Review Party: “Il caso Galli” di Francesco Accardo. Self Publishing. A cura di Alessandra Micheli.

Chi di voi mi segue davvero e mi conosce, sa che evito di recensire libri che necessitano di critiche, seppur costruttive.
In quanto esse hanno bisogno di una professionalità che io non mi sento di avere.
Quindi chiedo venia all’autore se mi permetto di farlo oggi.
A mia discolpa posso affermare che, se non avessi annusato un talento, probabilmente mi sarei semplicemente ritirata dai giochi.
E sarei stata muta.
Ma, come direbbe Zerbi, io odio vedere sprecare i doni che qualcuno lassù ci ha elargito.
E quando un libro mi parla, anche se a metà, trovo necessario ascoltarlo e dargli voce.
Quindi non è una critica la mia, caro Francesco.
Ma un immenso atto di amore verso il libro.
E la sua voce che spesso, per convenienza o superficialità, viene inascoltata.
Io non posso farlo.
Sono troppo amica dei parlanti oggetti di carta o digitali.
Li adoro: sono compagni. E i compagni, così come le anime amiche, si ascoltano.
E in fondo non conta la visibilità del mezzo, quanto l’importanza del risultato finale.
È al libro, non agli organizzatori, né ai suoi portavoce che dobbiamo rispetto.
Quindi inizio a raccontarvi cosa mi convince di questo testo, tanto da aver notato, appunto, il talento e cosa invece mi lascia perplessa.
Cosa lo rende stonato.
Innanzitutto il libro è identificato male.
Non è un giallo perché i protagonisti sono alla ricerca di qualcosa.
A volte non è l’oggetto che esalta la trama, ossia la risoluzione del mistero di Roberta.
Questo è l’input che dà avvio alla ricerca, ma in gioco c’è molto altro.
Ci sono rapporti interrotti per una barriera chiamata diffidenza.
E per difficoltà oggettive che vanno superate.
Assieme, con il confronto e con il dialogo.
E così la combriccola, a tratti grottesca a tratti pirandelliana, è alla ricerca di un senso da dare alla propria recita.
O forse vorrebbe recuperare la forza e il coraggio di togliersi le maschere. Queste sono rese perfettamente dall’autore dall’uso continuo dei soprannomi.
Come se essi fossero oramai diventati una seconda pelle, tanto da rendere indistinguibile l’essere dall’essenza.
L’io e l’es per intenderci.
O la parte sociale, quella che serve in questo strano teatro per distinguere burattini e burattinai.
E in questo caso la scomparsa di una persona, tanto da annullarne l’identità, diventa l’occasione per ritrovare se stessi.
Del resto il titolo è emblematico.
Non “La scomparsa di Roberta Galli”.
Ma “Il caso Galli”.
Il caso, comprendete?
Oramai la ragazza, con i suoi sogni e le sue speranze, è stata spersonalizzata.
Diventa un caso da usare per i giornali o per chissà quale altro fine.
Ed è così che i nostri eroi in fondo si sentono stranamente e incomprensibilmente attratti dalla proposta di provare a districare la matassa.
Come se sbrogliare il caso Galli e ridare identità a Roberta, fosse un modo per dare identità a loro stessi.
Ecco che il libro rappresenta più un romanzo di formazione, di impronta psicologica, visto la minuzia con cui ognuno viene tratteggiato.
E per coronare questo strano esercito di invisibili, perché incapaci di vedersi dietro stereotipi e ruoli, esiste un paesino anch’esso vittima di se stesso. Tanto che non sono i fatti, la capacità degli abitanti di decidere del loro destino e di creare una comunità a guidarlo e identificarlo, quanto le leggende e le superstizioni.
E per quanto esse siamo fondamentali agli occhi di ogni studioso, quando prendono il sopravvento e decidono l’identità di un luogo, essi assurgono al ruolo di stereotipi.
E così le leggende che servono solo per comprendere il proprio passato in relazione al cosmo o a dio, divine, qualcosa di fisso come un prigione in cui rinchiudere ogni raggio di attività.
Nessuno nel paese sembra sottrarsi a una strana predestinazione e il mistero perde la capacità sublime di portarci a fare domande su noi stessi e sull’ambiente.
Ma diviene la gabbia dorata entro cui limitare la creatività umana che, appunto, si esprime con la domanda.
Del resto se Peredur non avesse posto la questione: “ma cosa sarà mai il Graal”, nessuna storia avrebbe mai preso vita.
E forse non avremmo mai avuto un Graal che ci stornasse a crescere e a cercarlo.
E qua sta il talento dell’autore.
La capacità di descrizione dei caratteri che non appaiono assolutamente banali e la capacità di creare atmosfera.
E senza atmosfera non si innesca quel processo fondamentale e unico della sospensione dell’incredulità, né quel senso di claustrofobica minaccia.
Si avvertono sulla pelle questi cambi di scenario e quella emozione scaturita da una minaccia e da una strana sensazione di estraneità, tanto che persino il lettore si sente di troppo, troppo curioso e troppo inaccettato da quel paesino arroccato sulla montagna e chiuso in se stesso.
Questa è la sensazione iniziale.
Però il giusto senso di mistero che lo rende, quindi mistery, diviene, mano a mano che la lettura prosegue, più flebil2e fino ad abbandonarci del tutto. Perché entra in campo un altro genere difficile e stonato con quello descritto prima: la stravaganza cacofonica del fantascientifico.
Che è un genere di tutto rispetto ma così dominante che inserirlo in altri contesti scenici è davvero frutto di un arte appresa, forse, con il tempo. Ci sono generi letterari che sono per loro natura padroni.
Mi spiego.
Un giallo senza formazione né caratterizzazione dei personaggi è un insieme sciatto di indizi.
Il thriller senza la tensione psicologia o elementi crudi è solo una paccottiglia di frasi.
Ma un horror senza splatter domina, perché ha dalla sua parte di frutti dei terrori atavici dell’uomo e basta SOLO nominarli per scaturire la tensione disturbante.
Un fantascientifico senza altre contaminazioni si esprime appieno.
Quindi capite che, per maneggiare tali argomenti, ci vuole esperienza per non cadere nel kitsch e nella banalità.
Un libro multigenere è una prova letteraria che può sperimentare chi apprende ogni tecnica letteraria, che è capace quindi di tenere assieme fili così importanti e narcisisti senza lasciare che uno soverchi l’altro. Cosa che nelle ultime battute del caso Galli non avviene.
Le sensazione di pericolo e la sensazione di mistero vengono sfumate nell’approccio finale.
Che vuole essere rivelatorio e stupefacente ma che ha, purtroppo, il risultato di smorzare i pregi e sospendere l’incredulità.
In quel momento, avvinto dal sonno dei giusti del lettore, ci si risveglia di botto con un: “echecavolo!”
E non aiuta il libro.
È il finale che seppur tenta di spiegare, banalizza quel senso sospeso di mistero che forse, e ripeto forse, da lettrice con un piccolo grammo di esperienza, non doveva essere spiegata.
Il libro poteva concludersi con un enorme punto di domanda, proprio perché forse l’intento non era comprendere il mistero ma far capire come il Caso Galli ,cosi come tanti misteri giudiziari, hanno il compito di farci riflettere su noi stessi e sulla giustizia.
O sulla socialità compromessa da fattori a tratti assurdi e inconcepibili.
E forse il raccontare di poteri occulti mai davvero definiti, fa scattare qualcosa in noi che ci smuove dalla staticità della routine quotidiana, e che ci permette non di dare risposte ma di cercarle.
In questo caso la spiegazione è stridente e stona con un libro che in realtà scorre e piace.
L’elemento fantascientifico non riesce a incastrarsi.
Non so se per sua natura o perché non c’è abbastanza esperienza per gestirlo.
Perché un libro dal finale inatteso e stridente deve essere pensato.
Dobbiamo rileggere il libro da capo e dirci: “Cavolo! Non ho visto, ma il finale era già annunciato dalle prime battute.”
Altrimenti è solo un dato scenografico che serve per il lettore neofita e suggestionabile.
Ma che per questo testo che profuma di talento, che così viene quasi silenziato.
Quindi io consiglio di lavorare sulle sue doti e di affinare la sperimentazione.
Magari scrivere e leggere e mettersi in discussione.

Perché da te, Accardo, mi aspetto sicuramente molto di più.

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