre versioni di uno stesso avvenimento: le prime due discostano di poco, essendo narrate entrambe da uomini che pretendono di portare l’acqua al proprio mulino. Uno è il marito (Matt Damon) della donna abusata, l’altro è il nobile (Adam Driver) che la stupra. La terza versione, quella della donna (Jodie Comer), si sposta su un piano narrativo leggermente differente. Difatti, mentre gli uomini si concentrano nel “cacca, pipì, puzza” (nota versione della morra cinese adattata dai bambini dell’asilo), la donna cerca di puntare l’obiettivo sulla verità oggettiva. Attraverso i suoi occhi verranno apportate le correzioni degli errori presenti in entrambi i racconti. Ma, nonostante tre punti di vista il film, si snocciolerà comunque sui dettagli. Un’abitudine che, per noi occidentali dopo Conan Doyle, non è mai tramontata. L’amore per il particolare, per i fili da annodare (come li chiamava il tenente Colombo) ci prende la mano ogni volta.

In millemila film di questo genere ho notato questa cura maniacale dei dettagli. Siamo ossessionati dai dettagli. Forse perché, come recita un antico detto, il diavolo lavora sui dettagli e noi siamo creature diaboliche. Basti pensare che quando entriamo in una casa controlliamo le rifiniture. Vale lo stesso per una tavola apparecchiata. Questo ci descrive. Non che il dettaglio non sia utile, ma il rischio è quello di perderci ad osservare il dito perdendo di vista la Luna.

Cose che, a una prima visione, addirittura sfuggono e a cui si presta attenzione solo una volta che si rivede il film. Un esempio di quel che dico, in the last duel, è nella posizione delle scarpe di lei o nella sua scollatura. Per il cattivo lei lascia le scarpe sulla scala per invitarlo a seguirla (dunque è consenziente), nel racconto di lei, le perde per sfuggirgli.

Per il marito attraverso la scollatura sull’abito della moglie è possibile farle un’endoscopia tanto è generosa, per la donna è semplicemente audace.

Anche in film comici come gli Hot shot, per dire, c’è una cura maniacale dei dettagli. A un certo punto, da una finestra, mentre un generale fa un discorso assurdo che catalizza però l’attenzione dello spettatore si scorgono, di sfuggita, soldati in circolo ballare una specie di can-can. Ma, se non fosse per il fatto che la telecamera si sofferma per un paio di secondi, la scena passerebbe inosservata.

Ecco il valore dei dettagli, appunto. Che possono attirare l’attenzione o far addormentare e generalmente sono apprezzati solo dopo una seconda visione, se decidiamo di dare al film una seconda opportunità.

In Hero, il primo particolare, evidente come una casa, è l’utilizzo del colore. A parte un primo racconto introduttivo e la parte iniziale che è normale, quando si inizia a parlare di altri protagonisti le scene in cui sono coinvolti avranno diversi colori.

Rosso, verde, blu e bianco. Anche uno stolto neofita li noterebbe. E che combina questo simpatico regista? Conoscendo il modo di pensare occidentale si diverte a confonderci con il significato dei colori, conscio di quanto il mondo occidentale sia ignorante e becero. Il primo colore, il rosso, in oriente indica la fortuna, in occidente la passione. E lui che fa? Lo utilizza con il significato occidentale, cosicché inganna tutti. Gli occidentali perché assistono a scene passionali di gelosia, ipocrisia ecc., ma se lo aspettano (dato che ha utilizzato il colore della lussuria) e sono convinti di aver assistito a una scena reale… Gli orientali, invece, assistono a una scena di una sfortuna cosmica.

Poi che fa il regista? Grazie a questo modo di narrare non consono, fa tradire l’intento ingannatore dell’eroe (Senza Nome). L’imperatore, infatti, capisce che il colore con cui ha descritto i suoi nemici (Neve che Vola e Spada Spezzata) è meschino e non appropriato.

I suoi più grandi nemici, che da soli hanno affrontato un’armata di duemila guerrieri solo per penetrare nel suo palazzo e ucciderlo, sarebbero stati sconfitti per una insulsa storia di passione e futili gelosie? Ma per favore. Quando parla di loro ce li presenta vestiti di verde (colore usato per descrivere la scena reale dell’attacco al palazzo) e poi di blu (per raccontare come le cose si sarebbero svolte secondo il suo modo di vedere), quindi il racconto di Senza Nome deve essere per forza fasullo nonostante lui abbia presentato le prove della morte degli avversari.

E mentre lo spettatore si lascia distrarre da questo vortice colorato, il complotto è andato avanti grazie alla curiosità che non uccide solo il gatto. L’eroe (uno straordinario Jet Lee) è riuscito ad arrivare a dieci passi dall’imperatore. Lo stratagemma ha funzionato. Tant’è che l’ultima parte è narrata adoperando il colore bianco (il colore della morte, in vigore anche in occidente, prima che Caterina de Medici non s’inventasse di utilizzare il nero).

Colori rivelatori, dunque, non solo di uno stato d’animo, ma complici di una narrativa che può partire dal medesimo episodio e trasformarlo in qualcosa di più. Una terapia, un’epifania, la traduzione di un codice per entrare in una dimensione alternativa dove il confine tra l’immaginario e il reale, il vero e il presunto è tracciato non solo da dettagli, ma anche dai colori. Se per la narrativa occidentale mi sono avvalsa di Conan Doyle, per Hero smuoverò un mostro sacro: Lovecraft e il suo “colore venuto dallo spazio”, dove il genio riesce, attraverso l’uso malevolo di un colore alieno riesce a trasportarci in quella dimensione onirica che i Cinesi, con la loro cultura millenaria, si confermano essere i veri custodi di queste porte dimensionali…

La rubrica cinema e parole presenta: L’Indomito (The Untamed). A cura di: Aurora Stella

Dopo i Drama Coreani, non potevo esimermi dal rimanere ammaliata anche da questo drama Cinese in costume.

Ne avevo sentito parlare ovunque e chi sono io per non guardarlo? Così mi sono tuffata in tour de force consistente nella visione di cinquanta episodi in tre giorni.

Perché, come accade per un buon libro, dovevo sapere come andava a finire.

Ora, tutti si concentrano sulla censura cinese che non ha rispettato il carattere Boys love della Novel Originale. Io vi dico chissenefrega, guardatelo lo stesso perché il carattere romance (che sia Bromance o BL) è ininfluente rispetto alla portanza (intesa proprio come capacità massima di carico) di quest’opera.

Lo ammetto, sono di parte. Essendo cresciuta a pane e Bruce Lee, ad Akira Kurosawa in tutte le salse, (passando per anime e “telefilm” come Samurai) preferisco il modo di narrare orientale rispetto a quello occidentale: amo le storie corali dove spicca un protagonista ma, al contempo, non viene trascurato chi ha un ruolo secondario o addirittura marginale.

Questo drama è un’opera Wuxia, (fantasy) con protagonista un eroe marziale che fa suo un codice d’onore (proprio come i cavalieri occidentali), è dotato di forza sovrumana e utilizza il suo potere per liberare gli oppressi, raddrizzare torti ecc. Il sottogenere a cui appartiene l’indomito (the Untamed) è lo Xianxia eroe immortale, che aggiunge alle caratteristiche di prima la possibilità di vivere molto a lungo, grazie alla coltivazione spirituale (meditazione). L’utilizzo, quindi, della magia è la normalità. Non siamo però né in Harry Potter, nonostante ci sia una scuola, né nel Signore degli anelli (anche se gli Hanfu cinesi, le acconciature, le armi e tutto il resto, hanno ispirato moltissimo il mondo degli Elfi). Nel caso dell’Oriente, generalmente la magia è utilizzata per scopi medici (ripristino di energie, equilibrio, utilizzo di erbe e altre tecniche), per combattere e anche volare. I cultori possiedono una Sorgente Interna (in questo caso denominata Nucleo D’oro) che dona capacità fuori dal comune come quelle sopraelencate e la possibilità di gestire delle armi spirituali. Una di queste è la musica. Da sempre legata alla matematica e non solo all’arte, (oggi viene utilizzata nel mondo occidentale anche come terapia), all’interno del Drama è gestita dal Clan Lan che vive in un luogo chiamato Meandri delle Nuvole ed è (come tutti gli altri clan) cultore di pratiche magiche. Gi adepti coltivano sia la musica, espressa attraverso il guqin (cetra cinese), che l’arte della spada. Il Clan Lan è inoltre dedito allo studio e alla disciplina. Basta dire che ha tremila regole (alla fine del Drama saranno quattromila) che gli allievi conoscono e rispettano. Gli altri quattro Clan principali (ne esistono anche di minori) hanno diverse peculiarità e vivono in apparente armonia.

Almeno fin quando un manufatto potente e incontrollabile non fa la sua comparsa e si sospetta che sia in mano al Clan Wen che vive all’interno della fortezza nota come Città senza Notte, il cui emblema è un sole risplendente. (L’alleanza che li contrasterà si denominerà campagna dell’eclissi).

Il manufatto è un metallo “Yn” che rende colui che lo possiede capace di qualsiasi cosa. Creato con uno scopo diverso e sigillato (dopo essere stato diviso) proprio da una fondatrice del Clan Lan è divenuto ossessione per il capo Clan Wen che non esita a compiere stragi e ogni sorta di barbarie nei confronti dei suoi ex alleati, per impossessarsi dei vari frammenti, nonostante di proposito questo manufatto abbia subito una damnatio memoriae e nessuno dovrebbe ricordare la sua esistenza.

Ebbene, la novità dove sarebbe?

Innanzi tutto, nel fatto che non appena il clan Wen viene sconfitto qualcuno ne approfitta per portare l’acqua al suo mulino. Quindi i cosiddetti buoni non sono così buoni visto che, non appena cambia il vento, non esitano a scannarsi tra loro.

La seconda novità è l’abilità dell’autrice di dipingere i voltagabbana per ciò che sono, utilizzando il potere del pettegolezzo, della diceria e del “ti piace vincere facile”. Praticamente i personaggi che animano questo Drama sono divisi in quattro categorie: le pecore (che cambiano opinione più frequentemente dei calzini), i cani da pastore (i vari eroi, ognuno con le proprie capacità), il Pastore (che guadagna sia sui cani che sulle pecore) i lupi che, secondo l’opinione delle pecore, non sono diversi dai cani, ma quando diventano il Pastore, non hanno nulla da obiettare e gli obbediscono ciecamente.

Più che in fantasy, sembra di essere dietro una qualsiasi seduta di un qualunque luogo di incontro politico. Si cercano fatti e prove solo per supportare teorie fondate sulla maldicenza e il Nemico di oggi potrebbe diventare il Salvatore di domani e viceversa. Un panorama desolante e mutevole che però è quanto di più realistico utilizzi l’autrice per dipingere la razza umana.

La terza novità. L’autrice non usa nessuna sfumatura di grigio per dipingere gli esseri umani, ma solo il bianco e il nero. Dove, sempre per citare il mio amato simbolo del Tao, ogni metà contiene e un seme dell’altra metà, ma non si confonde mai.

Si può decidere di diventare neri pur essendo nati bianchi e viceversa. Le sfumature di grigio, semmai, vengono utilizzate per descrivere i comportamenti delle masse.

Da qualche anno c’è la propensione a disegnare protagonisti e antagonisti indistinguibili l’uno dall’altro. Sono talmente tanto grigi che le summenzionate sfumature diventano cinquemila e, di fronte alla piattezza con cui vengono descritti, (più piatti di una sogliola passata sotto il ferro da stiro), sbiadiscono. Non c’è un eroe che cade e si rialza o rimette in discussione le sue credenze senza perdere di vista il proprio obiettivo, ma un pallido essere ignavo che si adegua al contenitore in cui viene messo, tra le grida di giubilo. Praticamente nel mondo occidentale gli eri non sono più esseri straordinari, ma gente comune la cui impresa più ardua è vivere.

Qui ci sono eroi e antieroi che non perdona mai di vista il loro obiettivo. Si camuffano, si indignano, si perdono, si ritrovano.

Cadono, hanno dei ripensamenti, sono lacerati dai dubbi, ma non smettono di fissare la loro meta, quale che sia.

Ci sono due Capi Clan che creano dei mostri. Uno, quello più evidente (Wen) che si limita a bramare il potere, viene sconfitto presto ma, con il suo comportamento, dà il via a una sorta di ricorso storico. L’altro, meno manifesto perché in fin dei conti più capace di tenere sotto controllo la sua sconfinata brama di potere, si accontenta di creare mostri all’interno della propria famiglia (Jin).

Il primo, all’inizio, può sembrare il classico cattivo dei bambini, ma di lui sappiamo poco, perché il suo essere viene corrotto dal manufatto stesso. Eppure, da un malvagio come quello (che non esita ad annientare le persone neanche fossero mosche) escono fuori due personaggi (Wen Qing e Wen Ning) di una delicatezza e gentilezza incredibile che resteranno impressi nel cuore di tutti. Un fratello trasformato in arma vivente e una sorella medico capaci di intraprendere una via di sacrificio e abnegazione che farà sfigurare gran parte dei buoni. Come dire, utilizzando una frase di De André, dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.

L’altro, il cultore del Clan Jin, appare anche lui in poche sequenze (proprio come il suo antagonista del clan Wen) ma per il suo livello di corruzione, seppure non scateni guerre, non c’è giustificazione. Nessuno lo critica per aver un numero di prostitute da cui riceve millemila figli illegittimi ai quali fa condurre una vita ignobile. Nessuno osa biasimarlo perché appartiene alla schiera dei buoni.

Ora senza questi due tipi che passerebbero (volendo) anche inosservati, il Drama non avrebbe ragione di esistere. Perché gli altri buoni quelli del clan Lan (da cui proviene Lan Zhan il nemico-amico di Wei Wuxian) e del Clan Nie (una stirpe di guerrieri giusti) e del clan Jiang il cui motto è “realizzare l ’impossibile”, sono tranquilli e vivono la loro esistenza in equilibrio.

È dal Clan Jiang che proviene l’eroe immortale Wei Wuxian, figlio adottivo del Capo Clan che vive al Pontile del Loto insieme a suo fratello Jiang Cheng e alla sorella Jiang Yanlii, Uno spirito libero che incarna pienamente il motto del Clan.

I tre fratelli, provati da una serie di vicissitudini dovute al Clan Wen si scambiano una promessa. Quella di restare insieme per sempre.

Ora se siate o meno avvezzi ai drama, anime o novel, dovreste sapere che non appena viene pronunciata una frase di questo genere, passerà un invidioso angelo occidentale a dirà amen, cosicché coloro che hanno osato pronunciare questa frase non vivranno più insieme. E queste traversie che colpiranno non solo gli eroi ma i legami familiari, spezzandoli per poi ricongiungerli (a volte) saranno più laceranti delle battaglie stesse.

Il drama si compone di quattro atti (se vogliamo chiamarli così)

Inizia con la fine (bell’ossimoro, eh?) di una battaglia avvenuta sedici anni prima in cui tutti se le danno di santa ragione per afferrare un manufatto magico, si ammazzano come non ci fosse un domani, un ragazzo vestito di nero ( che si scoprirà essere Wei Wuxian) suona un flauto e sembra dirigere l’orchestra, ma curiosamente piange e sta per buttarsi da un dirupo quando viene salvato da un altro (Lan Zhan) che dovrebbe essere il nemico (visto che è vestito come i tanti che si scannano), ma non sopravvive perché arriva un altro (Jian Cheng) che lo manda all’inferno con un colpo di spada.

E non vi ho fatto alcuno spoiler perché questi sono i primi cinque minuti di una puntata di quarantacinque minuti, all’interno di cinquanta puntate.

Secondo atto. Sedici anni dopo. Ci troviamo in una casa, c’è un tipo nascosto dietro una tenda, qualche menagramo che becera, uno che chiede a un’anima di fare ritorno. Un pazzo, una famiglia di pazzi, degli zombie cinesi, una dea che ruba la ragione, un ragazzino viziato e un generale fantasma. Insomma, un panico in cui più o meno, dato che alcune facce sono quelle di sedici anni prima intraviste nella battaglia, pensate di raccapezzare qualcosa e dire: ah beh, la solita cavolata. E se lo dite farete l’errore peggiore della vostra vita.

Perché arriva la terza fase. Un lunghissimo flashback che va da metà della seconda puntata fin oltre la trentesima (forse trentacinque, non ricordo) dove vi viene più o meno spiegato tutto il pandemonio che ha portato alla battaglia iniziale.

Il presente che è il quarto atto, dove gli eventi caotici delle prime due puntate iniziano a prendere piede, i personaggi (grazie al flashback) ad essere collocati nel giusto posto e finalmente il mistero si dipana e si arriva alla conclusione.

Nota particolare. Abbiamo anche un espediente letterario noto come la pistola di Céchov, solo che non sarà una pistola ma un ventaglio.

Per alcuni poco attenti il personaggio che si trova dietro a questo ventaglio (che io chiamerò Ventaglietto per comodità e per farvelo individuare subito) potrebbe risultare come una sorta di deus ex machina, ma non è così. Nel suo apparire timido, pauroso al punto da meritare il soprannome (anche dalla sua gente) di “io non ne so niente” sarà invece proprio la pistola di Céchov e sarete obbligati a rivedere le prime due puntate e solo per poter esclamare “Ma non è possibile, non lo avrei mai detto”.

Ventaglietto pur essendo, per natura, uguale a un altro personaggio (che chiamerò Scuffia per il suo cappello) di cui si intravede una sorta di ambiguità, utilizzerà le sue capacità per contrapporsi. Anche Scuffia, come Ventaglietto, nega sempre ogni suo coinvolgimento, anche quando viene beccato in flagrante. Dopo i Cultori capo dei Clan (il pazzo sanguinario Wen e il pervertito Jin) che hanno dato il via a tutta una serie di problemi, saranno questi due personaggi personaggi secondari, dotati di abilità poco appariscenti e più da cortigiani a muovere i fili di una nazione intera e il destino dei protagonisti.

Anche qui tra Ventaglietto e Scuffia si potrebbe aprire una gara a chi sia più paraculo e letale, due mostri costruiti nel tempo, che stanno dietro le quinte, appaiono qui e là durante il corso del Drama, di cui sin da subito si intuisce l’importanza, ma che costituiscono comunque una sorpresa. Un altro tassello all’interno dello schema Bene-Male che ci rivela una novità: un coltello resta uno strumento da lavoro fintanto che qualcuno non decide di piantarlo nel petto di qualcun altro ed è un’ulteriore prova che, a volte, si può combattere il fuoco con il fuoco.

De L’indomito potrei parlare per ore. Dei suoi protagonisti, della musica, dei legami, dei sentimenti, ma ho preferito concentrarmi sugli aspetti di solito ritenuti marginali, ma che costituiscono l’ossatura del Drama.

Detto questo non

Dopo i Drama Coreani, non potevo esimermi dal rimanere ammaliata anche da questo drama Cinese in costume.

Ne avevo sentito parlare ovunque e chi sono io per non guardarlo? Così mi sono tuffata in tour de force consistente nella visione di cinquanta episodi in tre giorni.

Perché, come accade per un buon libro, dovevo sapere come andava a finire.

Ora, tutti si concentrano sulla censura cinese che non ha rispettato il carattere Boys love della Novel Originale. Io vi dico chissenefrega, guardatelo lo stesso perché il carattere romance (che sia Bromance o BL) è ininfluente rispetto alla portanza (intesa proprio come capacità massima di carico) di quest’opera.

Lo ammetto, sono di parte. Essendo cresciuta a pane e Bruce Lee, ad Akira Kurosawa in tutte le salse, (passando per anime e “telefilm” come Samurai) preferisco il modo di narrare orientale rispetto a quello occidentale: amo le storie corali dove spicca un protagonista ma, al contempo, non viene trascurato chi ha un ruolo secondario o addirittura marginale.

Questo drama è un’opera Wuxia, (fantasy) con protagonista un eroe marziale che fa suo un codice d’onore (proprio come i cavalieri occidentali), è dotato di forza sovrumana e utilizza il suo potere per liberare gli oppressi, raddrizzare torti ecc. Il sottogenere a cui appartiene l’indomito (the Untamed) è lo Xianxia eroe immortale, che aggiunge alle caratteristiche di prima la possibilità di vivere molto a lungo, grazie alla coltivazione spirituale (meditazione). L’utilizzo, quindi, della magia è la normalità. Non siamo però né in Harry Potter, nonostante ci sia una scuola, né nel Signore degli anelli (anche se gli Hanfu cinesi, le acconciature, le armi e tutto il resto, hanno ispirato moltissimo il mondo degli Elfi). Nel caso dell’Oriente, generalmente la magia è utilizzata per scopi medici (ripristino di energie, equilibrio, utilizzo di erbe e altre tecniche), per combattere e anche volare. I cultori possiedono una Sorgente Interna (in questo caso denominata Nucleo D’oro) che dona capacità fuori dal comune come quelle sopraelencate e la possibilità di gestire delle armi spirituali. Una di queste è la musica. Da sempre legata alla matematica e non solo all’arte, (oggi viene utilizzata nel mondo occidentale anche come terapia), all’interno del Drama è gestita dal Clan Lan che vive in un luogo chiamato Meandri delle Nuvole ed è (come tutti gli altri clan) cultore di pratiche magiche. Gi adepti coltivano sia la musica, espressa attraverso il guqin (cetra cinese), che l’arte della spada. Il Clan Lan è inoltre dedito allo studio e alla disciplina. Basta dire che ha tremila regole (alla fine del Drama saranno quattromila) che gli allievi conoscono e rispettano. Gli altri quattro Clan principali (ne esistono anche di minori) hanno diverse peculiarità e vivono in apparente armonia.

Almeno fin quando un manufatto potente e incontrollabile non fa la sua comparsa e si sospetta che sia in mano al Clan Wen che vive all’interno della fortezza nota come Città senza Notte, il cui emblema è un sole risplendente. (L’alleanza che li contrasterà si denominerà campagna dell’eclissi).

Il manufatto è un metallo “Yn” che rende colui che lo possiede capace di qualsiasi cosa. Creato con uno scopo diverso e sigillato (dopo essere stato diviso) proprio da una fondatrice del Clan Lan è divenuto ossessione per il capo Clan Wen che non esita a compiere stragi e ogni sorta di barbarie nei confronti dei suoi ex alleati, per impossessarsi dei vari frammenti, nonostante di proposito questo manufatto abbia subito una damnatio memoriae e nessuno dovrebbe ricordare la sua esistenza.

Ebbene, la novità dove sarebbe?

Innanzi tutto, nel fatto che non appena il clan Wen viene sconfitto qualcuno ne approfitta per portare l’acqua al suo mulino. Quindi i cosiddetti buoni non sono così buoni visto che, non appena cambia il vento, non esitano a scannarsi tra loro.

La seconda novità è l’abilità dell’autrice di dipingere i voltagabbana per ciò che sono, utilizzando il potere del pettegolezzo, della diceria e del “ti piace vincere facile”. Praticamente i personaggi che animano questo Drama sono divisi in quattro categorie: le pecore (che cambiano opinione più frequentemente dei calzini), i cani da pastore (i vari eroi, ognuno con le proprie capacità), il Pastore (che guadagna sia sui cani che sulle pecore) i lupi che, secondo l’opinione delle pecore, non sono diversi dai cani, ma quando diventano il Pastore, non hanno nulla da obiettare e gli obbediscono ciecamente.

Più che in fantasy, sembra di essere dietro una qualsiasi seduta di un qualunque luogo di incontro politico. Si cercano fatti e prove solo per supportare teorie fondate sulla maldicenza e il Nemico di oggi potrebbe diventare il Salvatore di domani e viceversa. Un panorama desolante e mutevole che però è quanto di più realistico utilizzi l’autrice per dipingere la razza umana.

La terza novità. L’autrice non usa nessuna sfumatura di grigio per dipingere gli esseri umani, ma solo il bianco e il nero. Dove, sempre per citare il mio amato simbolo del Tao, ogni metà contiene e un seme dell’altra metà, ma non si confonde mai.

Si può decidere di diventare neri pur essendo nati bianchi e viceversa. Le sfumature di grigio, semmai, vengono utilizzate per descrivere i comportamenti delle masse.

Da qualche anno c’è la propensione a disegnare protagonisti e antagonisti indistinguibili l’uno dall’altro. Sono talmente tanto grigi che le summenzionate sfumature diventano cinquemila e, di fronte alla piattezza con cui vengono descritti, (più piatti di una sogliola passata sotto il ferro da stiro), sbiadiscono. Non c’è un eroe che cade e si rialza o rimette in discussione le sue credenze senza perdere di vista il proprio obiettivo, ma un pallido essere ignavo che si adegua al contenitore in cui viene messo, tra le grida di giubilo. Praticamente nel mondo occidentale gli eri non sono più esseri straordinari, ma gente comune la cui impresa più ardua è vivere.

Qui ci sono eroi e antieroi che non perdona mai di vista il loro obiettivo. Si camuffano, si indignano, si perdono, si ritrovano.

Cadono, hanno dei ripensamenti, sono lacerati dai dubbi, ma non smettono di fissare la loro meta, quale che sia.

Ci sono due Capi Clan che creano dei mostri. Uno, quello più evidente (Wen) che si limita a bramare il potere, viene sconfitto presto ma, con il suo comportamento, dà il via a una sorta di ricorso storico. L’altro, meno manifesto perché in fin dei conti più capace di tenere sotto controllo la sua sconfinata brama di potere, si accontenta di creare mostri all’interno della propria famiglia (Jin).

Il primo, all’inizio, può sembrare il classico cattivo dei bambini, ma di lui sappiamo poco, perché il suo essere viene corrotto dal manufatto stesso. Eppure, da un malvagio come quello (che non esita ad annientare le persone neanche fossero mosche) escono fuori due personaggi (Wen Qing e Wen Ning) di una delicatezza e gentilezza incredibile che resteranno impressi nel cuore di tutti. Un fratello trasformato in arma vivente e una sorella medico capaci di intraprendere una via di sacrificio e abnegazione che farà sfigurare gran parte dei buoni. Come dire, utilizzando una frase di De André, dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.

L’altro, il cultore del Clan Jin, appare anche lui in poche sequenze (proprio come il suo antagonista del clan Wen) ma per il suo livello di corruzione, seppure non scateni guerre, non c’è giustificazione. Nessuno lo critica per aver un numero di prostitute da cui riceve millemila figli illegittimi ai quali fa condurre una vita ignobile. Nessuno osa biasimarlo perché appartiene alla schiera dei buoni.

Ora senza questi due tipi che passerebbero (volendo) anche inosservati, il Drama non avrebbe ragione di esistere. Perché gli altri buoni quelli del clan Lan (da cui proviene Lan Zhan il nemico-amico di Wei Wuxian) e del Clan Nie (una stirpe di guerrieri giusti) e del clan Jiang il cui motto è “realizzare l ’impossibile”, sono tranquilli e vivono la loro esistenza in equilibrio.

È dal Clan Jiang che proviene l’eroe immortale Wei Wuxian, figlio adottivo del Capo Clan che vive al Pontile del Loto insieme a suo fratello Jiang Cheng e alla sorella Jiang Yanlii, Uno spirito libero che incarna pienamente il motto del Clan.

I tre fratelli, provati da una serie di vicissitudini dovute al Clan Wen si scambiano una promessa. Quella di restare insieme per sempre.

Ora se siate o meno avvezzi ai drama, anime o novel, dovreste sapere che non appena viene pronunciata una frase di questo genere, passerà un invidioso angelo occidentale a dirà amen, cosicché coloro che hanno osato pronunciare questa frase non vivranno più insieme. E queste traversie che colpiranno non solo gli eroi ma i legami familiari, spezzandoli per poi ricongiungerli (a volte) saranno più laceranti delle battaglie stesse.

Il drama si compone di quattro atti (se vogliamo chiamarli così)

Inizia con la fine (bell’ossimoro, eh?) di una battaglia avvenuta sedici anni prima in cui tutti se le danno di santa ragione per afferrare un manufatto magico, si ammazzano come non ci fosse un domani, un ragazzo vestito di nero ( che si scoprirà essere Wei Wuxian) suona un flauto e sembra dirigere l’orchestra, ma curiosamente piange e sta per buttarsi da un dirupo quando viene salvato da un altro (Lan Zhan) che dovrebbe essere il nemico (visto che è vestito come i tanti che si scannano), ma non sopravvive perché arriva un altro (Jian Cheng) che lo manda all’inferno con un colpo di spada.

E non vi ho fatto alcuno spoiler perché questi sono i primi cinque minuti di una puntata di quarantacinque minuti, all’interno di cinquanta puntate.

Secondo atto. Sedici anni dopo. Ci troviamo in una casa, c’è un tipo nascosto dietro una tenda, qualche menagramo che becera, uno che chiede a un’anima di fare ritorno. Un pazzo, una famiglia di pazzi, degli zombie cinesi, una dea che ruba la ragione, un ragazzino viziato e un generale fantasma. Insomma, un panico in cui più o meno, dato che alcune facce sono quelle di sedici anni prima intraviste nella battaglia, pensate di raccapezzare qualcosa e dire: ah beh, la solita cavolata. E se lo dite farete l’errore peggiore della vostra vita.

Perché arriva la terza fase. Un lunghissimo flashback che va da metà della seconda puntata fin oltre la trentesima (forse trentacinque, non ricordo) dove vi viene più o meno spiegato tutto il pandemonio che ha portato alla battaglia iniziale.

Il presente che è il quarto atto, dove gli eventi caotici delle prime due puntate iniziano a prendere piede, i personaggi (grazie al flashback) ad essere collocati nel giusto posto e finalmente il mistero si dipana e si arriva alla conclusione.

Nota particolare. Abbiamo anche un espediente letterario noto come la pistola di Céchov, solo che non sarà una pistola ma un ventaglio.

Per alcuni poco attenti il personaggio che si trova dietro a questo ventaglio (che io chiamerò Ventaglietto per comodità e per farvelo individuare subito) potrebbe risultare come una sorta di deus ex machina, ma non è così. Nel suo apparire timido, pauroso al punto da meritare il soprannome (anche dalla sua gente) di “io non ne so niente” sarà invece proprio la pistola di Céchov e sarete obbligati a rivedere le prime due puntate e solo per poter esclamare “Ma non è possibile, non lo avrei mai detto”.

Ventaglietto pur essendo, per natura, uguale a un altro personaggio (che chiamerò Scuffia per il suo cappello) di cui si intravede una sorta di ambiguità, utilizzerà le sue capacità per contrapporsi. Anche Scuffia, come Ventaglietto, nega sempre ogni suo coinvolgimento, anche quando viene beccato in flagrante. Dopo i Cultori capo dei Clan (il pazzo sanguinario Wen e il pervertito Jin) che hanno dato il via a tutta una serie di problemi, saranno questi due personaggi personaggi secondari, dotati di abilità poco appariscenti e più da cortigiani a muovere i fili di una nazione intera e il destino dei protagonisti.

Anche qui tra Ventaglietto e Scuffia si potrebbe aprire una gara a chi sia più paraculo e letale, due mostri costruiti nel tempo, che stanno dietro le quinte, appaiono qui e là durante il corso del Drama, di cui sin da subito si intuisce l’importanza, ma che costituiscono comunque una sorpresa. Un altro tassello all’interno dello schema Bene-Male che ci rivela una novità: un coltello resta uno strumento da lavoro fintanto che qualcuno non decide di piantarlo nel petto di qualcun altro ed è un’ulteriore prova che, a volte, si può combattere il fuoco con il fuoco.

De L’indomito potrei parlare per ore. Dei suoi protagonisti, della musica, dei legami, dei sentimenti, ma ho preferito concentrarmi sugli aspetti di solito ritenuti marginali, ma che costituiscono l’ossatura del Drama.

Detto questo non vi resta che lasciarvi catturare dalla storia.

vi resta che lasciarvi catturare dalla storia.

La rubrica Cinema e Parole presenta “Get out” a cura di Aurora Stella

Oggi vorrei pararvi di un film “Get Out”, a cui non avrei dato un soldo e che invece mi ha fatto pentire solo per averlo pensato.

Questo perché, all’inizio, lo avevo erroneamente collocato come una sorta di rifacimento moderno di “Indovina chi viene a cena?”, ma non con l’ironia di “non sposate le mie figlie”.

Non perché il tema non fosse interessante, ma perché mi sembrava un po’ “forzato”.

Non saprei descrivere meglio la sensazione.

Lui nero, lei bianca, entrambi belli, giovani amanti della vita che decidono di andare dai genitori di lei a passare i week end e ovviamente costoro non sanno nulla del colore del fidanzato e lui si chiede se potrà costituire un ostacolo alla loro relazione.

Beh? Vorreste dire che non avreste pensato come me a un remake?

E avreste pensato male, per i primi venti minuti circa.

Fino a quando, per raggiungere la villa isolata dei genitori di lei, in una di quelle strade americane costeggiate da immense piantagioni di granoturco e loro discutono ancora del futuro della loro relazione non investono qualcosa …

O qualcuno…

O qualcuno gli lancia qualcosa sulla macchina. Non si capisce bene, almeno all’inizio, e vi posso garantire che , oltre a sobbalzare dalla sedia, è scattata una molla.

Da avida lettrice di horror, il granturco, il coso investito, la strada deserta nel nulla cosmico mi ha suggerito King.

Stephen King: I figli del grano.

Ecco che il regista ha catturato la mia attenzione.

Ecco che mi preparo per l’arrivo di un mostro di un qualche accidente uscito dal necronomicon

Non c’è un ragazzo lacero a mugugnare per il dolore, ma nientepopodimeno che un cervo.

Un cervo bello grosso.

Mah.

Poi a complicare le cose arriva il solito poliziotto americano (e io penso ecco il cattivo adesso li ammazza) lei che si fa in quattro per difendere il suo ragazzo dal razzismo spiccio del tipo e io continuo a pensare “Ecco, adesso li fa a pezzi tutti e due. Sarà una piccola variante del tema , mica può copiare King in maniera spudorata”

E sbaglio di nuovo, perché questo regista non punta nemmeno a quello, ma a qualcosa di più sottile.

Ed è la seconda volta, all’interno dello stesso film, che mi fregano.

La mia attenzione ora è alle stelle.

Con il senno di poi se, come d’abitudine, dovessi fare un paragone letterario, accosterei questo film piuttosto che a King o a Poe, direttamente Cortàzar.

Infatti l’elemento orrorifico o fantastico non scaturisce dal sovrannaturale, non è una crepa in cui sbirciare le fragilità di una società, ma realmente una maschera , un sipario che piano piano si solleva per rivelarsi.

Ma è anche una spugna che assorbe per poi rilasciare tutto insieme al minimo tocco.

Questo, in poche parole, è Get Out.

La nuova frontiera del sovrannaturale sta nella fantascienza che pratichiamo tutti i giorni.

In un mondo sempre più tecnologico, sempre più robotico, avveniristico, futuribile, dove i viaggi interstellari non sono più un problema dei film, dove stiamo svelando uno a uno i segreti della natura senza domandarci se possiamo farlo, alla fine della fiera, le domande che l’uomo si pone restano sempre le stesse: da dove provengo? Dove vado?

Che ne sarà di me dopo la morte?

Così, al posto dei vampiri abbiamo virus letali, non più licantropi ma nasconde ficcate nel cervello.

Non più orchi, angeli demoni e fantasmi, ma qualcosa di innaturale che potrebbe nascondere un’anima e per questo essere più pericolosa.

E nel mare delle possibilità, offerte da una scienza che mai è stata così vicina alla fantascienza e qualche volta la supera, il regista fa un passo indietro.

Si serve della tecnologia, ma non la demonizza.

E mi frega per la terza volta.

Non ci tramuta in un’entità Borg o in un ultracorpo, ma fa peggio.

Ridona all’uomo la sua essenza naturale: quella di figlio del male che si attacca talmente tanto ai beni terreni e alla propria esistenza da non esitare a seppellire vivi e rendere zombie le vittime designate pur di raggiungere il proprio scopo.

Direi che ce n’è abbastanza per guardarlo.

La rubrica Cinema E parole presenta Matrix Resurrection. A cura di Giulia Previtali

Arriva al cinema quasi 20 anni dopo Matrix Revolutions, il terzo capitolo che sembrava aver concluso per sempre una delle saghe fantascientifiche più celebri e influenti di questo secolo.

Era iniziata nel 1999 con Matrix, il primo film scritto e diretto dagli allora fratelli Wachowski.

Matrix Resurrection

Thomas Anderson, aka Neo è sconvolto da sogni, visioni senza senso. Neo Si trova nuovamente nel mondo reale. Cerca di fare terapia con Neil Patrick Harris e ha paura di essere diventato pazzo. Nonostante sembri non ricordare molto di quanto gli è accaduto in precedenza, tanto da incontrare Trinity (Carrie-Anne Moss) e non riconoscerla, il signor Anderson sembra accorgersi di come le persone siano vittime della tecnologia e ancorate ai loro telefoni come un prolungamento di se stessi.

Com’è possibile che abbia dimenticato tutto? Semplice, l’analista gli prescrive continuamente le pillole blu. Ve le ricordate?

Matrix Resurrection gioca sempre sui paradigmi del genere e della saga, come ha sempre fatto: kitsch, cool, brutto, bello, trash, filosofico… Matrix ha una sua filosofia che gioca sul concetto di reale – parola stessa che viene pronunciata moltissime volte all’interno della pellicola. Ruota attorno al confronto fra realtà vera e realtà fittizia, verità e menzogna: la visione del film di questa dicotomia è influenzata da Platone e dal suo mito della caverna. Possiamo infatti osservare Neo come il prigioniero che decide di lasciare la caverna generatrice di illusioni e finzione.

Infine, Neo ritorna nella realtà per Trinity, accetta di morire per lei, a costo di rimanere intrappolato in quel mondo in cui “l’analista” vuole tenerli lontani per sempre, in quanto la loro vicinanza è troppo potente per essere accettata.

Fantascienza, filosofia e romance si intrecciano, dando vita a un nuovo capitolo della sorella Wachowski.

La rubrica cinema e parole presenta “Startup K-Drama. ” A cura di Aurora Stella

Se qualche mese fa qualcuno mi avesse detto che sarei finita vittima dei Drama Coreani, lo avrei preso a calci nel fondoschiena.

Io?

Quella che scrive di serial killer che si fanno bottoni delle giacche utilizzando i capezzoli delle vittime?

Ma per favore.

Io che sbeffeggio la letteratura romantica chiamandola reumatica, che sono rimasta ferma (a livello cinematografico) a Dirty Dancing o Pretty Woman?

Ma andiamo.

Poi però ho visto Parassite, Squid Game e mi sono lasciata convincere a vedere anche un Drama, pensando che, al massimo, lo avrei ripudiato dopo la prima puntata.

E invece…

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse …e i coreani che lo hanno reinterpretato in un drama che avrebbe dovuto essere un parente delle telenovelas che mia madre guardava quando ero una ragazzina. Un qualcosa di tranquillo come Anche i ricchi piangono o Andrea Celeste, per capirci. Un qualcosa che io di solito riassumo con un cinico “ Io non c’ho che te, tu non c’hai che me, non c’avemo un granché…”

Chi si aspettava una reinterpretazione di Cyrano de Bergerac?

Non ricordate questa splendida opera? E se vi dicessi

Ma poi cos’è un bacio? (…)

Un apostrofo rosa messo tra le parole t’amo.”

Lo ricordereste? Chi è che non ha mai scritto questa frase sul diario di un’amica?

Tra il Principe Azzurro e Cyrano non ho dubbi: sceglierei quest’ultimo. Vuoi perché come carattere è un bell’attaccabrighe, vuoi perché sopperisce con tremila altri talenti il difetto di non essere bello, vuoi perché, alla fin fine è un bravo ragazzo.

E io, spietata psicopatica che distrugge interi pianeti creando mostri, incubi e alieni, amante degli shonen manga, delle botte, pugni ed esplosioni, mi sono fatta incantare dal Cyrano Coreano di turno che, non a caso, è soprannominato bravo ragazzo dall’unico personaggio (una nonna adottiva) che riesce a cogliere quel lato sensibile, dietro una scorza di durezza costruita per impedire al mondo di uccidere una personalità gentile. Uso la parola gentile la cui etimologia affonda le origini nella parola latina gens, cioè nobile.

Perché Cyrano, che qui si chiama Han Ji-pyeong, pur essendo un orfano si rivelerà davvero nobile, nonostante il rischio di scivolare fosse dietro l’angolo.

Chi si aspettava di trovare un guerriero dall’animo nobile in un ambiente apparentemente tranquillo come quello della finanza delle startup? (che in realtà, di tranquillo, non hanno proprio un bel niente).

Ultimo ma non ultimo, i coreani hanno giocato anche sporco mettendo un Cyrano non solo bravo, ma anche bello, costringendomi tutto il tempo a fare il tifo per lui al punto che sarei volentieri entrata nel televisore a prenderlo a cazzotti urlandogli in faccia “Stupido, quand’è che ti riveli?”

Per fortuna siamo in un drama e non in un dramma e non ci saranno morti, catastrofi e piaghe di vario genere e se deciderete di guardarlo il novanta per cento di voi preferirà il Cristiano di turno (rivale e amico di Cyrano)

Non vi svelerò chi tra questi due rivali l’avrà vinta, ma vi dico che la protagonista, in ogni caso, cadrà in piedi anche perché, c’è da dirlo? Nella modernizzazione del personaggio, Cristiano lo hanno reinventato come Nerd sfigato, la cui metamorfosi lo porterà da bruco a farfalla. Quindi sarà altrettanto bello, buono , intelligente (uffa!)

Per il resto

Un’accademia, dei cadetti, il mentore impacciato di un imbranato e inconsapevole protagonista, amicizia, odio, gioco di squadra… Le ombre e luci del panorama delle startup, una società che non ha pietà per chi non sa o non può combattere. L’ennesimo spaccato di un posto civile, di una nazione che si è liberato dall’oppressione del Giappone con la fine della Seconda guerra mondiale, ma che continua (nella lingua e nei costumi) a esserne influenzato, una successiva guerra a pochi anni di distanza (1950-1953), l’inizio di un boom economico, l’incontro scontro tra tradizione e innovazione…

e al fin della licenza io tocco.

E meno male che doveva essere solo una telenovelas orientale.

Per compensare l’attacco di diabete che mi sono fatta venire, (ogni puntata dura un’ora e mezza e sono sedici e io l’ho finita in tre nottate), le ore di sonno che ho perso perché dovevo assolutamente sapere cosa accadeva nella puntata successiva, sto recuperando con uno psico-drama pieno di serial killer. Almeno è un ambiente che conosco.

La rubrica Serie TV e Anime presenta “Dororo e Hyakkimaru”. A cura di Aurora Stella

Non è difficile, nel mondo dell’arte, ispirarsi a qualcuno o omaggiarlo. Prendiamo i vampiri ad esempio: tutti pensano che il primo a scriverne sia stato Stocker e che abbia ispirato gli altri, ma non è così. Prima di lui a parlare di vampiri fu Polidori. Quindi i vampiri li ha inventati Polidori?

No, lo ha fatto la fantasia umana. Andando a ritroso nel tempo, troviamo i vampiri più o meno in tutte le culture, comprese quelle antiche come quella Egizia.

A volte le origini si perdono nelle sabbie del tempo, altre volte no. Non so a chi si sia ispirato Collodi quando creò Pinocchio, so però che ha ispirato moltissimi artisti venuti dopo di lui.

Un esempio di quello che dico lo possiamo ritrovare nel film IA intelligenza artificiale di Spielberg (su progetto di Kubrik). Il regista non ne fa affatto mistero. Tanto è vero che fa consegnare, nelle mani del protagonista, il libro con le avventure del burattino più famoso del mondo.

Ma se nel caso di IA, l’omaggio e l’ispirazione sono palesi, nel caso di Osamu Tezuka (il dio dei manga, noto da noi con La principessa Zaffiro e Kimba il leone bianco), nel suo Dororo e Hyakkinaru, non è così evidente. Ammetto di averlo pensato, la prima volta che l’ho visto, ma ne ho avuto conferma solo quando ho letto, da qualche parte, dell’amicizia e stima che il dio dei manga aveva con Walt Disney e di essere rimasto particolarmente colpito da Pinocchio.

Ora ammettiamolo: la versione disneyana di Pinocchio è parecchio sdolcinata e quasi totalmente travisata. Eppure, qualcosa colpì il maestro.

Non ho prove a mio sostegno, ma so che i Giapponesi non sono persone arruffone o che si improvvisano e sono sicura che il maestro Tezuka deve aver letto la versione originale.

Per reinterpretarla secondo il pensiero della sua gente, tirandone fuori un capolavoro.

Se qualcuno avesse visto l’anime di cui sto parlando mi chiederà di sicuro quale similitudine intercorra tra Pinocchio e un bambino che viene sacrificato ai demoni dal suo stesso padre per soddisfare le proprie ambizioni.

Ecco, se mi fossi fermata all’inizio della storia e mi fossi concentrata solo sui demoni, sull’epoca (Sengoku) sui signori della guerra e relative ambizioni, non avrei saputo riconoscere …Collodi.

Hyakkimaru ha sì perso il suo corpo, ma non completamente. Di lui solo un demone, grazie al sacrificio della dea della Misericordia, non riesce a mangiare e la sua testa sopravvive. Non ha occhi, naso orecchie, pelle o capelli, niente.

E che se ne fa un bambino di una testa? Come potrebbe sopravvivere?

Incontrando un dottore che fabbrica protesi e che donerà al ragazzino un corpo artificiale che gli modificherà nel corso degli anni, man mano che crescerà. Ed ecco qui Geppetto. Fino all’ultimo minuto di vita sarà il solo padre che conta per Hyakkimaru.

Per Pinocchio ricevere un corpo da bambino vero sarà il premo per i suoi sforzi e le sue cadute, per il povero Hyakkimaru non sarà così semplice: dovrà sconfiggere i demoni e recuperare le parti del corpo che gli hanno sottratto, abituarsi ad esse, perdere parte del potere magico che lo tiene in vita. Potere nato dalla sua ostinata volontà a non cedere e motivo per il quale la dea ha scelto di sacrificarsi.

E il grillo parlante?

Lo troviamo nel ruolo di un vecchio samurai cieco, divenuto bonzo, che vaga per il paese e ogni tanto incontra Hyakkimaru e il suo compagno Dororo.

E Dororo che ruolo avrebbe?

Quello della bambina dai capelli turchini.

Non sono né pazza né urbica dal momento che Dororo è una ragazzina che si veste da ragazzino per poter sopravvivere. È una ladruncola, addestrata dai propri genitori che , pur essendo briganti, avevano nel cuore l’ambizione di potersi finalmente affrancare dai signori della guerra e non divenire più pedine sacrificabili nelle varie guerre.

E Lucignolo? Lo abbiamo in compagnia del gatto e la volpe nella figura del fratello secondogenito e dei suoi fedeli servitori.

C’è poi Mangiafuoco (uno spadaio burbero), ci sono i vari personaggi buoni e cattivi che troviamo in Pinocchio nei suoi viaggi .

È vero, rispetto a Collodi, Tezuca sembra aver trasformato un racconto fantastico in un dark fantasy.

Credo che questo sia dovuto al fatto che il dio dei manga abbia semplicemente capito che Pinocchio non è un libro per bambini, ma un viaggio metaforico all’interno di un pianeta chiamato uomo.

Dove, per diventare uomini di carne e sangue e non più burattini, si deve lavorare sodo, essere onesti e avere un cuore.

Non a caso Pinocchio quando diventa un ciuchino, per tornare a essere burattino dovrà essere gettato nel mare.

Hyakkimaru dovrà superare la sua fiamma demoniaca che lo porta ad allontanarsi da tutto ciò che lo rende umano. Solo la presenza di Dororo gli farà comprendere che non sono gli arti, la carne o il sangue, le orecchie o gli occhi che fanno veramente una persona, ma ciò che c’è nel cuore.

Se non lo avete ancora visto, vi consiglio di guardare lo splendido remake che ha fatto lo studio Mappa.

Lasciatevi coinvolgere e stupire ancora dal burattino e dalle sue avventure in paesi straordinari che troviamo qui in veste di samurai. Lasciamoci accarezzare dalla dolcezza di questa riscrittura in chiave eroica di una fiaba che ha colpito l’immaginario di adulti e bambini di tutto il mondo.

La rubrica Serie TV e Anime presenta “Hunter x Hunter”. A cura di Aurora Stella

Oggi voglio parlarvi di un vero e proprio maestro dello storytelling: Yoshihiro Togashi .

In particolare, mi occuperò di Hunter x Hunter.

Su questa storia è stato detto di tutto. C’è chi lo adora, chi lo detesta. Questo manga (e di conseguenza l’anime) ha avuto e ha tuttora una storia travagliata dovuta al suo creatore che, con i suoi problemi di salute, non ha ancora concluso la saga.

In assoluto, con i suoi trentasei milioni di copie nel solo Giappone, è il manga che ha venduto di più.

Va avanti dal 1998 e, se non fosse per i pregiudizi legati ai “cartoni animati”, anche qui in occidente sarebbe più famoso di Harry Potter.

Mi vorreste dire, con una specifica locuzione tipica della mia città che “ sto facendo la cacca furi dal vasetto?” Liberi di pensarlo, ma rilancio dicendo che Yoshihiro Togashi sta alla Rowling, come Caravaggio sta a Raffaello.

Genio contro genio? Pittore maledetto contro pittore osannato?

Per capire ciò che intendo, vi esorto a guardare un qualsiasi quadro di Caravaggio. Prendiamo la chiamata di Matteo, un perfetto equilibrio tra luce e scurità. Eppure, per molti, Caravaggio o è bianco o è nero.

È luce, è oscurità.

Io dico che Caravaggio è un pittore intero. Luce che illumina l’oscurità, ombra dietro la luce. Matteo è un esattore delle tasse, non una persona malvagia, non ruba, non si approfitta, non fa. È un grigio immerso nel nero. Si muove a suo agio nel nero. Alla fin fine, fa un mestiere odioso che qualcuno deve pur fare, senza sporcarsi eccessivamente le mani. Poi arriva la luce, rappresentata da Gesù. Ma non è una luce che rischiara tutto. Solo ciò che ne è colpito in pieno. Matteo, in questo caso. Chi ne è colpito di striscio, tuttavia, produce ombra dietro di sé che va a confondersi con l’oscurità già presente. Le teste chine degli altri esattori, posti strategicamente ai lati di Matteo, non alzano gli occhi per osservarla. Approfittano di quella luce della loro ombra proiettata in avanti per farne uno schermo, una protezione sufficiente a non distrarsi ma a continuare a fare meglio il proprio compito. Molti reputano che la natura umana non sia dualistica a che oscilli in diverse sfumature di grigi (non so se siano proprio cinquanta, non le ho contate). Io credo che la vita oscilli tra luce e oscurità e lo faccia di continuo. Che, a seconda di come ci muoviamo, diventiamo luce o oscurità. E per la millesima volta sarò costretta a usare il simbolo del tao. Studio quel simbolo da quando ho sette anni, ma essendo una somara, lo sto ancora studiando, pur se tuttavia, a grandi linee penso di averlo compreso (almeno un po’) e ho capito che funziona come un vaso comunicante. Ogni persona nasce intera, composto di quelle quattro parti che, a seconda degli eventi, verranno fuori. Un personaggio ben costruito non è solo bianco o solo nero: è bianco con una piccola parte nera e viceversa, con la nostra anima che oscilla tra una figura e l’altra.

Ed è quello che accade a tutti i (buoni e cattivi) personaggi di Hunter x Hunter.

Iniziamo dal titolo. Perché ripeterlo due volte? Perché inserire il simbolo “X” ?

Perché la luce senza l’oscurità non basta, perché in ogni personaggio c’è un hunter luminoso e uno oscuro. Perché in ogni uomo c’è un mostro e c’è un mostro in ogni uomo.

Sarebbe questa, dunque, la forza di Togashi come storyteller?

In parte

Molti autori (di cinema, fumetti, libri) si cimentano nel tentare di creare personaggi tridimensionali, pochi ci riescono.

C’è chi si focalizza sul background, chi sulle abilità, chi li incastra in un ruolo e chi, molto furbamente, pensa di utilizzare la tecnica del grigio per dare vita ai suoi personaggi. E combinano un disastro, poiché il grigio, anche con tutte le sfumature possibili, resta sempre un colore piatto, indeciso.

Pensate alla nebbia, alle giornate uggisse in cui il cielo è ricoperto di nubi. Tutto si appiattisce, i colori si smorzano. Si va in stasi. Potreste obiettare che, un osservatore attento, riesce lo stesso a cogliere dei cambiamenti dietro alle a sfumature. Il cielo grigio che diventa sempre più scuro per annunciare l’imminente arrivo del temprale o della notte. Si potrebbe dire lo stesso con le persone. Probabilmente sì, ma di sicuro non sono le persone che maggiormente ci colpiscono. Sono quelle solari che all’improvviso si rabbuiano, sono quelle che lasciano intravedere uno sprazzo di luce nel loro essere cupi ad emanare un fascino magnetico e irresistibile. Una luna piena che sorge all’improvviso, dopo essersi liberata dalle nubi, rischiarerà il sentiero nella notte, così come un’eclissi imprevista rabbuierà la giornata. Ogni personaggio uscito dalla matita di Togashi, nasce con un preciso colore per poi sconfinare nell’altro. Trattandosi di un anime corale, spicca in maniera particolare una coppia di amici che funziona alla grande: Gon e Kilua. Potrei dire Kirk e Spock, senza commettere peccato.

Gon è un ragazzino puro, testone, forte. Tutto sommato felice. Tuttavia vuole conoscere suo padre e, per farlo, decide di iniziare diventando un hunter come lui. Vuole infatti capire cosa ci sia di tanto speciale in questa professione da averlo portato via da suo figlio.

La novità è proprio questa.

Non l’avete vista?

Perché siete ciechi, ovvio. Anche Remì o l’Ape Magà, vogliono ritrovare la loro famiglia. Anche Peline, ma alle spalle hanno tutti un dramma. Gon invece è vissuto felice, sano e libero, con la zia e con la nonna. Tanto è vero che non gli interessa nemmeno sapere nulla della madre biologica, perché lui una madre ce l’ha: sua zia.

Gon nasce nella parte bianca, è luminoso, puro, con il suo piccolo neo nero all’interno.

Che cosa ci può essere di più importante di un figlio?

Per saperlo, l’unico modo è calcare le orme di su padre Ging. Se lui è divenuto hunter a dodici anni, Gon farà lo stesso. Camminando sulle stesse orme, dal suo punto di vista, riuscirà a comprendere …

A prima vista Gon può sembrare il classico ere puro e incontaminato del viaggio dell’eroe, il Luke Skywalker della situazione. Niente di più sbagliato. Gon è un sempliciotto, un campagnolo, uno che non sta tanto a scervellarsi, ma è uno che, sotto pressione, dà il meglio di sé. Capace di intuizioni brillanti, di spacconate, ma di buon cuore e senza pregiudizi, tanto è vero che il suo migliore amico sarà Kilua, un dodicenne come lui che di mestiere fa l’assassino professionista. Un signore dell’scurità, cresciuta in una famiglia di assassini ( i bei vecchi mestieri d una volta, direbbe Fiorello imitando Mike Bongiorno), abituato alle torture sin dalla nascita, ai veleni, ad ammazzare senza tanti problemi se non quello di farsi pagare bene. Più che un assassino o un mercenario, Kilua è un sicario.

Che ha il suo tarlo.

Lui desidera avere amici, un bisogno che, all’interno della sua famiglia, sembra avere solo lui.

L’incontro con Gon sarà determinante per la vita di entrambi, divenendo ognuno l’ago della bilancia per l’altro.

Ci sono diverse saghe all’interno di hunter x hunter e ognuna di queste, ha al suo interno i cattivi di turno.

Sono saghe che vanno in crescendo. Proprio come nei videogiochi aumentando il livello, aumentano le difficoltà e anche i personaggi si evolvono.

Si arriverà alla saga culminante e più importante dove i confini dualistici, a un certo punto, verranno forzati da tutte le parti.

Per primo dal cattivo di turno.

Meruem.

Un essere nato per dominare. La saga delle formichimere è una saga particolarmente dura. Le formichimere non provengono dal mondo dove i personaggi interagiscono, ma dai confini di un mondo più vasto. Penetrando, iniziano a invaderlo, divorando le persone e assimilandole per evolversi. Quando nascerà Meruem, il re delle formichimere, il primo atto sarà uccidere la propria madre, semplicemente perché ha assorbito tutto quello che gli serviva per sopravvivere e si mette alla ricerca di cibo: gli umani.

Quando molti di questi gli chiederanno di avere pietà, senza farsi problemi Meruem risponderà “Voi ne avete nei confronti degli animali che mangiate?”

Ebbene questo cattivo che si muove secondo la legge della jungla (O mangi o vieni mangiato) capitolerà sotto il peso dell’amore.

Che cosa banale , potreste replicare.

Lo sarebbe se fosse la classica storia del bad bay redento dal brutto anatroccolo (che per l’occasione diventa un cigno) di turno.

Ma per Meruem, le persone sono solo nutrimento. Lui ha acquisito le sue abilità proprio perché è stato nutrito di esseri umani. Quindi, per lui, gli umani sono cibo o, al massimo, bestioline con cui trastullarsi prima di cibarsene.

A farlo innamorare sarà una ragazzina, brutta, cieca e maldestra, ma che non perde mai a un gioco. Iniziata come una sfida per ingannare il tempo in attesa della maturazione dell’arma di distruzione finale, il re delle formichimere vuole misurarsi con quelli che considera gli umani più intelligenti, sfidandoli nei giochi in cui sono campioni: dalla dama alle carte, passando per gli scacchi e millemila altri giochi. Ovviamente nessuno è in grado di tenere testa all’intelletto del re, tranne la maldestra Komugi, che ha riposto nel Gun-gi il suo scopo di vita ed è imbattibile perché da sempre sa che, se perderà sarà come morire.

Un re super forte, super intelligente, super crudele, che finisce per amare un’imbranata, menomata e pure bruttina, ma che gli tiene testa e non perde mai.

E lei lo amerà altrettanto. Nella sua cecità un mostro disumano le apparirà bello e buono.

Gon invece, per la prima volta, dovrà fare i conti con il suo lato oscuro. Quello che tutti possediamo e che più o meno riusciamo a tenere sotto controllo, ma che a un certo punto si presenterà per chiedere i conti. Possibilmente con gli interessi.

Gon può morire per salvare tutti, è capace di affrontare un nemico potente e spietato rimanendo sé stesso ma, quando questi gli uccide un caro amico, pur di ottenere vendetta, si lascerà avvolgere dalla sua stessa ombra e non esiterà a forzare le sue capacità oltre il limite.

Sarà a quel punto che Kilua, diverrà luminoso. Non accettando la fine dell’amico e rischiando tutto sé stesso, per la prima volta, sarà in grado di mettere da parte la sua oscurità per andare incontro al lato luminoso, pur sapendo che potrà restare abbagliato.

Il tutto senza mai scadere nel banale, nel prevedibile o nel già visto. Cosa che invece non si può dire per Netero il Presidente degli hunter e, in assoluto, capo dei buoni.

Se Meruem riesce da animale semi umano a diventare umano, Netero, nel combattimento contro Meruem, ci mostrerà come sia facile divenire una bestia.

Per questo, tornando al Caravaggio, vi dico che l’opera di Togashi è molto simile a un suo quadro. Luci e ombre che si alternano fin quasi a confondersi sebbene spicchino nitide.

Motivo per cui tutti dovrebbero vedere questo shonen (Manga/anime pensati per un pubblico maschile dove pugni, botte ed esplosioni sono la normalità)

La rubrica Cinema e parole presenta “Squid Game”. A cura di Aurora Stella

Squid Game

Amata, odiata, censurata, banalizzata, copiata.

Di questa serie tv possiamo dire tutto , il suo contrario e faremmo sempre centro. Non che sia una grande novità. Di gente che si scanna per due soldi è pieno il mondo, figuriamoci tv e cinema.

Per non parlare della letteratura: da Battle Royale a Hunger games per rimanere nell’ambito giovanile (meglio il primo, di gran lunga).

O, per citare l’onnipresente Stephen King, possiamo rifarci a Running man.

All’epoca, il caro King, scriveva sotto pseudonimo e questo libro in Italia è stato pubblicato nientepopodimeno che nella collezione Urania.

Il film l’implacabile punta proprio su questo: giochi violenti per intrattenere.

Insomma, che lo vogliate o no, i ludi gladiatores sono parte integrante dell’umanità anche se l’impero Romano è caduto da un bel pezzo.

Lo stesso discorso vale anche per miti intramontabili come quello del Minotauro.

In poche parole non ci inventiamo mai nulla.

Abbiamo detto e scritto e parlato già da ere e diciamo sempre le stesse cose, esprimiamo sempre gli stessi concetti, ma la reiterazione non ci annoia.

Sapete perché?

Perché apparteniamo a una razza chiamata umana e più o meno ci atteniamo tutti alle stesse regole: nasciamo, ci nutriamo, ci riproduciamo e crepiamo.

Un destino che accomuna tutte le specie considerate viventi (ma se pensiamo al Sole o alla galassia anche se non so no propriamente viventi fanno le stesse identiche cose).

In cosa ci distinguiamo?

Nei dettagli.

Un vecchio proverbio recita che il demonio lavora sui dettagli.

Do ragione al vecchio proverbio.

La razza umana non brilla per particolare arguzia, ma per i particolari con cui si differenzia dalle altre specie.

Lo so, adesso orde di scienziati partiranno a frotte per ricordarmi che io sto scrivendo su un computer, che viaggiamo nello spazio, che siamo in grado di creare concetti e così via. Potrei rispondere che i batteri e i virus sono migliori di noi.

Viaggiano da ere nello spazio, ci sono poi altre specie capaci di creare capolavori di ingegneria pur non possedendo un pollice opponibile e nemmeno un rognoso calcolatore che gli permetta di eseguire calcoli complessi.

Pensate alla struttura dell’alveare, ad esempio, o di un termitaio, o di un girasole.

Noi ci scervelliamo per due calcoli e loro usano tranquillamente equazioni non lineari e frattali con la stessa disinvoltura con cui ci soffiamo il naso.

Ma , ripeto, è nei dettagli che ci distinguiamo.

Quando andate a vedere una casa cosa vi colpisce a parità di metratura e posizione?

I dettagli, le rifiniture.

Ed ecco qui.

In tutte queste storie che narrano di eventi che conosciamo da quando abbiamo messo piede su questo sfortunato pianeta, noi cerchiamo il dettaglio che ce le renda sempre nuove.

Qual è il dettaglio in squid game?

Perché una serie che nemmeno è stata sottotitolata in italiano, con uno splatter degno di Tarantino, ha colpito milioni di persone in tutto il mondo?

Vi rivelerò uno di questi dettagli: non ci sono persone costrette al’interno di Squid game che partecipano ai giochi mortali. Hanno avuto l’opportunità di andarsene, ma sono tornati.

E questo già costituisce una differenza enorme con le storie che ho citato prima.

Qui non c’è gente che viene offerta in sacrificio all’interno di una distopia, ci sono persone che incontriamo tutti i giorni.

Persone normali. Difettose, ma normali.

Partiamo dall’inizio.

Il protagonista è uno sfigato, indebitato per i morivi più svariati, la sua vita fa schifo in tutti i sensi e partecipa a un gioco per denaro.

Ebbene?

Nessuno sa che, quando da quel gioco si vieni eliminati, muori.

Ebbene?

Lo scoprono, ovviamente nel peggiore dei modi, si appellano a una delle regole e la maggioranza opta per andarsene.

Alla fine, se il regolamento lo prevede, perché rimanere a farsi ammazzare?

Più della metà dei concorrenti sono stati trucidati in “uno, due, tre , stella”, ma chi glielo fa fare?

Ma chi vorrebbe morire pe un gioco, scemo , oltretutto?

Nessuno ovviamente.

E, mentre la faccenda sta per essere messa ai voti, ecco che i malefici coreani calano un salvadanaio trasparente con all’interno soldi a sfascio.

Ebbene?

Padroni di non crederci, la gente si fa due calcoli.

Ma si, in fin dei conti si muore, ma che volete che sia in confronto all’immane somma di denaro che sta là?

Insomma litigano si insultano e per un punto Martin perse la cappa e tornano a casa.

Ebbene?

Poi ritornano, perché comunque meglio perdere la vita che condurla come prima.

Ho spoilerato?

Un po’ non tutto.

Perché, dentro questa serie tv, ci sono tutti i dettagli che hanno reso orribile la nostra umanità.

Dettagli fatte di persone, di dinamiche, di intrecci.

Di fiducia e speranza , di bassezze che solo la nostra specie è capace di compiere.

Come giudico squid game?

Non lo giudico.

Semplicemente mi sono limitata a guardare questo spaccata della società coreana e ho notato quanto somigli alla nostra.