“L’isola dei morti” di Fabrizio Valenza. A cura di Alessandra Micheli

Ci voleva proprio questa cupa atmosfera invernale per leggere e sopratutto scrivere dell’isola dei morti.

Ci voleva un freddo gelido e quel vento che sibila attraverso le finestre, un gatto che osserva chissà cosa sulla parete, un te caldo e uno strano silenzio, attorno a me, alieno da questa città ricca di tentazioni e di caos.

Mi sono immersa nella lettura in un brumoso pomeriggio, di nuvole che tentavano invano di piangere, gettando attorno al mio quartiere una strana luminosità, quasi spettrale.

Dalla finestra si poteva vedere solo questo cielo, cosi bianco, cosi latteo, quasi fosse una strana sostanza gommosa.

E stesa sul divano potevo immaginare, la fuori dal vetro, non già una città brulicante di vita, ma un immensa distesa acquea, con una zolla di terra che occhieggiava maliziosa dai gorghi e insenature.

Era li, l’isola dei morti.

In tutto il suo splendore.

Ecco la magia di un libro ragazzi miei.

Per un attimo, il tempo che sospende la sua corsa, lo spazio congelato in un solo eterno istante tutto è possibile.

E’ possibile che le parole, evocate a mezza voce, compiano la loro malia e aprano una sorta di portale dimensionale.

Attraverso cui la stesa parola possa costruire i suoi universi, le sue suggestioni possano diventare vive, carnali,e e reali.

Ed è in quel momento in cui la nostra anima viene rapita altrove, in una sorta di dannato viaggio alla ricerca di archetipi, di significati e di eventi fuori dalla ragione.

L’isola dei morti crea tutto questo.

Con uno stile antico, simile all’evocativo ritmo dei miei amati sepolcri.

Simile a una musica tintinnante, creata da mani nervose che lisciano corde di arpe.

Simili a una natica nenia, conosciuta e sconosciuta.

E cosi le immagini scorrono.

Di una strana società arcaica, frutto di incubi e di deliri forse, eppure cosi familiare.

Antichi mausolei, che all’interno della roccia celano segreti inviolati da secoli. Culti apparentemente blasfemi ma che ristabiliscono ciò che l’uomo moderno, impersonato da Andrea Nascimbeni, il protagonista, ha voluto dimenticare, accantonare e forse spiegare.

Che la morte è solo un fatto biologico.

Che nulla ha di arcano o segreto.

Che nella tomba esiste solo l’infinità del nulla che si crea e ricrea.

Che vita è morte non sono facce della stessa medaglia, note di una stessa melodia.

In questo delirante e splendido libro l’orrore è al tempo stesso suadente.

Ci sussurra, si affaccia e sorride.

Ci terrorizza è vero, ma ci restituisce anche quella fede che avevamo deciso di distruggere con la razionalità.

La morte come sonno.

La morte come istante sospeso, congelato ma pronto, per chissà quale potere occulto a ritornare in vita.

Ecco la blasfemia suprema.

Un isola dove la morte è venerata.

Dove essa cammina e danza con l’esistenza stessa.

Dove è tutto cosi sfuggente, sfumato da confondere non solo la percezione ma anche i piani dimensionali.

Dove una inizia, l’altra finisce.

Dove una danza, l’altra si acquieta.

E cosi come in quel dipinto di Arnold Böcklin, che resta aggrappato alla mente, cosi perturbante e al tempo stesso cosi, poeticamente sereno, questo libro fa il suo lavoro.

Conquista.

Ammalia.

Seduce.

Turba e al tempo stesso ci dona una strana sete.

Sete che neanche la scienza, neanche la spiegazione logica, potrà mai calmare. Raramente ho letto libri con una perfezione stilistica di tal guisa.

Raramente ho avuto la volontà di non giungere alla fine.

Ma di ricominciare e ricominciare come in una eterna spirale.

Perfetto.

Semplicemente perfetto.

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