La rubrica Enigmi e misteri presenta “Metrodora, Trotula e le altre”. A cura di Alfredo Betocchi

Sin dal Neolitico, l’uomo fu cacciatore e la donna curatrice della famiglia… ma non sempre è stato vero: in una tomba nell’Europa settentrionale è stato trovato uno scheletro femminile con un corredo riservato ai capi e ai cacciatori. Una spada, un coltello, un arco e delle punte di frecce più altri attrezzi per spellare gli animali catturati. Quindi essa era una esperta cacciatrice e in più di rango nobile.

Le donne si sono rivelate anche ottime curatrici della salute e depositarie dell’antico sapere dell’arte medica.

Una lunga serie di figure mitiche femminili sono state le testimoni e patrone di quella sapienza così utile all’umanità.

A partire dall’antichissima “Potnia Thiròn”, la “Grande Madre” dal significato“Signora delle fiere” cheera un attributo delle divinità femminili micenee e minoiche con caratteristiche materne di fecondità e nutrici.

Esse al pari di Iside, la più importante Dea degli Egizi, erano protettrici della medicina femminile e della fertilità.

Questa antica tradizione è testimoniata dalla figura di Circe, semidea e maga, amante di Ulisse che aveva il potere del bene e del male. Circe era collegata, come molte altre divinità, per esempio Artemide, al culto degli animali.

Altra grande figura della mitologia greca è Medea, principessa della Colchide, il cui nome richiama il greco τάμήδεαche significa “astuzia, scaltrezza”. La tradizione la presenta come maga e ne ricorda le straordinarie arti mediche.

L’abilità femminile nel campo erborista e medico fu duramente contrastato dal nascente cristianesimo.

Tertulliano, apologeta cristiano, vissuto tra il 160 e il 220 della nostra Era, condannò fermamente le attività mediche femminile, bollando le donne come “Diaboli ianua” , ossia “Porta del Diavolo”.

In seguito, Sant’Agostino ci mise un carico ulteriore, propagandando una visione androcentrica della società, dichiarando che “la donna è l’emblema dei sensi; l’uomo dello spirito”.

La parte femminile del mondo, tuttavia continuava tranquillamente a esercitare le sue arti quotidiane, curando e studiando erbe medicinali, infischiandosene dell’Interdetto della Chiesa. Questo provocò, come purtroppo sappiamo, immensi lutti e ingiustizie.

Il Medioevo è pieno di maghe e di fattucchiere, personaggi inventati dagli ecclesiastici per riuscire a perseguitare le professioniste dell’arte medica femminile.

Personalmente non credo alla Magia anche se mi diletto a scriverne.

Diverse donne studiose delle erbe mediche scrissero trattati sulle cure da applicare ai malati ma queste opere non furono ritenute abbastanza importanti perchè scritte da mani femminili e il più delle volte finirono dimenticate o perdute.

Nel V secolo d. C. divenne famosa Metrodora, studiosa bizantina del III secolo dopo Cristo, eccelsa nel campo della medicina, dell’ostetricia e della cosmesi, autrice di un corposo trattato in greco sulle malattie femminili. Il suo studio ebbe vasta risonanza in Europa tanto che fu tradotto in latino e diffuso tra i circoli colti.

Altra grande studiosa di medicina e vera professionista delle malattie femminili e della cosmesi fu Trotula de Ruggiero vissuta tra il 1060 e il 1097. Questa donna ebbe particolare fortuna nel vivere nel regno dell’Italia meridionale.

A quell’epoca a Salerno, esisteva una “Schola”, fondata da Ruggero II, che formava medici laureati e che ammetteva nelle sue aule anche le donne.

Trotula era figlia di un medico illustre e scelse di intraprendere la stessa carriera del padre presso la Schola. La sua bravura era talmente evidente da godere della stima del mondo medico maschile.

Scrisse un famoso trattato di medicina femminile diffusosi in tutta Europa a partire dal XII secolo che venne tradotto in molte lingue tra le quali l’inglese, il tedesco e il francese. Gli argomenti del trattato sono veramente enciclopedici, occupandosi non solo delle malattie femminili e della maternità, ma anche della sterilità maschile e della contraccezione.

La maledizione lanciata da Tertulliano prima e da Sant’Agostino poi contro le donne che maneggiano ad arte le erbe e le pozioni ebbero delle eccezioni.

Se le donne che praticavano questa professione erano religiose o addirittura sante, l’erboristeria medica non veniva più considerata opera del Diavolo ma opera di Dio.

Con questo salto mortale teologico la Chiesa riconosceva che le suore e le badesse, specie se sante, dedite alla medicina naturale operavano in Grazia di Dio… le altre erano streghe da mandare al rogo.

Eccone tre luminosi esempi:

San Girolamo parla, nei suoi scritti, di Santa Fabiola che, nel IV secolo d.C., raccoglieva per strada i bisognosi malati e li assisteva personalmente e li curava, somministrando loro medicine utili alla guarigione.

Altra grande e illustre benefattrice dell’umanità sofferente fu Santa Redegonda, (520-587 d.C.) regina del regno franco dei Merovingi, avendo sposato Clotario I.

Anch’essa dedita all’assistenza dei malati e dei fanciulli orfani, fondò un ospedale specializzato per la cura delle donne prive di mezzi che lei stessa assisteva, preparando medicamenti e unguenti.

Santa Ildegarda di Bingen, (1098-1179), nata nobile fu affidata a un convento in tenera età, ciò le permise di diventare una sapiente.

Corrispose con importanti personaggi della sua epoca quali l’Imperatore Federico Barbarossa. Eccelse, oltre che in filosofia, in teologia, in composizione musicale e in medicina.

Compose un Corpus naturalistico sotto i titoli di Physica e Causae et Curae composto di nove libri che si prefiggeva di rappresentare in forma di enciclopedia il mondo naturale.

Era insomma una donna dai molteplici interessi e dal vastissimo sapere.

Tutte queste donne hanno dimostrato come la scienza medica sia stata soprattutto un bastione di libertà femminile contro lo strapotere del mondo maschile.

Nonostante il passare dei secoli, tuttavia ancora oggi ci meravigliamo se una donna merita il Premio Nobel.

Quando tutto questo non ci parrà più così bizzarro, avremo raggiunto finalmente la sospirata parità fra un uomo e una donna.

La rubrica misteri e enigmi presenta “Alla ricerca di terra B”. A cura di Alfredo Betocchi

Da piccolo, la sera dopo il bacio della buonanotte della mamma e del babbo (sono fiorentino) mi rifugiavo sotto le lenzuola fantasticando di essere dentro una navicella spaziale e di attraversare gli immensi spazi siderali alla ricerca di un nuvo pianeta.

Notoriamente la fantasia si proietta verso orizzonti infiniti. Sin dai tempi più antichi lo sguardo dell’umanità si è sempre rivolto verso le stelle del firmamento in cerca di sicurezze e protezione.

Gli Indiani d’America crearono bellissime leggende riguardanti il cielo, mischiando religione e mitologia, costruendo gli “adobe”, sorta di osservatori astronomici con i quali scrutavano le stelle e i pianeti.

Gli Indiani dell’India trasportarono nel cielo le battaglie crudeli dei loro Dei.

Cinquemila anni fa, il Bhagavadgita dava istruzioni per i viaggi sulla luna e il Ramayana, descrive i viaggi extraterrestri del mitico Rama.

Una delle leggende intorno ad Alessandro Magno gli attribuisce un tentativo di volo spaziale mediante un carro trainato da grifoni.

Con un mezzo analogo, il poeta persiano Firdusi spedì nei cieli lo sceicco Kai-Kos.

I Babilonesi credevano che sulle stellevivessero i loro Dei.

Per avvicinarci al nostro tempo, Democrito ed Epicuro, astronomi dell’antica Grecia pensavano che intorno alle stelle ci potessero essere mondi infiniti, magari abitati, tuttavia le teorie di Aristotile prima e di Tolomeo poi affossarono per molti secoli queste geniali intuizioni.

Nel XV secolo, un uomo colto, professore di filosofia e cattedratico in Italia e in Francia, pronunciò queste profetiche parole:

Esiste un solo spazio generale, un’unica immensità che possiamo liberamente chiamare vuoto: in questo vuoto sono presenti innumerevoli orbite come quella in cui viviamo e cresciamo.”

Il suo nome era Giordano Bruno. E’ sua l’intuizione geniale secondo la quale nell’Universo infinito si trovano mondi simili al nostro, abitati da esseri somiglianti a noi e che onoravano Dei simili al nostro Dio. Questa e altre sue dichiarazioni lo portarono però sul rogo nell’anno 1600, condannato per eresia dalla Santa Inquisizione.

Il desiderio di partire per altri mondi conquistò molti scrittori: l’Ariosto trasportò i suoi eroi fin sulla luna, Verne fece altrettanto con i protagonisti del suo più famoso libro “Dalla terra alla Luna”.

Nel secolo scorso, scoppiò il fenomeno della fantascienza, autorevoli scrittori quali H.G.Wells, Campbell, Huxley, Clarke, Bradbury, Asimov e innumerevoli altri autori trasportarono i lettori attraverso il cosmo su pianeti abitati da civiltà aliene.

Nella realtà, per secoli abbiamo conosciuto un solo sistema solare e fino al XX secolo, cercare pianeti intorno alle stelle era considerata una missione impossibile a causa della immensa lontananza dei globi stellari. Se una stella ci pare così piccola al nostro occhio, anche guardandola col più potente dei telescopi, quanto minuscoli devono essere i suoi pianeti?

Ma il 23 novembre 1995 una stellina appena visibile a occhio nudo, 51 Pegasi, lontana 50 anni luce da noi, balzò agli onori della cronaca. Fu un evento considerato alla stregua della scoperta dell’America.

Mayor e Queloz, due astronomi svizzeri, annunciarono di aver scoperto il primo pianeta extrasolare intorno ad essa. Come fu possibile? Osservando la curva di luce della stella essa diminuiva ciclicamente, denunciando il passaggio davanti ad essa di un corpo che si calcolò essere di dimensione pari a Giove.

Da quel giorno, l’attenzione di tutti gli astronomi fu focalizzata a studiare le curve di luce di numerosissime stelle vicine e lontane, così che intorno a ciascuna di esse risultò esserci uno o più pianeti. Fu perciò evidente che il Sistema solare non è un’eccezione nel cosmo ma la regola.

Oggi conosciamo più di 4500 esopianeti e il loro numero cresce ogni giorno.

Col passare del tempo e con lo studio di metodi più raffinati, gli studiosi sono in grado di trovare, pur tra mille difficoltà, i pianeti dei quali hanno fantasticato decine e decine di scrittori di fantascienza.

Che nome dare a questi esopianeti? Generalmente l’Unione Astronomica si è ispirata ai nomi della classicità greco romana (Marte, Giove, Urano ecc.) oppure ha dato spesso alle stelle nuove i nomi degli astronomi che li hanno rivelate.

Considerato che le stelle sono in numero strabiliante U.A., ha optato per i numeri.

Per i pianeti è più difficile. U.A. ha perciò assegnato loro il nome della stella madre più una lettera dell’alfabeto partendo dalla “b” .(Per A s’intende la stella stessa)

Per esempio al pianeta che orbita intorno a 51 Pegasi è stato attribuito il nome di “51 Pegasi b”. Ci sono state però delle eccezioni: proprio il pianeta “51 Pegasi b” è stato rinominato “Helvetios” peronorarelacittadinanza dei suoi scopritori, che ebbero il Premio Nobel nel 2019.

Il desiderio maggiore dell’uomo è scoprire pianeti adatti alla vita, quindi la ricerca si è indirizzata verso quelle stelle che sono simili al Sole e che hanno un’età di mezzo, né troppo giovani per lasciare il tempo alla vita di svilupparsi, né troppo vecchie per poter avere davanti un periodo ragionevole di evoluzione, magari anche umana.

Sono stati individuate alcune stelle che rispondono a tali criteri e dotate di alcuni pianeti in una zona detta “abitabile”. Occorre che ci sia acqua liquida e terre emerse.

Alcuni pianeti sono stati una delusione perchè si è scoperto che tutta la superficie non era altro che un immenso oceano. Altri avevano solo terra arida senza acqua.

Considerando i miliardi di stelle esistenti solo nella nostra Galassia, prima o poi si troverà quella i cui pianeti rispondono ai criteri vitali per come li conosciamo qui sulla Terra.

E se la vita, su questi pianeti, avesse preso strade diverse? Anche sulla Terra ci sono organismi che vivono benissimo respirando metano o vivendo nelle profondità del mare vicino a fenomeni di calore intenso, mortale per chi respira ossigeno come noi.

Altra difficoltà quasi insormontabile è la distanza di qualsiasi stella dal nostro Sole.

Con i mezzi che abbiamo sviluppato fino ad oggi, ci è precluso l’opzione di un viaggio interstellare ragionevolmente vicino.

Se l’umanità troverà la pace e troverà combustibili che possano lanciare le astronavi a una velocità almeno al 20% di quella della luce (60.000 km al secondo), allora, forse potremo sperare di toccare con i nostri piedi un esopianeta.

A questa velocità sarà possibile giungere sul pianeta “Proxima b” che ruota intorno alla stella più vicina a noi (solo 4 anni luce). E’ comunque un abisso di spazio ma in 40 anni, una spedizione potrebbe farcela.

Sarà necessario organizzare il viaggio pensando almeno a due o tre generazioni di astronauti. Meglio sarebbe spedire regolarmente (dopo l’ok all’abitabilità) tante astronavi per popolare quel mondo alieno.

Ogni volta passerebbero 40 anni tra andare e tornare, ma non è escluso che potrà essere trovato un propellente più veloce.

Fantascienza? Anche gli esopianeti erano esclusiva degli scrittori di fantascienza, oggi sono una solida realtà.

Chi si vuole iscrivere per il prossimo viaggio?

La rubrica Misteri e enigma presenta “Il calendario Nuragico”. A cura di Alfredo Betocchi

La Sardegna è una delle regioni italiane più originale. Bellissima terra di splendide spiagge e aspre montagne e panorami mozzafiato, ha pressapoco la forma di un quadrilatero. Nonostante la recente soppressione delle Province, la Sardegna ha visto nascere quattro nuove entità: Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra e Olbia-Tempio. Questa terra fu abitata sin da epoche preistoriche da genti provenienti dalla Penisola Italica ma originari del vicino Oriente. Vivevano di agricoltura e allevamento e risiedevano prevalentemente in grotte naturali o ripari sotto roccia, utilizzati anche come luoghi di sepoltura. Lentamente, verso il 2500 a.C. nacquero insediamenti abitati all’aperto. Verso il 1500 a. C. comparvero i primi nuraghe che settecento anni dopo vennero dotati di imponenti torrioni raccordati da cinte murarie a formare vere e proprie fortezze. Il nome dell’antica Sardegna pare essere stato ICHNUSA (si, proprio come la famosa birra!). I suoi abitanti erano chiamati generalmente SHARDANA e lasciarono testimonianze abbondanti e innumerevoli testi su incisioni rupestri e su pietre. Gli isolani, a causa dell’avarizia della loro terra si misero sul mare, diventando presto il terrore dei popoli circostanti. Ma non furono solo predatori ma anche ottimi mercanti e valenti mercenari. Oggetti di artiganato sono stati trovati perfino in Siria e in Egitto. I suoi indomiti guerrieri furono utilizzati come guardie del corpo dai faraoni che li citarono sulle iscrizioni geroglifiche, come fece Ramesse II a Karnak. Questo popolo così apparentemente selvaggio era in realtà profondamente religioso e attento alla natura che lo circondava creando un calendario. La straordinaria scoperta di questo antico calendario di 4000 anni è stata fatta da Leonardo Melis in contemporanea con un altro studioso, che già aveva decodificato l’”Abaco” degli Inca e il loro sistema di calcolo. Esso fu usato parallelamente da altre genti aventi la stessa origine del popolo che allora abitava la “Ichnusa”. Fra tutti: i Celti, col cui calendario si sono trovate incredibili somiglianze. Soprattutto col calendario festivo annuale. ARRODAS DE TEMPUS l’appellativo usato da Nicola De Pasquale, questo il nome dello studioso che ha il merito della sua decodificazione.
Nell’immagine si vede una “Pintadera o Ruota delle stagioni”Sa pintadera” rappresenta uno dei simboli della Sardegna. Monile in terracotta o ceramica di forma circolare. Sul suo significato esistono diverse teorie. Alcuni studiosi pensano si tratti di una raffigurazione astrale utilizzata come calendario in epoca nuragica. L’altra foto ritrae la “Pietra di Nurdole”, in cui è stato ravvisato il calendario delle feste agricole e pastorali rapportate alla Luna e al Sole interpetato da Federico Melis. Quest’ultimo schema o “ruota” corrisponde alle festività nel calendario dei Celti raffigurato nello schema in basso con segnate le feste. Le feste lunari, più importanti, formano la “croce” e quelle solari formano la “X”. Qui c’è pure un raffronto con le feste cristiane che cercarono di sovrapporsi, riuscendoci un parte.

FESTE CELTICHE e SARDE

LUNARI:
BELTANE (1° Maggio) = S. EPHIS (in Sardinia le feste hanno preso nomi di santi Cristiani)
LUGHNASAD (Agosto) = ARDIA e le varie feste equestri, candelieri… intitolate all’Assunta
SAMAIN (2 Novembre = SAS ANIMAS (il culto dei Morti. Le usanze sono identiche in sardinia )
INBOLCH (genn. Febbraio) = FESTE DEI FUOCHI (oggi intitolate a S. Antonio)

SOLARI: Solstizi ed Equinozi. In Sardinia hanno preso nomi Cristiani, ma le celebrazioni sono rimaste intatte.
21 Marzo: A Pasqua il rito del sacrificio del primo nato e l’offerta del germoglio di grano (Nenneri) dedicato una volta a Baku-Dioniso.
21 Giugno (LAMPADAS). Oggi S. Giovanni. Una volta dedicata all’iniziazione dei giovani. Accompagnati dal “Santuauanne”, il Padrino, i giovani si cimentavano nel salto del fuoco.
21 Settembre (Capodanni). Inizio dell’anno agricolo con “Sos akkordos”. Si stipulavano i contratti per la gestione di un campo o di un gregge.
21 Dicembre (Paskixedha)… Le celebrazioni antiche non figurano più, soppiantate da una celebrazione tropo importante per il Nuovo Culto: Natale. I sardi lo considerano una “Piccola Pasqua”, quindi una “Piccola Rinascita”. Effettivamente il sole comincia nuovamente ad allungare le giornate.

Innumerevoli sono le notizie di meraviglie da poter riferire su questa misteriosa terra che ha lasciato testimonianze antiche come nuraghe, tempietti, tombe giganti o ipogee, parchi archeologici come quelli di Tharros (Oristano) e di Seleni (Lanusei) come pure dolmen, cave e pozzi sacri. Purtroppo lo spazio tiranno mi impedisce di dilungarmi. Spero che questo piccolo spaccato di notizie abbia messo curiosità ai lettori che non hanno mai visitato questa terra favolosa e li induca, in tempi più favorevoli a visitarla.

Alla ricerca delle Origini. “Halloween in Campania. Il volto segreto di Pulcinella”. A cura di Micheli Alessandra

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Quando ero piccola e innocente (se mai lo sono stata), i miei genitori mi portavano al famoso Pincio, luogo che mi estasiava non solo per la statua di Garibaldi, ma per il teatrino dei burattini, laddove il mitico pulcinella, ne faceva di tutti i colori. Dispettoso, irriverente, era il mio burattino preferito.

Lui con quel suo candido vestitino e quella maschera sugli occhi nero pece, mi affascinava e, al tempo stesso, inquietava, quasi fosse un membro di quel misterioso popolo dei Faerie che già da bimba affascinava i miei sogni.  Solo più tardi ho compreso il volto fosco di Pulcinella.

Ed è di questa tenebrosità che voglio parlarvi, specie oggi che è la festa più terrificante dell’anno: Halloween.

Come è ormai noto, Halloween o All Allow’s eve, è una festa dedicata al lato inquietante del vivere, la morte e i suoi misteri, e quindi comprende un intero mondo parallelo al nostro, dove abitano non solo i nostri defunti, gli antenati e gli eroi mitici del nostro passato, ma tutte le creature sovrannaturali, che popolano quel mondo numinoso dove è sita la vera creatività umana, cosi come ci racconta Giordano Crisciuolo nel meraviglioso vinile di Penny Lane.

Nonostante non sia, come dicono gli ultras cattolici, un vero compleanno satanico, questa festa dà vita a misteriosi figuri che in realtà non sono altro che rappresentazioni simboliche del mondo ctonio, della morte e del mistero, quelle ombre junghiane che devono essere danzanti nella nostra psiche affinché possiamo vivere una sana vita interiore ed esteriore. Reprimere incubi e fantasmi non è mai una buona cosa, ma fonte di disastri incommensurabili (e qui vi rimando al nostro articolo sull’horror terapeutico).

Premesso ciò, andiamo a scoprire l’adorabile Pulcinella.

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 Come maschera, il nostro Pulcinella, ha origini misteriose e oscure, tanto che alcuni studiosi pensano sia una sorta di mescolanza di antichi miti, di divinità, e un simbolo dei difetti/pregi di una città controversa come quella di Napoli.

Fece la sua comparsa nei teatrini ambulanti già nel 1600 a Napoli, capitale del regno Borbonico e i suoi spettacoli erano un tripudio di dispetti e lazzi da affascinare lo stesso Voltaire, tanto da fargli esportare la maschera addirittura in Francia.

Una leggenda antica (che personalmente adoro) trae le sue origini dalle vicende di un vignaiuolo di Acerra, un tale Paolo Cinelli, dal volto grottesco, reso più buffo da una voglia di vino sulla parte superiore della faccia. Oggetto di derisione costante da parte dei saltimbanchi francesi che passavano per le campagne, Paolo, a dispetto di tutto, ne trasse forza, e imparò a rispondere con termini cosi arguti da mettere in difficoltà i dispettosi artisti. Ecco che ebbe origine la battaglia verbale tanto cara al Pulcinella delle commedie dell’arte; e fu così che il nostro Cinelli divenne Paul Cinell.

Adorabile leggenda sulla capacità dialettica e sarcastica, che divenne icona di un popolo che alla difficoltà preferiva reagire con una battuta e con la capacità di trovare il lato ironico.

Totò ci insegna ancor oggi a farlo.

Però io non mi accontento di questa spiegazione e voglio andare ancora più indietro, e raccontarvi della leggenda che vuole il Pulcinella non identificabile con una persona reale, ma dal Vesuvio stesso.

In questa versione, viene creato dalle streghe (ci avviciniamo allo spirito autentico di Halloween) che vivevano sulle falde del cratere, ma che invece di incutere terrore causò una spontanea risata, diciamo abbastanza stridula da far scoppiare il Vesuvio stesso.

Ci siamo, ma voglio andare ancora più a fondo.

I suoi miti di nascita sono tra i più fantasiosi in assoluto ma anche pieni di inquietanti simboli: nato dal testicolo di un castrato covato per sbaglio da una gallina, il che lo avvicina in modo inquietante al basilisco reso famoso da Harry Potter, ma nato anche per magia da una conchiglia, come invece è propria la nascita della Dea Venere.

E, infatti, uovo e conchiglia sono simboli intriganti che lo accomunano a una divinità femminile che al tempo era ctonia. E questo termine usato e abusato, indica le divinità femminili, legate a culti sotterranei, protettori di fonti o personificazione delle forze sismiche e vulcaniche.

Intrigante sempre di più.

Andiamo avanti.

L’uovo da cui Pulcinella nasce è il simbolo per eccellenza che racconta la creazione dell’universo, dominato dal caos e regolato da una mente superiore o Dio. E in quanto elemento primordiale è considerato femminile, visto che la vita scaturisce grazie alla fecondazione dell’Uno. E infatti, rappresenta lo zero, ossia il nulla che attende la mano della mente divina che metta ordine dal caos.

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Negli antichi miti il caos era quel vuoto che precedeva e rendeva possibile l’ordine della struttura (creazione) così come rappresentato nella carta del matto che ha, appunto, i simboli dello zero e del caos.

Alcuni studiosi, intrigati da queste iconografie, hanno cercato di far luce su queste origini studiando antichi reperti che potessero parlarci di questo strano essere.

E infatti, addirittura in una tomba etrusca (tomba di Pulcinella), appare in rilievo la sua immagine stilizzata,

Si nota a destra, una figura che indossa un coppolone, cioè il famoso copricapo del nostro Pulcinella.

E indossa una maschera, anche se molti propendono per l’ipotesi che la tomba sia stata danneggiata dal tempo.

Quella figura è il Phersu che però in etrusco vuol dire maschera.

Che coincidenza!

E per alcuni studiosi questo Phersu rappresenta un demone infernale collegato con la morte. Ci sono poi le interpretazioni di Massimo Pallottino, che considera Pulcinella semplicemente un attore protagonista dei giochi che anticiparono, addirittura, quelli dei gladiatori.

Certo è che Pershu ha una stretta assonanza con Persefone (Phersipinal), regina dei morti accanto ad Ade. Certo è che la sua natura selvaggia, legata a giochi cruenti, lo assimila a un’altra maschera, stavolta veneziana, cara alla nostra tradizione, ossia Arlecchino. Pulcinella, infatti, sembra quasi rappresentare il volto mite, giocoso e ludico di quella morte che, a volte inganna, e a volte viene ingannata, cosi come emerge dal racconto della Rowling “I tre fratelli”.

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Un’altra antica origine lo accomuna al Maccus atellano, che ha molti dettagli in comune con il nostro birichino: ossia il naso prominente e il pancione che dà quel senso goliardico proprio della caratterizzazione. Le atellane diffuse nei dintorni di Acerra, in fondo erano questo: uno spettacolo licenzioso, gioviale, celebrativo, della parte irridente dell’esistenza. Ma, soprattutto, le popolazioni che crearono e diffusero questo tipo di commedia erano gli Osci, provenienti dall’oriente forse dall’India.

E in India, abbiamo divinità cosi particolari, legate al mondo sotterraneo?

La risposta è ovvia. Restando fermo il concetto che distruzione e caos, nell’induismo, non sono considerati aspetti nettamente malevoli, ma un bisogno profondo che mantenga in equilibrio il sistema universo.

E in questo panorama non posso che citare lei, la dea Kali.

Vieni, Madre, vieni!
Perché terrore è il Tuo nome,
La morte è nel Tuo respiro,
E la vibrazione di ogni Tuo passo
Distrugge un mondo per sempre.Vieni, Madre, vieni!
La Madre appare
A chi ha il coraggio d’amare il dolore
E abbracciare la forma della morte,
Danzando nella danza della Distruzione.

Vivekananada

 

Kali è una divinità dalla pelle scura, benefica e terrifica al tempo stesso. Il suo nome deriva dalla parola sanscrito kala, ossia tempo, ma anche nero.

E pertanto la traduzione del suo nome è “colei che è il tempo” o “colei che consuma il tempo” e “colei che è nera”. Pertanto è la manifestazione terribile, aggressiva e energetica, affatto materna, della Dea, assimilabile alla Morrigan cletica e alla Cailleach irlandese. È la forza prorompente dell’universo inteso come distruzione, necessaria alla successiva ristrutturazione in una nuova forma. Ed è, quindi, associabile al senso della morte come stadio da raggiungere per acquisire il livello sciamanico e psichico superiore.

Non è un caso che stringa tra le mani strumenti di trasformazione profonda che recidono nettamente il legame con il modo manifesto (e materiale).

Tale concetto associato a Pulcinella diviene un ulteriore conferma della natura oscura del nostro personaggio.

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Altri studiosi legano l’origine di Pulcinella addirittura a una divinità egizia, Horus figlio di Iside e Osiride, il cui nome significa Falco, ma anche “colui che è al di sopra”, “il superiore”. E questo ce lo rende simbolo del necessario equilibrio del mondo, una sorta di mediatore, nato dalla congiunzione tra il mondo sotterraneo (Osiride) e della magia e della vita (Iside).  E quindi, rappresenta l’ordine tra vita e morte e, forse, anche la rappresentazione vivente di quella porta che mette in comunicazione i due mondi.

Pulcinella è una sorta di custode della porta?

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Vediamo la sua iconografia.

La sua maschera nera e il vestito candido sono elementi simbolici che richiamano proprio il mondo ultraterreno e il rapporto che questo instaura, e deve instaurare, con quello manifesto (dei vivi insomma). Ed è questo rapporto che deve avere la sua parte orrorifica (simboleggiata da Arlecchino) ma anche ludica, giocosa, grottesca, affinché possa trasportare le energie rigenerative da un mondo all’altro. Anche la cosiddetta voce chioccia di Pulcinella fa riferimento al mondo altro, visto che i gallinacei erano considerati, nell’antichità, psicopompi al pari dei cani, capaci di metterci in contatto con il mondo sotterraneo.

Ecco che Pulcinella rappresenta, con la sua scanzonatezza guascona, la vita nella sua interezza, quella che non fugge la morte, ma la incorpora in un sistema interconnesso, in una rete d’interdipendenza delle varie fasi vita-morte-vita. E senza luce non può esistere la tenebra, cosi senza morte non esiste vita e viceversa.

Ed è questo movimento, visto nella sua natura giocosa, che Pulcinella porta con sé, accettando ogni evento e reinterpretandolo a suo vantaggio, cosi come la vita tenta con l’arte (ballo in fa diesis minore) di gabbare la morte, e la morte stessa tenta con patti e con una danza di gabbare la vita.

Ma alla fine entrambe divengono un solo uno, così come simboleggia perfettamente il Tao.

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Pulcinella non è la parte misterica di una morte Terribile (ossia straordinaria), ma è la speranza che le paure, esorcizzate, affrontate, possano rigenerare la nostra anima, donando nuova linfa vitale e nuovo stimolo a proseguire per quel tratto, nonostante le tenebre ci minaccino a ogni passo. È la morte che significa nuova rinascita; è la gioia di vivere che si prospetta e spera in una nuova forma. È la capacità di meravigliarsi della trasformazione; e forse simboleggia quello che ha tentato di dirci Lorenzo il Magnifico:

chi vuole esser lieto sia

del domani non v’è certezza.

 

E chi meglio dello scugnizzo Pulcinella può accompagnarci nel viaggio conoscitivo del mondo altro?

Chi meglio di lui, con la sua scanzonata irriverenza, può avvicinarci senza pregiudizi e paure al mistero unico e incredibile della morte?

Come scrive Bruno Leoni ( http://www.guarattelle.it)

Pulcinella è la rappresentazione più evidente di quel mediatore tra uomini e divinità che è stato sempre nelle culture più antiche il mediatore eccellente col soprannaturale, “il buffone divino”.

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Queste particolari entità adempiono a un sacro compito: quello di renderci consapevoli delle nostre rigidità strutturali che, spesso, ostacolano il flusso e il processo della vita. Essi sono specchi che mostrano il vero volto, al di là di maschere e ruoli e, così facendo, ci liberano. Ecco che questi divini buffoni operano ai margini della vita e ci portano sull’orlo di un caos rigenerativo mettendo in discussione tutte le nostre certezze. Egli dissolve affinché possa essere rigenerato.

Il buffone porta la fertilità nell’oscurità, porta alla luce gli aspetti del sovrannaturale, liberandoli dall’aspetto terrificante del proibito e del segreto. Ci fa toccare la magia e la follia sacra con mano, ci accompagna verso l’ardua strada di apprendere ad apprendere. Porta nuovo ordine nel centro, permettendo all’eroe di andare incontro al caos per conquistare.

E restando integrato e non integrabile, ci mostra la bellezza dell’anima, quella che, in fondo, resterà per sua natura selvaggia, indomita e ribelle. E che andrà sedotta, forse ammansita, ma mai davvero vinta.

Buffone è solo marginalmente in relazione con l’Io, con la centralità strutturata della coscienza, e tuttavia contiene, porta la vera essenza della vita, la fertilità creativa della gioia e dell’immaginazione umana. Il buffone, per usare il termine di Victor Turner, sembra portare uno spirito di communitas, di gioiosa integrità, di umanità unita piuttosto che frammentata e in conflitto. Egli lavora a servizio del Sé piuttosto che dell’Io.

 Ladson Hinton, Palo Alto

 

“I SIGNORI DI SAMAHIN. CELTI, ROMANI E ETRUSCHI A CONFRONTO.” A cura di Alessandra Micheli

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Samahin, festa sfaccettata dai mille volti come un diamante è la patria di divinità spesso definite oscure e misteriose, se non addirittura sataniche che, ironia della sorte, fanno parte di una tradizione ancor più antica che si riferisce a culti agrari se non addirittura arborei.

Cos’è una divinità agraria e una arborea?

Esse fanno parte dello stesso principio filosofico animista che abbiamo già analizzato per il culto dei morti, sono essenza divine che infondono la loro energia non solo negli uomini ma anche nella vita che li circonda e che fa parte dello stesso ciclo a cui sono soggetti gli uomini.

La divinità arborea è legata a un preciso arbusto o albero ed è collegata, al pari della divinità agraria a un arcaico culto della fertilità e di venerazione del mana divino. Queste energia sono presenti in ogni cultura, da quella indiana ( le yaksi) alle ninfe greche, fino a arrivare in Egitto con la venerazione di Hathor considerata la signora del sicomoro.

Il culto arboreo esprime l’importanza del legame che le antiche popolazioni, nostre progenitrici avevano nei confronti della natura da cui dipendeva la specifica sopravvivenza. Tutto come si è già esaminato precedentemente, formavano un unica entità onnicomprensiva di cui lo stesso uomo non era che una parte, immersa in un tutto che lo conteneva, lo pervadeva ma che al tempo stesso lo oltrepassava, per ricongiungersi con la fonte primaria. Tutto l’universo, ogni manifestazione naturale non era altro che un piccolo assaggio di una divinità più grande più potente1. Pertanto, tenere in considerazione con un atteggiamento di riverito rispetto la natura in ogni suo aspetto, significava rispettare il legame che intercorreva tra cielo ( nel suo più ampio significato cosmico) e terra e tale unione nei celti prendeva il nome di Nemed ossia sacro. La venerazione di alberi, della terra, dei doni che essa elargiva, rientrava nel più ampio concetto di atteggiamento sacrale nei confronti della vita.

Venerazione del sacro unisce i due culti ma non solo. Il concetto di fertilità fa si che sia il culto arboreo come quello agrario siano riferibili a una divinità prigenia molto importante presente ancora oggi nelle nostre tradizioni ossia la Dea Madre. Essa è custode dei misteri ( i culti segreti con cui si sperimenta il contatto diretto con il mondo divino) del ciclo vitale di ogni cosa manifesta, e soprattutto custode del mondo visibile e invisibile. La Dea Madre, nonostante gli anni di oblio è la divinità che ognuno di noi ha custodita nel cuore. Le tradizioni di Samahin ma non solo, quelle che oggi fanno parte delle nostre feste più importanti e che tutto’oggi scandiscono il calendario naturale che i nostri progenitori usavano per raccolto per la semina e per l’allevamento, fanno parte di un antico retaggio etnologico che rappresenta la modalità con cui l’uomo entrava in contiguità con il divino manifesto nella natura, che elargiva doni, promesse ma anche morte e disfacimento. Questa cultura subalterna, quasi sotterranea che aleggia in questa feste, spesso osteggiate come estranee, fanno parte della tradizione contadina mai del tutto scomparsa. Addirittura l’associazione tra il mondo naturale e la morte sembra suggerire una stretta unione tra i due aspetti dell’esistenza che nascondono in essi, nel folclore un cuore pulsate di una tradizione silvana spesso conservata in zone favorite dall’isolamento, accomunate dalla povertà, dal senso di ingiustizia, e perché no con una sorta di arretratezza di fronte al cambiamento che avanza. La sopravvivenza di queste forme di venerazione, di queste credenze ataviche, di ricordi fatti leggenda, racconti tramandati e inseriti nella letteratura, sincretismi religiosi ha permesso che la venerazione della vita, simboleggiata dal culto della Dea, arrivasse fino a noi. L’ethos di una cultura non si perde con gli anni, si trasforma forse, riecheggia nei racconti e nelle maschere, sottile passa in quei momenti di passaggio dove il tempo si ferma e passato e presente si rincorrono. In cui per un istante si percepisce l’immanenza della divinità, si sente quell’essenza a volte oscura ( poiché annebbiata dai secoli e dal progresso che come un velo offusca i nostri sensi) permeare tutto ciò che ci circonda, togliendo il velo di progresso e di civiltà e facendo ritornare l’uomo ai tempi selvaggi, quando l’uomo era istintualità pura, in eterna lotta ma anche in una sorta di tacito accordo, con una natura nemica e amica al tempo stesso. E’ nel suo sfidare il creato che l‘uomo si evolve, facendo si che sia un antagonismo positivo, da discepolo a maestro, laddove il maestro (il cosmo) sfida l’essere umano a superare i limiti. Quest’idea di scontro positivo si è persa nell’arroganza moderna, dove l’umano si crede non più discepolo ma autorità assoluta, sfidando e non in senso positivo Dio non per superare i suoi limiti ma per recintarli e presentarli come superiorità. Ecco che in alcuni istanti, in alcuni scorci del tempo, si può vedere il passato, ritrovare un’innocenza perduta, una saggezza oggi vilipesa e addormentarsi sereni tra le braccia amorevoli della Dea.

Ogni divinità di Samahin è fondamentalmente simile l’una con l’altra, non soltanto in virtù degli scambi commerciali tra i popoli, ma anche perché parlando di uno stesso pensiero, della stessa concezione della vita espressa dai culti antichi. Le differenziazioni sono relative all’ambiente fisico, alle sfide e alla differenziazione biologica della fauna e della flora, senza che questa biodiversità neghi e oscuri la fondamentale origine comune di ogni emanazione energetica. Che sia signora delle Mele, del grano o del sicomoro la Dea è sempre Lei, splendente, fiera amorevole e crudele, compagna amante del Dio e unica speranza per l’uomo.

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La signora della Notte. Cailleach la vecchia

Come abbiamo analizzato precedentemente, Samahin segnava l’inizio del’inverno, stagione difficile, oscura, regno di una natura addormentata quasi morente. Al fruttuoso autunno seguiva il tempo sterile, il tempo sospeso in cui gli spiriti ultraterreni scorrazzavano in libertà, passeggiando in un coltre di gelo che proteggeva la vita dormiente. E cosi Samahin la notte in cui si aprivano le porte, una notte antica e sapiente, di quella sapienza che va riverita, rispettata ma anche temuta in quanto sguardo sul mondo altro era il dominio incontrastato di una divinità antica, sfuggente e spaventosa: Cailleach la vecchia. Questa sembrava essere una divinità indigena della Britannia, la madre montagna della tradizione, nascosta nella storia celtica e custode del famoso calderone sacro. Ed è questo calderone, prototipo del Graal più tardo, in cui venivano immessi i guerrieri e gli eroi per essere guariti e fortificati. Talvolta la Dea si presentava nella storie tardo arturiane con l’aspetto di una Donna anziana nera, orribile alla vista ma, portatrice di conoscenza. Questo camuffamento era la prova somma a cui si sottoponevano i cavalieri, che se riuscivano a sopportarne la vista e la vicinanza ne traevano come dono un’immensa conoscenza delle leggi sacre che regolano mondo e magia. I miti parlano di una divinità che tormenta l’eroe e lo costringe a crescere e maturare a livello psichico e interiore. Lo spinge a superare i limiti, a affrontare i demoni inconsci e vincendo su essi a diventare un re-sacerdote. Proprio per quest’aspetto di evoluzione essi sono stati incorporati successivamente nei racconti allegorici per spiegare il concetto celtico di sovranità, considerata qualcosa di più di un mero esercizio politico, ma di una missione tendente a portare il cielo in terra.

La Cailleach è colei che dona ma anche colei che toglie, è la vita che sopravvive alla morte, alla fine del ciclo rinnovando il seme dentro di se. Per questo suo aspetto è fortemente collegata ai miti relativi a Samahin, per questo significato di custode della vita in embrione, di quell’inverno che appare distruttivo, oscuro e definitivo come fine, e che in sostanza custodisce soltanto in se stessa le mille possibilità della rinascita.

Alcuni tratti di questa particolare divinità sono tipici della Morrigan, anche se quest’ultima è sicuramente caratterizzata da più brutalità ( infatti non a caso Morrigan è la dea guerriera, giustiziera) e fa parte della triade divina rappresentante dei cicli agrario pastorali di vita morte rinascita: Cailleach/Morrigan inverno-morte, Brigit/Arianrhod primavera-rinascita, Cerridwen/Anu pestate-vita nella sua espressione di compiutezza e fecondità e abbondanza.

Un’altra interessante associazione è Cailleasch Ecate, una divinità forse derivata dall’egiziana Hecket e derivazione della grande madre anatolica. Anche Ecate è intermediaria tra i mondi, (quello spirituale e quello mortale) e spesso viene raffigurata a guardia dei crocicchi, luoghi in cui si intersecano due o più vie simbolo delle scelte umane ma anche dell’idea antica di multi dimensione. Nei crocicchi i destini si incrociano, i mondi si uniscono e le possibilità diventano numerose. Attinente a questa sua particolarità Ecate, in alcune rappresentazioni e viene raffigurata a tre testa ( passato, presente e futuro ma anche mondo terreno spirituale e animico) e questa sua particolarità l’accomuna alla divinità italica di Giano. Ecate è la Dea del destino, protettrice delle porte tra i mondi e delle regioni spirituali. Essa controlla le iniziazioni e quindi la conoscenza ed attraversa ogni spazio umano riportandolo all’unità del mondo altro. Nel mondo spirituale tutto è possibilità che attraverso l’anima o mondo animico si riversa e crea il mondo terreno. Siamo noi a interagire nelle dimensioni spaziali come se fosse staccate l’una dall’altra; Ecate in sostanza è colei che riporta e ricollega tutto quello che l’uomo separa in un’unica fonte originaria. E’ la Dea della compiutezza, guida e protettrice dei passaggi sia fisici, età, cicli naturali temporali ( Samahin è uno di questi) ma anche delle’evoluzione prettamente psichica e interiore considerando giovinezza, maturità e vecchiaia qualcosa di più che età reali.

Ecate è una Dea che domina e protegge la mente, unica e sola fonte della realtà che ci circonda.

E’ la forma antiche della divinità che Gregory Bateson illustra nelle sue opere: Ecate è il dio Eco. 2

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Pomona e i Pomenalia.

Alla fine di ottobre, nel mondo romano si festeggiavano due feste dedicate e due divinità particolarmente amate. Una di queste era la festa dedicata alla Dea Pomona e al Dio Vertunmo ( celebrata il 19 ottobre). Che legami avevano queste due divinità sia con quel particolare momento astronomico?

Vertumno era una divinità romana di origine etrusca, che personificava il mutamento delle stagioni. Era quell’energia mistica che creava il movimento astronomico necessario perché i cicli si compissero e i frutti maturassero. Il suo nome deriva dalla radice indo-europea vertere, che significava appunto girare e cambiare ma anche divertimento e perversione, e veniva spesso rappresentato come amante della dea Pomona.

Pomona, (che coincidenza!)è la Dea romana dei frutti ( partrona pomorum) non soltanto quelli che crescono sugli alberi ma anche dell’olivo e della vite. Ecco che il legame tra il Dio Vertumno diventa molto stretto e sono parti di una medesima energia creatrice, di fondamentale importanza per la prosperità del popolo romano.

I pomenalia erano, dunque, le feste in onora della divinità che ogni anno il primo novembre, ossia l’epoca di raccolta, gli antichi romani osannavano la dea, offrendole i frutti delle mele e sperando di propiziarsi la produttività futura. Su questo culto mancano notizie certe e particolareggiate, si può però affermare che esistessero sacerdoti proposti al culto , i flamini pomonali. Unico dato certo giunto fino a noi e raccolto da Ovidio nelle sue Metamosfosi in cui si tramanda il mito di Pomona e Vertumno. Ecco lo splendido mito:

amante della vita all’aria aperta, ma non dei boschi e dei fiumi, piuttosto della campagna e delle sue coltivazioni: “Pari non ebbe nessuna fra le Amadriadi3 latine a coltivare giardini”.

La sua devozione andava tutta ai lavori agresti e non pensava all’amore. Eppure era desiderata da molti, uomini, divinità e satiri, tanto che era costretta a recintare le sue coltivazioni per impedire l’accesso ai maschi troppo focosi. Chi l’amava di più era il dio Vertumno, che per conquistarla si camuffava ora da contadino al lavoro, ora da raccoglitore, e non perdeva occasione per “godersi lo spettacolo di Pomona e della sua bellezza”. Un giorno il dio si travestì da vecchia e riuscì a entrare nel giardino proibito: osservando un albero di olmo su cui si arrampicava la vite carica di grappoli, mostrò alla dea come l’uno prendesse vantaggio dall’altra. Le raccontò anche la storia di Anassàrete, che rifiutò l’amore e si trasformò in una statua di pietra: così cercò di convincere Pomona che il suo destino era l’unione con un dio fedele, giovane e bello, come Vertumno appunto. Ma le parole della vecchia risultarono vane. Ovidio conclude infine:

“Vertumno riprese l’aspetto giovanile […] e apparve a Pomona in tutto il suo splendore, come quando il disco del sole, squarciando la coltre delle nubi, senza che nulla l’offuschi, rifulge luminoso. E si apprestava a prenderla con la forza, ma questa non servì: sedotta dalla bellezza del nume, anche lei fu vinta da amore”.

Pare che ai tempi dell’antica Roma, sulla strada tra Ostia e la città eterna ci fosse un giardino, o un frutteto o addirittura un bosco dedicato alla Dea chiamato Pomonale. Percorrendo oggi la via Ostiense si può immaginare come in tempi antichi esso fosse un luogo idilliaco di serenità e bellezza all’ombra delle fronde dei meli. Nonostante l’industrializzazione selvaggia l’antico culto non si è a del tutto estinto in quanto esistono ancora feste dedicate ai frutti in particolare le mele. Si può distinguere una delle più popolari Pomonaria il cui nome ha un richiamo profondo alla nostra Dea. Inoltre, come indizio della profonda connessione con l’America, alla fine dell’ottocento una città fu battezzata Pomona, vicino a Los Angeles per propiziarne proprio la produzione frutticola.

Forse Hallowwen non è poi cosi estraneo

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Perché Pomona?

Come precedentemente scritto Pomona è profondamente legata a un frutto preciso, la mela. Pomo, infatti è il termine italiano che si usa proprio per indicare questo gustoso e sacro frutto. E il frutto della mela è profondamente legato alla mitologia celtica; non a caso nella mitica isola di Avalon, terra di confine (una sorta di Samahin fisico) la fata Morgana coltiva mele. La mela è un simbolo fondamentale di ogni religione e di ogni folclore poiché rappresenta lo spirito della conoscenza che si acquisisce esplorando il mondo e soprattutto essendo consapevoli delle sue leggi e dei suoi meccanismi. Questo accade se si ha abbastanza coraggio per sfidare le consuetudini e le redige regole che sia la società, che l’ortodossia ci impartisce. Non a caso l’atto che il dio Jahwe punisce è quello di mangiare la male, di rendersi consapevoli del bene e del male ossia di acquisire coscienza. E’ quella ribellione a una regola che ci desidera ciechi, e ingenui a dare avvio alla creazione vera. L’altro mondo, è in stretta relazione con il melo, simbolo di vita eterna , frutto che dona immortalità, ma anche frutto di scienza e saggezza. In pratica il melo e la mela è il mezzo con cui ogni uomo può entrare in contatto con il mondo dei Sidhe.

Quest’informazione riesce a collegare la divinità romana con la più antica tradizione celtica, facendoci comprendere come, in fondo, la feste considerate passaggi tra le due realtà sono fondamentalmente sorelle e figlie di una concezione dell’universo molto più magica di quanto noi oggi possiamo capire. Pomona e le sue mele, i suoi frutti che rappresentano l’abbondanza è la Dea non solo della vegetazione ma anche delle porte che creano questa stretto dialogo tra il regno altro e il regno terreno.

Le mele e ogni tradizione a esse collegata stabiliscono una profonda comunicazione tra le differenti realtà una consuetudine che è sfociata e continua con quella del 31 ottobre e del primo novembre Samohin o Samahin. Per celebrare questo nuovo inizio i druidi si riunivano sulla riva di un lago o di una zona paludosa offrendo mele ai partecipanti e agli dei.

Strana coincidenza o piuttosto un indizio dell’importanza dl cosiddetto tempo sospeso?

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Iside sovrana del cielo

Dal 28 ottobre al 3 Novembre un’altra festa veniva celebrata dai romani: Isia, una celebrazione dedicata alla dea Iside. Figlia della dea Nut dea del cielo e Geb dio della terra Iside era la compagna di Osiride e madre amorevole del Dio Horus. Era una delle divinità più importanti dell’antico Egitto, considerata la prima sovrana, moglie e amante e vedova addolorata alla ricerca del suo sposo perduto. Una Dea che riuscì a riportare in vita un dio smembrato dalla furia omicida del fratello Seth per questo considerata anche la protettrice del regno dei morti, ma anche detentrice del segreto della resurrezione. Oltre al suo oscuro aspetto di Regina dell’oltretomba essa era profondamente associata alla magia, alla conoscenza e secondo il mito assieme al compagno Osiride portò la civiltà nel regno, inventò il sistro, l’agricoltura, la tessitura il ricamo e istituì il matrimonio. Essa custode dei segreti agi come un Nephilim i figli di dio che secondo il libro di Enoch scesero dalla montagna e portano la competenza tecnologica ma anche quella spirituale agli uomini.

Grazie a Cleopatra essa si diffuse nel mondo romano diventando una delle prima divinità venerate con i suoi splendidi templi diventando la Regina Coeli e fondendosi con una divinità ellenica Cerere.

Lo stesso Apuleio la descrive cosi:

O regina del cielo

tu feconda Cerere

prima creatrice delle messi

che nella gioia di aver ritrovato tua figlia eliminasti l’antica usanza di nutrirsi di ghiande come le fiere

rivelando agli uomini un cibo più mite

ora dimori nella terra di Elusi

Tu Venere celeste che agli inizi del mondo congiungesti la diversità dei sessi facendo sorgere l’amore

E propagando l’intera progenie del genere umano” 4

Altra interessante caratteristica di Iside è quella di essere considerata:

Io sono colei che, è che è stata¨ sempre stata e sempre sarà , e nessun mortale ha mai alzato il mio velo.” 

Riassumendo in se tutti i caratteri del dio unico, e facendo presupporre che, questi, un tempo appartenessero a quella dea madre che riassumeva in se tutti i caratteri e gi aspetti della vita e dei suoi cicli. Come i cristiani ( che si impadronirono più tardi delle sue caratteristiche) i suoi seguaci dovevano osservare la fede, la moralità la preghiera. La divina misericordia della Dea li proteggeva e garantiva loro un posto nell’aldilà qualora avessero conservato un cuore puro e scevro da ogni malignità.

Tuttavia, questo aspetto solare nascondeva come abbiamo visto un lato ctonio. Iside era la regina dei misteri e questi dovevano essere protetti dalla massa. Il mito della morte e della resurrezione con la scese negli inferi e il colloquio con l’altro mondo non era dominio di tutti ma riservato a pochi prescelti. Questa pericolosa discesa privava il novizio di ogni precedente identità, da ogni orpello materiale per poi tornare trasformato e vincente sulla terra. Questo era l’aspetto dell’Iside nera, che gli eletti osservavano, potendo essere ammezzi all’onore di sollevarne il velo, una volta compresa e assimilata la sua vera natura di essere semidivino compartecipe della stessa sostanza della Dea. Sperimentando in se la realtà dei multi universi, poteva dominare e far parte delle leggi che regolavano il cielo e quindi la terra.

Iside in sostanza era una guardina della porte spirituali che aprivano la meraviglia su altri universi, su altre realtà. Essa può, a pieno diritto, inserirsi nella schiera dei signori di Samahin.


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Cerere l’Iside greca

Cerere è il nome romano che identifica la Dea Demetra, altra divinità della fertilità e delle messi. Questo suo aspetto di divinità della vegetazione e dell’agricoltura la colloca tra coloro che tutelavano nascita e fecondità e la vita stessa. Come ogni dea della vita possedeva un aspetto ctonio e l’altra sua faccia si manifestava nel suo dominio sulla morte e sulle regione infere. Pianta sacra a Demetra erano fave e fagioli i cuoi baccelli proteggevano il cuore tenero del frutto. Parallelamente l’uomo si avvolgeva del sui corpo fisico come corazza difensiva di qualcosa di più immortale. L’anima. L’anima era il seme che una volta ripiantato nella terra donava nuova vita. Il mondo visibile aveva sempre bisogno di trarre energie vivificanti dal mondo invisibile, quel mundus romano e etrusco posto al centro di ogni spazio vitale il cui contatto rinvigoriva alcuni e terrorizzava altri. Priprio come fa oggi il nostro Halloween. Il tempo in cui si estendeva dominio dell’aspetto oscuro di Cerere veniva festeggiato con vari riti durante le feste di Cerealia. In questi giorni le sacerdotesse attiravano gli spiriti dei defunti offrendo loro dei doni, soprattutto dolci, affinché non facessero agli uomini scherzi bizzarri.

Non vi ricorda scherzetto dolcetto?

In questa celebrazione le sacerdotesse venivano totalmente possedute dallo spirito della Dea in qualità di mater larvorum , Madri degli spettri, diventando esse stesse ponti attraverso cui l’energia mistica dell’altro mondo entrava nel mondo terreno risanando e rinforzando la città e i suoi abitanti. Il mito stesso, peraltro bellissimo e dalle potenti immagini, narra di questo particolare legame che si instaurava tra i due aspetti della vita e della morte. La figlia della Dea rapita dal cupo dio Ade / Plutone viene portata con la sua bellezza, la sua giovinezza e la sua freschezza in una dimensione di morte e di misteri che forse, per la mancanza di contatti con il mondo reale causata dal cambiamento della concezione ontologica del mondo ( non più considerato unico ma separato nei suo aspetti fondamentali) perde quella freschezza e quella positività relegato a mero ambiente di terrore e raccapriccio. Il mondo infero diventa pauroso, spaventoso regno di demoni da combattere e non più universo magico di bellezza e incanto. Ed è con il rapimento di Prosepirna che si tenta di riportare la luce nell’oscurità. La perdita di quel soffio di giovinezza rappresentato dalla figlie, rende però Cerere arida, disperata tanto che questo stato di follia si riversa sui campi che inaridiscono e sulla vegetazione che si risecchisce privata della sua energia. Ed è questo stato di gelo totale che fa si che il dio supremo giove riuscì a persuadere Ade a restituire la figlia alla Dea. Ma come possono le tenebre rinunciare al sorriso che illumina e restituisce sacralità a un mondo oramai perduto di incanto? Del resto Prosepirna oramai parte del regno di Ade, avendone mangiato chicchi di melograno, non può più tornare del tutto nel mondo altro. E’ la storia di ogni favola che rende la vita di ogni giorno impossibile da vivere per chi ha sperimentato i viaggi nel regno numinoso. Perché a dispetto dei miti greci quello di Ade è semplicemente la versione opaca dell’antico regno degli spiriti e dei faerie il sidhe. Ecco che l’unica cosa da fare è accettare il destino; dividersi tra due realtà che oramai fanno interamente parte di lei. Ogni sei mesi cosi la Dea giovane torna nel mondo reale e con le la natura si risveglia rigogliosa e dotata di un nuovo splendore, la terra diventa fertile e il sole brilla sui campi arati. E quando la piccola Dea torna nell’altro mondo il tempo si richiude in se stesso, la natura dorme come in attesa che il miracolo della vita si rinnovi.

Con questo mito si spiega benissimo la magia di Samahin, quell’allegoria del tempo e restituendo al mondo infero il suo antico splendore. Ed è in quei giorni sospesi ad attendere il ritorno della figlia di Demetra che lo scambio vitale tra le dimensioni ha luogo, unendo vita e morte in un’unica realtà archetipa e rinnovando la comunione tra aspetti altrettanto sacrali e altrettanto importanti.

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Samahin e il ritorno della Dea.

Come abbiamo potuto notare le divinità signore di Samahin erano fondamentalmente femminili. Affiancati da sposi e amanti esse rappresentavano il mistero, la conoscenza ma anche i cicli fondamentali dell’esistenza. Erano diverse eppure tutte raccontavano la stessa energia, descrivendola nei suoi molteplici aspetti. La dea spodestata dai conquistatori maschili, tornava ogni anno, in quelle feste del raccolto, in ricorrenze dei morti e in tempi particolarmente pregni di significato esoterico: le cosiddette porte sull’aldilà. Che fossero di origine ellenica, etrusca o egizia esse erano lo stesso antico principio, spaventoso in quanto depositaria di segreti ma anche luminoso perché fautrice della fertilità del suolo e delle messi. Tutti i simboli collegati alla Grande Madre o che si riallacciano alle proprietà del “materno” sono di fatto contraddistinti da una forte ambivalenza, una duplice natura, positiva e negativa, quella della “madre amorosa” e della “madre terribile”. Secondo Jung l’archetipo della Grande Madre è

«La magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile».

Dall’uomo primitivo, Homo sapiens, e per moltissimo tempo, dal 30.000 a.C. e fino ad almeno al 3.000 a.C., l’umanità ha fatto ricorso alla “Dea Unica”, ed è solo dal 3.000 a.C. ad oggi che si è sostituita nell’immaginario collettivo la figura del Dio maschio, che ha comunque assorbito in sè qualità del tutto femminili, come quella della creazione e del dare la vita.

Ma nonostante gli sforzi, nonostante sia spesso stata bruciata come strega o additata come sposa del maligno, ancora oggi in questa particolare festa, la Dea resiste e ci mostra benevola, e terribile il suo splendido volto:

Perché io sono colei che è prima e ultima
Io sono colei che è venerata e disprezzata,
Io sono colei che è prostituta e santa,
Io sono sposa e vergine,
Io sono madre e figlia,
Io sono le braccia di mia madre,
Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli,
Io sono donna sposata e nubile,
Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.
Io sono sposa e sposo,
E il mio uomo nutrì la mia fertilità,
Io sono Madre di mio padre,
Io sono sorella di mio marito,
Ed egli è il figlio che ho respinto.
Rispettatemi sempre,
Poiché io sono colei che da Scandalo e colei che Santifica.

Inno a Iside
Rinvenuto a Nag Hammadi, Egitto;
risalente al III-IV secolo a.C.:

Note

1.quella che Gregory Bateson ribattezzo nella sua opera il Dio Eco, Gregory Bateson, Verso un ecologia della Mente, Adelphi 1972

2. Gregory Bateson, Verso un ecologia della Mente, Adeplhi

 

3. le Amadriadi erano figure mitologiche inventate dai Greci; ninfe che vivevano in simbiosi con gli alberi, essendo un tutt’uno con essi

 

3. Preghiera a Iside (Apuleio, Metamorfosi XI, 2 a Iside Regina)

“Halloween/ Samahin in Etruria”. A cura di Alessandra Micheli

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Le origini misteriose

Gli etruschi rappresentano ancora oggi uno stupefacente enigma. Le loro origini sono ancora sede di accaniti dibattiti tra gli storici e le teorie per dissipare questa nebbia sono variegate. Tra queste possiamo citare l’autorevole voce di Erodoto1 secondo cui gli etruschi proverrebbero dalla Lidia, antica regione dell’Anatolia occidentale e la loro migrazione in Italia troverebbe giustificazione in una gravissima carestia che avrebbe costretto parte dei Lidi a lasciare le loro terre. Con questa motivazione lo storico racconta le tappe di questa prima migrazione:

quelli di loro che ebbero in sorte di partire dal paese scesero a Smirne e costruirono navi e, posti su di esse tutti gli oggetti che erano loro utili, si misero in mare alla ricerca di mezzi di sostentamento e di terra, finché, oltrepassati molti popoli, giunsero al paese degli Umbri, ove costruirono città e abitano tuttora. Ma in luogo di Lidi mutarono il nome, prendendolo da quello del figlio del re che li guidava, e si chiamarono Tirreni2

In questo scritto, dunque, Erodoto afferma la provenienza orientale degli etruschi ed è il primo a identificarli con i Lidi. Da questa testimonianza ne deriverebbero altre come quella di Anticlide di Atene citata da Strabone3 secondo cui i Lidi, durante le peregrinazioni per raggiungere le coste dell’Italia avrebbero accolto nella loro comunità anche gruppi di pelasgici.4 Questa renderebbe l’idea di un’etnia derivata da uno strabiliante incontro prolifico, durante la difficile scelta dell’emigrazione, quasi a sottolinea come passare da un paese all’altro, fosse necessario per arricchire il patrimonio sociale e etnico di ogni società,. Gli etruschi non sarebbero che il risultato di cosa accade durante le migrazioni.

La seconda ipotesi è sostenuta da Dionigi di Alicarnasso5 e asserisce l’autoctonia del popolo etrusco. Nella sua maggiore opera Antichità Romane lo storico smentisce l’identificazione con i lidi e sia con i pelasgici, sostenendo invece che le due culture erano eccessivamente distanti tra di loro:

Io sono convinto della diversità etnica esistente tra Tirreni e Pelasgi e non penso neppure che i Tirreni siano coloni dei Lidi: non presentano infatti lo stesso linguaggio, né si può dire che, pur non essendo più di lingua affine, conservino almeno qualche ricordo della madrepatria. Non venerano neppure le stesse divinità dei Lidi, né osservano leggi e costumanze simili…”; di conseguenza “sono forse più vicini alla verità quelli che sostengono che i Tirreni non sono emigrati da nessun luogo, ma sono invece un popolo indigeno, poiché in ogni sua manifestazione presenta molti caratteri di arcaicità; sia per linguaggio che per modo di vivere non lo si ritrova affine ad alcun altro popolo6

In sostanza, le caratteristiche particolari del popolo e della cultura etrusca non lo renderebbero assimilabile a nessun’altra popolazione orientale.

Però, a ben osservare, nonostante tra le due teorie esiste una disparità non conciliabile di vedute possono essere però usate entrambe per creare una teoria più ampia e organizzata se si presuppone l’esistenza di una commistione tra le migrazioni e le popolazioni autoctone In tal caso risultano convincenti le prove linguistiche che individuano una sorta di mescolanza tra etnie autoctone e per esempio la civiltà nuragica ,insinuatesi in tempi remoti nella regione dell’Etruria. Si parlerebbe di una colonizzazione avvenuta dalla Sardegna (da ovest) invece che dall’Asia minore. Questo creerebbe l’idea di un ponte, non privo di fascino in cui l’isola sarda diventerebbe una terra madre delle civiltà etrusca7.

Secondo alcuni studiosi moderni, tra cui il professor Babujani dell’università di Ferrara e David Caramelli dell’università di Firenze. Questi studi portano alla conclusione che, la fioritura della civiltà etrusca non fu dovuta a un’immigrazione di popolazioni provenienti dall’Anatolia attorno al VIII sec. a.C. Attualmente i discendenti degli etruschi sono relativamente pochi e dispersi in piccole comunità della Toscana, come quella del Casentino e di Volterra. Questi studi potrebbero aver trovato una risposta che porrebbe fine alla diatriba che si trascina da tempo e che vede contrapposta l’ipotesi di Erodoto ( ipotesi orientale) e quella di Dionigi di Alessandria ( ipotesi autoctona). La ricerca pubblicata sulla rivista “PLos One” precedenti studi sull’analisi del DNA mitocondriale avevano trovato una somiglianza genetica tra gli abitanti della Toscana e quelli dell’Anatolia occidentale pur rilevando notevoli differenze tra i due gruppi che vivono a poche decine di chilometri di distanza. Per capire meglio i ricercatori hanno cercato di analizzare in maggior dettaglio geografico le relazioni biologiche tra le popolazioni contemporanee e antiche, prelevando (in accordo con la sovrintendenza archeologica toscana) campioni biologici da ossa scoperte nella necropoli etrusca di Casenovele e di Tarquinia, per analizzarne il DNA mitocondriale (mtDNA) e confrontarlo con quello di diversi campioni di epoca medievale e con quello di un ampio gruppo di toscani che oggi vivono in diverse aree della regione più o meno ricche di reperti storici etruschi. Il risultato ha indicato che il patrimonio genetico degli etruschi è ancora presente ma solo in alcuni gruppi isolati, mentre i toscani attuali non discendono, lungo le linnee femminili, da antenati etruschi.8 L’analisi geografica mostra inoltre che “non vi è alcuna necessaria correlazione tra la presenza di resti archeologici e le radici biologiche degli abitanti delle zone in cui si trovano questi resti. Quindi se le analisi confermerebbero una discendenza anatolica nei dei resti umani provenienti dalle necropoli, (confermando le idee di Erodoto), l’analisi mitocondriale di coloro che oggi risiedono in zone etrusche (Toscana) somiglia di più alle popolazioni dell’Asia minore di quello di altri italiani. Si tratterebbe quindi di un incontro tra due diversi ceppi etnici che hanno portato, lungo i secoli a una nuova e distinta civiltà. Questo fatto smentisce la conclusione degli studi che avevano lasciato supporre un’origine anatolica anzi la valutazione della distanza genetica tra etruschi e popolazioni moderne europee capovolge la situazione dando ragione al nostro Dionigi. Poichè i toscani medievali appaiono discendere direttamente da antenati etruschi si può ipotizzare che il patrimonio genetico delle popolazioni di Murlo e Firenze sia stato modificato con l’immigrazione negli ultimi cinque secoli.

Questo risultato ci porta a analizzare un’altra teoria, interessante sul profilo socio-antropologico è quella proposta dal professor Massimo Pallottino,9 che finalmente contrasta con quella ancor oggi ritenuta valida dagli studiosi ossia quella villanoviana10.

Questo grande etruscologo non parla di origini ma di formazione., in altre parola secondo lui non serve usare il concetto di provenienza per spiegare la loro natura. Al contrario i popoli si formano attraverso un graduale e lento processo che porta al loro sviluppo. In questo modo lo studioso indaga soltanto la loro natura, in quanto ogni popolo è semplicemente il risultato di stratificazioni sul territorio di culture etnie e civiltà differenti. Come la maggior parte dei popoli antichi, cosi come moderni, anche gli etruschi ebbero contatti di scambio commerciale con altri popoli del mediterraneo che lasciarono la loro impronta nella società che si stava formando11.

Gli etruschi non sono stati un popolo unitario ma risulteranno esistenti soltanto a partire dall’VIII secolo a. C. con una propria lingua e proprie usanze senza mai raggiungere una vera e propria omogeneità, questo fa capire come siano stati il risultato dell’unione di diversi popoli con elementi italici, egizi, greci, sirio-fenici, mesopotamici, uratei, indoiranici.

Se le origini appaiono oscure e soggette a diatribe intellettuali, è più chiaro il loro successivo sviluppo che li portò ad affermarsi in un’area precisa che andava dalla toscana, all’Umbria fino al fiume Tevere e al Lazio settentrionale. Successivamente si espanse a nord nella zona padana (attuale Emilia Romagna) nella Lombardia sud-orientale e parte del Veneto meridionale e a sud fino alla Campania. Questa civiltà ebbe profonda influenza sulla civiltà romana fondendosi successivamente con essa alla fine del I secolo a.C. questo lungo processo di conquista anzi direi di assimilazione ( nello stile romano) ebbe inizio con la data tradizionale della conquista di Veio nel 396 a.c. Per quanto riguarda la possibilità di un Halloween etrusco, dobbiamo ora indagare più a fondo la sua straordinaria religione e i suoi riti e la sua concezione del mondo e del divino.

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La religione etrusca e la concezione del mondo.

Era infatti un popolo più di tutti gli altri dedito alle pratiche relgiose, perché eccelleva nell’arte di esercitarle… »

Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 1)

Eccoci a incontrare più da vicino questo misterioso popolo, che divide ancora gli studiosi e che appare velato da una sorta di oblio. Ed è proprio questo costante velo che li avvolge ad aver preservato la loro vera essenza. Essenzialmente politeisti, gli etruschi attribuivano alla religione un ruolo centrale sia nella vita privata che in quella pubblica. Fulcro della religiosità era il tempio che si sviluppo in modo autonomo con caratteristiche peculiari, rispetto ai templi di tradizione greca. Infatti essi erano eretti sia in contesati urbani (in particolare sule acropoli) sia un luoghi extraurbani ( come il santuario di Portonaccio a Veio) sia in punti di transito frequente (porti e valichi). Le preghiere, i sacrifici e le libagioni eseguita in questi edifici sacri e negli altari miravano semplicemente a ottenere la benevolenza della divinità.

La centralità della religione nella vita quotidiana emergeva soprattutto dal punto di vista ritualistico e superstizioso; si credeva che il rigido rispetto delle norme favorisse il benessere della persone e dello stato e che attraverso l’interpretazione di segni divini ( divinazione) fosse possibile determinare e dirigere la volontà degli dei.

Il rapporto tra l’uomo etrusco e la divinità era un rapporto di timore reverenziale (metrus) con una totale sottomissione di fronte alla volontà divina che poteva essere solamente compresa e subita. Erano gli dei a stabilire il destino degli uomini cosi come quello degli stati. L’unica opportunità concessa era di scrutare e prevedere anticipatamente il destino attraverso l’individuazione e l’analisi dei segni che costantemente il divino mandava sulla terra. Alterare in minima parte il fato era però possibile, tramite la ripetizione di atti che compiacevano le divinità. Tali atti dovevano essere gestiti secondo rigide regole comportamentali per non recare alcuna offesa al potere superiore. Anche la religione etrusca si evolse man mano avvicinandosi sempre più alla religione greca. Nel VI secolo a. C. inizia a penetrare nella zona divinità schiettamente greche. Se all’inizio, dunque le divinità etrusche erano un numero imprecisato e con funzioni non ben definite, il contatto greco e anche l’influenza di altre religioni portò a una definizione di un pantheon confuso e incentrato più sull’idea di essenza divina. Questo concetto astratto pone una domanda fondamentale per comprendere se in Etruria possiamo ritrovare antichi culto di passaggio che celebrano il momento in cui i due mondi si incontrano: era o no una religione sciamanica?

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Sacerdoti o sciamani?

La società etrusca era, come abbiamo accennato totalmente imbevuta di sacro, rituali di ogni genere governavano ogni azione quotidiana pubblica e privata dalla più importante alla più ordinaria. Pertanto, il potere religioso ma anche etico e morale, era strettamente interconnesso con quello politico perché la divinità era onnipresente. Gli etruschi erano famosi per la loro religiosità ed erano forse, la nazione più devota ai riti religiosi tanto da eccellere nell’arte di osservarli. Si può capire come accanto al sovrano, la figura più importante era quella del sacerdote, colui che tramite un duro insegnamento poteva comunicare con gli dei. Ma si trattava di un sacerdote o uno sciamano?

Molti tendono a differenziare le due funzioni quella sciamanica e quella sacerdotale. Ma è davvero cosi distante? Lo sciamano (dal tunguso saman chi è in stato di estasi) è colui che, grazie a un insegnamento elitario, può agevolmente mettersi in contatto con la divinità o le divinità. Secondo il dizionario Garzanti12 presso le popolazioni asiatiche o amerindie era la persona o il gruppo di persone a cui si riconoscevano facoltà taumaturgiche e divinatorie, intermediario tra il mondo altro e quello degli uomini. Ancora. Lo sciamano è colui che svolge la propria attività circondandosi di un aura di mistero come se agisse per influenza di entità sovrannaturali. Dunque aura di potere e facoltà divinatorie e curative fanno di un uomo semplice uno sciamano.

Il sacerdote,13 è il ministro di culto la cui funzione è celebrare i riti rappresentando la divinità presso i fedeli. Pertanto i due termini non sono assolutamente in contraddizione ma distinguono le diverse nature di queste figure: la parte più sacra ossia più intima, lo sciamano, che indica la sua capacità di compenetrare la divinità e la parte pratica sacerdotale dove grazie al suo privilegio fa il sacro, ossia compie i riti adatti per rinnovare, garantire e mantenere viva la benevolenza della divinità

Presso gli etruschi chi ottemperava le funzioni religiose erano specifiche e interessanti figure sacerdotali che non solo celebravano i riti appositi ma erano specializzati nelle varie pratiche della divinazione. Tra questi vi erano quelli che si occupavano della divinazione dei fenomeni naturali, quali fulmini ( i fulgoratores) il volo degli uccelli (augures) e gli aruspici coloro che, dissezionando gli animali, indagavano nelle loro viscere (fegato e intestini) il volere degli dei14 e coloro che erano espressamente addetti al culto (cepen) tra i quali il cepen spurana era colui che presidiava al culto ufficiale della comunità. Probabilmente ogni tipo di sacerdote aveva un particolare costume; tutti però avevano come segno distintivo della loro casta il “lituo”, una sorta di scettro dall’estremità superiore ricurva Questi uomini erano dotati di una sorta di aura sacrale e magica capace di instaurare un rapporto speciale con gli Dei saper riconoscere i segni infausti e prevenire la genesi di eventi negativi. Pertanto, è grazie a questa possibilità di “viaggiare” di avere libero accesso al mondo tanto temuto dai comuni cittadini, di poter agevolmente transitare, potevano riconoscere la voce delle divinità nei fulmini, in una pozza d’acqua, ci fa ritenere che, ritenessero il mondo immerso nello speciale mana della divinità.

Per gli etruschi sembra l’umanità e l’universo erano concepiti come inseparabili, interconnessi l’uomo all’altro e non cosi nettamente separati come in altre religioni. Il mondo naturale era considerato nella sua totalità (uomini, pietre, animali, terra cielo aria acqua) una manifestazione e un’incarnazione della realtà divina parallela. Era per questo motivo che, i sacerdoti potevano cogliere l’azione divina in ogni evento e persino in animali a loro sacrificati. Bastava soltanto comprendere e leggere i segni della struttura e dell’espressione della mente divina, fattore essenziale perché lo scopo umano era di assecondare e proteggere il meraviglioso disegno celeste.

l popolo etrusco, seppur raffinato da un punto di vista sociale e politico, fu uno dei pochi a conservare, accanto all’evoluzione una sorta di antico codice primitivo, ossia un principio fondamentale di animismo che fu elaborato in una religione raffinata e quasi moderna. Ma che grazie alla concezione cosmica,particolare li faceva partecipi di un importante eredità sciamanica. E se la loro radice sciamanica era presente, possiamo ritrovare nei loro riti lo stesso concetto base di Samahin, la possibilità ossia che i mondi non sia contrapposti ma più che altro sovrapposti.

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L’etrusca disciplina

Se il rapporto uomo /dio necessitava di comportamenti obbligati erano necessari strumenti di conoscenza e di ricerca dei segni con i quali la mente divina si manifestava e di un codice che ne consentisse la perfetta interpretazione. Questa dottrina era conosciuta come Etrusca disciplina, traducibile con scienza etrusca. I fondamenti di questa scienza erano fatti discendere direttamente dall’intervento divino servitosi di due intermediari: il fanciullo dall’aspetto di vecchio Tagete15, e la ninfa Vegoia16. Questi personaggi semidivini di transizione quasi, avrebbero dettato letteralmente parte delle verità sovrannaturali e insegnato il modo con cui avvicinarsi a esse, tramite le pratica e i mezzi divinatori. Soltanto un testo originario si è salvato giungendo fino a noi, un manoscritto su tela di lino conosciuto con il nome di mummia di Zagabria.17 Si tratta di un calendario etrusco nel quale venivano elencati i giorni e i mesi dell’anno in cui dovevano compiersi specifici atti di culto in onore di determinare divinità con indicazione di cerimonie, sacrifici e offerte.

Altri libri importanti erano i libri rituales che contenevano un elenco e una descrizione scrupolosa e dettagliata dei riti religiosi legati a particolari occasioni. Uno di questi è il rito che abbiamo già trovato nell’antica Roma, dove si costruiva il mundus: il rito di fondazione di una città. Questo veniva effettuato tracciando con il lituo ( il bastone ricurvo in cima usato dalle massime autorità e dai sacerdoti) due rette perpendicolari formando quella che veniva chiamata croce sacrale al cui centro veniva scavata una fossa considerata la porta di collegamento tra i due regni, quello dei morti e quello dei vivi. Questa come già sappiamo, veniva ricoperta di lastra di pietra e in quel punto esatto il sacerdote rivolto verso sud, pronunciava la seguente formula rituale:

Questo è il mio davanti, questo il mio didietro, questa la mia sinistra, questa la mia destra

Il perimetro della città veniva poi tracciato utilizzando un vomere di bronzo e prestando attenzione affinché le zolle di terra sollevate ricadessero all’interno segnando il punto in cui sarebbero state erette le mura. In corrispondenza alle porte cittadine il vomere veniva sollevato. Ogni città doveva avere come minimo tre porte: una dedicata la dio Tinie, uno alla dea Uni e la terza alla dea Minerva. La porta est veniva considerata di buon auspicio la ovest era la porta infausta dove venivano fatti passare i condannati a morte. All’interno e all’esterno delle mura perimetrali ci era una striscia di terra. Il pomerio dove era vietato sia coltivare che edificare, infine all’interno della città le strade venivano tracciate parallele alla croce cosi da formare un reticolato ( tipo scacchiera) dove ogni quadro corrispondeva a un isolato. Interessante notare come, la città, cresceva attorno al mundus considerato l’ombelico energetico da cui la vita di poteva dipanare.

Altri libri interessanti sono quelli acherontici che contenevano la descrizione dei vari passaggi che lo spirito del defunto doveva affrontare una volta giunto nel mondo altro con le formule adatte da pronunciare e gli atti da svolgere per proseguire il camino verso la propria dimora eterna, al fine di elevare lo spirito fino a renderlo in comunione con gli dei. Il contenuto e la funzione sono terribilmente analoghi ai testi dei sarcofagi e al libro dei morti dell’antico Egitto. Il che ci fa presupporre che anche gìl’antico sacerdote etrusco aveva la fede nella credenza di una corrispondenza magica tra macrocosmo e microcosmo tra mondo celeste e mondo terrestre tanto che queste due dimensioni corrispondevano nell’ambito di un preciso e preordinato sistema unitario e tutto ciò che accadeva nella volta celeste ( divisa in caselle che erano le dimore degli dei) doveva avere, necessariamente, una ripercussione sul mondo umano, nella zona corrispondente. Ecco anche svelato il mistero della divisione della città in una sorta di scacchiera terrena.

Quest’interminabile serie di pratiche e cerimonie di riti determinavano i luoghi, i tempi e i modi con cui doveva essere eseguito il servizio divino Aisuna o aisna ( da ais Dio) nell’indicazione delle persone alla quali l’azione competeva e prima di tutto alle divinità alla quale doveva essere posta l’attenzione. I luoghi dovevano essere circoscritti, delimitati e consacrati, i tempi regolati dalle successione cronologica delle feste e delle cerimonie previste ed elencate nei calendari sacri, i modi rispettati fin nei minimi e apparentemente insignificanti particolari tanto che, qualora fosse sbagliato o omesso un solo gesto tutta l’azione doveva essere ripresa da capo.

Nella ritualità ampio spazio era dedicato alla musica e alla danza, alla preghiera, anche ai sacrifici cruenti di determinati animali e poi c’erano le offerte dei prodotti della terra, di vino focacce e altri cibi. L’usanza dei doni votivi era particolarmente diffusa sia a livello ufficiale che a livello popolare. Nel primo caso poteva trattarsi di stature o altre opere d’arte, di oggetti particolarmente preziosi, di prede di guerra e di edifici sacri, nel secondo caso i doni rappresentavano piccoli oggetti per lo più di terracotta ( ma anche di bronzo e di cera) che i fedeli compravano nelle apposite rivendite pressoi santuari.

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Il culto dei morti. Alla ricerca della Samahin etrusca.

L’intima connessione tra mondo umano e mondo divino ebbe conseguenze molto importanti anche sul culto dei morti come è ben rappresentato dalle innumerevoli necropoli etrusche giunte fino a noi perfettamente conservate e ricche di informazioni utili.

Le pratiche religiose verso la venerazione dei defunti erano legate alla concezione della continuazione, dopo la morte, di una speciale attività vitale del defunto, a questa si accompagnava l’idea che quell’attività avesse luogo nella tomba e fosse congiunta alle spoglie mortali in qualche misterioso modo. Tutto dipendeva dalla collaborazione dei vivi tanto che i familiari del trapassato erano tenuti a garantire agevolare e prolungare , per quanto possibile la sopravvivenza con adeguati procedimenti. La prima era di donare al morto una dignitosa dimora; la tomba, che sarebbe diventata la sua nuova casa. Subito dopo veniva il dovere di fornirgli un corredo di abiti, oggetti d’uso comune e scorta di cibi e bevande. Il resto era un arricchimento e poteva variare a seconda del rango sociale e delle possibilità economiche dell’erede. Si poteva foggiare la tomba sia nell’aspetto pur parziale della casa d’origine o soltanto allusivo e dotarla di suppellettili e arredi a affrescarla sulle pareti con scene di viga quotidiana o dei momenti più significativi della sua vita. Quanto alle pratiche dei funerali esse andavano dall’esposizione del compianto al pubblico al corteo funebre e al banchetto davanti alla tomba. Tutte queste pratiche dovevano essere compiute in onore di divinità connesse con il mondo dei morti. Un culto antico, dunque, e ancor presente nell’immaginario collettivo da rispettare e venerare18.

La situazione tuttavia cambiò con il tempo per effetto delle suggestioni provenienti dal mondo greco nel corso del V secolo a. C. alla primitiva fede di sopravvivenza del morto nella tomba si sostituì l’idea di uno speciale regno dei morti, immaginato sul modello dell’Averno ( o Acheronte) greco, il regno dei morti governato dalla coppia divina di Aiuta e Phersipnai.

Il destino ultimo dell’anima rivestiva nel mondo etrusco un importanza fondamentale. Allo stesso modo di latini e greci, gli etruschi credevano nell’esistenza di un oltretomba destinato a contenere gli spiriti dei trapassati, ed era immaginato non come uno spazio immateriale, ma come un mondo reale e complesso19. La presenza di pozzi sacri nei quali erano gettate e versate offerte per gli dei dell’oltretomba e le notizie contenute nella fonti antiche relative al mundus ( il varco di collegamento con il mondo infero aperto al momento della fondazione di una città) chiariscono che l’altra dimensione nel mondo etrusco si trovava nel sottosuolo non diversamente dagli inferi romani o dall’Ade greco. Come abbiamo già analizzato questo viaggio era arduo e pericoloso, necessitava di formule precise.20 Venne cosi a configurarsi n mondo oscuro abitato da divinità infernali e dagli spiriti di antichi eroi. Verso il II secolo, quando il tramonto della loro civiltà apparve inarrestabile, un senso di angoscia si impadronì degli etruschi e le tombe si riempirono di terribili figure demoniache; creature dalla carne bluastra, serpenti, demoni traghettatori, mostri che ghermivano le loro prede: alla primitiva sopravvivenza del morto nella tomba, si sostituì l’idea di un regno dei morti, immaginato sul modello greco; il regno dei morti divenne cosi terrificante e spronò a un timore reverenziale cosa prima acquistava il sapore di una quotidianità naturale.

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Il cammino dell’anima verso la salvezza nel mondo etrusco

Pur non appartenendo di diritto al discorso sulla presenza di una festa di Samahin nel mondo etrusco, trovo interessante esaminare la mitologia relativa al viaggio dell’anima nel mondo altro. Questo perché si rintracciano elementi propri dell’iconografia moderna di Halloween con la sua ricca presenza di mostri e di prove terrificanti e soprattutto, si rilevano enormi somiglianze con il mondo egizio e addirittura amerindo. L’incontro con il mondo sotterraneo ha le connotazioni di un’esperienza terrificante; laddove il termina va considerato nella sua originaria accezione etimologica. Terrificante deriva dal francese terrifiant e lo si usa come aggettivo per identificare la sensazione di terrore che si avverte di fronte e qualcosa o qualcuno. Ma non è soltanto un aggettivo di spaventoso. Come uso enfatico significa anche eccezionale, fuori dall’ordinario.

Ed è questa la visuale che, il mondo etrusco aveva della morte. Il cammino dell’anima nell’altro mondo aveva le connotazioni di un’avventura spaventosa ma soprattutto fuori dall’ordinaria quotidianità, qualcosa di unico e misterioso.

Il tortuoso cammino del trapassato iniziava con l’entrata in quel mondo altro sorvegliato dalla figura di Tuchulcha, un mostro con orecchi di asino , muso di avvoltoio e serpenti nei capelli. Giunto alla porta il defunto veniva ricevuto da due gruppi di demoni: il primo guidato da Charun ( dal viso deforme) che armato di martello aveva il compito di condurlo nell’aldilà, l’altro condotto da Vanth( la Dea dalle grandi ali) che con una torcia illuminava il camino nell’oltretomba. Il defunto procedeva di solito a piedi verso la dimora infernale, altre volte a cavallo ma il suo viaggio era sempre terribile, circondato da ombre minacciose. Un destino inevitabile a cui nessuno poteva sottrarsi21. Non mancava la possibilità di migliorare la condizione delle anime attraverso riti speciali di salvezza contenuti nei libri acherontici che prevedevano sacrifici cruenti a divinità infere compiuto presso le tombe. Questi avevano il compito di trasformare le anime dei defunti in divinità inferiori “anime divine”.

Un altro tema caro alla nostra Halloween…

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Conclusioni.

Nel viaggio nel mondo degli etruschi non ho trovato date specifiche che contemplavano un preciso giorno da dedicare ai morti. Questo sia per la mancanza di informazioni, sia perché il mondo altro era presente quotidianamente nella vita dei nostri antichi avi. Sia nell’epoca primitiva sia nel successivo periodo di ellenizzazione, l’altro mondo era una parte importante della religiosità etrusca: attorno a questo si costruivano città e si rinnovava attraverso i riti il costante legame rigenerativo con il mondo degli spiriti e degli dei. Anche la tarda concezione che prevedeva il cammino dell’anima verso la salvezza, contempla una serie di idee che sono poi confluite nell’Halloween moderno, il terrore e la concezione di quella magica notte come un ponte tra l’altro mondo e il nostro, popolato da creature mitologiche, deformi spesso ,che con il loro simbolismo erano i custodi delle porte proibite. Solo il degno, solo colui che conosceva la risposta giusta, o il giusto rito poteva passare indenne ( la frase trick o treat ha la finalità: la formula giusta per ottenere dolciumi è simbolicamente la parola di rito che dona l’abbondanza e la salvezza) Questo fa da sfondo alle molte storia di eroi e fantasmi, che tramite lo shock dell’incontro con i demoni, subiscono la mutazione da esseri umani in esseri dotati di una dote speciale. In più anche nel mondo etrusco abbiamo il concetto di mundus. Il mudus era l’ombelico delle città, il punto da cui tutto partiva e tornava, origine e fine di ogni cosa. Questo mundus non era altro che il passaggio parto in determinate occasioni, che permetteva a ogni uomo di penetrare il modo tenebroso, con le sue ricchezze e la sua spettacolarità: ed è questo il senso profondo che aveva per gli antichi celti la notte di fine ottobre. Gli sciamani etruschi erano i depositari di questo legame occulto e lo servivano costantemente e lo alimentavano con le energia profuse in preghiere e gesti rituali. Samahin nella sua ottica di tempo sospeso faceva parte di una specifica concezione del mondo unitaria che era in possesso di società particolarmente evolute a livello ontologico e che necessariamente hanno dato anima all’Italia. Cosicché il mondo dei morti, tutt’oggi sia celebrato con quel terrore reverenziale che nutrì la fantasia dei nostri progenitori e alimentò i racconti terrificanti nelle solitarie notti. Halloween /Samahin diventò cosi, da rito agricolo e da concezione del mondo, un profondo senso del sacro che trova nel terrore la sua forma più grandiosa:

terribilis est locus iste

hic domus dei

est et porta coeli

(qesto è un luogo terribile

Qui è la dimora di dio

e la porta del cielo)22

Ricordando che letteralmente significa questo è un luogo che incute rispetto, è la porta del cielo e la casa di Dio.

Ecco cosa era per gli antichi romani cosi come per i celti ( e aggiungo anche gli etruschi) il tempo sospeso: il luogo in cui la divinità apriva i suoi misteri agli uomini degni. 

Note

1. Erodoto, Storie I, 94

2. Storie, I, 94.

 

3.   Strabone, Geografia V, 2

 

4. Si tratta di una popolazione pre ellenica stanziata nel nord della Grecia.

5.  Storico e retore greco (60 a. C circa- 7 a. C.). Autore di opere retoriche e della Storia antica di Roma, che comprende la storia romana dalle origini al 264 a.C., inizio delle Storie di Polibio.

 

6. Antichità romane, I, 30.

 

7.  Strabone menziona esplicitamente le incursioni di pirati sardi sulle coste della Toscana e fa allusione alla presenza di Tirreni in Sardegna. Non mancano d’altra parte testimonianze di relazioni commerciali e culturali tra la Sardegna nuragica e l’Etruria villanoviana e orientalizzante, con particolare riguardo alla presenza di oggetti sardi soprattutto nella zona mineraria (è possibile un motivo di connessione tra i due grandi distretti metalliferi dell’area tirrenica). A Vetulonia fu scoperta fra l’altro una delle più ricche navicelle in bronzo di produzione nuragica. Ma importazioni sarde appaiono più a sud (Vulci, Gravisca) tra il IX e il VI secolo. Né mancano elementi di affinità tipologica e decorativa con prodotti villanoviani: tipiche ad esempio le brocchette a collo e becco allungato, la cui presenza è caratteristica della necropoli vetuloniese. Si potrebbe anche discutere la questione se le strutture a pseudocupola (tholos) caratteristiche delle tombe orientalizzanti dell’Etruria settentrionale siano reminiscenze di eredità egea dell’età del bronzo accolte per influenza dell’architettura dei nuraghi sardi dove questa tecnica è particolarmente diffusa. Ma anche in Sardegna appaiono tracce di un’influenza etrusca: forse nel nome Aesaronense di uno dei popoli della costa orientale dell’Isola (cfr. la parola etrusca aisar, ossia dei); ma anche in alcuni tipi di oggetti, sia pur rari, come le fibule… » Massimo Pallottino, Etruscologia, Hoepli, Milano, 1984, 120-121

 

9. Manuale di Etruscologia, milano 1984

 

10.  secondo la quale le radici protostoriche degli Etruschi affonderebbero in un’antica civiltà abitante proprio i luoghi che costituiranno l’Etruria (la civiltà villanoviana appunto, chiamata così poiché i primi ritrovamenti archeologici avvennero a Villanova, una località nei pressi di Bologna) e, più precisamente, in una particolare fase di sviluppo di quella civiltà: la fase orientalizzante, raggiunta la quale non si parla più di civiltà villanoviana, bensì di civiltà etrusca. E proprio allora si assiste alla nascita di un pantheon etrusco molto rassomigliante a quello greco, dove si trovano notevoli corrispondenze tra le divinità etrusche e quelle greche (accanto a divinità indigene, nazionali, come quella di Voltumna, che non trova nessuna corrispondenza tra gli dèi dell’Olimpo).

 

11.  L’alfabeto stesso adottato dagli Etruschi è chiaramente un alfabeto di matrice greca, e l’arte etrusca è influenzata dai modelli artistici dell’arte greca. E non solo. Negli etruschi si avvertono influenze di altre civiltà come quelle dei commercianti orientali 8 si pensi agli elementi orientali della lingua etrusca o al periodo artistico orientalizzante) ma anche i popoli sardi. A questa provenienza di riferisce la leggenda relativa alla fondazione di Populonia da parte dei corsi (citato da Servio X, 172

 

12. Garzantilingfuistica.it

 

13. dal latino sacerdote composto da sacer sacro e dhe radice indoeuropea che indica il fare

 

14.  Famoso per lo studio dell’auruspicina è il famoso fegato di Piacenza,riproduzione in bronzo di un fegato con cui i sacerdoti insegnavano ai discepoli l’arte di fare previsioni sul futuro fondandosi su quest’osservazione. Proprio il fegato appena nominato, assieme alle bende che avvolgevano una mummia e che in origine costituivano un libro in lino contenente una sorta di calendario religioso, sono i documenti più importanti per ricostruire queste antichissime credenze religiose e pratiche rituali

15. Giovane semidio figlio di Genio e di Tinia emerso dal solco di un aratro nella campagna di Tarquinia e da lui rivelati agli Etruschi. Questi libri trattavano l’interpretazione dei segni divini attraverso lo studio delle viscere animali (aruspicina).

 

16. Sono chiamati anche Vegonici, dal nome appunto della ninfa Vegoia da cui avrebbero avuto origine. In essi si trattava lo studio dei fulmini. Il fulmine era considerato il segno divino più importante, poiché era la manifestazione materiale del dio Tinia. A seconda della parte del cielo da cui veniva scagliato (Tinia poteva usufruire di tutti i settori della volta celeste e addirittura delegare altre divinità), del colore, della distanza, della forma e di altri aspetti, si cercava di interpretarne il significato. Importante era anche il numero dei fulmini scatenati; Tinia, infatti, disponeva di tre folgori: la prima veniva considerata un semplice avvertimento; la seconda era segno di minaccia; la terza, più potente, significava distruzione certa.

 

17.  E’ cosi chiamato perchè custodito del museo di questa città che lo acquisi alla fine del secolo scorso dopo che era stato ritrovato in egitto ridotto in bende per avvolgere una mummia.

18.  Il mistero del passaggio dalla vita alla morte è rappresentato in maniera estremamente suggestiva in un famosissimo affresco scoperto in una tomba di Paestum (in Campania). Questa, conosciuta come Tomba del tuffatore, pur appartenendo a un membro dell’aristocrazia greca che governava la città, risente degli influssi artistici esercitati dall’ambiente artigiano di Capua etrusca. Qui il defunto è rappresentato come un giovane, nudo e solitario, che, dall’alto di un trampolino, si tuffa in un mare tranquillo.

 

19.  Il mondo dei morti è separato e distinto da quello dei vivi, per andarvi ci si può tuffare, come nell’appena menzionata Tomba del tuffatore, oppure ci si può essere condotti da un demone infernale, geloso custode dell’aldilà. Il “Caron dimonio, con occhi di bragia” cantato da Dante, cioè l’essere che nella Divina Commedia traghetta Dante e Virgilio nell’Inferno, non è altro che una rivisitazione di Charun, che, nella religione etrusca, svolgeva le stesse identiche funzioni.

 

20. e scene figurate in cui sono riconosciute rappresentazioni di questo impervio viaggio sono contenute, ad esempio, nella Tomba Campana di Veio (fine del VII sec. a.C In questa tomba, i defunti, nudi e a cavallo, attraversano un paesaggio connotato da elementi vegetali fantastici guidati da demoni psicopompi di aspetto umano ma di dimensioni maggiori (quello più avanzato porta un’arma che ricorda quella del Charun, l’altro regge le briglie e ha una lunga chioma che lo può caratterizzare come demone femminile, e dunque come Vanth); sono presenti inoltre fiere simili a leoni e pantere, di varia forma e dimensioni, tra cui si distingue una sfinge con testa umana. I cavalli su cui sono trasportati i defunti si dirigono simbolicamente verso la porta che separa la prima dalla seconda camera, più interna, della tomba[32]. Una scena apparentemente analoga è nel timpano della parete di fondo della prima camera della Tomba della Caccia e della Pesca a Tarquinia (fine VI sec. a.C.), con l’aggiunta di due servitori che seguono i cavalieri portando oggetti e selvaggina necessari al lungo viaggio. Nella Tomba del Cardinale di Tarquinia (III sec. a.C.) una defunta è trasportata su un calesse tirato da due demoni psicopompi alati (apparentemente due Vanth); altrove nella stessa tomba i Charun guidano i defunti che avanzano a piedi. Nella Tomba del Tifone (II sec. a.C.), sempre a Tarquinia, un demone munito di grande torcia accesa (una Vanth?) guida un corteo di togati accompagnati da un altro demone dalla pelle di colore blu (presumibilmente un Charun).

 

21.  Pare che Dante, si sia ispirato per la stesura dell’Inferno, alle pitture dei Demoni che aveva visto nelle tombe di Tarquinia.

 

22.  La frase è tratta dall’Antico Testamento (Genesi, 28; 17). In questo passo si racconta come Giacobbe, fermatosi per riposare nella città di Beth-El (che in ebraico significa dimora di Dio) ebbe in sogno la visione di una scala che saliva dalla Terra al Cielo. Al risveglio eresse in quel luogo una stele che consacrò con queste parole: “Terribilis est locus iste! Haec domus Dei est et porta coeli” (Questo è un luogo terribile! Questa è la casa di Dio e la porta del Cielo).

La festa dei morti nell’antica Roma. L’Halloween nostrana. A cura di Alessandra Micheli

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Introduzione

La festa di Halloween è oramai sempre più celebrata anche in Italia, dove molti studiosi hanno rintracciato feste che sembrano condividere con la festa celtica, le sue duplici nature. Le feste celebrative dei morti con il loro corredo di simboli e di rituali si ritrovano ovunque: in Sardegna, nelle regioni del nord ( che condividono una comune radice celtica) e nelle regioni centrali del Lazio con la sua influenza romana e etrusca.

C’è da dire che la religione romana, pur essendo politeista non fu mai una religione completamente autoctona, ma fu profondamente influenzata dalle tradizioni religiose della penisola italica (Etruschi, sabini Sanniti e Latini), dalle popolazioni dell’Europa centrale come i Galli e i Celti, sia, dopo la conquista della Grecia avvenuta tra il III e il II secolo a.C. dalla religione greca. Una delle caratteristiche della religiosità romana fu l’apertura alla concezioni sacrali di altri popoli di cui spesso assimilavano divinità credenze e riti. La famosa Pax Romana consisteva proprio in questo: rispettare le tradizioni religiose, politiche e sociali dei popoli conquistati e integrarle con la legge e la giurisdizione romana.

L’uomo romano antico fu profondamente religioso, unendo uno spirito pratico a un sentire profondamente il senso del mistero, era poco sensibile al contorto ragionamento spesso complesso della cultura Greca trovandosi più a suo agio con sistemi valoriali che avevano con il mondo divino un rapporto più diretto e semplice in cui primeggiava il senso di unione, di giustizia e di pietas. La pietas era un sentimento tipico del mondo romano e si esprimeva nella venerazione e nell’onore dovuto agli dei e allo zelo per le azioni rituali quali preghiere e sacrifici.

Questo acuto senso del dovere si traduceva in un obbligo a onorare le divinità e impegnarsi per il bene comune, per rendere efficace e concreto il proprio rapporto con il sacro. Egli doveva compiere in modo corretto i riti tradizionali e evitare ogni impurità ( considerando l’impurità un atto contro l’ordine stabilito e fisso del cosmo che si rifletteva nell’ordine umano. Qua abbiamo anche una profonda influenza del pensiero egizio)

Ogni reato, quindi, era un impurità che si trasmetteva non solo al singolo ma alla comunità intera, in una concezione di onnicomprensività e di una società considerata come una ragnatela che collegava tutti e il cui atto più scellerato era conseguenza per la ragnatela intera con ripercussioni per tutti coloro che ne erano immersi. Una sorta di concetto di effetto farfalla ante litteram.

Accanto alla venerazione e al culto dovuto agli Dei era molto sentita la venerazione alle divinità protettrici della casa I lari e i penati, e anche al culto dovuto agli antenati presenti in forma simbolica nella casa e depositari delle tradizioni non solo della famiglia ma dell’intero assetto sociale. Come si vede per l’antico romano la coesione sociale e la cooperazione era tutto, la base dell’agire politico e un modo per rendere una comunità forte e invincibile; ogni crisi interna minacciava questo ordine preciso e considerato dono degli Dei.

Le celebrazioni religiose erano legate a momenti particolari. Oltre al culto riservato all’imperatore rappresentante della giustizia e dell’unità, vi erano istanti particolari soggetti alla venerazione religiosa. Il tempo per i romani era scandito da forze divine che li dividevano in tempi propizi o fausti e tempi difficoltosi o sciagurati , infausti più adatti alla purificazione alla celebrazione di riti che alle grandi imprese. Ogni mese era, quindi, dedicato a celebrazioni particolari.

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Il culto dei morti nell’antica Roma. L’orcus romano

Per i romani la rappresentazione della morte si identificava con Mors, più tardi personificata dalla figura di Orcus.

La credenza in questa divinità del mondo infero era connessa all’idea di sopravvivenza dell’anima. Secondo gli antichi, quando la vita si spengeva, l’anima scendeva nel mondo sotterraneo regno di Ade. Alle anime veniva poi consentito di tornare in un certo periodo nel mondo dei viventi. Da questo scaturiva la necessità di un culto ben preciso in grado di accompagnare i defunti verso la dimora eterna. Queste anime si trasmutavano in essenze divine Manes o mani1 che con la loro presenza rendevano sacro il luogo di sepoltura del defunto. I manes rappresentavano le forze animistiche reali, veri e propri membri spirituali della comunità familiare alla quale erano appartenuti in vita e a comunità a parte, prive di carattere personale. Quali membri della collettività erano ritenuti sacri e a essi venivano consacrate le tombe e si tributavano numerose pratiche rituali, in diverse festività.

Il rapporto con la comunità dei defunti era regolato da una serie di comportamenti tradizionali, atti a garantire un adeguato riposo. Al momento del decesso era il pater familias (capofamiglia) a organizzare il trasporto funebre e le funzioni necessarie per un dignitoso trapasso.2

Andiamo a analizzare più nel dettaglio le festività, per capire se può esistere un vero Halloween romano.

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Le festività romane. Incursione nell’altro mondo. I feralia

Che a Roma esistessero culti autoctoni è fuori discussione. Ovidio stesso in ben sei libri descrive le feste del calendario romano in cui febbraio era il mese dedicato al ricordo dei defunti. Tra queste feste possiamo annoverare le più importanti i feralia ossia una sorta di originario Halloween romano

I feralia si chiamavano cosi perché durante quei giorni i vivi portavano le offerte3 ai defunti, tali riti servivano a placare gli spiriti dei defunti e renderli inoffensivi nei confronti dei viventi grazie all’aiuto dei Mani gli spiriti buoni.

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I Lemuralia. L’erede del culto di ognissanti

Questa festa si può considerare l’erede diretta dell’odierna festa di ogni santi. Lemuria o lemuralia, e fu cristianizzata da papa Bonifacio IV come festa dedicata a Sancta Mariae ad Martyres per poter cosi sostituire in un tentativo di sincretizzazione, lo scomodo lemuria romano

Era una festività in cui si celebravano gli spiriti e cadeva nel mese di Maggio. Si offrivano fagioli ai morti e le vestali preparavano la mola, una salsa fatta con il primo grano della stagione. Ovidio rileva che, in questa festa, esisteva l’usanza di allontanare entità maligne lanciando fagioli neri sopra la spalla. Era il pater familias a celebrare la ricorrenza. Si alzava a mezzanotte, girava per l’abitazione a piedi nudi buttandosi dietro i fagioli e ripetendo la formula:

Invio questi fagioli e con questi redimo ciò che è mio”

Tutto questo per nove volte. La famiglia avrebbe poi percosso dei vasi di bronzo ripetendo per altro nove volte:

fantasmi dei miei padri e antenati è andato”

Vi ricordano forse qualcosa?

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Il mundus. La Samahin romana.

Protagonista indiscusso del rito di venerazione dei defunti era il Mundus. Quello di mundus era un concetto che apparteneva alla religione romana arcaica ritenuto un retaggio della commistione con il mondo etrusco.

Cos’è questo mundus?

Festus, in accordo con Catone ci spiega:

Il nome Mundus proviene dal mondo che sta sopra di noi

Questa spiegazione ci dice molto sull’originario concetto di mundus perché pone l’accento sulla dimensione cosmica di questa realtà nel vano tentativo di separarlo a un origine ctonia che terrorizza, ma è proprio questa precisazione che fa collegare l’antico concetto romano alla realtà celtica dell’Anwnn, il mondo infero.

Questa realtà invisibile legato alla profondità della terra è legato ai misteri del femminile, dominio di Cerere la Dea delle messi e della rinascita. Questa divinità “positiva” aveva anche una parte oscura, quella che rendeva il terreno scarno e desolato durante gli atroci mesi invernali. Questo concetto era fisicamente rappresentato da uno spazio sacro, reale e meta di una venerazione costante.

Il Mundus era un edificio sotterraneo con un pavimento semicircolare, una arcaica fossa praticata nel terreno4, prima nuda poi lastricata, che metteva in contatto con le divinità del mondo sotterraneo a cui si offrivano sacrifici e doni: frutti della terra, resti sacrificali, formule tracciate su tavolette di argilla.

La fossa chiusa per tutto l’anno, veniva aperta in tre giorni precisi: il 24 Agosto, il 5 Ottobre e l’8 Novembre con la formula “il mundus pater” ossia “il mundus è aperto”.

In questi tempi sacri, i due universi dei vivi e dei morti venivano in contatto e in quei giorni le anime dei defunti potevano tornare nel mondo e aggirarsi per le strade della città indisturbati.

Delle festività relative al mundus e di come essere erano celebrate, i riti e le formule sacre, abbiamo poche scarne notizie anche se ne possiamo avere almeno un’idea vaga dal termine usato da Plutarco per descrivere questo rituale: telete. Q uesto termine serviva per indicare i sacri misteri di Cerere ( Demetra) e il mito fondante questo particolare culto. Il mundus poteva quindi essere definito perfettamente Cereus ossia il mondo di Cerere. E Cerere era la Dea che univa vita e morte come apprenderemo in seguito.

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Lapis Manalis.

La lapis manalis era profondamente legata al mundus di cui era una parte importante. Altro punto centrale di congiunzione tra due realtà che sono parte di un unico tutto, la lapis manalis era la pietra sacra agli dei Mani o Lari5, con cui veniva ricoperta la fossa centrale. Se il mundus simboleggiava il mondo infero la lapis invece rappresentava la volta celeste.

Sembra che in seguito la fossa venisse sostituita da un altare che veniva reinterrato e scoperto di nuovo asportando la terra ad ogni cerimoniale. E’ chiaro che il rito più antico fosse legato alla consultazione degli spiriti o della Dea dell’oltretomba.

I romani ritenevano che la lapis fosse anche la porta dell’orco, attraverso la quale le anime penetravano nel mondo dei vivi.

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Celebrazioni romane del 31 Ottobre.

E’ interessante sottolineare come alla fine di ottobre (celebrazione classica di samahin) sono presenti nel calendario romano due feste particolari: una dedicata alla dea Iside e un’altra dedicata al dio Vertumno una divinità associata alla Dea Pomona.

Erano due feste molto importanti di cui si sa relativamente poco ma che avevano in oggetto due divinità interessantissime.

Isia era la festa dedicata alla Grande Dea egiziana celebrata dal 28 Ottobre al 3 novembre. Iside la cui originaria associazione con il dio Osiride, fu sostituita dalla dinastia tolemaica con quella del dio Serapide. Venerata come madre e sposa e protettrice dei naviganti, si diffuse nel mondo ellenico, fino a giungere fino a Roma. Grande impulso lo dette Cleopatra quando giunse nella capitale con il vittorioso Cesare che le concesse di edificare nel suolo vari templi. In breve, il culto di Iside conquistò molta gente, un particolar modo le matrone. Verso l’88 a. C. era in funzione a Roma un collegio di pasthopori, ossia una confraternita di sacerdoti che portavano nelle processioni piccole edicole con immagini divine della Dea.

Talvolta la Dea fu assimilata a molte divinità femminili locali quali Cibele, Demetra e Cerere e molti templi furono innalzati in suo onore. Il più famoso fu quello di File, l’ultimo tempio pagano a essere chiuso nel VI secolo. Durante il suo sviluppo il culto si distinse per processioni e feste allegre e ricche e perché al contrario dei templi pagani, i fedeli potevano entrare e pregare nel tempio che era più grande e ornato.

Le sacerdotesse della Dea vestivano solitamente in bianco e si adornavano di fiori; a Roma, probabilmente a frutto dell’influenza del culto autoctono di Vesta, dedicavano talvolta la loro castità alla Dea Iside. Sull’Appia antica c’è un sarcofago con 4 effigi: sopra quella dei genitori, sotto quella della prima sacerdotessa di Iside, ma al suo fianco non ha una figura maschile, bensì l’umbone solare, il simbolo del maschile interiore ritrovato, dunque casta e senza marito, ma completa del suo maschile in sé stessa.

La festa in onore della Dea Pomona e di Vertumno

Accanto a queste feste, ne esisteva un altra, molto sentita, dedicata alla divinità Pomona, la Dea dei frutti e dei semi. Motli studiosi rintracciano, dunque in queste manifestazioni di culto le antiche origini di Samahin/Halloween

Il nome della dea Pomona è la crasi tra pomorum, genitivo plurale di frutti, epatrona, signora. Del resto pomo è il termine che si usa anche in italiano per indicare alcuni frutti, in primis la mela. Pomonalia invece era la ricorrenza che ogni anno, il primo novembre, in epoca di raccolta per l’appunto, gli antichi Romani festeggiavano in suo onore offrendole in dono delle mele e sperando di propiziarsi la fertilità. Su questo culto mancano notizie particolareggiate, ma è certo che esistessero sacerdoti preposti, i cosiddetti flamini pomonali. In compenso Ovidio nelle sue Metamorfosi ha raccontato dettagliatamente e tramandato fino a noi il mito di Pomona e Vertumno. Quest’ultimo, oltre a essere il compagno della dea, era anch’egli una divinità e condivideva con “la signora dei frutti” le Vertumnalia, festa del raccolto a lui dedicata il 13 agosto di ogni anno.

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Conclusioni

Con il cristianesimo, tutte queste festività si raccolsero sotto la tradizione del 1 Novembre. Tramite l’uso del sincretismo, la chiesa cattolica poté far propri gli influssi delle culture soppresse, senza che il passaggio dal paganesimo al monoteismo parziale, avesse una connotazione eccessivamente crudele. Con la sua ansia totalizzante, il cristianesimo cattolico ebbe l’accortezza di, non soltanto convertire a forza laddove era necessario, ma di convincere le popolazioni autoctone che , in fondo le loro festività avevano già un importante cristiana e che alla luce del cristo tutto assumeva una dimensione salvifica dall’errore del politeismo, un errore nato per semplice ignoranza.

Anche il mundus pater passò alla fine di ottobre quando il lavoro nei campi era terminato e si cessava ogni attività agricola e pastorale. Il giorno prescelto cadde a quello antecedente il primo novembre e si sovrappose alla festa di ognissanti cattolica mentre il due novembre fu istituita la festa dei defunti, pallido ricordo degli antichi riti in onore degli antenati.

Oggi la chiesa cattolica risulta infastidita dalla recrudescenza della ricorrenza di Halloween, infastidita da un fiero e testardo riappropriarsi delle antiche radici. Ne lamenta l’origine straniera e estranea quasi un diabolico attentato alla verità professata per secoli. Ma il mundus pater era una ricorrenza prettamente romana tanto che le leggi dell’impero consentivano la magia nei cimiteri o in altri luoghi purché non venisse fatto a altri. Il tentativo di sopprimere una religiosità antica considerata fautrice del caos non è del tutto riuscita. Le nostre radici sono troppo profonde, troppo secolari per essere del tutto cancellate. Il nostro bagaglio culturale è profondamente legato a popolazioni che sembrano dimenticate ma che sono vive nel nostro ricordo più remoto. Una di queste è la civiltà etrusca, misteriosa affascinante e intensamente nostra.

Note

1 . Il termine Mani ricorda molto il termine che l’antico animismo dava alle forze energetiche che animavano il mondo: Mana. In questo caso però mani aveva una connotazione etica specifica, ossia veniva a identificare energie positive distinguendole dalle distruttiva. Questa variazione fa capire la portata del cambiamento ontologico che avvenne nell’antica Roma dove il dualismo netto separò la realtà monistica delle popolazioni primitive, preparando il terreno per l’invasione delle antiche idee caldee.

2. Durante i secoli queste variarono dalla cremazione al rito inumatorio (IX sec.) fino alla sepoltura con tanto di corredo funebre facendo delle tombe delle vere e proprie abitazioni (IV seco a. C.)

 

3. da cui l’aggettivo ferale da fers offerte.

 

4. Per trovare il centro da cui partisse questo Mundus, venivano innalzati due assi ortogonali disposti a cerchio, che i romani avrebbero poi chiamato cardo (l’asse nord sud e decumano, l’asso est-ovest. Nel punto centrale veniva scavata la fossa rivestita di carattere sacrale di collegamento tra le due realtà.

5divinità che rappresentavano anche gli spiriti degli antenati e tutelavano la città e i suoi abitanti,

“Alla ricerca delle Origini di Halloween. Halloween o Samahin?”. A cura di Alessandra Micheli

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Cos’è davvero Halloween

Per capire bene la natura di Halloween è utile usare l’analisi semantica. Il nome Halloween rappresenta una mutazione (in lingua scozzese) del nome All Hallows’Eve “la vigilia di tutti i santi”; in pratica la festa di ognissanti. E’ una festa che deriva da una più antica festività celtica Samahin, che è rimasta viva nella tradizione anglosassone, una tradizione non del tutto toccata dal dominio del cattolicesimo. (non credo debba spiegare il perché). Questa festa ha in se diverse nature tutte di importanza notevole per il mondo antico che ha però come essenza quella di continuare a tener vivo nella memoria l’antico culto degli antenati nato nel paleolitico e che ha improntato la religione di quella concezione sacrale della vita e della morte e di quella fede inesauribile verso la rinascita e la sopravvivenza delle anime.

Vediamo di analizzare in breve le molteplici nature della festa.

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Samahin/Halloween. Festa del fuoco

Il fuoco è stato da sempre considerato sacro, sia per ragioni religiose sia per il suo evocativo simbolismo cosmico. Perché il fuoco?

Immaginatevi un mondo diverso dal nostro, ostile e misterioso pieno di prodigi che l’uomo primitivo accoglie con stupore reverenziale. Immerso in un mondo che deve iniziare a capire e analizzare anche il più piccolo avvenimento diventa un segno divino. Forse centomila anni fa il fuoco è stato scoperto per caso, quasi sempre di origine vulcanico risultato di un fulmine improvviso. Nei miti antichi è presente l’immagine del fulmine che, colpito un albero lo rende un immenso agglomerato di fiamme incandescenti. Un’immagine che si è fissata così tanto nell’inconscio umano da essere giunta fino a noi vivida e intensa. È un immagine che ci appartiene nel profondo e che rende, tuttora affascinante e ipnotico il fuoco stesso.

Complici le migrazioni causate dal terribile assalto dell’era glaciale, il primitivo spingendosi a nord dalle zone subtropicali d’origine si è trovato a combattere con il terribile inverno, in cui la durata del giorno diminuiva sensibilmente, gli alberi perdevano le foglie, il terreno sembrava addormentarsi sotto la coltre fredda della neve e tutto appariva triste e desolato. Tutto questo sembrava suggerire che la morte prendeva finalmente il suo dominio facendo perire il sole e tutta la vegetazione circostante. Un tempo di paura in cui quasi sembrava che le forze maligne minacciassero la sopravvivenza stessa della specie umana divorando letteralmente la luce il calore. Ecco che il fuoco, era un simbolo di speranza che rischiarava quelle tenebre così profonde donando un sollievo alla vita dura che, nei mesi successivi l’uomo si sarebbe accinto ad affrontare.

L’antica cerimonia del fuoco diviene cosi rito propiziatorio e esorcismo contro le forze oscure. In particolare venne dato un grande significato magico-sacrale all’albero incendiato dal fulmine e questo tipo di fuoco veniva custodito gelosamente dagli antichi tanto che, quando questo accadeva, bisognava estinguere tutti gli altri fuochi e se ne dovesse accendere uno nuovo, prendendolo dall’albero in fiamme. Fu da questo antico ricordo che in tutta Europa, i contadini usavano accendere falò (fuochi di gioia)coincidenti a alcune importanti festività quali i solstizi, gli equinozi e i momenti di passaggio stagionali, come a imitare e propiziare il ciclo solare. Tutte le feste del fuoco risultano associate al sole e con una funzione purificatrice derivante dai ricordi inconsci di tempi cupi e difficili. Se in alcune date i fuochi simboleggiavano le tappe fondamentali del ciclo del sole, sfociando in veri e propri culti solari, nel caso di fuochi purificatori si assiste a una forma di esorcismo dell’aspetto distruttivo del cosmo, quello in cui il sole viene “mangiato” dalle tenebre e le forze maligne incombono sulla vita della collettività.

Samahin/Halloween è il caso dei fuochi propiziatori e purificatori festeggiata dalle antiche popolazioni celtiche. Samahin era la festività più importante poiché essa faceva iniziare l’anno che si annunciava accompagnato dal rigido clima invernale e dalla coltre di gelo che addormentava campi e vegetazione. Nell’isola di Man, una delle roccaforti in cui lingua e folclore celtico resistettero più a lungo alla invasioni sassoni, il primo Novembre del vecchio calendario, è stato considerato fino ad epoca recente, come il giorno di Capodanno. Era il giorno in cui gli isolani giravano mascherati intonando nel dialetto locale un canto chiamato Hogmanay1. Anticamente in Irlanda, veniva acceso un grande fuoco alla cui sacra fiamma si accendevano i focolai di tutto il paese come simbolo dell’inizio di un nuovo anno affinché l’influenza benefica del fuoco sacro si prolungasse in tutto l’arco dei dodici mesi, benedicendo la rinascita della terrà che avverrà a primavera, e la prosperità e fecondità del bestiame. Samahin era anche propizio per i vaticini e i presagi, era una notte di passaggio in cui i poteri vagavano liberi e stava al sacerdote usarli per il bene della comunità di cui era custode e legame vivente.

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Samahin come festa pastorale/agricola

Samahin rappresentò per le antiche popolazioni celtiche un evento di importanza cruciale. I celti formavano attorno all’anno 800una vera e porpia società dedita all’agricoltura e all’allevamento. Quando l’estate finiva e iniziava la stagione gelida tutto il loro quotidiano subiva uno stravolgimento. Per delle popolazioni legate simbioticamente alla terra,il ciclo naturale era di fondamentale importanza. L’arrivo della stagione fredda, seppur temuto e considerato un momento di difficoltà oggettiva, era comunque un evento da festeggiare.

Il 31 ottobre gi pastori portavano a valle i loro greggi, un evento di grande rilevanza sociale, mentre i contadini preparavano le scorte per il lungo inverno e restavano a casa facendo lavori manuali e passando più tempo assieme ai loro familiari. Questo cambiava letteralmente gli equilibri non solo del piccolo nucleo ma della collettività intera. Simbolicamente, l’inverno rappresentava la ripetizione di un evento mitico legato la ciclo del seme e della vita. La discesa della Dea negli inferi seguendo lo schema del più antico mito di Cerere /Demetra

Ecco perché per le popolazioni che si basavano sull’agricoltura e la pastorizia, l’anno nuovo iniziava il primo novembre e nella notte precedente il 31 Ottobre si festeggiava la fine dell’estate,2 un evento in cui, la comunità, ringraziava gli spiriti e le divinità per i raccolti estivi. Samahin, infatti, cadeva nel periodo più cupo, quando il tepore del sole lasciava il posto a un clima più gelido; l’arrivo della festività scandiva il cambiamento di stagione. Questo passaggio veniva celebrato con numeroso festeggiamenti che ringraziavano il Dio per la prosperità dell’anno passato e cercavano di ingraziarsi i suoi favori per l’anno venturo. Inoltre questi festeggiamenti servivano a esorcizzare l’arrivo dell’inverno e i suoi pericoli unendo e rafforzando tramite il culto degli antenati, i legami della comunità. Una comunità che priva di ogni tecnologia moderna trovava proprio nell’unione la sua forza.

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Samahin e il culto dei morti

Per la comunità il legame tra antenati e viventi rappresentava qualcosa di più profondo che un mero dovere etico. Era il simbolo della continuità della tradizione, il punto fermo da cui la società nonostante i cambiamenti legati al clima e all’evoluzione, poteva rivolgersi per ritrovare le proprie radici quando tutto sembrava instabile.

Inoltre, Il rito della comunione con i morti è spiegabile con quello che avveniva in natura, la stagione invernale con la sua coltre fredda addormentava letteralmente la natura e la fauna e la vita sembrava davvero vivere una sorta di morte apparente, mentre in realtà si rinnovava con un lungo sonno sottoterra pronta per rinascere in primavera. Un eterno straordinario e mitico ciclo di vita, morte vita veniva osannato come cardine fondamentale di un intera cultura dipendente strettamente dal ciclo naturale. Ecco la riverenza dei morti, di quegli antenati che custodivano la tradizione e la donavano ai loro discendenti affinché la civiltà e la vita non si fermasse mai.

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Samahin/ Halloween il ponte tra due mondi

La credenza in un periodo dell’anno di transizione tra due eventi cruciali per la sopravvivenza avevano anche ripercussioni sulla concezione dell’universo in cui le popolazioni si trovavano a vivere. Quest’alterazione non avveniva soltanto sul piano fisico come mutamento stagionale, ma anche sul piano spirituale.

La vigilia del nuovo anno comportava, letteralmente, una straordinaria sospensione del tempo. In questo sacro passaggio si pensava che, i veli tra i mondi si assottigliassero, permettendo alla forze sovrannaturali di passare attraverso queste porte e portando scompiglio e caos nel mondo umano. Spiriti, forse naturali, paure timori e anche una sorta di senso di baldoria permeava questa notte sacra, dove ruoli, consuetudini, regole venivano momentaneamente sovvertite. Era un caos necessario apportatore di nuove energie, momento in cui ( al pari del carnevale) potevano essere vissute quelle emozioni tenute fuori dal regolare andamento della società. In questo tempo sospeso si univa non tanto la paura, quanto il timore riverenziale per quelle forze oscure, misteriosa e affascinanti che irrompevano nel mondo stabile e ordinato, all’allegria dei festeggiamenti al ringraziamento e alla gratitudine per la benevolenza della divinità. E’ su questo senso della gratitudine che la divinità custode dell’equilibrio concedeva ai suoi fedeli sudditi un po’ di caotico giubilo che li distraesse dalle fatiche quotidiane di una popolazione che davvero combatteva contro ignoto e instabilità.

Una festa fondamentalmente sovvertitrice delle regole quotidiane, di quella necessaria separazione tra mondi che comunque volenti o nolenti facevano parte di uno stesso universo, facce della stessa medaglia che in alcune occasioni potevano scambiarsi energie, comunicare e far accedere la persona normale allo straordinario. Il caos benefico che irrompe e elettrizza, che riesce a conservare intatto nei secoli quello straordinario senso di meraviglia terrificante che si prova davanti al sacro:

terribilis est locus iste…

Un evento cosi straordinario da incutere timore riverenziale, da scrutare finchè lo sguardo umano non lo ritenere insopportabile ma cosi necessario per mantenere questo legame religioso tra noi e il mondo numinoso.

I riti di Samahin sono straordinariamente simili ai nostri, tipo l’uso di lasciare davanti alle porte delle abitazioni dolcetti e cibo in modo da ingraziarsi le anime dei defunti e gli spiriti degli abitanti del Sidh ( il popolo fatato) o di appendere lanterne ricavate da zucche per guidarne il cammino ( le famose Jack o’Lantern). Questi riti profondamente sentiti non sono mai stati soppre4ssi dalla nuova religione cristiana e sono giunti a noi defluendo nella attuali feste e riti di Ognissanti.

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I celti e la concezione del tempo

L’importanza che i celti attribuivano a Samahin risiede nella loro concezione del tempo e dell’universo. Per loro il tempo non era un continuum rettilineo ma circolare e pertanto la fine di ogni ciclo aveva una forte valenza magica e simbolica3. La caratteristica straordinaria di questa concezione comune d’altronde a molti popoli è che per i celti questa aveva un aspetto duale. Ogni manifestazione ciclica era formata da una parte oscura e una luminosa. Per questo l’anno veniva suddiviso in due stagioni distinte e complementari inverno ed estate. Allo stesso modo i mesi venivano divisi in due settimane di quindici giorni, legate alla luna nuova e alla luna piena. Ma nei vari ritmi temporali il passaggio da un ciclo all’altro, non era visto come una progressione di periodi caratterizzati da qualità antitetiche, quanto la spontanea e naturale manifestazione della realtà di due opposte ma complementari modalità di esistenza. L’opposizione buio e luminoso aveva un profondo valore ontologico come simbolo della complessità umana e della fondamentale natura duale del mondo, tutte le manifestazioni dell’esistenza (cielo, mondo e essere umano) devono la loro forma a questa dialettica di stati diversi che lungi da essere antagonisti di fondono creando e ricreando la vita attraverso il loro scontrarsi e interagire. Lungi dall’essere immobile la creazione tutta è dinamica e questa dinamicità evolutiva era la manifestazione più visibile di un ordine sovrannaturale che nella dualità trova la sua essenza unica. La dualità del microcosmo non era altro che simbolo in cui si riassumeva la totalità del tempo e dell’essere. Le tenebre, paragonate al caos primordiale che precedeva la creazione venivano prima della luce come simbolo di nascita e gestazione ( il termine venire alla luce indica la nascita). Come il mondo rinasce a primavera, raggiunge la maturità in estate e muore nel freddo dell’inverno, così è l’uomo. Ne consegue che le tenebre e l’inverno e cosi la morte non è una vera morte ma il periodo di attesa che precede la rinascita; non è morte ma una forma di sonno in cui si aspetta il risveglio, è un esistenza in potenza un esistenza in procinto di sbocciare. Il pensiero celtico era un pensiero intriso di opposti e questi opposti creavano un ordine proporzionato nel mondo, un ordine che trovava la sua controparte nel cielo e nel mondo dei sidhe. Il tempo non era altro che un continuo ciclo di passaggi tra diverse esistenze e diverse dimensioni e i cicli stagionali, dei giorni dei mesi e degli anni sono soltanto l’aspetto temporale di quel continuo flusso vitale che trasfigura i due stati opposti della realtà (luce e buio,vita morte, mondo altro e mondo materiale) l’uno nell’altro in un eterno e vitale avvicendarsi, da cui deriva l’essenza stessa del mondo in cui vivere.

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Concezione celtica del cosmo.

I celti si muovevano dentro un universo a tre livelli.: il mondo superiore, il mondo di mezzo, e il mondo inferiore. Questi tre mondi erano tutti collegati al grande albero della vita. Il druido, il sacerdote, siede al centro appoggiandosi all’albero stesso che si protende verso l’alto, nelle più profonde regioni dello spazio, dove sole e luna si alternano dando vita alle stagioni. L’uomo abita nel mondo di mezzo che è dotato di una dimensione ultraterrena che definisce costantemente la forma del nostro, sovrapponendosi in un modo tale che, in certi momenti,si poteva passare da una dimensione all’altra.

Per i celti, questi tre mondi, sono strettamente collegati tanto che il druido ricerca costantemente quel punto di unione quel confine dove tutte le forme archetipe possono essere ricercate e ogni cosa è collegata all’altra. E’ in questi punti di confine che si ritrovano i veri aspetti di tutti gli esseri e dove possono interagire tra loro, cambiare e influenzarsi. La realtà diventa eterna e si toglie l’illusione della personale percezione fino a comprendere che il nostro universo è soltanto un mondo-ombra.

Ecco che Samahin con il suo culto degli antenati, la sua venerazione degli spiriti, con la semina invernale che dà nuova speranza ai campi, diventa il punto di apertura di quei canali ultraterreni in cui, è possibile ritrovare il vero aspetto e la vera essenza dell’umanità.

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L’altro mondo celtico

L’altro mondo, o mondo dei Faerie, è la residenza degli spiriti antichi personificazioni delle energie che animano la nostra materialità. Questo mondo ha degli ingressi specifici che lo collegano al nostro paino di realtà. Una caverna particolare, una fessura nella roccia o nella terra, un luogo di sepoltura, sono gli accessi al mondo numinoso e ogni luogo che permette questa intromissione è dichiarato sacro, e rappresenta un centro in virtù dell’intensa concentrazione di forze spirituali. Sono luoghi che l’uomo comune (non adeguatamente e spiritualmente preparato) deve evitare, e che invece il sacerdote può penetrare liberamente.

Il pensiero celtico considera l’altro mondo immagine speculare del nostro, dove le leggi sono stravolte, dove alto e basso, destra e sinistra, giorno e notte sono totalmente rovesciati. Tempo e spazio risultano dissimili e quelle che sembrano poche ore nell’altro mondo diventano anni e non addirittura secoli. A differenza poi di altre civiltà ( che spesso temono questo mondo magico) per i celti queste due realtà si toccano, si abbracciano e si completano tanto da combaciare perfettamente come pezzi di uno stesso mosaico. Ed è un sottilissimo velo di illusione (maya) a fungere da confine. Ecco che le festività, figlie di una concezione particolare del tempo, dello spazio e dell’universo sono più di una commemorazione di eventi passati o di eventi materiali, diventa un punto a cui tornare anche dal punto di vista simbolico, uno spiraglio attraverso cui il velo si può sollevare e ogni luogo anche il meno potente si fa porta.

Note 

1. Era un canto che iniziava con le seguenti parole “ Questa è la notte dell’anno nuovo Hogunnaa!”

2. Samahin in Irlandese antico significa fine dell’estate

 

3.Samahin si trovava in un punto fuori della dimensione temporale che non apparteneva né all’anno vecchio, né a quello nuovo. E’ questo il motivo per cui il velo sottile si può sollevare.

 

Alla scoperta delle origini della festa di Halloween. Il culto dei morti. Alle radici della civiltà. A cura di Alessandra Micheli

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Cos’è la religione?

La religione è uno dei più affascinanti temi di studio delle cosiddette scienze umane. Tramite essa si sono fondati imperi, giustificate guerre, e creato poteri. Ma non solo. La religione ha reso popolazioni nomadi popoli civili che hanno avuto un enorme impatto sulla società odierna, ha creato le basi per una pietas capace di contenere entro limiti stabiliti da qualche ente soprannaturale, la follia dell’uomo. Dalle religioni sono nate grandi aspirazioni, grandi idee, e grandi riforme. Un fenomeno di luci e ombre che da sempre affascina e desta curiosità: è spiegabile in concetti scientifici questo enorme fenomeno di ampia portata?

La religione ha molte definizioni, quella più comunemente usata dagli studiosi la fa rientrare in un insieme di comportamenti sociali e rituali con cui i gruppi umani si rapportano con le divinità, considerati come esseri sovrannaturali potenti e creatori dello stesso universo.

Secondo Frazer1 questi comportamenti rituali hanno lo scopo di conciliare e propiziarsi questi esseri supremi visto che, si suppone, il loro ruolo di dirigenti e controllori del corso della natura e della vita. Quindi, secondo quest’impostazione, la religione ha due aspetti: uno teorico e uno pratico che riassume il tentativo (i riti) di propiziarsi i loro favori e di soddisfare le esigenze umane, sia materiali che interiori. L’idea di conquistare la benevolenza di queste misteriose energia ha anche un interessante aspetto ontologico, presuppone un determinato modo di concepire l’universo, presupponendo che, il corso degli eventi naturali sia, in una certa misura, . elastico e variabile. Si tratta come si vede, di una concezione che presuppone una rigidità del sistema e che, può, tuttavia essere ampliata se si considera che la religione (termine che deriva dal latino religio2) sia un contenitore più ampio di una sorta di essenza vitale che usiamo denominare Sacro3. Il sacro, in questo caso non rappresenta il sentimento di riverenza verso una divinità ben definita, ma, indica piuttosto un sentire condiviso che ha certezza in una sorta di energia originaria che pervade, dà sostanza e forma all’intera creazione, distinguendo la normale vita quotidiana e profana da una realtà più articolata e misteriosa abitata da forze e spiriti.

Si tratta di un modo di osservare il mondo senza che questo richieda necessariamente la presenza di divinità specifiche. Mentre la religione definisce il rapporto personale tra uomo e Dio, il sacro analizza, spiega e definisce la relazione con l’uomo le forze spirituali e fisiche con riferimento particolare alla morte. Se il sacro può esentarsi dal considerare dominanti alcune specifiche divinità e può esistere senza religione, il secondo caso non è possibile. Senza sacro la religione perde la sua legittimità.

Questa particolare percezione, sembra essere la base primordiale su cui si basarono le concezioni e le credenze dei popoli del paleolitico medio e superiore e che tuttora riecheggiano nelle nostre tradizioni.

Infatti, l’uomo del paleolitico, fino alla comparsa dell’Homo Habilis nel 27.00a.C.,non espresse ancora credenze relative all’esistenza di divinità superiori, poiché, dopo il 100.000 a. C. , aveva già adottato una serie di miti e rituali rispetto ai Mana4 e all’interrelazione spiriti/mana dei defunti con il mondo parallelo dei viventi.

Questa fede nell’essenza energetica, (Mana appunto) era condivisa da ogni società paleolitica di raccoglitori-cacciatori sopravvissute agli ultimi due secoli e fu la prima vera forma di culto centinaia di migliaia di anni prima la genesi del fenomeno religioso. Questa era la primordiale concezione di sacro che legava e univa in perfetto mosaico non solo la creazione ma ogni dimensione cosmica. Ogni evento naturale, ogni oggetto, possedeva particolari intenzioni e volontà (buona e cattiva, nefasta o fausta) che si manifestava in una sorta di vista o energia immateriale che si rivolgeva verso gli uomini in forme costruttive o al contrario distruttive. Fu questo animismo la prima vera forma di venerazione e faceva sì che l’uomo si sentisse immerso in una realtà mitica e sacrale mai del tutto separata dal mondo fisico. Questo faceva si che l’uomo si sentisse perfettamente inserito al centro di questa specie di ragnatela consapevole di quest’interconnessione, attento a ogni gesto e non abbastanza frustrato dal vivere quotidiano da voler dominare dall’alto questa realtà o da desiderarsi diverso dal suo ruolo mitico5.

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Il culto dei morti e l’evoluzione della società umana

La concezione animistica fu il motore verso la modernità e l’evoluzione umana. A partire dal 100.000a. C. iniziò a svilupparsi la prima forma di religione che partendo dalla concezione generale del mana ne derivò la credenza che, anche i morti fossero in parte ancora vivi e potenzialmente in grado di interferire con il mondo dei viventi. Erano entità dormienti che potevano risvegliarsi da un momento all’altro.

Il misterioso fenomeno della morte aveva attratto l’uomo da sempre e lo aveva spinto a escogitare delle forme di devozione che lo mettessero in grado di far fronte a questo fenomeno misterioso e inspiegabile. Ma fu, soprattutto, la creazione di miti e mitologie il vero codice in grado di decifrarne il senso e la motivazione. La morte fu pervasa da un alone di sacralità e rispetto, ma anche di terrore reverenziale. Era indispensabile che coloro i quali abbandonavano il mondo si trovassero ben sistemati nell’aldilà, provvisti di utensili e offerte di cibo, ornamenti e amuleti onde evitare il pericolo che, essi tornassero a vendicare qualunque negligenza nella debita esecuzione dei riti funebri. Il carattere sacro della morte, infatti, faceva di essa anche un tabù da considerare con la massima accortezza e il massimo rispetto come uno stato di transizione con i suoi specifici passaggi (rites de passage) volti a proteggere i congiunti e la parentela dal contagio della morte e dalle maligne influenze che possono insorgere durante questo viaggio ultraterreno.

Fu questa presa di coscienza della mortalità umana che segnò il primo grande salto di qualità nello sviluppo non soltanto del fenomeno religioso ma umano.

A partire dal 100.000 i clan paleolitici attribuiscono ai morti anche il mana ed uno spirito vitale, ritenendo che anche i defunti potessero interagire con il nostro mondo terreno e con le persone ancora viventi da onorare e da ammansire con offerte e sepolture rituali. Il defunto dormiente il cui spirito si risveglia in un altro mondo, unito a una concezione dell’energia cosmica e le più raffinate pratiche funerarie, crearono le basi per un altro importante salto evolutivo: la produzione, attorno al 27.000 a. C. del concetto di divinità. Una divinità con attributi prettamente femminili atti a mettere in risalto il concetto opposto alla morte: la nascita.

La potente divinità diventò l’estensione macrocosmica del corpo femminile, del suo potere concreto di donare la vita. Fu così che il concetto di morte si unì, indissolubilmente, a quello di vita. La Dea madre divenne anche messaggera di morte, anche se svolgeva questo ruolo in modo mistico, come elemento di rigenerazione della vita stessa. La Dea dispensatrice di vita, poteva trasformarsi in Dea rapace, predatrice di anime che le inglobava in sé e al cui interno, tuttavia, iniziava il processo di trasfigurazione della morte, in altri esseri umani, attraverso l’utero simbolico della Dea. Il tema della morte, già conosciuto nel medio paleolitico superiore, venne cosi collegato alle divinità femminili.

Fu con il passaggio dalla raccolta- caccia all’era neolitica dell’agricoltura e dell’allevamento, che portò con sé i primi centri urbani che alla Dea fu affiancato uno sposo, la divinità maschile seppur in posizione subordinata. E da questo mistico matrimonio ebbe origine il concetto di fertilità, con tutto il simbolismo relativo alla terra feconda e al ciclo vitale della vegetazione. Il mutamento delle stagioni ebbe un’importanza assoluta in queste comunità e fu celebrata con rituali che scandivano i momenti salienti per la semina e il raccolto, dividendo il tempo in rituali estivi/primaverili e autunnali invernali.

Note

1. James Frazer il ramo d’oro. Studio sulla religione e la magia, Newton e Compton

 

2. Dal latino religio il termine può assumere veri significati. La tesi ciceroniana lo fa derivare dal latino relegĕre composto dal prefisso re-  che indica frequenza,  legĕre ossia scegliere ed in senso lato, cercare, guardare con attenzione, avere riguardo, avere cura: La Tesi lattanziana, invece lo fa derivare dal latino religāre, composto dal prefisso re-, intensivo, ligāre con il significato di  unire insieme, legare. L’ultima tesi lo fa invece derivare dal latino religère sempre con il significato di scelta. Questi diversi significati non sono, tuttavia incompatibili tra loro ma in realtà si completano a vicenda esplorando le motivazioni profonde che fanno da substrato al sentimento religioso che sempre cosi indispensabile all’essere umano.

3. Termine di origine indoeuropea che significa attaccare, avvincere e assume il significato di cosa avvinta alla divinità. Ma poterebbe anche riferirsi anche alla radice sacrate con il significato di seguire accompagnare o talvolta nel Rigveda di adorare, servire o onorare. Il sacro con il suo significato di consacrazione a un Dio e pertanto questo dio può essere sia una divinità solare o anche infernale per cui sacro può avere il significato opposto di maledetto, esacrato ma anche e soprattutto di confine inviolabile.

4. Il mana era una sorta di energia onnicomprensiva più che una divinità specifica. Una forza intangibile e non percepibile direttamente dai sensi umani e pervadeva persino oggetti di uso comune più banali come bastoni, capanne, utensili, ornamenti e dipinti.

 

5. Differentemente, l’uomo moderno ha perduto il suo luogo ontologico, trasformandosi in soggetto instabile alla ricerca costante di un qualcosa che sente di aver inesorabilmente perduto.

Il nostro blog è lieto di presentarvi un nuovo eccezionale collaboratore che si occuperà della sezione articoli. E quale modo migliore di farvelo conoscere, se non attraverso i suoi scritti? Ecco a voi “Geremy Benthan. Una inquietante visita all’Università di Londra” di Alfredo Betocchi.

 

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Cari lettori, eccomi qua per parlarvi di un filosofo, ma niente paura, non è mia intenzione annoiarvi con pallosissime teorie incomprensibili.

Voglio parlarvi di un personaggio molto originale nei suoi comportamenti e nelle sue scelte. Si tratta di Geremy Bentham, filosofo, giurista ed economista inglese, nato a Londra nel 1748 e morto a Westminster alla veneranda età di 84 anni.

Di famiglia molto benestante, fu avviato dal padre a una carriera di avvocato e poi di giudice, molto considerata ed esclusiva delle classi abbienti. Il giovane Geremy rimase, però, disgustato dall’approssimazione dei giudizi e dall’ingiustizia diffusa nei tribunali e scelse la filosofia.

Aderì entusiasticamente agli ideali della Rivoluzione Francese, rimanendo però prudentemente in Inghilterra dato che teneva molto alla sua testa.

Scrisse diverse opere a sfondo morale e morì, nel 1832, tranquillo e pacifico, nel letto della sua villa di Westminster.

Molti anni fa, ebbi l’occasione di visitare la preziosa biblioteca che si trova nell’Università di Londra. Un mio amico professore mi raccontò un fatto inquietante a cui credeva fermamente.

L’illustre filosofo, ricco sfondato, lasciò in eredità alla prestigiosa Università Reale un vitalizio sostanzioso che, incredibile a credersi, viene versato dagli eredi ancora ai nostri giorni.

Avendo aderito agli ideali della Rivoluzione Francese, professava un anticlericalismo viscerale insieme a un ateismo militante. Nel lascito testamentario, Geremy Bentham stabilì che il vitalizio sarebbe stato erogato in eterno a patto che … il suo corpo, imbalsamato, fosse conservato all’interno della Biblioteca. Questo avrebbe dovuto essere portato nella Sala Professori ogni qual volta essi si riunivano in consiglio. Figuratevi la faccia del Magnifico Rettore dopo che il notaio ebbe comunicato le ultime volontà del loro mecenate!

Le somme versate annualmente da Bentham erano troppo importanti per poter sollevare obiezioni. Gli inglesi, si sa, sono un popolo pratico e tradizionalista. L’eredità fu così accettata. La salma del povero Geremy fu opportunamente imbalsamata e sistemata, seduta, su un apposito scranno di legno munito di ruote per il trasporto in Sala Professori. Le disposizioni testamentarie non finivano qui: il defunto aveva stabilito pure che, in caso di votazione, il Collegio dei Professori dovesse contare un voto in più… il suo! Ma come fare a sapere il parere dell’originale filosofo?

Ebbene, il Genio aveva pensato anche a questo: ogniqualvolta ci fosse stata da prendere una decisione in tema religioso, il voto di Geremy Bentham sarebbe stato inequivocabilmente “contrario”.

Il principio democratico di “one man, one vote”, qui si traduceva in “io pago quindi voto, vivo o morto che sia!” Sembra incredibile che nel 2019 si perpetui ancora questa prassi testamentaria, ma è così.”

E non è ancora tutto, miei cari stupiti lettori.

C’è dell’altro…e macabro!

Una mattina, agli inizi del secolo scorso, il Collegio dei Professori, fu riunito in Consiglio. I valletti portarono, come di consueto, lo scranno con Geremy Bentham al capotavola opposto a quello del Magnifico Rettore, addossandolo al bordo del tavolo in modo da non farlo cadere. Iniziata la discussione, di argomento religioso, questa prese una piega fortemente polemica. Le voci si alzarono e qualcuno, alterato, battè forte un pugno sulla tavola. Il colpo fu così violento che scosse il cadavere del povero Geremy, la cui testa si staccò dal busto e rotolò sulla tavola, piena di documenti. Immaginatevi la scena seguente!

Le professoresse si misero a strillare, qualcuna svenne e i più si ritrassero inorriditi dal macabro incidente. I valletti raccolsero pietosamente la testa e riportarono lo scranno dentro l’armadio dove veniva conservato.

I professori protestarono vivacemente per l’accaduto, dicendosi contrari a continuare quella ridicola sceneggiata. In seguito, calmatesi le acque, il Magnifico Rettore decise che la testa originale fosse rinchiusa in una scatola di legno da porsi sopra l’armadio.

 

Testa di Jeremy Bentham.jpg

 

Fu predisposta così una copia in cera da sistemarsi sul busto del cadavere.

La tradizionale “inquietante presenza” fu mantenuta ma ora il filosofo è trasportato dentro il suo armadio chiuso con un’anta di vetro.”

Chi avesse occasione di recarsi al pian terreno dell’Università potrà vedere, a destra dell’ingresso, l’armadio con il corpo imbalsamato del singolare filosofo seduto alla sua scrivania.

Jeremy Bentham nell'armadio

 

Ma non è ancora tutto! La Biblioteca è ospitata in tre edifici adiacenti posti a forma di U.

I lunghissimi corridoi, pieni zeppi di scaffalature ricolmi di antichi volumi, sono divisi ogni 50 metri da porte che vengono chiuse ogni sera da un custode con chiavi differenti per ciascuna serratura che sono poi conservate in cassaforte. I custodi hanno giurato, in occasione della mia visita, che di notte si accendono luci in ogni tratto del corridoio, ora qui, ora là, sebbene nessuno possa farlo a causa delle porte rinserrate.

Evidentemente c’è un fantasma… e chi se non il nostro simpatico filosofo?

Questo fatto è per lo meno bizzarro!

Per un ateo, convinto che l’anima non esista, trasformarsi in un fantasma…è il colmo!