“Atra Nox, Minturnae e la notte nera di Caio”, Antonio De Meo, Ali Ribelli Edizioni. A cura di Barbara Anderson

Iubentium tibi lector!

Se siete “archeologi” nell’approccio alla lettura, come lo sono io, indubbiamente non riuscirete a frenare il desiderio non solo di leggere questo romanzo ma anche di scavare oltre le sue pagine. Analizzando, esplorando e ricercando tutto ciò che possa esservi di aiuto alla totale immersione e comprensione, non solo della storia che Antonio De Meo abilmente ci racconta, ma anche del periodo storico straordinario in cui si svolgono gli eventi e le abili indagini.

Non vi nego di aver subito un salto spazio temporale, di essermi sentita totalmente immersa tra il passato e il presente.

Il passato che mi teneva legata alla storia e l’ambientazione del romanzo e il presente in cui ricercavo materiale che mi mostrasse i resti di quei luoghi, i reperti storici che son rimasti come una firma su quelle terre consacrate a un tempo straordinariamente imponente. Quello del grande Impero Romano. 

Sono nata e vissuta per molti anni a Roma e i luoghi dove si svolgono questi eventi li ho un tempo percorsi (Formia, Minturno) ma ad oggi riesco ad apprezzare molto di più i paesaggi, lo stile architettonico, lo sfarzo e la bellezza di un’epoca che resterà per me sempre una delle più affascinanti dall’esistenza dell’uomo sulla terra.

Ed eccomi qui addirittura ad avere tra le mani fogli stampati da un computer, come si fa per le ricerche di studio: carta che mi mostra la bellezza architettonica della Villa di Mamurra con i suoi interni, il suo stile architettonico.

Villa Mamurra locata nel bellissimo Parco di Ulisse prende il nome dal suo proprietario Lucio Mamurra (Marco Vitruvio Mamurra), cavaliere romano originario di Formia, prefetto degli ingegneri di Gaio Giulio Cesare, fu anche il primo romano a costruire una villa di marmo.

Villa Mamurra è una spettacolare abitazione che ci mostra la forza, l’abilità architettonica e il lusso del suo tempo; attraverso le pagine di questo romanzo, che unite a ciò che resta di quella abitazione completano ai nostri occhi un’immagine di qualcosa di straordinariamente bello, che si affaccia proprio sulla bellezza di un mare che ha visto la gloria di un impero straordinario.

Lucio Mamurra era un nemico del grande Catullo e in questa storia è anche il padre di Caio; colui che ci guida in questo giallo storico.

Caio è un uomo di valore, legato alle sue radici, alla sua famiglia, alla sua appartenenza sociale, percorre le strade della sua bellissima cittadina a testa alta, con incedere fiero, maestoso, importante, ma soprattutto con un cuore afflitto dal dolore.

L’atmosfera con cui De Meo ci avvolge è antica, poetica, austera a tratti, ma maestosa nella sua bellezza e autentica nelle vibranti situazioni e emozioni che il lettore si trova a vivere.

Caio soffre di quella solitudine, di quel senso di vuoto e di impotenza; afflitto dal suo dolore, solo, sotto un cielo che sembra stia riversando tutte le lacrime di un universo inconsolabile.

Dopo aver perso suo padre, ora anche il suo amato fratello Publio era morto a causa di una brutta malattia e il suo dolore, la sua sofferenza, si trascina come se fosse un lungo manto di agonia su quelle strade, le stesse che regolarmente aveva percorso in periodi più felici osservato da a un cielo terso.

Caio e Publio erano figli di un padre che li aveva allontanati per molto tempo ma ciò che la vita a volte separa il sangue, riunisce. Il fratello perduto e ritrovato, gli era stato restituito solo per un breve periodo fino al momento in cui io Dio Plutone lo aveva portato via con sé nel regno Averno.

Caio ora finalmente ha sepolto suo fratello proprio all’ingresso della sua dimora e mesto nel suo dolore e in quella voragine di sofferenza che lo avvolge si sente morire anche lui.

Caio vive il suo lutto, il suo dolore con dignità e con somma devozione, si lascia trascinare nel baratro della sofferenza in silenzio, avvolto dall’inedia del lutto e il dubbio perfino dell’esistenza dei suoi dei, gettandosi nel vicolo cieco di domande in cerca di risposte che non sa dare.

Si lascia consolare dalla sua abitazione, dal mare, dal paesaggio straordinario che ora appare oscuro, avvolto da nubi e temporali interiori. Si abbandona alle sue letture soprattutto trovando conforto nel testo il Consolatio scritto per la morte dell’amata figlia da Cicerone.

La filosofia a volte aiuta ad affrontare argomenti che il cuore e la ragione rifiutano di comprendere.

Le sue passeggiate sono rigeneranti mentre elabora il suo lutto e sembra quasi tenere per mano il lettore, che silenziosamente lo accompagna in questo viaggio della vita che inevitabilmente tutti dovremo prima o poi affrontare.

Osservando le gesta e inseguendo i pensieri di Caio; comprenderemo che il dolore non lo si può cancellare, ma che bisogna attraversarlo andando oltre, senza mai dimenticarlo.

Le descrizioni dei luoghi e delle gesta dei protagonisti di questo bellissimo giallo sembrano dipinti su un’antica tela con minuziosi dettagli delicatamente stupendi.

Quando il suo amico giunge a fargli visita nel vederlo distrutto dal dolore cerca in qualche modo di fargli capire che lui è presente e che, seppur affranto dalla perdita dell’amato fratello egli doveva gioire del fatto che gli dei gli avevano concesso di ritrovarlo prima che egli morisse facendo perdere ogni futura possibilità di recuperare il loro rapporto.

Agli occhi del lettore si ricostruisce non solo l’architettura di quei luoghi ma anche quella di un uomo giusto, della sua vita, della forza, del suo intelletto e della sua vasta cultura. Mentre l’Impero Romano sembra aver riportato alla fioritura un terreno arido, rinnovato grazie ad Augusto colui che riportò l’Impero alla pace e al benessere, rinnovando lo stato romano, il tufo stava diventando marmo.

L’impero stava ritrovando il suo splendore, l’amico di Caio riesce a distoglierlo dalla sua chiusura verso il mondo convincendolo a recarsi con lui a teatro per assistere a uno spettacolo.

Controvoglia Caio si reca con lui in questo teatro e assiste a uno spettacolo inquietante non solo per la bravura del suo attore principale ma anche per l’infelice morte in cui questi stramazza a terra davanti a un pubblico sconvolto, infastidito, sconcertato.

Una morte naturale?Oppure un omicidio che sembra stato scenografato proprio per avvenire così pubblicamente; sotto gli occhi di tutti. 

Caio in quel momento ritrova un nuovo rinnovato interesse, quello per la verità.

La morte di un attore non è importante in quel periodo storico quanto quella di un uomo di famiglia nobile e di posizione politica importante; un attore è un uomo qualunque e la sua morte può passare facilmente impunita poiché a nessuno interessa trovare il colpevole; ma a Caio interessa la verità e inizia a svolgere le sue indagini.

Così Caio si getta nella vita, nelle persone che sono state vicine all’attore deceduto, osserva i dettagli, riconoscendo nell’apparenza del cadavere il metodo di assassinio tipico dei romani, quello da avvelenamento, Caio seguirà piste, alcune delle quali anche pericolose per la sua stessa incolumità. Ascolterà pettegolezzi, storie di mariti gelosi, di lussuria e di vendette.

Caio attraverso la morte di un uomo qualunque riuscirà a ritrovare la sua stessa voglia di vivere e di andare oltre il suo dolore.

Un giallo dove troverete complotti, congiure, tradimenti, scritto da un autore di talento che grazie alla sua familiarità con i luoghi riesce a darne una descrizione sublime mostrandoci Minturnae per come essa era vista dai romani che vi si insediarono dopo aver visto l’importanza strategica e commerciale della sua vicinanza al mare e che divenne poi un importante porto commerciale del Mediterraneo, il suo tempio, il foro, il teatro… oggi alcuni reperti sono ancora lì a ridosso di un mare e di un cielo che sembrano riportare in vita le vicissitudini di Caio, di suo padre, del suo impero, della sua epoca, della sua storia.

De Meo ci mostra anche come ciò che ben conosce come l’archeologia lo aiuta a conquistare il lettore avvicinandolo allo studio delle attività umane, analizzando, recuperando materiali, manufatti, architettura dell’epoca; i suoi paesaggi culturali, facendoci vivere il tutto come un’esperienza sociale e umanistica di inestimabile valore.

Un giallo storico che ci mostra la completezza nelle sue descrizioni, nella cura ai dettagli storici e architettonici, l’accuratezza e la ricerca dei dettagli rendono questa lettura assolutamente piacevole e avvincente.

“Delitto a Dogali. La prima epopea coloniale italiana” di Daniele Cellammare, Les Flaneurs. A cura di Ilaria Grossi

Nel 1890 viene costituita la prima Colonia Eritrea con capitale Massaua, la vittoria e conquista italiana è il traguardo di una serie di continue e aspre battaglie in un territorio ostile e per niente amichevole della politica coloniale italiana del 1885.
La sete di conquista, obiettivo principale di Roma è così forte da non tener conto delle situazioni inumane in cui vivono i soldati tra clima ostile e mancanza di cibo e dei tanti morti e feriti sul campo di guerra.
Soldati sacrificati in nome dell’Italia e della monarchia, soldati che sono solo numeri e in continua battaglia con improvvisati soldati del luogo, istigati dai loro governatori a cacciare via con la morte e lo sterminio, il nemico italiano.
In una casa abbandonata a Dogali, viene ritrovato il corpo di un prete chiamato Adelmo Proietti, un uomo dal passato molto misterioso e sarà incaricato di compiere le dovute indagini il capitano Garofalo del Regio Esercito.
L’incontro con una donna arrivata nella colonia Eritrea di nome Adele Rampell, infittisce ancor di più le indagini spesso fuorviate dai pochi elementi a disposizione.
Durante le indagini, la situazione in campo di battaglia precipita con il massacro di Adua che segna la sconfitta italiana e la fine del governo Crispi.
Una triste e dolorosa pagina della nostra storia.
Leggendo “Delitto a Dogali” non posso non sottolineare lo stile del professore Daniele Cellamare, sempre curato e pieno di preziosi dettagli storici che caratterizzano la trama, dalle divise dei soldati ai luoghi di ambientazione.
I dialoghi sono molto corposi e focalizzati sulle battaglie e gli eventi che riguardano un preciso momento storico.
Il delitto avrebbe dovuto rubare di più la scena tra le pagine del libro e si infittisce di nuovi elementi, sciogliendo i vari dubbi solo sul finale che lascio a te caro lettore scoprire.


Buona lettura
Ilaria Grossi per Les fleurs du mal blog letterario

“Il sangue dei figli. Boretti e Orlandini Vol.1” di Giovanna Barbieri. A cura di Barbara Amarotti

In una Firenze sudata e rapita dal Mondiale di calcio di una fine giugno del 1982 l’opinione pubblica è sconvolta dal ritrovamento del cadavere di un’anziana e di quello di una seconda vittima, anch’essa ottuagenaria.

Chi può voler del male a due vecchiette?

Il capo della squadra mobile affida l’incarico all’ispettore capo Orlandini e alla sua collega Fiammetta Boretti.

Iniziamo così a muoverci in questa città che, sotto una maschera cosmopolita, è ancora ferma in una borghesia vecchio stampo fatta di segreti, maldicenze e poco incline alla diversità.

Un po’ come succede negli uffici della squadra mobile, dove Fiammetta è vista con sospetto e derisa in quanto donna e Orlandini è costretto a celare la propria natura.

Eppure, questa coppia di colleghi, che all’apparenza sembrano mal assortiti, sono gli unici in grado di trovare il bandolo di una matassa che si snoda lungo i decenni e assicurare il colpevole alla giustizia.

Questo è un giallo con dentro un romanzo, racconta la morte ma anche la vita, terribile, patita nel 1944 dagli oppositori del regime fascista e dalle loro famiglie.

E, nel romanzo, troviamo la chiave per risolvere il mistero perché il sangue lascia una traccia indelebile agli occhi di chi la sa cercare.

Sì, Il sangue dei figli èciò che lega tutti i protagonisti: un rivo rosso incancellabile fatto di odio, soprusi, barbarie, ma anche di affetto, amore e gentilezza e, alla fine, compassione quella che sembra mancare a molti ed è invece un’ancora di salvezza per tanti.

“La Bestia” di Carmen Mola, Salani Editore. A cura di Jessica Dichiara

Oggi più che mai sento di dover dire che la libertà in tutte le sue mille facce è l’unica cosa che veramente conta nella mia vita. Ed è una libertà che ho conquistato con impegno e sacrificio, con costanza, con equilibrio tra cuore e ragione.

Non me la lascerò portare via.

Non permetterò a chi mente di intaccare con le sue menzogne la mia integrità, la mia dignità e il mio diritto a esprimere le mie idee.

Non continuerò a fingere che non mi importi, perché oggi queste pagine hanno infettato anche me facendomi capire che non voglio diventare come chi pensa di potersi permettere tutto senza pagarne il prezzo.

Oggi il virus peggiore dell’uomo è l’ignoranza.

1834. Il colera raggiunge Madrid. Isolamento, ghettizzazione dei malati, panico, zone rosse, scenari spettrali difficili da… no affatto! Non è difficile immaginare le strade abbandonate, le case assaltate da sciacalli senza scrupoli né timore per la propria vita, i governi incapaci di gestire i disordini.

È tutto troppo fresco nella nostra memoria per averlo dimenticato.

Ho vissuto la recente pandemia da “appestata”, sono stata caricata in ambulanza da persone completamente coperte tanto che era impossibile distinguere anche il sesso, ho sostato in sale d’aspetto fredde, vuote, sterili e ho temuto di non riuscire a rivedere i miei figli.

Non credo ci sia un tempo storico in cui il dolore per il distacco prematuro da un figlio sia avvertito meno intensamente. Le madri e i padri sono esseri umani strani, sono in grado di sentire dolore proprio al centro del petto ed è più forte del dolore che si può provare per se stessi.

La Spagna è poi infettata anche dalle guerre carliste che vedono contrapporsi gli eredi di re Ferdinando VII i quali si contendono la successione. Idee conservatrici e idee liberali si danno battaglia e a pagarne il prezzo è l’uomo a cui la vita viene tolta e privata di qualsiasi valore.

L’animo umano oscilla fra l’inquietudine e la rassegnazione. Dio diventa uno dei tanti capri espiatori e allo stesso tempo l’unico appiglio di un popolo devastato che non sente più il bisogno di curare i propri affetti.

La Bestia aggiunge lo scempio alla devastazione ed è impossibile non rimanere sconvolti davanti ai corpi smembrati di alcune ragazzine ritrovate letteralmente a pezzi e con un oggetto d’oro simile a una spilla con due mazze incrociate incise a rappresentare la croce di Sant’Andrea conficcate nella bocca delle vittime, dietro l’ugola.

El gato irreverente, alias il giornalista Diego Ruiz, è convinto che il fautore di queste atrocità è l’animale più pericoloso di tutti: l’uomo. L’unico essere a conoscere la pietà e la vera malvagità. Si unirà alla sua posizione la guardia Donoso Gual il quale gioca un ruolo di rinforzo.

Lucia intanto, ghettizzata fuori dalle mura di Madrid, cerca Clara, la sorellina scomparsa, e nel farlo incrocia la strada dei nostri investigatori un po’ improvvisati nei quali trova una spalla su cui poter contare, tra la guerra e il colera.

La storia di Madrid, con il suo carico di sangue e vite pagate, gioca un ruolo decisivo nella bellezza di questo romanzo che si riempie di luoghi vividi e drammatici che rimangono conficcati nell’animo di chi legge e segnano un solco tra la sofferenza subita e quella inflitta.

La Bestia per me è il Medioevo che non ci sta a essere soppiantato da nuove idee, nuovi orizzonti, sempre più laici e meno religiosi. Sono i lapilli di un vulcano che dorme al centro dell’Europa e che ogni stagione minaccia di ritornare con le sue credenze e le sue assurdità.

È un thriller a più mani che si uniscono nei punti chiave creando dei passaggi potentissimi che disperdono il loro fascino tra le pagine ricche di storia, cultura, esoterismo, potere, chiesa, borghesia, riti, bene e male e un anello d’oro con due mazze incrociate incise a formare una specie di croce.

Una nave dispersa in un mare di follia.

“Yeshua il prescelto” di Luca Arnaù , Altre Voci Edizioni. A cura di Patrizia Baglioni

Come sempre quando scrivo una recensione esprimo la mia verità: quando Luca Arnaù mi ha parlato di Yeshua, l’ho ascoltato con sospetto.

Il personaggio di Gesù è stato fortemente sfruttato sia dalla letteratura che dal cinema, lo abbiamo visto fedele ai Vangeli nel film di Zeffirelli, è stato soggetto di un musical, interlocutore di Don Camillo e comparsa nei Simpson.

Della sua vita hanno scritto teologi, storici, giornalisti, filosofi e psicologi, dalle sue parabole sono state ricavate storie per bambini e riflessioni per adulti.

Gesù resta una guida, un simbolo religioso, una personificazione del Bene e del divino, un amico a cui rivolgere le proprie preghiere nei momenti di sofferenza, cosa si può scrivere ancora su di lui?

Con questi convincimenti ho iniziato la lettura di Yeshua.

E già dal titolo ho capito perché questo libro era diverso.

Luca Arnaù da navigato scrittore di storici, non europeizza il personaggio, porta noi da lui, prima a Betlemme per la sua nascita e poi in Giudea dove ha trascorso l’infanzia e la giovinezza.

Non è difficile entrare nell’atmosfera del tempo: ogni capitolo è introdotto dal luogo e da un breve titolo comprensivo di data, l’anno è il 3758 dalla Creazione del Mondo e il testo inizia con una lettera scritta da Daniel, fratello acquisito di Yeshua, che decide di raccontare la vita del congiunto per tramandarla ai posteri.

I nomi dei luoghi e delle persone, così come le invocazioni e alcuni termini tipici sono in ebraico antico, gli usi e le abitudini vengono descritte nel dettaglio così come il contegno degli uomini e la discrezione delle donne.

Uno ad uno tutti i personaggi entrano in scena e noi abbiamo l’onore di conoscerli: prima il pastore Aaron con suo figlio Daniel che inseguono quel segnale luminoso, l’astro predetto dalla profezia e poi loro Yosef e Myriam che in una caverna hanno appena avuto un bimbo, ma no, non c’è quell’intimità descritta nella natività.

Yosef arrabbiato, con un bastone in mano, spinge via i curiosi accorsi a vedere cosa si nasconde nella caverna sotto la stella, sua moglie ha appena partorito, perché la gente non capisce che ha bisogno di riposo?

Aaron conosce quell’uomo, è un suo vecchio amico e subito lo aiuta, e una volta rimasti soli, assiste i due nuovi genitori nelle loro necessità e ciò di cui Yosef ha più bisogno è raccontare la propria storia così assurda in apparenza eppure tanto reale, dall’annunciazione di Gavriel alla nascita di Yeshua, quanti dubbi ha avuto , eppure tutto si è svolto come predetto.

Il pastore ascolta rapito e guarda quel piccolo bambino che dovrebbe essere il figlio di HaShem, è possibile tale prodigio?

Yosef e Myriam sono sempre stati due giovani retti nella vita e nella fede e appunto… la fede non prevede dubbi.

Dio è grande, è l’uomo a dimostrare tutta la propria miseria e inadeguatezza.

La Giudea è una terra complessa, attraversata dalla violenza, governata con la forza dai romani, chi si oppone a loro viene ucciso o ancor peggio crocifisso.

La scena si sposta su un giovane che subisce la terribile punizione, sente i chiodi trapassare le mani e la disperazione della morte lo attanaglia, ma le carni straziate dal dolore non sono nulla a confronto della sofferenza per l’assoluta assenza di pietà dei soldati.

Il ragazzo guarda suo fratello accanto a sé, orgoglioso sopporta il patimento, non vuole mostrare il suo tormento, lui è nel giusto, gli zeloti lottano per la libertà del proprio popolo restituendo ai romani la violenza ricevuta.

E poi Bar-abbâ perde conoscenza e si risveglia in uno dei tanti rifugi dei rivoltosi, i suoi compagni lo hanno salvato, non sono riusciti ad arrivare in tempo per suo fratello, e da qui egli giura vendetta.

Ma Roma è grande, è invincibile e non può tollerare che questi sovversivi abbiano la meglio su di loro, a sedare gli zeloti invia Decio Furio Salario, soprannominato “il Macellaio”, che con suoi legionari fa razzie, violenta le donne e devasta tutto ciò che incontra sulla sua strada, anche la famiglia di Aaron.

Ciò che resta all’orizzonte è la fila di croci, incalcolabili a occhio nudo, simboli della forza dell’invasore e della sofferenza degli Ebrei.

É all’ombra delle croci, che cresce il piccolo Yeshua di Nazareth che fin da piccolo si mostra un bambino sensibile, insofferente alle ingiustizie e capace di compiere piccoli miracoli.

I suoi occhi scuri e i capelli ricci incorniciano il viso di un bambino che ama il fratello, i giochi e stare con gli altri.

Eppure una voce misteriosa ogni tanto lo muove, lo invade e diventa sempre più presente nella sua vita fino a farlo cambiare.

Il suo è un percorso di crescita e ricerca fino a quando non prende coscienza di essere il Prescelto, l’eletto atteso da tutti gli ebrei, l’eroe per le masse che cercano la liberazione contro l’invasore romano.

Yeshua accetta il suo destino e si predispone al suo compimento, più complesso è accettarlo per Yosef e Daniel mentre Myriam ha precocemente maturato l’idea che quel figlio è suo ma non gli appartiene.

Per questo lo lascia libero, Myriam acconsente a tutti gli effetti ad essere madre, affidandosi e affidando il frutto del proprio grembo a Dio.

Quante riflessioni mentre scorro le pagine e curiosamente mi interrogo su questioni prettamente umane su cui, da cristiana, non mi ero mai soffermata.

Succede quando una storia ci viene fornita completa senza essere messa in discussione, come tanti ho imparato a memoria, senza minimamente riflettere sulla persona Gesù.

E invece ora li vedo i dubbi di Yosef su Myrian in una società tanto chiusa dove il tradimento è punito con la lapidazione pubblica, e comprendo anche la rabbia degli zeloti e dei ribelli che ogni giorno subiscono l’umiliazione della sottomissione e la paura della violenza, noto anche il sorriso di Yeshua che ama e soffre con gli uomini e fa fatica ad accettare entrambe le dimensioni.

Yeshua resta in un limbo, né uomo né divino accompagna e segna da vicino l’esistenza di chi lo incontra.

E se ora mi chiedeste chi è il protagonista di questo libro?

Ecco, ho difficoltà a rispondere, perché nelle prime pagine a prendersi lo spazio principale sono la follia e la scostumatezza di Herodes, nella parte centrale si alternano le vicende di Bar-abbâ e Rahel, troppo occupati a governare la propria vendetta per amarsi, e poi le strategie dei Romani.

Yeshua è sempre presente ma resta sullo sfondo, egli è protagonista eppure tutto ciò che fa è per gli uomini.

Ecco ora so rispondere, i protagonisti di questo libro sono loro: gli uomini.

Un’opera pensata, con una ricerca storica e linguistica di grande precisione, Arnaù mostra maturità nella scrittura, le vicende si alternano e il ritmo narrativo resta sostenuto.

Ma ciò che gli riesce ancora una volta è sorprendere, perché ci mostra un personaggio già conosciuto da prospettive completamente diverse, e il lettore riesce a immedesimarsi completamente sia nell’atmosfera dell’epoca che nelle vicende dei personaggi.

Termino la lettura commossa ed emozionata, non mi succedeva da tempo, perché tutta la fatica di Yeshua ad accettare la sua missione, l’ho fatta mia, l’ho percepita così come la volontà di sacrificio che mostra chinando la testa per ricevere il battesimo.

Rifletto sul fatto che Yeshua aveva una scelta, così come i personaggi della narrazione strettamente legati tra loro, e il popolo che decide di eleggere Bar-abbâ suo eroe popolare, ma dietro a tutti loro oltre al disegno di Dio vedo anche quello della Storia.

Un libro scritto con grande partecipazione e soprattutto con estremo rispetto, Luca Arnaù restituisce a Yeshua la sua fanciullezza spensierata e raccontando l’epoca ce lo fa conoscere meglio.

Grazie Luca Arnaù, Grazie AltreVoci Edizioni.

“L’eredità dei Taylor” di Francesca Pasqualone Scatole Parlanti. A cura di Ilaria Grossi

Un crimine crudele si consuma in una notte buia a Londra.
L’investigatore Desmond T. Wilder è chiamato a scoprire chi ha ucciso Edmund Taylor, figlio di un noto industriale, trovato sgozzato nella camera di una hosteria, derubato dei vestiti e oggetti personali.

Chi ha voluto la morte così atroce e fredda di una persona buona e innocua come Edmund Taylor?
E perché la famiglia è così interessata a recuperare una spilla preziosa di famiglia piuttosto che cercare la verità e accontentarsi di indagini frettolose e fredde?

Ecco questi sono i tanti interrogativi che tormentano l’investigatore Desmond, una sofferenza appena pronunciata traspare dalla famiglia di origine del ragazzo e l’unica che sembra davvero sofferente e desiderosa di conoscere cosa sia successo davvero è la moglie di Edmund.
Le indagini sembrano non trovare la giusta direzione, troppi “scheletri” e troppi silenzi nascondono apparenze.
E nel mentre, Desmond si mette a nudo, con i suoi tormenti, misterioso e i ricordi del passato lo accompagnano di notte e di giorno.
Il suo stato d’animo è difficile da decifrare, come un cielo pieno di nuvole che aspetta un po’ di vento per allontanarle e dare spazio alla luce della verità.
Una trama ben articolata e avvincente.
Desmond è un protagonista che attira molta attenzione da parte del lettore, che entra così nel cuore delle indagini, trasportandolo con la fantasia e l’immaginazione.
Una storia che non ti aspetti, uno specchio della società inglese del 1899, classista, razzista, violenta e dove conta solo salvare le apparenze.

Buona lettura
Ilaria per Les fleurs du mal blog letterario

“L’ora mortale” di Alessandro Testa, edizioni il vento antico. A cura di Barbara Anderson

Chi mi conosce sa che leggere è indubbiamente il mio “sport” preferito e ogni romanzo che tengo tra le mani è per me un biglietto per partecipare alle Olimpiadi.

Non sto esagerando assolutamente, ma forse enfatizzando il mio rapporto personale con la lettura.

Quando ho preso questo libro sono rimasta a contemplare la cover ed il titolo per qualche minuto.

L’orologio che segna il tempo, la sagoma di una donna e la luce proveniente dall’arcata della chiesa, il titolo, l’ora mortale, erano già per me un antipasto gustoso prima di iniziare a divorare la lettura.

Leggerlo è stata una maratona veloce tra le strade e i vicoli di Napoli e ho corso senza mai fermarmi per riprendere fiato, continuando imperterrita fino alla meta: la soluzione del caso, scoprire chi fosse la vittima, chi l’assassino e quale il movente e cosa fosse accaduto ad una giovane ragazza scomparsa 10 anni prima.

Generalmente un libro, se non cattura la mia “famelica” curiosità e il mio interesse alla prima pagina, difficilmente ci riesce più avanti nella storia.

Alessandro Testa mi ha catturata già dalle prime righe.

Pur non avendo letto Ie precedenti indagini del commissario Sasso, non mi è stato difficile, grazie all’abilità narrativa dell’autore, comprendere quali fatti abbiano coinvolto il commissario e cosa fosse accaduto che gli impedisse ora di uscire di casa a causa una convalescenza lunga dopo il corso di una delle sue precedenti indagini; per cui questo libro si legge come parte di una serie o anche individualmente senza alcun problema.

Arriviamo alla storia:

Innanzitutto qui ci sono due indagini molto intriganti che viaggiano parallelamente e che si intrecciano in maniera sublime.

L’orologio di sant’Eligio si è fermato, forse a causa di un malfunzionamento, ma ad una prima “ispezione” verrà rivelato un cadavere smembrato e sfigurato, incastrato tra i meccanismi arrugginiti dell’orologio.

Il tutto si muove intorno alle indagini per identificare la vittima, l’assassino e il movente.

Nello stesso tempo il fratello importante di una giovane ragazza scomparsa ingaggia il commissario Sasso per riaprire le indagini chiuse da oltre 10 anni nella speranza di ritrovare la sorella, viva o morta.

E qui inizia la meraviglia narrativa di questa lettura: piacevolissimi i protagonisti e il loro rapporto personale e professionale.

L’autore utilizza un linguaggio tagliente, diretto, frizzante, “alla mano”, facendoci percepire profondamente il tipo di sentimenti che guidano le relazioni tra i vari personaggi e colleghi, tanto che sembra realmente di essere lì con loro.

Assolutamente brillante, originale e accattivante, la trama poliziesca con un sottofondo thriller oserei dire geniale.

Curatissime nei dettagli le indagini, gli esami del patologo legale e tutto l’iter investigativo.

Posso garantirvi che non riuscirete a chiudere il libro fino alla fine e che scoprirete un autore capace, intelligente, poliedrico e preparato che vi farà vivere la storia assolutamente in prima persona.

Sasso è un commissario esperto e competente, sicuramente uno dei più bravi in assoluto nel suo ambiente, costretto al riposo tra le mura della casa della poliziotta amica e compagna, si annoia e quando gli viene offerto il caso della ragazza scomparsa riesce finalmente a sentirsi vivo di nuovo immergendosi nella risoluzione del caso anima e corpo.

Un corpo pieno di dolori, danneggiato da eventi precedenti che non gli permettono di uscire di casa o di stare a lungo in piedi, ma chi ha buona testa non ha bisogno delle gambe e Sasso di testa ne ha assolutamente tanta.

I personaggi sono tutti così reali e credibili, ben descritti che ho i loro volti nitidi davanti ai miei occhi.

Fate attenzione, leggendo, a TUTTI i personaggi che incontrerete nella storia poiché ognuno di loro ha la “chiave” della soluzione dei due misteri.

Assolutamente piacevoli gli scambi di dialoghi: coloriti, onesti, sinceri, che spesso mi hanno fatto sorridere spezzando un pò l’intensità dell’azione legata ai casi da risolvere.

Da non tralasciare infine il messaggio importante che l’autore ci riserva aprendoci occhi e cuore sul legame che lega Italia e Argentina.

Non posso dirvi altro poiché sta a voi il piacere di scoprire questa storia, partecipando alle indagini con un team affiatato ed esilarante e di apprezzare un autore che nel suo genere letterario è bravissimo.

Devo aggiungere un particolare: alla fine della lettura, nella nota informativa sull’autore, sorrido quando scopro che di professione è un cardiochirurgo e guardate il caso io sono: senjor enanched cardiothoracic nurse (senjor infermiera professionale specializzata in cardiochirurgia). In quel momento ho compreso da dove nascesse parte della mia stima ed entusiasmo per questo autore.

“La maledizione di Bashaar” di Marcella Nardi. A cura di Jessica Dichiara

Giallo storico convincente ed efficace questo di Marcella Nardi che già dalle prime righe ci invita ad entrare dentro la vicenda con un punto di vista creato appositamente per noi che ci permette di vedere attraverso i suoi occhi la ferocia e la miseria di una parte di storia che ha visto l’occidente e le sue radici cristiane artefice di violenze inaudite in nome della fede.

Ewart, questo è il nome del giovane cavaliere inglese, uno dei pochi ci dice l’autrice, che ci guida tra la Gerusalemme violata per denunciare il traffico delle reliquie dei santi intorno alle quali non mancavano certamente le leggende. Il nostro soldato cammina tra le macerie della Città Santa finita in mani cristiane con la consapevolezza che il sangue non ha bandiera e il cuore pesante di chi non riesce a godere della vittoria e a sentirsi un conquistatore. Cammina con la morte nel cuore. È un personaggio molto particolare che consente una visione quasi allargata della vicenda lasciandomi a immaginarlo come una sorta di coscienza viva introdotta nella storia vera a denunciarne le nefandezze.

Da questo romanzo esce chiaramente la passione di Marcella Nardi per il medioevo, epoca difficile da definire perché ancora legata a fonti spesso incerte eppure proprio per questo adattissima ad ospitare la fantasia che, mescolata a dettagli scelti e cercati con cura, è in grado di fare rivivere ambienti, misteri e intrighi. L’autrice qui ha dato prova di particolare accuratezza nello studio degli eventi, dei personaggi e dei luoghi creando un substrato molto valido dal mio punto di vista su cui poggiare una trama alla quale è difficilissimo sottrarsi. Il linguaggio è piacevolmente adattato alle varie epoche esplorate pur senza la pretesa di essere ostinatamente fedele. Lascia lo spazio all’immaginazione e alla suggestione legata all’affascinante mondo dei templari di cui molti hanno scritto e in molti modi diversi senza mai riuscirne a racchiudere totalmente l’essenza, un po’ come come accade per alcuni luoghi.

Leggenda legata a questa parte di storia, e al già citato traffico di reliquie, è quella che ruota intorno alla vera croce di Gesù. Oggetto vivo capace di viaggiare nei secoli per arrivare fino a noi, lasciando una scia di sangue e mistero.

Giallo a tappe dunque che dalla Gerusalemme liberata ci conduce nel Devonshire tra bande di fuorilegge e monaci che nulla possono contro la maledizione il cui nome viene seminato come monito per chiunque. Da lì ad arrivare ad Oxford il passo non è lunghissimo. Ben tredici chiese parrocchiali troviamo dentro le mura di questa città e una di esse, l’abbazia di Oseney, si ritrovò invasa da una marea di voci di corridoio che vedono ancora una volta la reliquia al centro di intrighi e misteri. Qualche anno dopo, nel 1323 sarà il Lincolnshire sempre in Inghilterra e poi ancora il Devonshire ad ospitare la nostra maledizione, dico nostra non a caso perché a questo punto della narrazione è impossibile non cominciare ad avvertire quella morsa che il giallo sa offrire a noi poveri lettori che abbiamo ben intuito di non avere scampo. Poi c’è la meravigliosa parentesi del 1888 a Londra di cui non voglio svelarvi nulla ma che mi ha lasciato veramente entusiasta perché l’autrice ha preso in prestito una storia legandola abilmente a quella della maledizione utilizzando l’ironia in maniera molto intelligente. Il 2005 vede la chiusura del nostro romanzo con la possibilità di continuare a vagare tra i luoghi, nei boschi, nei conventi, dentro i commissariati, su strade più o meno pericolose, perché la voglia di entrare in quel cerchio ormai chiuso è ancora tanta.

Consiglio per la lettura: state lontani dai tubi di vetro.

“Il falso messia” di G.L. Barone, Altrevoci edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Che libro questo di Barone!

Ora io di libri belli ne ho letti, a bizzeffe.

Ma pochi, contati sulla punta delle dita, cosi capaci di tenermi con il fiato incollato, tutta la notte, con il bisogno quasi fisico di concluderlo.

E in un attimo non ero più a Roma, questa città che arranca con fatica, ma in Palestina agli albori di quella che sarà l’inizio della storia delle storie.

Eppure sono consapevole che, narrarla, provare a rendere un libro di svago anche un po’ ribelle non è affatto facile.

In questo romanzo di fantasia, seppur con riferimenti precisi, Barone osa.

E osa tanto.

Per la gioia di chi come me si è innamorata da ragazza ed è rimasta fedele al genio visionario di ..grandi e scomodi studiosi.

Che hanno avuto il coraggio di raccontare il nostro passato in modo alternativo. Fastidioso per molti.

Molto ribelle.

Oserei dire anche al limite della follia.

Ma favolosamente eretico.

E con eresia qua non si intende dare ovviamente una connotazione negativa. Anzi.

Eretico è chi sceglie di credere vagliando tutte, e sottolineo tutte, le possibilità. Anche quelle che rischiano di mettere questa creatura superba, cosi convinta di se stessa e dei suoi successi un po’ al di sotto della scala gerarchica del cosmo. Nel falso messia si parla sicuramente di persone straordinarie nella loro quotidianità, di eroi, di esseri dotati di poteri che neanche immaginiamo.

Ma che forse sono tutt’altro..da ciò che noi pensiamo.

Sono forse frutto di qualche pensiero che non appartiene a questo mondo.

Di un altro universo, che a noi è sconosciuto perché troppo immenso, troppo grande da immaginare senza provare quassi un brivido.

Quasi un senso di vertigine.

E in fondo non è quello che deve suscitare il sacro?

La storia di Jeshua, di quel suo essere figlio di dio, non deve darci un senso di immensità?

Di qualcosa fuori dall’ordinario, capitato come una carezza o uno schiaffo, in questa vita che rischiava di essere cosi priva di meraviglia e cosi attenta alla materialità?

La storia della salvezza, la storia che vide contrapposti ebrei e romani, in fondo non è altro che l’eterno scontro dell’interesse materialista conteso da più parti. Del potere che spettava a una o l’altra fazione.

Qualcosa che noi conosciamo benissimo.

L’ansia di dominio.

La volontà di non cedere a nessuno la propria terra, come se la terra in fondo, si potesse comprare.

Farisei contro i contabili di Roma.

Il tempio sostenuto dal compromesso ipocrita di una sorta di neo borghese.

E dietro a questo squallore totalmente umano, qualcosa discende dai cieli e dalle costellazioni.

Qualcosa che non possiamo spiegare.

Che ha forse una sua logica di perfezione.

Che semina il dubbio, la speranza o forse la spiritualità.

Che di fronte al miracolo e all’inspiegabile inizia a chiedersi chi davvero sono quelle divinità dei padri.

Da dove vengono e cosa vogliono da noi.

E sarà Attico, assieme al suo fidato Demetrios a dover fare i conti con una sotira ingarbugliata e a far luce su una fine che è solo l’inizio e che si spingerà lontano, fino in Provenza e nel Kashmir.

Assieme a Barone e a color che prima di lui hanno osato andare contro la storia ufficiale, scopriremo chi sono gli Elohim e chi è questo misterioso Gavri’El.

E anche la vera natura degli angeli.

E mai come ora la fantasia ci apparirà cosi suadente e sopratutto cosi vera come nelle abili mani di questo meraviglioso menestrello.

Lo so, non vi ho detto molto.

Ma non posso.

Credetemi il falso messia è la meraviglia fatta parola.

E’ proprio il libro giusto in questo posto un pò anarchico in cui i essi sono si mezzi per evadere dal nostro grigiore ma che, forse, possono anche farci riflettere.

Almeno un pò.

Quindi vi prego, leggetelo.

E lasciatevi trasportare nella Gerusalemme 32 d.C.

fidatevi.

Non ve ne pentirete.

“L’oro degli ebrei” di Gianfranco Manes, Diarkos editore. A cura di Alessandra Micheli

Che libro miei amati lettori!
Le mie amni hanno potuto sfiorare, accarezzare parole forti e al tempo stesso avvincenti e la mia assetata anima si è inchinata di fronte al dramma delle nostra storia recente reso si narrazione ma senza assolutamente togliere il realismo necessario per approcciarsi all’orrore.
Un orrore che non è passato, che forse non passerà mai e resterà come una macchia indelebile sulla nostra coscienza.
Siamo agli sgoccioli della seconda guerra mondiale qua do oramai i destini erano decisi e si assisteva al tentativo folle e disperato di un nazismo che non accettava la sua sconfitta e la perdita davanti alla storia.
Consapevole che la condanna sarebbe stata se non immediata o di provenienza umana ugualmente terrificante con una damnatio memoria necessaria e ben meritata.
Tolta l’apparenza salvifica, il progetto hitleriano si mostrò nella sua efferatezza non solo la condanna a morte di uomini rei di professare una religione diversa resi razza da una pseudoscienza, senza dignità e senza basi solide su cui reggersi, ma anche il vilipendio del dolore, della dignità altrui sintetizzato egregiamente dal nostro Gianfranco Manes.


La vicenda che fa da sfondo a questo egregio genere appartenente alla più pura storia di spionaggio è infatti documentato e purtroppo per noi e per il nostro definirci umani terribilmente reale ossia il disegno ordito dai gerarchi nazisti, consci dell’imminente disfatta per tentare di far sopravvivere questo tentacolare orrore, più pauroso persino dell’immaginario lovencraftiano all’oblio dovuto e necessario con cui tutta l’Europa aveva deciso di reagire alla scoperta della soluzione finale.


Erano decisi a non essere tolti, come fastidiosi granelli di sabbia dalla landa deserta di una storia che aveva bisogno di riabilitarsi agli occhi dei posteri cosi come ai loro stessi occhi e decisi a piantare il seme della distruzione, quella sottile e strisciante nel nuovo ordine mondiale, desiderato e voluto dalle potenze vincitrici.


L’olocausto doveva essere una nebbia pronta a tornare, alla minima distrazione, al minimo cenno di tempesta.


E per attuare questa follai ovviamente era necessario salvare non solo l’ideologia ma un simbolo concreto e utilizzabile di questo piano criminale, l’oro degli ebrei appunto.
Racimolato con le Razzie, con i rastrellamenti e soprattutto con l’omicidio.


Ecco che gli intrighi prendono vita e i due schieramenti quelli degli alleati e dei sopravvissuti si scontrano e si incontrano in una folle danza che doveva avere almeno un vincitore.


Ecco che lo spionaggio diventa parola e si insinua tra le pieghe di una guerra e mette in evidenza crudele le connivenze, le complicità tra i nazisti e persino il fulcro del capitalismo con lo scopo di spartirsi quel denaro insanguinato.


Ovviamente tutto quell’oro, l’oro della morte non può essere affatto usato senza un accorto movimento di riciclaggio, seguendo delle operazioni per poterlo di trasformare in semplici lingotti capaci, però, di far udire la propria voce e il proprio urlo di accusa, raccontando una sequela di orrori e di malvagità con la loro sola presenza.


Ecco che la tragedia capace di farci rabbrividire, di mettere persino in dubbio il mito della perfezione umana si sposa con il ritmo incalzante del romanzo d’azione, capace di avvolgere, avvincere e al tempo stesso cosi duro da essere quassi respingente.


Il risultato è un libro capace di farsi divora.


Ricordare l’abisso onde evitare che esso, sotto altre forme si ripresenti per reclamare il suo dominio sulla coscienza.


Gianfranco Manes mostra qua tutta la bravura necessaria a un distinguersi come un vero talento ossia coniugare la godibilità di un testo scenografico e scorrevole con quella capacità di svegliare i nostri sensi assopiti, metterci sull’allerta e ricordare che l’orrore non è mai passato.


E’ sempre li a ghignare famelico ogni volta che tentiamo nuovamente di avvolgerlo nell’oblio.