“Le grandi scoperte archeologiche che hanno cambiato la storia” di Massimo Manzo, Newton Compton. A cura di Alessandra Micheli

Sarà l’estate.

Sarà questa sera speciale, cosi calma, cosi fresca con quei profumi di glicine che arrivano da chissà quale giardino. Saranno le stelle che fanno capolino in quel cielo che, al crepuscolo si è tinto di arancione dorato.

Sarà quel senso di libertà che avverto, ogni estate puntuale dentro le ossa..ma stasera miei lettori voglio proprio viaggiare.

E con la fantasia.

Verso mete esotiche, sconosciute ai più, dove il mistero ha creato la sua segreta alcova.

E cosi che mi accingo a leggere le grandi scoperte archeologiche che hanno cambiato non soltanto la storia, ma anche e sopratutto la nostra percezione della stessa.

Che hanno modificato, sostanzialmente e in modo irreversibile, persino l’idea che noi avevamo dell’evoluzione e dell’umanità.

E in quei monumenti, quelle meraviglie uscite direttamente da una fiaba eppure sentinelle custodi della macina del tempo, ritroviamo la ribellione umana, quella che ha sempre tentato di andare oltre il consueto, di osare, di proporre alternative allo status quo e di abbracciare quel senso di infinito.

Petra, ma anche il palazzo di Minosse, cosi come Agkor Wyatt sono li a testimonianza di una grandezza che abbracciava e deve abbracciare ogni dimensione umana, quella che unisce spirito e materia.

Perché in quell’elenco di Manzo noi non abbiamo soltanto la bellezza, ma anche quel delizioso senso di ribellione che permise a prometeo di rubare il fuoco agli uomini, e a Eva di conoscere, finalmente il bene e il male e diventare davvero simili al creatore.

Ecco che in tutte questa storia, perché sono storie noi possiamo acquisire un po’ della stessa magia di esploratori, temerari, fortunati che si sono imbattuti in reperti dimenticati, che hanno dato corporeità ai miti, togliendoli dal loro status di mere fantasie.

Che hanno osservato mummie che raccontavano una storia diversa dell’evoluzione o grotte in cui la maestria dell’uomo preistorico di parlava di quel bisogno spasmodico di trovare un senso religioso nel cosmo.

Possiamo osservare torbe dimenticate, riportate ai fasti dell’elogio umano.

E costruzioni che solo a osservarle mozzano il respiro, con quell’elaborata tecniche che ancora oggi desta dubbi, perplessità e fa sognare.

Ecco io in questa serata profumata ho bisogno di sogni reali, di possibilità concrete, di capire quanto il mio appartenere a questa razza che sembra sempre i bilico sull’abisso in realtà sia motivo di orgoglio.

Perché ci sono giorni in cui tacciarmi dell’appellativo umano, non mi crea altro che imbarazzo e disagio.

Stasera no.

Ho osservato, sono stata accompagnata lungo una strada brillante fatta di meraviglie.

E una volta chiuso il libro, ho forse fatto pace con la mia natura.

Magari tornerò a odiare l’uomo al prossimo Telegiornale.

Ma stanotte lasciatemi…

questo orgoglio disperato d’esser solo un uomo.

Vecchioni.

L’epopea assiro babilonese da Gilgamesh alla torre di Babele” di Luigi Angelino. A cura di Alessandra Micheli

 Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. 

Era il 1979 quando le note melodiose di una canzone a noi familiare invadevano le nostre case.

Echi antichi di dolori mai sopiti, canto di tristezza e al tempo stesso di orgoglio evocavano civiltà che oggi sono sepolte sotto strati di sabbia, sepolte nei nostri ricordi e in quella porzione di DNA che ci costringe a alzare gli occhi al cielo e sognare costellazioni perdute.

Lassù dove qualche strana divinità assisa sul trono poteva decidere di noi e dei nostri destini.

Lassù dove le stelle intessevano il colorato arazzo dei nostri destini, lassù oggi privi di una guida e forse di un’origine che sentiamo sempre meno divina e sempre più dannatamente umana.

Babilonia è la città del sogno e al tempo stesso simbolo della ricerca della libertà. Quell’impero con quelle torri cosi alte che si erigevano orgogliose e superbe fino a quel cielo che restava muto davanti alle nostre domande, noi che ci sentiamo ancora oggi come quei fuggiaschi costretti a rinnegare il loro posto del cuore, per poter sperare in un’esistenza diversa.

Costretti alla schiavitù del pensiero unico.

Costretti da qualche potere a rinnegare il sogno e il canto.

E cosi mentre leggevo questo saggio, le note di Rivers of babylon risuonano nella mente.

E ho sognato valli ricche di oasi verdi, di misteriose divinità capace di creare l’uomo dal fango, plasmarlo e sottometterlo donandogli però il ricordo lontano di una strana origine divina, nata dal soffio e dell’alito di qualche strano nome sacro.

Ecco che l’epopea di Gilgamesh cosi come la storia della torre di babele sono qualcosa di più profondo e grande del semplice mito.

Perché noi, il mito lo consideriamo soltanto un racconto ricco di superstizione, magari di pathos ma non certo onorato come uno dei tasselli capaci di creare quello strano specchio capace di riflettere il nostro vero volto.

Cosi l’epopea assiro babilonese, quella civiltà che poco conosciamo, che si sfugge e al tempo stesso ci attrae vive soltanto grazie a vecchi ricordi, cenere negli annali di quel tempo che fugge e non torna mai a guardare indietro.

Cosa lascia e cosa ci ruba.

Non solo la speranze del futuro ma anche la saggezza del passato.

Non solo la concretezza di un oggi privato della sua aura sacrale, ma anche l’importanza che ogni mito, ogni costruzione mentale che chiamiamo quasi sprezzantemente folclore riverse per quest’uomo capitato quasi per caso in questo cosmo cosi intelleggibile.

Perché il mito, specialmente questi miti che, volenti o nolenti entrano a passo danzante, fiero nella nostra anima sono il modo con cui noi, noi piccoli esseri di fango graziati dell’influsso del respiro divino nominiamo e conosciamo questo mondo.

Sono il modo con cui possiamo persino essere responsabili di ogni filo, di ogni legame che ci può unire in modo indissolubile al cielo stellato, lo stesso studiato e ammirato con riverito terrore da antichi sacerdoti.

Che annotavano ogni loro osservazione con rigore e con quel pizzico di meraviglia di cui oggi, noi siamo dolorosamente privi.

E cosi in questa grandiosa ricostruzione sotrico antropologica fa capolino persino l’eresia degli studi di argonauti capaci di inaugurare la straordinaria e odiata paleoastronautica.

Forse dalle pieghe di questo tempo, qualche intelligenza superiore, molto più concreta della bizze di qualche strano dio annoiato e desideroso di compagnia, una proto-scienza ha voluto lasciare la sua impronta in quelle sabbie, decidendo quasi per gioco il nostro destino evolutivo.

E allora tutta l’epopea assiro babilonese diviene storia che non si può svelare, che si nutre di segreti e di misteri che devono restare insondabili.

Per non perdere quell’orgoglio e quella strana nostalgia che ci fa alzare gli occhi al cielo, che si fa essere simili a Gilgamesh alla ricerca della risposta alal domanda, eterna della sfinge Cos’è l’uomo?

E forse la storia della torre di babele può darci una prima risposta: l’uomo è la differenza capace di rendere possibile la comunicazione con il cielo stellato. Forse l’uomo è quel mito che è esso stesso risposta a quell’annoso quesito.

Forse noi siamo come i creatori della Torre, troppo folli per poter arrivare a Dio, ma capaci proprio grazie a quella ribellione pazza e poterlo davvero abbracciare.

Un piccolo prezioso saggio, ricco di domande, forse capace di spingerci a cercare da noi le risposte.

“Archeologia misteriosa. Gli enigmi che la scienza non ha mai risolto” di Alfonso Cappetta, Newton Compton. A cura di Alessandra Micheli

Uno dei miei libri preferiti è stato un illuminante saggio di Michael Cremo e di Richard Thompson “archeologia proibita”, sempre della Newton.

In questo testo si analizzava la storia segreta della razza umana, che appariva diversa per evidenze archeologiche di stampo eretico, da quella ufficiale.

Il modello della preistoria umana, edificato con tanta cura dagli scienziati degli due secoli sia…totalmente sbagliato.

Ci sono troppe prove che mettono in discussione le teorie e troppa poca voglia di ripensare alle stesse in virtù delle nuove scoperte.

Ed è questo il dramma di un certoestablishment accademico: sono i dati a essere inseriti spesso a forza nelle teorie, considerate intoccabili, invece di usare questi ultimi semplicemente per proseguire sulla strada dell’evoluzione.

Ogni scienza umana, a differenza di quelle più prettamente matematiche e fisiche, è soggetta a una strana malattia: l’autorevolezza di chi l’ha proposta.

E’ la voce dell’archeologo cosi come dello storico a divenire garanzia di verità.

Non è più il dato a essere venerato ma il concetto, impossibile da criticare, impossibile da intaccare.

Eppure nella pratica, quindi negli scavi ci sono spesso troppi reperti inconsueti, e troppi considerati impossibili.

Sono gli ooparts ossia ciò che non può esistere.

E non può esistere perché un nome altisonante ha deciso che la linearità dell’evoluzione umana sia da considerare un dogma teologico.

Eppure…

Da tanti anni accumulo testi di archeologia di antropologia e di storia.

E in ognuno di essi non ho mai, e sottolineo mai riscontrato la linearità di cui tanto vanno fieri gli intellettuali.

La realtà che la circolarità delle faccende umane è soltanto una convenzione comoda che ci permette di non indugiare sugli angoli della vita, quelli oscurati o ignoti che rappresentano il fattore di entropia, danno e maledizione di ogni costruzione scientifica.

E’ come se in questa scienza che dovrebbe venerare il reperto, il dato, che dovrebbe trovare più utilità nel rumore del messaggio, noi infondessimo le nostre personali idiosincrasie, convinzioni e perché no timori.

E la trepidazione è che la vita sia meno scontata o banale di come la linearità ci presenta: sia un punto di partenza chiamato A che arriva direttamente a B, seguendo una linea retta.

O al massimo circolare.

Ecco che bisogniamo di una preistoria fatta da ominidi lenti e fragili per arrivare alla perfezione di questo nostro postmoderno: l’uomo sapiens sapiens, dominatore del tempo, sovrano supremo della tecnologia e del progresso.

E cosi ci sentiamo di nuovo un popolo eletto capace di fa uscire la nostra specie dall’abisso dell’oscurantismo scientifico e sociale.

Ma è davvero cosi?

Al pari di archeologia proibita il libro archeologia misteriosa ci pone davanti un evidenza a dir poco agghiacciante verso il nostro passato. Non più demone da superare, mostro a cui sfuggire, ma tradizione e esperienza che…ritorna.

Capite?

Leggendo il libro di Cappetta non vi sentirete il culmine dell’evoluzione umana, anzi.

Vi sentirete soltanto stolti che hanno semplicemente re-imparato non solo valori ma sopratutto…tecnologie.

E questo ci pone fuori dal consesso delle divinità e ci fa apparire semplicemente parte di un meccanismo che, dal lineare, passa a un movimento a spirale che è fatto di corsi e ricorsi.

Benedetto Vico!

Lo aveva compreso prima di noi che la storia e quindi l’evoluzione umana è esclusivamente un ricordare apprendimenti incisi nel nostro DNA, e percorrere una strada tracciata dai lontani progenitori.

Che appaiono quindi non soltanto, e sottolineo soltanto, ominidi privi di intelletto. Ma mostrano la magnificenza di una civiltà che era..progredita. Ma molto progredita.

Senza scomodare extraterrestri o buchi nel tessuto temporale ( concetti che comunque sono oramai dimostrabili dalla moderna scienza della fisica quantistica) la vera scoperta è una:

Possibile che in epoche ben più remote l’uomo se ne sia stato semplicemente a guardare, per nulla stimolato dall’ambizione di affinare le proprie capacità e potenzialità, limitandosi a sfruttare l’enorme creatività di cui disponeva solamente per decorare caverne e poco altro? Difficile a credersi.

L’analisi del nostro passato storico-archeologico tramite vestigia fascinose e inspiegabili e manufatti che hanno per così dire dell’“impossibile” racconta di un’evoluzione tecnologica dell’uomo ben diversa da quella comunemente propinata dall’establishment accademico.

Ed è quella verità, scomoda e difficile da accettare perché ci rende comparse sulla grande scena della creazione, che gli ooparts dimostrano. Dai teschi di cristallo, al meccanismo di Atikitera, dalle linee nazca, alla statuette di Acambaro passando per il famigerato aliante di saqquara, il nostro passato non ci apparirà più cosi noioso.

E forse ritroveremo la passione per radici che non fanno altro che raccontarci quanto è meravigliosa quella creatura chiamata uomo e di quale genio è dotata!

Gli ooparts indicano che il passato dell’uomo è stato caratterizzato da un “sapere arcano”, e, come sosteneva Andrew Tomas, «la fonte di quel sapere originale va cercata nelle profondità del Tempo e dello Spazio».