Sebastian, Ania e il figlio Giulio hanno una vita perfetta.
Vivono in un bellissimo loft di 150 metri quadrati; nel parcheggio, un SUV Lexus e una Guzzi del 1973.
Sebastian ha lavorato sodo per il suo ruolo di rilievo nella Fut, un’agenzia di comunicazione creata con l’amico Adriano.
Seguendo gli insegnamenti della madre prematuramente venuta meno, si è guadagnato il suo posto con impegno e grazie alle sue doti imprenditoriali.
“Che il talento sia solo una delle variabili dell’equazione che determina la parabola di una vita, che debba sempre fare i conti con il caso, Sebastian lo ha scoperto troppo tardi, dopo che è accaduto il disastro.”
Purtroppo, manovre economiche per massimizzare la crescita e i profitti futuri dell’azienda, portano la Fut a delocalizzare la propria sede milanese a Vilnius, in Lituania.
Sebastian perde il lavoro e viene investito da una polemica generata dallo stesso ingranaggio che ne ha permesso l’ascesa professionale: un hastgat e una campagna promozionale sfuggita al suo controllo diventano strumento di denigrazione e annientamento della sua figura professionale e personale.
“Sono tutti lì fuori, pronti a indignarsi, a vomitare la propria opinione, a distruggere il primo che gli darà un motivo per sentirsi migliori.”
L’unico modo per non soccombere sotto il peso dei debiti sembra essere quello di spostarsi nel paese natale di sua moglie, in Ucraina, dove i pochi soldi rimasti potrebbero garantire un tetto sotto cui dormire, in attesa di un nuovo lavoro.
La Lexus viene caricata di quello che resta: lui, Ania, il piccolo Giulio e il simpatico cane Amleto.
E sulle note di Stand by me di Ben E. King, inizia il loro viaggio on the road verso l’est, percorrendo una strada incerta ma potenzialmente ricca di ritrovata libertà e di nuove possibilità.
Libertà e possibilità che riscopriranno, sì, ma in un’accezione diversa da quella che si può aspettare una coppia in fuga da un loft milanese pignorato e da un commercialista con in mano un F24 da pagare.
La necessità di rivisitare le proprie priorità, di cambiare prospettiva sui valori della vita moderna, nasceranno e si faranno strada nei pensieri di Sebastian e Ania grazie all’incontro con una famiglia di profughi siriani, abusivamente nascosti in una casa disabitata e sperduta nella campagna ungherese.
Due storie che si intrecciano, che parlano di vite distrutte, della necessità di fuggire e rinascere.
Vicende affiancate per denunciare due paradossi autodistruttivi messi in atto dell’uomo verso l’uomo.
Uno di essi è antico e radicato in quell’homo homini lupus tramandato dai tempi di Plauto: la guerra.
L’altro vede la sua nascita solo nell’epoca di internet e dei social e si incarna in termini di recente coniazione come haters, troll, shitstorm, cyberbullismo: la fiera dell’odio virtuale.
La scrittura di Valentina segue l’evolversi della vicenda, rivelandosi un tutt’uno perfettamente allineato con le fasi della caduta e della rinascita dei protagonisti.
Una prima parte carica di tecnicismi, di frenetici pensieri, di ansia e ricca di dettagli accompagna l’ascesa di Sebastian nella sua carriera. Si percepisce freddezza, distanza, frattura.
Con la caduta e la successiva fuga alla ricerca di se stessi si apre invece uno stile di tutt’altro respiro: più intimista, riflessivo, attento ai dettagli.
“Com’è bello restare a guardare il cielo in veranda, senza dirsi nulla, mentre i vestiti stanno appesi ad asciugare al filo che corre tra i rami di due querce nel punto in cui la luce flebile della casa sfuma nel buio del giardino.”
A fare da perno alla svolta, troviamo la figura di Ania che, a seguito dell’incontro con Hamida e la sua famiglia, diverrà portavoce della riscoperta della semplicità e della naturalezza dei gesti attraverso le sue foto.
Questa riflessione intima colpirà anche Sebastian, anche se avremo modo di apprezzare la vera portata del suo cambiamento solo sul finale.
Assistiamo ad un cambio di abito imposto e necessario: i protagonisti, spogliati dei ruoli sociali acquisiti, come quello di imprenditore e di medico, restano genitori, compagni di vita, esseri umani stretti intorno ad un tavolo per decidere cosa mangiare e come reperirlo.
Una consapevolezza amara quella che Valentina mette sul piatto per un’ultima portata, prima di salutarci.
Persi nel web, nella rete di un ragno tessitore fin troppo abile a intrappolarci e a nascondere con la sua tela il mondo “vero”, le storie degli Yousef e delle Hamida spariscono nel background delle nostre vite frenetiche, come della musica jazz all’aperitivo serale sui Navigli.
Eventi di cui indubbiamente conosciamo l’esistenza, ne sentiamo riecheggiare le note di tanto in tanto ma, troppo concentrati su altro, lasciamo il tutto frammentato in pezzi raccolti distrattamente: bombardamenti, città distrutte, profughi, accordi internazionali.
Un puzzle che resta frammentato sul tavolo mediatico e di cui scorgiamo spesso solo una cornice abbozzata.
Banale “altro” viene invece abilmente spettacolarizzato e strumentalizzato per garantire audience, like, followers, cifre nel contatore delle visualizzazioni.
E di questo Sebastian prende coscienza piano piano, in quella casa sperduta, in fila al supermercato di un paesino sconosciuto, vedendo giocare suo figlio Giulio con il piccolo Tariq.
Una riflessione che matura silenziosamente, in modo intimo, nascondendo i suoi pensieri non solo alla moglie ma anche a noi lettori.
Noi, invadenti presenze che, fin dall’inizio, siamo stati in grado di entrare nella sua mente geniale ma anche resa fragile dallo stress e dall’ansia, lo riscopriamo forte e convinto nel suo ultimo discorso.
Un dialogo che riporta prepotentemente lo sguardo verso ciò che merita realmente attenzione, che non fa notizia tanto quanto l’hastag #sebastiancarcanichiediscusa ma a cui Sebastian dà voce.
E, almeno per un momento, ogni maschera in quel teatrino di vacuità cade.
“Non puoi proteggere le persone che ami, non da ogni pericolo e sconvolgimento, imprevisto e tragedia. Ma puoi affrontare con loro la tempesta.”