Samahin, festa sfaccettata dai mille volti come un diamante è la patria di divinità spesso definite oscure e misteriose, se non addirittura sataniche che, ironia della sorte, fanno parte di una tradizione ancor più antica che si riferisce a culti agrari se non addirittura arborei.
Cos’è una divinità agraria e una arborea?
Esse fanno parte dello stesso principio filosofico animista che abbiamo già analizzato per il culto dei morti, sono essenza divine che infondono la loro energia non solo negli uomini ma anche nella vita che li circonda e che fa parte dello stesso ciclo a cui sono soggetti gli uomini.
La divinità arborea è legata a un preciso arbusto o albero ed è collegata, al pari della divinità agraria a un arcaico culto della fertilità e di venerazione del mana divino. Queste energia sono presenti in ogni cultura, da quella indiana ( le yaksi) alle ninfe greche, fino a arrivare in Egitto con la venerazione di Hathor considerata la signora del sicomoro.
Il culto arboreo esprime l’importanza del legame che le antiche popolazioni, nostre progenitrici avevano nei confronti della natura da cui dipendeva la specifica sopravvivenza. Tutto come si è già esaminato precedentemente, formavano un unica entità onnicomprensiva di cui lo stesso uomo non era che una parte, immersa in un tutto che lo conteneva, lo pervadeva ma che al tempo stesso lo oltrepassava, per ricongiungersi con la fonte primaria. Tutto l’universo, ogni manifestazione naturale non era altro che un piccolo assaggio di una divinità più grande più potente. Pertanto, tenere in considerazione con un atteggiamento di riverito rispetto la natura in ogni suo aspetto, significava rispettare il legame che intercorreva tra cielo ( nel suo più ampio significato cosmico) e terra e tale unione nei celti prendeva il nome di Nemed ossia sacro. La venerazione di alberi, della terra, dei doni che essa elargiva, rientrava nel più ampio concetto di atteggiamento sacrale nei confronti della vita.
Venerazione del sacro unisce i due culti ma non solo. Il concetto di fertilità fa si che sia il culto arboreo come quello agrario siano riferibili a una divinità prigenia molto importante presente ancora oggi nelle nostre tradizioni ossia la Dea Madre. Essa è custode dei misteri ( i culti segreti con cui si sperimenta il contatto diretto con il mondo divino) del ciclo vitale di ogni cosa manifesta, e soprattutto custode del mondo visibile e invisibile. La Dea Madre, nonostante gli anni di oblio è la divinità che ognuno di noi ha custodita nel cuore. Le tradizioni di Samahin ma non solo, quelle che oggi fanno parte delle nostre feste più importanti e che tutto’oggi scandiscono il calendario naturale che i nostri progenitori usavano per raccolto per la semina e per l’allevamento, fanno parte di un antico retaggio etnologico che rappresenta la modalità con cui l’uomo entrava in contiguità con il divino manifesto nella natura, che elargiva doni, promesse ma anche morte e disfacimento. Questa cultura subalterna, quasi sotterranea che aleggia in questa feste, spesso osteggiate come estranee, fanno parte della tradizione contadina mai del tutto scomparsa. Addirittura l’associazione tra il mondo naturale e la morte sembra suggerire una stretta unione tra i due aspetti dell’esistenza che nascondono in essi, nel folclore un cuore pulsate di una tradizione silvana spesso conservata in zone favorite dall’isolamento, accomunate dalla povertà, dal senso di ingiustizia, e perché no con una sorta di arretratezza di fronte al cambiamento che avanza. La sopravvivenza di queste forme di venerazione, di queste credenze ataviche, di ricordi fatti leggenda, racconti tramandati e inseriti nella letteratura, sincretismi religiosi ha permesso che la venerazione della vita, simboleggiata dal culto della Dea, arrivasse fino a noi. L’ethos di una cultura non si perde con gli anni, si trasforma forse, riecheggia nei racconti e nelle maschere, sottile passa in quei momenti di passaggio dove il tempo si ferma e passato e presente si rincorrono. In cui per un istante si percepisce l’immanenza della divinità, si sente quell’essenza a volte oscura ( poiché annebbiata dai secoli e dal progresso che come un velo offusca i nostri sensi) permeare tutto ciò che ci circonda, togliendo il velo di progresso e di civiltà e facendo ritornare l’uomo ai tempi selvaggi, quando l’uomo era istintualità pura, in eterna lotta ma anche in una sorta di tacito accordo, con una natura nemica e amica al tempo stesso. E’ nel suo sfidare il creato che l‘uomo si evolve, facendo si che sia un antagonismo positivo, da discepolo a maestro, laddove il maestro (il cosmo) sfida l’essere umano a superare i limiti. Quest’idea di scontro positivo si è persa nell’arroganza moderna, dove l’umano si crede non più discepolo ma autorità assoluta, sfidando e non in senso positivo Dio non per superare i suoi limiti ma per recintarli e presentarli come superiorità. Ecco che in alcuni istanti, in alcuni scorci del tempo, si può vedere il passato, ritrovare un’innocenza perduta, una saggezza oggi vilipesa e addormentarsi sereni tra le braccia amorevoli della Dea.
Ogni divinità di Samahin è fondamentalmente simile l’una con l’altra, non soltanto in virtù degli scambi commerciali tra i popoli, ma anche perché parlando di uno stesso pensiero, della stessa concezione della vita espressa dai culti antichi. Le differenziazioni sono relative all’ambiente fisico, alle sfide e alla differenziazione biologica della fauna e della flora, senza che questa biodiversità neghi e oscuri la fondamentale origine comune di ogni emanazione energetica. Che sia signora delle Mele, del grano o del sicomoro la Dea è sempre Lei, splendente, fiera amorevole e crudele, compagna amante del Dio e unica speranza per l’uomo.
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La signora della Notte. Cailleach la vecchia
Come abbiamo analizzato precedentemente, Samahin segnava l’inizio del’inverno, stagione difficile, oscura, regno di una natura addormentata quasi morente. Al fruttuoso autunno seguiva il tempo sterile, il tempo sospeso in cui gli spiriti ultraterreni scorrazzavano in libertà, passeggiando in un coltre di gelo che proteggeva la vita dormiente. E cosi Samahin la notte in cui si aprivano le porte, una notte antica e sapiente, di quella sapienza che va riverita, rispettata ma anche temuta in quanto sguardo sul mondo altro era il dominio incontrastato di una divinità antica, sfuggente e spaventosa: Cailleach la vecchia. Questa sembrava essere una divinità indigena della Britannia, la madre montagna della tradizione, nascosta nella storia celtica e custode del famoso calderone sacro. Ed è questo calderone, prototipo del Graal più tardo, in cui venivano immessi i guerrieri e gli eroi per essere guariti e fortificati. Talvolta la Dea si presentava nella storie tardo arturiane con l’aspetto di una Donna anziana nera, orribile alla vista ma, portatrice di conoscenza. Questo camuffamento era la prova somma a cui si sottoponevano i cavalieri, che se riuscivano a sopportarne la vista e la vicinanza ne traevano come dono un’immensa conoscenza delle leggi sacre che regolano mondo e magia. I miti parlano di una divinità che tormenta l’eroe e lo costringe a crescere e maturare a livello psichico e interiore. Lo spinge a superare i limiti, a affrontare i demoni inconsci e vincendo su essi a diventare un re-sacerdote. Proprio per quest’aspetto di evoluzione essi sono stati incorporati successivamente nei racconti allegorici per spiegare il concetto celtico di sovranità, considerata qualcosa di più di un mero esercizio politico, ma di una missione tendente a portare il cielo in terra.
La Cailleach è colei che dona ma anche colei che toglie, è la vita che sopravvive alla morte, alla fine del ciclo rinnovando il seme dentro di se. Per questo suo aspetto è fortemente collegata ai miti relativi a Samahin, per questo significato di custode della vita in embrione, di quell’inverno che appare distruttivo, oscuro e definitivo come fine, e che in sostanza custodisce soltanto in se stessa le mille possibilità della rinascita.
Alcuni tratti di questa particolare divinità sono tipici della Morrigan, anche se quest’ultima è sicuramente caratterizzata da più brutalità ( infatti non a caso Morrigan è la dea guerriera, giustiziera) e fa parte della triade divina rappresentante dei cicli agrario pastorali di vita morte rinascita: Cailleach/Morrigan inverno-morte, Brigit/Arianrhod primavera-rinascita, Cerridwen/Anu pestate-vita nella sua espressione di compiutezza e fecondità e abbondanza.
Un’altra interessante associazione è Cailleasch Ecate, una divinità forse derivata dall’egiziana Hecket e derivazione della grande madre anatolica. Anche Ecate è intermediaria tra i mondi, (quello spirituale e quello mortale) e spesso viene raffigurata a guardia dei crocicchi, luoghi in cui si intersecano due o più vie simbolo delle scelte umane ma anche dell’idea antica di multi dimensione. Nei crocicchi i destini si incrociano, i mondi si uniscono e le possibilità diventano numerose. Attinente a questa sua particolarità Ecate, in alcune rappresentazioni e viene raffigurata a tre testa ( passato, presente e futuro ma anche mondo terreno spirituale e animico) e questa sua particolarità l’accomuna alla divinità italica di Giano. Ecate è la Dea del destino, protettrice delle porte tra i mondi e delle regioni spirituali. Essa controlla le iniziazioni e quindi la conoscenza ed attraversa ogni spazio umano riportandolo all’unità del mondo altro. Nel mondo spirituale tutto è possibilità che attraverso l’anima o mondo animico si riversa e crea il mondo terreno. Siamo noi a interagire nelle dimensioni spaziali come se fosse staccate l’una dall’altra; Ecate in sostanza è colei che riporta e ricollega tutto quello che l’uomo separa in un’unica fonte originaria. E’ la Dea della compiutezza, guida e protettrice dei passaggi sia fisici, età, cicli naturali temporali ( Samahin è uno di questi) ma anche delle’evoluzione prettamente psichica e interiore considerando giovinezza, maturità e vecchiaia qualcosa di più che età reali.
Ecate è una Dea che domina e protegge la mente, unica e sola fonte della realtà che ci circonda.
E’ la forma antiche della divinità che Gregory Bateson illustra nelle sue opere: Ecate è il dio Eco.
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Pomona e i Pomenalia.
Alla fine di ottobre, nel mondo romano si festeggiavano due feste dedicate e due divinità particolarmente amate. Una di queste era la festa dedicata alla Dea Pomona e al Dio Vertunmo ( celebrata il 19 ottobre). Che legami avevano queste due divinità sia con quel particolare momento astronomico?
Vertumno era una divinità romana di origine etrusca, che personificava il mutamento delle stagioni. Era quell’energia mistica che creava il movimento astronomico necessario perché i cicli si compissero e i frutti maturassero. Il suo nome deriva dalla radice indo-europea vertere, che significava appunto girare e cambiare ma anche divertimento e perversione, e veniva spesso rappresentato come amante della dea Pomona.
Pomona, (che coincidenza!)è la Dea romana dei frutti ( partrona pomorum) non soltanto quelli che crescono sugli alberi ma anche dell’olivo e della vite. Ecco che il legame tra il Dio Vertumno diventa molto stretto e sono parti di una medesima energia creatrice, di fondamentale importanza per la prosperità del popolo romano.
I pomenalia erano, dunque, le feste in onora della divinità che ogni anno il primo novembre, ossia l’epoca di raccolta, gli antichi romani osannavano la dea, offrendole i frutti delle mele e sperando di propiziarsi la produttività futura. Su questo culto mancano notizie certe e particolareggiate, si può però affermare che esistessero sacerdoti proposti al culto , i flamini pomonali. Unico dato certo giunto fino a noi e raccolto da Ovidio nelle sue Metamosfosi in cui si tramanda il mito di Pomona e Vertumno. Ecco lo splendido mito:
“amante della vita all’aria aperta, ma non dei boschi e dei fiumi, piuttosto della campagna e delle sue coltivazioni: “Pari non ebbe nessuna fra le Amadriadi latine a coltivare giardini”.
La sua devozione andava tutta ai lavori agresti e non pensava all’amore. Eppure era desiderata da molti, uomini, divinità e satiri, tanto che era costretta a recintare le sue coltivazioni per impedire l’accesso ai maschi troppo focosi. Chi l’amava di più era il dio Vertumno, che per conquistarla si camuffava ora da contadino al lavoro, ora da raccoglitore, e non perdeva occasione per “godersi lo spettacolo di Pomona e della sua bellezza”. Un giorno il dio si travestì da vecchia e riuscì a entrare nel giardino proibito: osservando un albero di olmo su cui si arrampicava la vite carica di grappoli, mostrò alla dea come l’uno prendesse vantaggio dall’altra. Le raccontò anche la storia di Anassàrete, che rifiutò l’amore e si trasformò in una statua di pietra: così cercò di convincere Pomona che il suo destino era l’unione con un dio fedele, giovane e bello, come Vertumno appunto. Ma le parole della vecchia risultarono vane. Ovidio conclude infine:
“Vertumno riprese l’aspetto giovanile […] e apparve a Pomona in tutto il suo splendore, come quando il disco del sole, squarciando la coltre delle nubi, senza che nulla l’offuschi, rifulge luminoso. E si apprestava a prenderla con la forza, ma questa non servì: sedotta dalla bellezza del nume, anche lei fu vinta da amore”.
Pare che ai tempi dell’antica Roma, sulla strada tra Ostia e la città eterna ci fosse un giardino, o un frutteto o addirittura un bosco dedicato alla Dea chiamato Pomonale. Percorrendo oggi la via Ostiense si può immaginare come in tempi antichi esso fosse un luogo idilliaco di serenità e bellezza all’ombra delle fronde dei meli. Nonostante l’industrializzazione selvaggia l’antico culto non si è a del tutto estinto in quanto esistono ancora feste dedicate ai frutti in particolare le mele. Si può distinguere una delle più popolari Pomonaria il cui nome ha un richiamo profondo alla nostra Dea. Inoltre, come indizio della profonda connessione con l’America, alla fine dell’ottocento una città fu battezzata Pomona, vicino a Los Angeles per propiziarne proprio la produzione frutticola.
Forse Hallowwen non è poi cosi estraneo
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Perché Pomona?
Come precedentemente scritto Pomona è profondamente legata a un frutto preciso, la mela. Pomo, infatti è il termine italiano che si usa proprio per indicare questo gustoso e sacro frutto. E il frutto della mela è profondamente legato alla mitologia celtica; non a caso nella mitica isola di Avalon, terra di confine (una sorta di Samahin fisico) la fata Morgana coltiva mele. La mela è un simbolo fondamentale di ogni religione e di ogni folclore poiché rappresenta lo spirito della conoscenza che si acquisisce esplorando il mondo e soprattutto essendo consapevoli delle sue leggi e dei suoi meccanismi. Questo accade se si ha abbastanza coraggio per sfidare le consuetudini e le redige regole che sia la società, che l’ortodossia ci impartisce. Non a caso l’atto che il dio Jahwe punisce è quello di mangiare la male, di rendersi consapevoli del bene e del male ossia di acquisire coscienza. E’ quella ribellione a una regola che ci desidera ciechi, e ingenui a dare avvio alla creazione vera. L’altro mondo, è in stretta relazione con il melo, simbolo di vita eterna , frutto che dona immortalità, ma anche frutto di scienza e saggezza. In pratica il melo e la mela è il mezzo con cui ogni uomo può entrare in contatto con il mondo dei Sidhe.
Quest’informazione riesce a collegare la divinità romana con la più antica tradizione celtica, facendoci comprendere come, in fondo, la feste considerate passaggi tra le due realtà sono fondamentalmente sorelle e figlie di una concezione dell’universo molto più magica di quanto noi oggi possiamo capire. Pomona e le sue mele, i suoi frutti che rappresentano l’abbondanza è la Dea non solo della vegetazione ma anche delle porte che creano questa stretto dialogo tra il regno altro e il regno terreno.
Le mele e ogni tradizione a esse collegata stabiliscono una profonda comunicazione tra le differenti realtà una consuetudine che è sfociata e continua con quella del 31 ottobre e del primo novembre Samohin o Samahin. Per celebrare questo nuovo inizio i druidi si riunivano sulla riva di un lago o di una zona paludosa offrendo mele ai partecipanti e agli dei.
Strana coincidenza o piuttosto un indizio dell’importanza dl cosiddetto tempo sospeso?
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Iside sovrana del cielo
Dal 28 ottobre al 3 Novembre un’altra festa veniva celebrata dai romani: Isia, una celebrazione dedicata alla dea Iside. Figlia della dea Nut dea del cielo e Geb dio della terra Iside era la compagna di Osiride e madre amorevole del Dio Horus. Era una delle divinità più importanti dell’antico Egitto, considerata la prima sovrana, moglie e amante e vedova addolorata alla ricerca del suo sposo perduto. Una Dea che riuscì a riportare in vita un dio smembrato dalla furia omicida del fratello Seth per questo considerata anche la protettrice del regno dei morti, ma anche detentrice del segreto della resurrezione. Oltre al suo oscuro aspetto di Regina dell’oltretomba essa era profondamente associata alla magia, alla conoscenza e secondo il mito assieme al compagno Osiride portò la civiltà nel regno, inventò il sistro, l’agricoltura, la tessitura il ricamo e istituì il matrimonio. Essa custode dei segreti agi come un Nephilim i figli di dio che secondo il libro di Enoch scesero dalla montagna e portano la competenza tecnologica ma anche quella spirituale agli uomini.
Grazie a Cleopatra essa si diffuse nel mondo romano diventando una delle prima divinità venerate con i suoi splendidi templi diventando la Regina Coeli e fondendosi con una divinità ellenica Cerere.
Lo stesso Apuleio la descrive cosi:
“O regina del cielo
tu feconda Cerere
prima creatrice delle messi
che nella gioia di aver ritrovato tua figlia eliminasti l’antica usanza di nutrirsi di ghiande come le fiere
rivelando agli uomini un cibo più mite
ora dimori nella terra di Elusi
Tu Venere celeste che agli inizi del mondo congiungesti la diversità dei sessi facendo sorgere l’amore
E propagando l’intera progenie del genere umano”
Altra interessante caratteristica di Iside è quella di essere considerata:
“Io sono colei che, è che è stata¨ sempre stata e sempre sarà , e nessun mortale ha mai alzato il mio velo.”
Riassumendo in se tutti i caratteri del dio unico, e facendo presupporre che, questi, un tempo appartenessero a quella dea madre che riassumeva in se tutti i caratteri e gi aspetti della vita e dei suoi cicli. Come i cristiani ( che si impadronirono più tardi delle sue caratteristiche) i suoi seguaci dovevano osservare la fede, la moralità la preghiera. La divina misericordia della Dea li proteggeva e garantiva loro un posto nell’aldilà qualora avessero conservato un cuore puro e scevro da ogni malignità.
Tuttavia, questo aspetto solare nascondeva come abbiamo visto un lato ctonio. Iside era la regina dei misteri e questi dovevano essere protetti dalla massa. Il mito della morte e della resurrezione con la scese negli inferi e il colloquio con l’altro mondo non era dominio di tutti ma riservato a pochi prescelti. Questa pericolosa discesa privava il novizio di ogni precedente identità, da ogni orpello materiale per poi tornare trasformato e vincente sulla terra. Questo era l’aspetto dell’Iside nera, che gli eletti osservavano, potendo essere ammezzi all’onore di sollevarne il velo, una volta compresa e assimilata la sua vera natura di essere semidivino compartecipe della stessa sostanza della Dea. Sperimentando in se la realtà dei multi universi, poteva dominare e far parte delle leggi che regolavano il cielo e quindi la terra.
Iside in sostanza era una guardina della porte spirituali che aprivano la meraviglia su altri universi, su altre realtà. Essa può, a pieno diritto, inserirsi nella schiera dei signori di Samahin.
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Cerere l’Iside greca
Cerere è il nome romano che identifica la Dea Demetra, altra divinità della fertilità e delle messi. Questo suo aspetto di divinità della vegetazione e dell’agricoltura la colloca tra coloro che tutelavano nascita e fecondità e la vita stessa. Come ogni dea della vita possedeva un aspetto ctonio e l’altra sua faccia si manifestava nel suo dominio sulla morte e sulle regione infere. Pianta sacra a Demetra erano fave e fagioli i cuoi baccelli proteggevano il cuore tenero del frutto. Parallelamente l’uomo si avvolgeva del sui corpo fisico come corazza difensiva di qualcosa di più immortale. L’anima. L’anima era il seme che una volta ripiantato nella terra donava nuova vita. Il mondo visibile aveva sempre bisogno di trarre energie vivificanti dal mondo invisibile, quel mundus romano e etrusco posto al centro di ogni spazio vitale il cui contatto rinvigoriva alcuni e terrorizzava altri. Priprio come fa oggi il nostro Halloween. Il tempo in cui si estendeva dominio dell’aspetto oscuro di Cerere veniva festeggiato con vari riti durante le feste di Cerealia. In questi giorni le sacerdotesse attiravano gli spiriti dei defunti offrendo loro dei doni, soprattutto dolci, affinché non facessero agli uomini scherzi bizzarri.
Non vi ricorda scherzetto dolcetto?
In questa celebrazione le sacerdotesse venivano totalmente possedute dallo spirito della Dea in qualità di mater larvorum , Madri degli spettri, diventando esse stesse ponti attraverso cui l’energia mistica dell’altro mondo entrava nel mondo terreno risanando e rinforzando la città e i suoi abitanti. Il mito stesso, peraltro bellissimo e dalle potenti immagini, narra di questo particolare legame che si instaurava tra i due aspetti della vita e della morte. La figlia della Dea rapita dal cupo dio Ade / Plutone viene portata con la sua bellezza, la sua giovinezza e la sua freschezza in una dimensione di morte e di misteri che forse, per la mancanza di contatti con il mondo reale causata dal cambiamento della concezione ontologica del mondo ( non più considerato unico ma separato nei suo aspetti fondamentali) perde quella freschezza e quella positività relegato a mero ambiente di terrore e raccapriccio. Il mondo infero diventa pauroso, spaventoso regno di demoni da combattere e non più universo magico di bellezza e incanto. Ed è con il rapimento di Prosepirna che si tenta di riportare la luce nell’oscurità. La perdita di quel soffio di giovinezza rappresentato dalla figlie, rende però Cerere arida, disperata tanto che questo stato di follia si riversa sui campi che inaridiscono e sulla vegetazione che si risecchisce privata della sua energia. Ed è questo stato di gelo totale che fa si che il dio supremo giove riuscì a persuadere Ade a restituire la figlia alla Dea. Ma come possono le tenebre rinunciare al sorriso che illumina e restituisce sacralità a un mondo oramai perduto di incanto? Del resto Prosepirna oramai parte del regno di Ade, avendone mangiato chicchi di melograno, non può più tornare del tutto nel mondo altro. E’ la storia di ogni favola che rende la vita di ogni giorno impossibile da vivere per chi ha sperimentato i viaggi nel regno numinoso. Perché a dispetto dei miti greci quello di Ade è semplicemente la versione opaca dell’antico regno degli spiriti e dei faerie il sidhe. Ecco che l’unica cosa da fare è accettare il destino; dividersi tra due realtà che oramai fanno interamente parte di lei. Ogni sei mesi cosi la Dea giovane torna nel mondo reale e con le la natura si risveglia rigogliosa e dotata di un nuovo splendore, la terra diventa fertile e il sole brilla sui campi arati. E quando la piccola Dea torna nell’altro mondo il tempo si richiude in se stesso, la natura dorme come in attesa che il miracolo della vita si rinnovi.
Con questo mito si spiega benissimo la magia di Samahin, quell’allegoria del tempo e restituendo al mondo infero il suo antico splendore. Ed è in quei giorni sospesi ad attendere il ritorno della figlia di Demetra che lo scambio vitale tra le dimensioni ha luogo, unendo vita e morte in un’unica realtà archetipa e rinnovando la comunione tra aspetti altrettanto sacrali e altrettanto importanti.
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Samahin e il ritorno della Dea.
Come abbiamo potuto notare le divinità signore di Samahin erano fondamentalmente femminili. Affiancati da sposi e amanti esse rappresentavano il mistero, la conoscenza ma anche i cicli fondamentali dell’esistenza. Erano diverse eppure tutte raccontavano la stessa energia, descrivendola nei suoi molteplici aspetti. La dea spodestata dai conquistatori maschili, tornava ogni anno, in quelle feste del raccolto, in ricorrenze dei morti e in tempi particolarmente pregni di significato esoterico: le cosiddette porte sull’aldilà. Che fossero di origine ellenica, etrusca o egizia esse erano lo stesso antico principio, spaventoso in quanto depositaria di segreti ma anche luminoso perché fautrice della fertilità del suolo e delle messi. Tutti i simboli collegati alla Grande Madre o che si riallacciano alle proprietà del “materno” sono di fatto contraddistinti da una forte ambivalenza, una duplice natura, positiva e negativa, quella della “madre amorosa” e della “madre terribile”. Secondo Jung l’archetipo della Grande Madre è
«La magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile».
Dall’uomo primitivo, Homo sapiens, e per moltissimo tempo, dal 30.000 a.C. e fino ad almeno al 3.000 a.C., l’umanità ha fatto ricorso alla “Dea Unica”, ed è solo dal 3.000 a.C. ad oggi che si è sostituita nell’immaginario collettivo la figura del Dio maschio, che ha comunque assorbito in sè qualità del tutto femminili, come quella della creazione e del dare la vita.
Ma nonostante gli sforzi, nonostante sia spesso stata bruciata come strega o additata come sposa del maligno, ancora oggi in questa particolare festa, la Dea resiste e ci mostra benevola, e terribile il suo splendido volto:
Perché io sono colei che è prima e ultima
Io sono colei che è venerata e disprezzata,
Io sono colei che è prostituta e santa,
Io sono sposa e vergine,
Io sono madre e figlia,
Io sono le braccia di mia madre,
Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli,
Io sono donna sposata e nubile,
Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.
Io sono sposa e sposo,
E il mio uomo nutrì la mia fertilità,
Io sono Madre di mio padre,
Io sono sorella di mio marito,
Ed egli è il figlio che ho respinto.
Rispettatemi sempre,
Poiché io sono colei che da Scandalo e colei che Santifica.
Inno a Iside
Rinvenuto a Nag Hammadi, Egitto;
risalente al III-IV secolo a.C.:
Note
1.quella che Gregory Bateson ribattezzo nella sua opera il Dio Eco, Gregory Bateson, Verso un ecologia della Mente, Adelphi 1972