“L’odore del caffè amaro” di Raffaele Gatta, Robin edizioni. A cura di Rita Bompadre

“La prudente follia del riverbero emotivo” con questa premurosa e significativa espressione trascritta nell’intestazione, Raffaele Gatta spiega il suo romanzo “L’odore del caffè amaro” (Robin Edizioni, 2013 pp. 190 € 13.00).

Si tratta di una raccolta di racconti articolata in un ordine di lettura di piccoli capitoli in cui lo strumento creativo della narrazione illumina la riflessione esistenziale, nell’effetto riflesso della condivisione sensibile intorno alle vicende della vita, alla superficie provvisoria delle emozioni. Raffaele Gatta prende a pretesto l’occasione di assaporare il profumo del caffè, come metafora di estrazione culturale, dal sapore intimista e suggestivo, come elemento di complicità e di solidarietà nei confronti del vissuto quotidiano, come interpretazione del piacevole e catartico intervallo dalle difficoltà individuali e dall’insidioso sentore di tematiche importanti e universali come la disagevole precarietà del lavoro, il risvolto ambiguo e contraddittorio della morale, le vicissitudini speculative dell’etica.

Scopre, attraverso la consuetudine specifica e simbolica del senso antico e terapeutico del caffè, la magica connessione esplorativa degli incontri, l’affabile espressione di un’invitante peculiarità sociale, intuisce l’acceso desiderio della comunicabilità e l’interessante indagine intellettuale, nella strategia di affascinanti e coinvolgenti storie, nel consolidamento immersivo delle relazioni umane. “L’odore del caffè amaro” diffonde la gradevole e piacevole attrazione verso il destino dei personaggi, assorbiti nella ritualità di un’occasione vitale in cui la misura ipotecaria del tempo incrocia la sua naturale agilità e supera la vischiosità degli eventi.

Il profumo percepibile dei sentimenti circonda l’evoluzione della memoria emotiva, sprigiona la riservatezza della densità affettiva, dona a ogni contesto il sapore della speranza.

Raffaele Gatta utilizza l’accurata puntualità dei suoi pensieri e traduce l’essenzialità nella brevità di un’istantanea, ordina la specialità discorsiva di ogni assaggio introspettivo, con accattivante laconicità, giostra la sintesi di una sperimentazione linguistica caratterizzando l’avventura immaginativa nelle parole giuste, l’applicazione ermetica nei dettami provocanti del nondetto, il dettaglio evocativo della confidenza, nel rilievo fondamentale di ogni segreto.

Si interroga sull’integrazione dei personaggi intorno alla promessa di abitare ogni nuovo giorno in tutte le sue imprevedibili dinamiche, nelle intenzioni della fiducia, combattere le paure, fronteggiare l’ansia delle sconfitte, proteggere l’incanto dell’amore, nella coerenza filosofica delle esperienze.

Il libro analizza il legittimo intervallo di ogni passaggio della vita, accompagna il cammino del sogno, accoglie lo spostamento della luce, protegge il riscatto dei personaggi, nell’intento di rimuovere la deriva della solitudine.

Raffaele Gatta conduce la raffinata qualità metaletteraria delle sue micronarrazioni nella struggente e matura consapevolezza della realtà in ogni palpabile e visibile contraccolpo, occupa il luogo intimo d’adozione della narrativa immediata, nella fulminea e impulsiva osservazione dell’ordinario, nella coraggiosa sfida per la determinata direzione nella corrente sinuosa del vivere. Invita il lettore a considerare la fragilità umana della società contemporanea come la qualità straordinaria e necessaria all’ineluttabilità della legge di natura, nella scorrevolezza della comprensione dei punti di forza, quando la vulnerabilità delle sensazioni riceve in dono l’insospettabile meraviglia del cuore.

Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

“Infiniti silenzi” di Brenda Piselli, Eretica edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Scrivo di notte affinché nel silenzio possa trovare pace dal clamore di una vita che non è mai stabile.

Sghemba, senza appigli ne porti sicuri.

Cosi strana in questa fase che non conosco e che mi spaventa, dove tutto è nuovo e appare in una luce profondamente diversa.

Se prima il sole era solo sole oggi diventa una storia da raccontarmi. E in questo mio vagare sognate in un regno dove domina l’infinità troppo grande per me, sento il bisogno di scrutare dentro il pesante zaino che porto accanto da tanto, troppo tempo.

Sulle spalle doloranti, funestate da cosi tanto peso.

Scorgo nel buio di un fondo che non sembra mai aver fine emozioni, sensazioni, ricordi e persino ossessioni che è il tempo di scordare.

Di lasciare dietro di me, perché so che la salita sarà sempre più faticosa e impervia.

E allora canticchio tra me e me i versi che con la loro musicalità possono diventare per me la rassicurante nenia capace di ipnotizzarmi e costringermi a diventare leggera.

Oggi tocca ai versi di Brenda Piselli.

E cosi di notte seduta di fronte a un fuoco immaginario scruto cosa ho conservato negli anni, a farmi compagnia o diversamente a impedirmi di correre.

E ogni parola intinta di inchiostro mi aiuta a sgombrare quel pesante zaino che mi accompagna da tanto troppo tempo.

E una storia mia scritta che risponde al nostro nome

il mare ci risucchia

il ricordo si fa sale.

Subito dal bagaglio dei ricordi esce fuori un nome che evoca il sale delle lacrime e l’impervia imprevedibilità del mare. Chi non ha mai avuto un amore?

Tutti.

Eppure quello che emerge fulgido alla luce della luna non è soltanto il racconto di una storia.

Alla luce fosca del fuoco diventa una parte di me, il tassello mancante di un anima che non ha mai smesso di cercare e cercarsi. Che forse soltanto in quel attimo mai computo ma soltanto sussurrato ha avuto la possibilità di definirsi, di descriversi, di nominarsi. E oggi che anche il mio cielo è

senza luci senza stelle

Continuo a contemplarlo in cerca di

un firmamento di una preghiera.

Lacrime invisibili solcano il viso.

Perché il primo cimelio dello zaino è il nome che oggi ha la mai forza.

Una forza nata dalla spaccatura di una fragilità caduta dal suolo. Come angelo perduto e lontano dall’amore di dio.

Conosco oggi antichi tagli, antiche ferite che riportano me indietro, al giorno della caduta, quando Sophia volse lo sguardo altrove e mi lascio macilenta e disperata a camminare.

Misi il ricordo nello zaino.

Misi urla dentro un acuto silenzio, quello che oggi mi accompagna ancora e ancora.

Solco il mare ostile

schivo le onde alte

mostri dai volti noti

non ho più litorali da scoprire

Ecco che lo zaino mi fa emergere il volto che chiamo con il mio nome.

Indefinito e duro, come scolpito su pietra lavica.

Perduto in un mare abitato da colui che non dorme, che mi ghermisce e che divora a volte ogni tratto di umanità.

Ma sono mostri che non fanno male.

Ma compassionevoli tentano di divorare ogni rimpianto, ogni attimo di terrore perché non è il mare profondo e sconosciuto a terrorizzarmi.

Non è R’lyeh.

Non è una città nascosta tra le alghe putride.

E’ la consapevolezza di essermi perduta da troppo tempo.

Perché non ho più nulla da scoprire.

E’ colpa del nome perduto?

O semplicemente è il senso del viaggio?

Forse è la vita che va cosi veloce da farsi perdere in attesa di un nuovo nome mentre lotti contro dio

Mentre mastichi veloce la vita

lo sguardo fisso, acuto

risuona il motore assordante

vince chi cede senza rumore.

E allora basta crollare.

Stesi per terra in questa limpida oscura notte.

Lasciare che il verso compaia la sua strada senza perderlo in questo incorrente flusso di parole.

La fine diventerà un nuovo inizio.

E noi in questa notte id passione, morendo alle nostre idee e al nostro passato, forse potremmo risorgere

fragili gigli

leggeri già schiusi

i nostri gironi.

E le cose oramai indagate, trovano la loro profondità che regalano a me, alla poetessa a tutti coloro che senza temere infiniti silenzio si metteranno in ascolto della loro interiorità.

Che parla in questa mistica notte lunare, con voce soave con il ritmo di versi senza tempi

Sarò un eco lieve

nel vento che respiri

sottile come brezza resterò

una gioia sospesa un fiore candido sul ciglio dell’abisso

indosserò le tue perle omaggi discreti

la notte

“Camminando dondolandosi su fili di ragnatela” di Paola Ricci, Eretica. A cura di Alessandra Micheli

Leggo poesia perché ho bisogno di vedermi riflessa in qualcosa.

Che sia lastra di vetro.

Che sia acqua che scorre.

O che sia verso.

Oggi che non mi riconosco e mi sono persa, durante questo strano uragano che è diventata la mia vita.

In cerca del sono primigenio, quello con cui sono stata creata e che mi ha messo a recitare su questo palco.

Leggo poesia affinché mi doni la leggerezza di sistemare il mio zaino cosi pesante, sulle spalle.

Troppo pieno di rancori, di speranze uccise dall’alba.

Di dolori mai urlati al cielo.

E di dubbi, tanti dubbi.

Dubbi che girano attorno alla mia testa come se fossero pianeti attratti da chissà quale forza magnetica. Girano e si scontrano ,creando un assordante rumore, simile al big bang originario.

Leggo poesia perché soltanto la delicatezza della parola, che è cangiante come i colori dell’alba può assumere i mille significati, gli stessi che elabora quella mente, cosi ossessionata dal macinare pensieri prima che la quiete arrivi con un passo soave, a azzittire il concerto.

E metta ogni suonatore a riposo.

E cosi cammino, ma non è affatto un passo sicuro.

E’ il passo dondolante di chi sente il movimento della terra, dell’anima, e si ogni cambiamento.

Sospesi su una linea immaginaria sottile, come il filo di una ragnatela. Eppure piaceva questo movimento rotatorio.

Piaceva a noi bimbi con quella filastrocca che oggi è un po la colonna sonora di ogni mio passo.

Ci dondoliamo su fili sottili di ragnatela d’argento, sopra una abisso chiamato vita, con uno sguardo fisso nel firmamento di un tempo immaginario.

E la musica suona.

Musica che racconta tramite l’intricato dedalo di note di noi.

E’ la voce di Paola che ci prende per mano e ci porta a scoprire cosa si cela dietro gesti ripetuti quasi senza accorgersene.

Dietro eventi cosi semplici, fino a sfiorare la banalità.

Allora gli fu tutto chiaro, quel passaggio che non era riuscito a cogliere a memorizzare non era altro che la variazione del suono. La creazione del suono può non finire se migra verso qualcos’altro che è nuovo, ma non lontano da sé stesso.

Il vento stesso che racconta nenie antiche, che diventa il simbolo della creazione, di altro che non è mai simile a se stesso, ma sempre novo, sempre diverso.

Sempre.

Leggo poesia perché quel per sempre diventi fluido da bere, io assetata in cerca di un momento congelato in eterno, lassù dietro la settima stella, capace di racchiudere tutto.

Sapori dimenticati e perduti.

Idee vaneggiate e mai raccolte nel giardino dell’iperuranio.

Ricordi, che sembrano semplicemente aliti di vento immaginari, lievi e forti.

Fino a sorseggiare persino quel dolore che rifiuto, ma che il verso mi porge in un calice di cristallo.

Lo bevo e assume un sapore acidulo, d’infanzia e illusioni.

Di speranza e di aspettative deluse

Punge lentamente, rispunta quel dolore avanza,

avanza, sopraggiunge, si fa largo

avanzando, spingendo pungendo, dove andrà;

Forse dimenticato, forse sperduto

ma per un attimo ritrovato ha deciso di alzarle il capo

di tenere la fronte libera dal sudore freddo

di disperdere quelle ombre dagli occhi stanchi

E quel ricordo le ombre le disperde,cosi pieno di malinconia e di forza.

Cosi semplice da ritrovare in questa raccolta, che è prosa e poesia, che è ritmo e pausa.

Che è semplicemente il soffio di vita che mi serve per poter alzare la testa e specchiarmi.

Leggo poesia perché forse so di non poterne fare a meno, cosi come non posso fare a meno di vivere, ogni giorno, come se fosse l’ultimo passo di danza

Dondolandomi ti rincorro, ti raggiungo, ti separo dal silenzio,

allargo i fili per raggiungerti, per sentirti, per amarti,

per assaporarti, non morirò mai avendo punto

la lacrima che è caduta, che è dispersa, è bagnata

di passioni, di serena lontananza

di serena reminiscenza che come spalmata sul vetro

trasparente offusca il lontano dolore, ma sparirà,

si dileguerà, alla fine si riappacificherà come sordo

rumore dello squillo lontano dietro al tutto.

E dietro il tutto che si manifesta quasi come una gnosi, dopo l’ultimo verso, il sipario cala e la poetessa si inchina.

Il sorriso di chi ha appena assistito alla propria rinascita accompagna quel lento dondolio, quel camminare ora soddisfatta, precaria sul filo di una ragnatela.

“Il niente .Riflessioni filosofico-scientifiche sull’origine del mondo” di Gabriele Centorame. A cura di Loriano Romboli

Lo sguardo assiduo e perspicace di un osservatore cólto e sensibile

È noto quel passo delle Pensées in cui Blaise Pascal (1623-1662) dettò un’illuminante definizione dell’uomo, a suo parere debole e forte al tempo stesso: incerto e vacillante come una “canna”, in balìa dei tanti soffî del vento, e tuttavia stabile e vigoroso in ragione delle sue capacità critico-empiriche e teorico-conoscitive, delle sue doti preziose di essere “pensante”.

Ritengo che tale spunto riflessivo debba essere accostato a un altro celebre luogo della medesima opera, ove il grande moralista e matematico francese esprimeva tutto lo smarrimento che lo prendeva, allorché considerava la sua solitudine di individuo collocato in una determinata, specifica posizione intellettuale-morale, in una precisa condizione esistenziale, peculiare e limitata, entro un universo spazio-temporale dalle illimitate possibilità. Anche nelle pagine della parte seconda del diario filosofico-scientifico di Gabriele Centorame, impegnativamente intitolato Il Nientee recentemente pubblicato dall’Editore Guido Miano, è viva la preoccupazione di porre in risalto i “limiti”, e quindi le insufficienze, la precarietà, la sostanziale illusorietà della complessiva vicenda vitale-naturale e segnatamente storico-umana, inesorabilmente condannata dal nesso dinamico “materia-antimateria” a un niente primordiale, basico perché esso appare la risultante obbligata del “movimento” stesso della realtà fisica: “Viviamo per un tempo che a dir poco è insignificante. Niente eravamo e niente saremo. Quindi la vita in senso lato è inesistente. Per poco tempo è reale. È però reale in un tempo così sfuggente da apparire senza alcun dubbio illusoria (…) Pochi sono i momenti di felicità e molti quelli in cui appaiono le percezioni di un mondo tutto sommato assurdo e inutile e quindi poco interessante” (p.13). Il diario è un giornale puramente concettuale, ricco di informazione e scandito da annotazioni acute nella loro complessità e da approfondimenti speculativi e scientifici svolti in un dialogo serrato con le fonti più prestigiose – da Dante a Leopardi, da Socrate, Platone, Aristotele fino a Kant, Hegel, Freud, Heidegger, da Pitagora a Marie Curie ad Albert Einstein per giungere a Carlo Rubbia – , in un contesto cultural-problematico dei cui contenuti non è possibile dare conto in un intervento recensorio dalle finalità necessariamente soltanto orientative, stante inoltre la notevole varietà della trattazione, che non disdegna altresì incursioni nella cronaca contemporanea e sa aprirsi a divagazioni descrittive di questo genere: “Il sole sorge all’orizzonte in un cielo sereno, azzurro con raggi colorati di giallo-oro. La giornata è bella fin dal primo mattino e i cuori si riscaldano dopo alcuni momenti di grigiore e di tristezza” (p.25).

Preme comunque sottolineare la distinzione, sottile ma apprezzabile da un punto di vista teoretico e assiologico, fra niente e nulla; giova al proposito dare direttamente la parola all’autore: “Quando facciamo riferimento al niente si vuole mettere in evidenza che l’essenza unica del tutto è proprio niente, concreto, astratto e somma delle parti. Da non confondere con il nulla, concetto astratto in contrapposizione all’essere, anch’esso astratto (…) Il niente non è un’idea, è niente e basta. Qui coincidono tutte le cose, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande: è tutto e non è niente” (p.134, corsivi miei).

Detto altrimenti, se il nulla è un’idea-valore negativa rivolta al progressivo depotenziamento, all’aggressione nichilisticamente distruttiva dei modelli ideali e degli abiti di condotta generalmente accolti in quanto considerati positivi, affermare il niente significa rilevare lo stato di fondo dell’ordine delle cose naturali e sociali, a partire dal quale viene precisandosi l’elaborazione etico-culturale delle “menti associate” (per servirci della bella espressione di Carlo Cattaneo): queste ultime operano indubbiamente in situazioni provvisorie e transeunti, nondimeno il quadro interpretativo appena accennato comporta al più la loro relativizzazione, non certo l’invalidazione o addirittura l’inconsistenza: “In altre parole, la mia concezione di un assoluto inesistente non implica la rinuncia all’esistenza, semmai proprio il contrario, cioè l’attaccamento ancora più forte a quello che abbiamo per una necessaria sicurezza e una maggiore tranquillità” (pp.66-67), anche perché “(dobbiamo essere) obiettivi, non c’è da inveire sul mondo naturale in sé. La natura fa quello che deve fare. É sempre rigogliosa a creare e potenziare la vita”(p.67).

Dell’impegno elaborativo degli uomini sono parti essenziali l’arte (ad esempio la poesia di Dante, al quale Centorame tributa un omaggio commosso: “La Divina Commedia di Dante è grande ed armonica nelle sue parti…Per scrivere tanti canti e tutti in modo preciso a livello formale non basta l’impegno costante ci vogliono anche bravura, competenza e cultura. Rispetto a lui gli altri scrittori sono come tanti pivellini. Questi si possono distinguere per profondità di contenuti, ma Dante è grande in tutto. Se non il massimo sicuramente uno dei massimi del mondo”, p.35), la riflessione etica (con il correlativo rifiuto della violenza e di ogni forma di egoismo individualistico e sopraffattorio (“(Viviamo) in un mondo dominato dai soldi, dall’interesse personale e dall’appiattimento generale sotto l’aspetto etico, religioso e giuridico. Nei casi peggiori siamo travolti da eccessivo individualismo e dalla corruzione, non per aiutare, ma per danneggiare il prossimo”, p.72), la ricerca scientifica. Risulta pertanto conseguente l’elogio schietto ed esplicito dei principî profondamente innovativi, dell’autentica portata rivoluzionaria nel campo della morale e della civiltà dell’Annunzio del Cristo: “Il Cristianesimo e il Nuovo Testamento hanno affermato e divulgato l’amore universale e il rispetto di qualsiasi essere umano. Dio generando il figlio in una donna ha posto un punto fermo, cementato appunto dall’Assoluto, nella nostra anima: amare l’altro. Per duemila anni l’amore senza scopi specifici, ma per un fine universale si è fatto strada superando ed annullando pregiudizi connessi allo schiavismo, alla differenza sociale e al rifiuto del più debole” (p.53).

Floriano Romboli

Gabriele Centorame, “Il Niente” – II Parte (Riflessioni filosofico-scientifiche sull’origine del mondo), premessa di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 180, isbn 979-12-81351-23-3, mianoposta@gmail.com.

“Poscienza” di Roberto Maggiani, Il Ramo e la Foglia edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Sono davvero convinta che i libri arrivano quando devono arrivare. E lo so che la vostra tentazione sarà di dirmi ammazza che genialata hai tirato fuori.

Però, se è cosi ovvio perché questo ovvio non è sempre presente nelle nostre vite?

Tutto ciò che ci viene elargito, in fondo da filosofi e saggi è dannatamente ovvio.

Che siamo noi a rendere concreato ciò che vediamo.

Che ciò che chiamiamo realtà non è altro che frutto della nostra interpretazione, che un oggetto sarà diverso per ciascuno, che una nuvola avrà per tutti differenti forme.

Lo sappiamo.

Eppure ce ne dimentichiamo.

Ci dimentichiamo quelle frasi importanti, spirituali che vivono ogni giorno accanto e fuori di noi.

Perché spesso per noi il consueto o l’ovvio è qualcosa che corrisponde a banale.

Ovvio che il male distrugge.

Eppure è seducente abbracciarlo.

Ovvio che ogni cosa, azione, parola emozione torna indietro caricata di altre azioni, altre emozioni e significati.

Ovvio che se una persona mi da uno schiaffo, immotivato o meno, riceverà lo stesso.

Ciò che semini raccogli, ciò che raccogli in fondo, hai seminato. Ovvio, ovvio e ancora ovvio.

Ma a noi sto ovvio non ci garba.

Non ci soddisfa, non ci dona quell’aura di mistero che porta alla scoperta di un limite che è sempre di più messo a repentaglio.

E se superare il limite significa anche apprendere a apprendere come Bateson ci insegna, a volte oltrepassarlo è segno di sconsideratezza.

Se a uno schiaffo posso dare oltre il limite e il tabù una carezza, oltre il paletto posso anche appropriarmi del segreto dell’universo, spesso con risultati nefasti.

E quindi scusatemi se queste frasi “scontate” io le ripeterò sempre e comunque.

E cosi eccoci al punto di partenza: i libri arrivano quando devono.

E prestano la loro voce fatta di segni e di codici ( il linguaggio) a noi che ne abbiamo bisogno, per esprimere al meglio quel quesito che ci angoscia o dare finalmente la risposta all’indovinello della Sfinge.

E magari passare oltre l’architrave della porta segreta e scoprire cosa tiene custodito sotto le sue zampe.

Poscienza non è altro che la porta scoperta in quell’antro sepolto dai scoli, dalla sabbia del tempo, dalle ceneri del passato.

Poscienza è la mia risposta all’indovinello, quella che non ho mai potuto davvero formulare ,ma la sentivo sulla punta della lingua, pronta a gridare tutta la sua gloriosa ribellione.

Pos e scienza, due distinte passioni che da sempre hanno animato il mio movimento, che amo definire centrifugo verso il punto chiamato infinito.

Come una danza a spirale, che si allontanava per avvicinarsi ancora e ancora.

Poesia e scienza.

Sono passioni o ossessioni?

Non saprei dirmelo sapete?

La poesia è il modo di interpretare il mondo con il codice che voi chiamate cuore o anima.

Scienza è lo stesso modo di dare ordine al cangiante universo, dimensione o mondo con un codice altrettanto valido ma spesso ostico.

Non perché sia differente da quello poetico.

Ma perché forse più ricco di segreti.

Ossia la formula matematica.

Che oh sempre rifiutato.

Perché troppo arida o troppo chiusa nei suoi misteri.

Eppure se di matematica io sesso soffrivo l’impossibilità di penetrare il suo guscio, altrettanto familiari erano parole come sezione aurea, geometria sacra, geomanzia e persino i numeri delle piramidi.

E’ matematica anche quella, mi dicevano.

Eh no rispondevo convinta, quello è esoterismo e spiritualità. Capite?

Mettevo io stessa paletti per delimitare confini netti, tra l’aridità che dovevo percepire e la bellezza dell’immaginario.

Troppo immaginario e troppo ardito era andare nel cuore delle formule e delle equazioni.

Dove persino due più due poteva addirittura dare come risultato il cinque…

Eh no.

Se non mi date il quattro, ossia la dualità e mi fornite il cinque, ossia la quintessenza, il mondo mi sta dando vertigini.

E cosi no, la matematica DEVE essere arida.

Perché arido è rassicurante ANCHE in quel mio pedissequo odiarla. E la poesia direte voi?

Li è tutta immaginazione.

Non ci sono paletti, confini, le parole possono avere un doppio baule di significati, possono essere ridicole e senza senso logico. Posso dire fanfole o sualo senza problemi.

E’ il regno dell’Altrove.

E mi ospita quando ho bisogno di follia e di bizzarro.

E poco ci importa se qualcosa di sinistro emerge dalle silloge…qualcosa che sembra dare una sorta di regolarità alle rime, alle frasi con un senso logico anche nell’illogicità.

La poesia è musicale.

E mi rassicuro.

Solo che musica, ritmo e strofa possono essere anche equazionabili sapete?

Ecco che l’indovinello torna.

Non è affatto risolto.

Poesia è scienza, scienza è poesia e tutto cos’è?

Ecco che Maggiani arriva in aiuto.

Come l’apprendista stregone di Fantasia.

Sorride, mischia un po’ di filtri e eccola..poesia e scienza ora sono..poscienza.

Capite?

Ore i paletti sono stati tolti.

Gli opposti si risolvono in un mondo dominato dalla Sacra Unità. Scienza e poesia sono codici simili che parlano del nostro mondo.

Di regolarità e assonanze, conseguenze e divergenze.

Contrari opposti e simili.

Equazioni che possono dare cinque, sette o addirittura il segno di infinito.

E come sacre formule che riuniscono i bordi sfilacciati di quelle stringe che abbiamo tentato di legare in modo troppo forte, diventano semplicemente il sistema.

Interconnesso.

Splendido, magico e sfaccettato.

Pleroma e Creatura danzano assieme.

Matematica e musica sono della stessa banda.

Scienza e poesia si scambiano complici i codici.

Anzi sono gli stessi.

E cosi io mi sento rassicurata in ogni mio lato ossessivo e torno a brindare nei miei folli te con Cappellaio, Lepre, e Ghiro, disquisendo di Shelley Einstein, di stringhe, Muldimensioni, quanti e neutrini.

E brindare grati a Maggiani.

Ecco lettore.

Ora sei pronto per il viaggio?

Prendi la bisaccia, riempi il tuo zaino di possibilità, cerca la custodia dello Spartito e sopratutto…tieni stretto a te il libro.

Custodiscilo.

E’ magico sai?

E’ il libro segreto.

E’ il grimorio, quello vero, di noi matti, noi apprendisti stregoni, noi discepoli della poscienza..

“La prima notte del mondo” di Luigi Finucci, Seri editore. A cura di Alessandra Micheli

E’ normale chiedersi di quale notte parla Finucci.

Perché per ognuno, ognuno di noi esiste una notte precisa.

Quella che ci ha visto morire, più e più volte in attesa di una rinascita che è importante perché non compiuta.

La prima notte di una lacrima, di un bacio.

Di un sogno interrotto.

O la notte in cui la luce fu il grido capace di dare inizo all’esistenza di una cellula, di un atomo.

Della vita stessa.

La prima notte in cui il cuore è stato nominato, cosi come fece Adamo con ogni foglia, ogni sasso.

E quel nome ha dato la possibilità al sangue di circolare, tra le vene, fino a muovere le gambe, fino a farci diventare non soltanto pensiero ma azione.

O la prima notte dopo l’arte bizzarra di una creazione, che non procede per step, ma diventa un’esplosione, improvvisa e accecante, fino a farci venire qua, in questo piano d’esistenza che ferisce spesso i nostri piedi nudi.

O forse sono tutte le notti, ogni volta che appaiono diventano per noi le prima, e poi le ultima.

E poi il giorno che forse contiene più morte di quanta vita ne chiediamo.

Forse è soltanto la notte, in cui sei solo con te stesso, più vicino all’essenza e alle sensazioni più intense, a farci sentire di esistere, in quello spazio che riempiamo di parole, di urla silenti, di promesse fallaci.

La prima notte al mondo diventa cosi parabola personale per ognuno di noi, che è in fondo nient’altro che frammento di cielo, sguardo che squarcia l’immobilità dell’infinito.

Quella piccola, misera esistenza che forse è più improntante della perfezione degli angeli.

Proprio perché soffre, piange e sa morire, in attesa di una rinascita.

E cosi al ricerca di Finucci può essere davvero un percorso, lento e fatto di attimi fotografati dalla dittatura del verbo che li immortala, li rende congelati davanti al flusso che come un maelstrom ingoia ogni essenza, ogni assenza e ogni movimento, per rigettarlo poi fuori di lui frammentato ma sempre vivo.

E in quel fotogramma vediamo stelle morire e poi rinascere, pianeti che girano vorticosamente dentro e fori di noi

Atomi, si muovono

nello spazio imitando

un perpetuo sodalizio.

Il caso vorrà, nell’istante

imprecisato, che si formi

un assioma complesso.

Vita. Senza bisogno alcuno

di definizione

E’ l’inizio di ogni vita, che sia organica, che si pensiero, che si ascoltano un potenziale in embrione di un azione che forse deciderà il percorso del destino.

Ed è la bellezza de ogni origine, quello che non si esplicita in una concretezza, non ingabbiato dai limiti della materialità.

Bella perché è in embrione, bella perché contiene dentro di se il potere del tutto

Nel luogo più oscuro, le possibilità

di vita hanno le sembianze

di una cellula. Le origini

hanno parvenze insolite,

non hanno linguaggio

E cosi che inizia ogni crescita, da un’esplosione.

Esplosione cosi intensa che coinvolge e sconvolge.

E’ la partenza di ogni universo, del macrocosmo, cosi come di quel piccolo frammento di esso che è e resta il nostro io.

Da questo momento iniziale, la prima notte del mondo, si diventa poi azione concreta.

Gli occhi si aprono e si esplora il nostro oggi.

Si vive non più di potenzialità, ma di concretezza mai scevra da quell’istante di sacralità da cui proveniamo e da cui toerneremo

Ho moltiplicato le emozioni

le ho divise per il numero di costole

ho sommato il numero di battiti

infine, sottratto i giorni perduti.

Il risultato è stato uno zero.

E’ nell’esplorazione della materia, persino di quella meno nobile che la vita ha il suo compimento, tocca l’apice del massimo splendore.

Anche se guardiamo negli angoli, se rimestiamo nel fango, se tutto non ha mai la nobiltà del pensiero primordiale.

con la terra. Rossa!

Scorre forte, incrocia fiumi

riversa la furia in un lago

appartato; gli occhi contusi

celano una fenditura

occipitale, sul cranio.

Persino il sangue, persino la sofferenza, persino il luogo meno illustre di questa martoriata terra, diventa bellezza, forza e meraviglia.

E lontano da ogni definizione agiografica, colta e barocca, l’uomo diventa finalmente consapevole di un miracolo appena accennato nella creazione del capitolo precedente

Così lontano da casa

c’è una percezione ampia

le catene si rompono

con l’educazione familiare.

Porta d’acceso ad un mondo

primordiale.

Lontano dalla zona di conforto, la percezione abbandona lo schema comodo e inizia a comprendere quale accadimento grandioso sia avvenuto grazie alla prima notte del mondo, qualsiasi notte sia, per qualsiasi persona.

E se noi iniziamo a comprendere quale grandiosità ha la vita, iniziamo anche a rifiutare la blasfemia della banalità

Ora, c’è molta stanchezza. Le venature sono più evidenti

sembriamo vecchi. Una cosa è certa, abbiamo provato

a salire sui rami dell’amore.

Eppure…la salvezza resta nel dono della corporeità, quello che ha reso seducente una corporeità che si è sganciata dal possesso della potenzialità:

Caduti, le ossa si sono frantumate con la realtà.

Eppure le mani hanno trovato il modo di sfiorarsi, le mani

Siamo raggi di luce caduti, come lacrime, dagli occhi di Dio.

Abbiamo perduto la purezza dell’archetipo.

Ma guadagnato l’armonia dello sfiorarsi, di un corpo capace di farci godere di ogni raggio di sole.

E cosi la prima notte del mondo, forse diventa anche l’ultima, quella che ci fa sentire più acutamente la perdita che avverrà con il ritorno nell’alto dello spazio siderale.

È tutto meraviglioso

il vociare

la cadenza dei camminanti

il profumo dell’erba

le vertebre stanche. A tratti

il silenzio.

Tutto mancherà.

Anche le cose invisibili

“Uomo libero” di Raffaele Gatta Nulla die Edizioni. A cura di Rita Bompadre

“Povera Italia ridotta a colonia, di disoccupazione fabbrica/Crociera turistica condotta da ruffiani/Non più patria di virtù, ma di prostituzione mediatica”. L’esplicita intestazione appartiene all’opera “Uomo libero” di Raffaele Gatta (Nulla die Edizioni, 2023 pp. 86 € 13.00) con la prefazione di Diego Fusaro.

Il libro affronta il declino della coscienza e l’inesorabile decadenza della società, immersa nella sorda e asettica superficialità, muove il sentimento della solitudine, argomenta i voraci e crudeli condizionamenti nelle scelte, riduce la struttura morale a una consapevole e disincantata intangibilità della libertà.

Raffaele Gatta pone al centro della sua ricerca poetica il destino dell’uomo in relazione alla sua indipendente capacità di riflettere intorno alle opinioni e al contesto sociale e politico della vita, afferma la responsabilità della verità come la lineare conseguenza dell’equilibrio dell’intelligenza, alimenta la conquista culturale e la conoscenza dell’animo umano contro il subdolo e insidioso vincolo dell’imperativo di ogni principio carismatico.

I testi di Raffaele Gatta aggirano la cinica illusione dei valori e delle ideologie, dimostrano la critica efficace per difendere l’impegno politico e la meditazione dell’attualità storica, commentano l’isolamento dell’uomo in relazione alla possibilità di comprendere dialetticamente le correnti contrastanti della personalità, fondono il concetto fragile e instabile dell’uguaglianza con l’esempio dell’ambiguità democratica, legittimano il sentimento collettivo di ogni educativa rivendicazione.

Il poeta conferma il desiderio di regolare attraverso le leggi dell’intelletto la percezione della realtà, nella sua immediatezza esegetica, insegue la ragione attiva di ogni divenire, propone la concezione del mondo osservando la corrispondenza di una fenomenologia che raggiunge l’universalità nell’intuizione dell’essenza.

Esamina la sensazione disgregante e timorosa del carattere dell’uomo, l’espressione speculativa dell’identità, la disarmante alienazione, il tradimento di ogni artificiosa necessità che trasfigura l’anima dell’uomo in mercanzia. “Uomo libero” illumina la dottrina del pensiero, risponde puntualmente all’accostamento contemporaneo introspettivo delle suggestioni ingannevoli, rispecchia compiutamente la finalità matura delle riflessioni nel percorso esistenziale e intellettuale, identifica la consapevolezza della perdita dell’umanità con l’oscurità compromessa del comportamento pubblico.

Raffaele Gatta ascolta la persuasione occulta del silenzio, assiste al disorientamento delle voci, sentenzia la nullità in ogni sistema di devastazione etica nel distacco imperturbabile dell’universo politico, distingue la scrittura interpretativa della coscienza naturale e l’intento di estendere la volontà del cambiamento nella consistenza sensibile della parola, l’impegno del linguaggio nella riflessione filosofica.

Accoglie la sottile e acuta tonalità del presentimento attraverso il passaggio di un malessere invisibile ma evidente nella fibra ontologica dei versi, spiega la rappresentanza del consenso, traghettando tra ragione e suggestione, il materialismo spirituale.

Decifra la morente e sconcertante condizione dell’individualità come deriva nichilista sull’instabilità, riconosce il depistaggio delle false solidarietà, insegue la direzione illuminante dell’equilibrio nella trascendenza poetica dell’essere.

Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

“L’albergo dei morti” di Fabio Dainotti. A cura di di Enzo Concardi

L’albergo dei morti” è una miscellanea di liriche del poeta, nativo di Pavia, Fabio Dainotti, poi trasferitosi al Sud – una sorta di emigrazione a rovescio – e stabilitosi a Cava dei Tirreni nel Salernitano. Il libro ha visto la luce nell’ottobre del 2023 ad opera di Manni Editori. Stranamente non vi si legge una prefazione, mentre Nicola Maglino è il curatore di una succinta postfazione. È proprio qui che possiamo apprendere alcune notizie sugli interessi culturali del poeta, o almeno su alcune letture giovanili degli endecasillabi di Camillo Sbarbaro, delle perplessità letterarie di Sergio Corazzini, di un paio di opere di Arthur Rimbaud: Vocali e Battello ebbro, così come dell’incontro fecondo con il romanzo di Alain Fournier Le grand Meaulnes, in cui trovò un’immedesimazione ideale con i sogni, i progetti, le illusioni dell’adolescenza. Interessi che si allargarono al cinema (film di Bergman) e alla musica classica (Bach, Mozart, Beethoven).

Nonostante l’acquisizione di un certo spessore culturale, il linguaggio poetico di Dainotti non è influenzato, se non in minima parte e marginalmente, da strutture metriche e costruzioni stilistiche accademiche o complesse, frutto di un labor limae sulla parola: possiamo considerarlo certamente un cesellatore istintivo, primitivo e naif, ovvero un poeta dall’ispirazione spontanea, diretta, senza mediazioni intellettuali. Il lessico volutamente non curato, assume forme spesso sperimentaliste accessibili tuttavia alla massa dei lettori, che si possono ritrovare in questo cantore del minimalismo quotidiano specchiati nei loro reconditi pensieri. I suoi nonsense rappresentano accostamenti imprevedibili, sorprendenti di immagini analogiche e sinestetiche, mentre altri termini diminutivi rimati e le atmosfere a cui ci rimandano sovente le sue creazioni, sono indubbiamente di sapore crepuscolare, sia nel significato poetico del termine (tendenza letteraria del primo Novecento), sia nel senso etimologico, ovvero aggettivo di crepuscolo, che tende al tramonto, al termine della vita terrena.

Le sue creazioni poetiche, talora con la misura dei brevi poemetti, sono altrettanti quadretti di vita vissuta, intrisi di autobiografismo, di rimpianti memoriali per la giovinezza trascorsa e non più revocabile, di ‘racconti’ di affetti familiari non retorici ed originali, di raffigurazioni di una serie di personaggi pervasi in gran parte da un indefinito senso di fallimento esistenziale, portatori di esistenze ‘sgangherate’, del contemporaneo ‘male di vivere’, quasi catalogabili – con diverse motivazioni – alla stregua dei ‘vinti’ verghiani, ma senza l’afflato storico-drammatico dello scrittore catanese. Il titolo del libro non è ovviamente beffardo, ma reale, poiché quasi tutte le sue figure ritratte sono già morte e questo albergo dei morti gli appartiene, è il luogo dove può radunarle, ricordarle, sempre con affetto e grande sentimento, anche quando l’ironia o la satira sembrano indicare l’opposto. Lui si sente quasi un sopravvissuto precario a parenti e amici defunti, coi quali rimane un legame indissolubile. L’umanità dispersa di Dainotti rappresenta l’anelito ad andare oltre, all’amore, al fondo dell’umano per sentirci tutti insieme in questa avventura terrena misteriosa ed inesplicabile: «La bianca gleba sotto i ginocchi / pastosa, friabile avevo; / ma vuoto il cielo, se alzavo gli occhi; / Signore non ti vedevo» (Un cielo vuoto).

Tra i versi più significativi del ‘male oscuro’ esistenziale si trovano questi: «… dover andare dove / non ti aspetta nessuno / quanti fiori ho calpestato / quanti amori ho rifiutato» (Viaggi);«… e moriamo ogni giorno, ogni momento; / ma il faut tenter di vivre (verso di Paul Valery), sì, tentare / di vivere sapendo di vivere” (L’albergo dei morti);«Distesi sotto terra, allineati / o sovrapposti, a strati, / allungati, con le mani in croce; / placidi, con la luce / fioca del sorriso, / ci aspettano laggiù i nostri morti» (Musica d’altri tempi);«E non ci andrò mai più in quella casa, / dove c’eri tu, la mia seconda madre, madre buona, / dove risuonava la tua voce, / come una musica dolce e segreta. // Tutto questo eri tu per me, per noi; / e ora che sei partita per sempre, con te / tutta la nostra casa è seppellita» (Lamento per la morte di Gina: epicedio non corale per l’amata zia Gina). Segnalo ancora Pioggettina, quadro naif di un interno; Sera, 38 pièces amoroso-esistenziali; Campane di Lombardia, commoventi nostalgie di gioventù; Novecento, accattivanti immagini dai tavolini d’un caffè; Ritorno, la perdita delle radici; Sospensione, il vuoto del non-amore; Cimitero marino, ironica poesia sul suo luogo di sepoltura in riva al mare.

“Uomo libero” di Raffaele gatta, Nulladie edizioni. A cura di Rita Bompadre

“Povera Italia ridotta a colonia, di disoccupazione fabbrica/Crociera turistica condotta da ruffiani/Non più patria di virtù, ma di prostituzione mediatica”. L’esplicita intestazione appartiene all’opera “Uomo libero” di Raffaele Gatta (Nulla die Edizioni, 2023 pp. 86 € 13.00) con la prefazione di Diego Fusaro.

Il libro affronta il declino della coscienza e l’inesorabile decadenza della società, immersa nella sorda e asettica superficialità, muove il sentimento della solitudine, argomenta i voraci e crudeli condizionamenti nelle scelte, riduce la struttura morale a una consapevole e disincantata intangibilità della libertà. Raffaele Gatta pone al centro della sua ricerca poetica il destino dell’uomo in relazione alla sua indipendente capacità di riflettere intorno alle opinioni e al contesto sociale e politico della vita, afferma la responsabilità della verità come la lineare conseguenza dell’equilibrio dell’intelligenza, alimenta la conquista culturale e la conoscenza dell’animo umano contro il subdolo e insidioso vincolo dell’imperativo di ogni principio carismatico.

I testi di Raffaele Gatta aggirano la cinica illusione dei valori e delle ideologie, dimostrano la critica efficace per difendere l’impegno politico e la meditazione dell’attualità storica, commentano l’isolamento dell’uomo in relazione alla possibilità di comprendere dialetticamente le correnti contrastanti della personalità, fondono il concetto fragile e instabile dell’uguaglianza con l’esempio dell’ambiguità democratica, legittimano il sentimento collettivo di ogni educativa rivendicazione.

Il poeta conferma il desiderio di regolare attraverso le leggi dell’intelletto la percezione della realtà, nella sua immediatezza esegetica, insegue la ragione attiva di ogni divenire, propone la concezione del mondo osservando la corrispondenza di una fenomenologia che raggiunge l’universalità nell’intuizione dell’essenza.

Esamina la sensazione disgregante e timorosa del carattere dell’uomo, l’espressione speculativa dell’identità, la disarmante alienazione, il tradimento di ogni artificiosa necessità che trasfigura l’anima dell’uomo in mercanzia. “Uomo libero” illumina la dottrina del pensiero, risponde puntualmente all’accostamento contemporaneo introspettivo delle suggestioni ingannevoli, rispecchia compiutamente la finalità matura delle riflessioni nel percorso esistenziale e intellettuale, identifica la consapevolezza della perdita dell’umanità con l’oscurità compromessa del comportamento pubblico. Raffaele Gatta ascolta la persuasione occulta del silenzio, assiste al disorientamento delle voci, sentenzia la nullità in ogni sistema di devastazione etica nel distacco imperturbabile dell’universo politico, distingue la scrittura interpretativa della coscienza naturale e l’intento di estendere la volontà del cambiamento nella consistenza sensibile della parola, l’impegno del linguaggio nella riflessione filosofica.

Accoglie la sottile e acuta tonalità del presentimento attraverso il passaggio di un malessere invisibile ma evidente nella fibra ontologica dei versi, spiega la rappresentanza del consenso, traghettando tra ragione e suggestione, il materialismo spirituale.

Decifra la morente e sconcertante condizione dell’individualità come deriva nichilista sull’instabilità, riconosce il depistaggio delle false solidarietà, insegue la direzione illuminante dell’equilibrio nella trascendenza poetica dell’essere.

Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

Quando finisce la luce di Francesco Terrone. A cura di Raffaele Piazza

Francesco Terrone è nato a Mercato San Severino (SA); è autore di numerose raccolte di poesia. La sua produzione poetica è trattata in varie opere pubblicate da Guido Miano Editore tra cui Storia della Letteratura Italiana. Il Secondo Novecento, vol. IV (2015), Itinerario Organico delle Critiche Letterarie alle Poesie di Francesco Terrone (2016). Dizionario Autori Italiani Contemporanei (2017), Analisi ragionata dei saggi critici riguardo Francesco Terrone.

Quando finisce la luce (Guido Miano Editore, Milano 2019)il libro di poesia di Francesco Terrone che prendiamo in considerazione in questa sede, presenta una prefazione di Nazario Pardini esauriente e ricca di acribia. L’opera è illustrata con fotografie di dipinti eseguiti con varie tecniche e di sculture in legno di molteplici autori. Si crea così una interessante osmosi tra poesia e arti figurative anche se non necessariamente le poesie hanno un’attinenza con le sculture e i dipinti. Del resto è indicativo a tale proposito l’inserimento nel testo prima della prefazione dello scritto Parallelismo delle arti di Michele Miano.

Il titolo della raccolta è tratto dall’ultimo verso del primo componimento intitolato La rondine e la zanzara: «Un sogno non muore / quando è guidato / da ali d’amore. / Le rondini volano in aria / alla ricerca / di piccoli insetti / che volano anch’essi nell’aria, / ma il loro volo, / pur essendo utile, / è fastidioso e senza speranza: / finisce / quando finisce la luce». Lo stesso titolo evoca un senso di perdita e di pessimismo un sentore di spleen che è tipico nelle opere anche di poeti contemporanei. Del resto i poeti sono spesso ultrasensibili e la loro produzione poetica stessa diviene il viatico per superare le difficoltà della vita che non è arte e spesso dà scacco all’individuo.

La raccolta non scandita potrebbe essere letta come un poemetto o canzoniere amoroso e se è vero che l’amore stesso fa soffrire può riservare gioie ineffabili connesse alla capacità di controllare le emozioni e tutto questo discorso è connesso alla capacità d’amare che è espressione nelle persone di intelligenza e sensibilità nel manifestare i propri sentimenti.

Le poesie di Terrone neo liriche tout-court sono sempre in bilico tra gioia e dolore nel relazionarsi dell’io-poetante alla figura dell’amata nel creare situazioni nelle quali tutti potrebbero identificarsi. È struggente il pathos espresso da Francesco in molte poesie per il manifestato timore di non essere ricambiato dalla sua donna.

Come contraltare incontriamo anche componimenti nei quali l’autore manifesta intima e profonda gioia vincendo la malinconia nel vivere lasciandosi andare nella sua passione.

Nella lirica Ti amo il poeta ci presenta la rima cuore-amore che è tipica di molti poeti del passato. L’amore stesso trova sfondo in contesti naturalistici anche idilliaci e le emozioni provate dal lettore si amplificano attraverso la contemporanea fruizione delle opere figurative che sono di grande pregio.

Il poeta esprime una notevole linearità dell’incanto attraverso composizioni che sfiorano anche l’elegiaco e si esprime con un versificare luminoso e narrativo nella sua forte chiarezza e immediatezza che ha una forte presa sul lettore.

Raffaele Piazza

Francesco Terrone, Quando finisce la luce, prefazione di Nazario Pardini, Guido Miano Editore, Milano 2019, pp. 80, mianoposta@gmail.com.