“Lettera precambrianai seguaci di Filippo” di Hephaestion Christopoulos, Ringworld edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Adoro guardare il tramonto dalla mia finestra.

In quel momento quasi magico, tra il giorno che lascia il posto alla sera, quando il cielo si colora di rosso fuoco e sembra di essere in bilico in un attimo che si congela con i colori dell’eternità.

Non sei né carne né pesce.

Non è né giorno né sera.

E’ il limbo in cui per un istante, un favoloso istante, non hai bisogno di fare nulla.

Né scegliere, né decidere, né magari anche soffrire rivivendo i piccoli grandi drammi del giorno.

E’ tutto silenzioso, in attesa, o forse godendosi un momento di pausa in questa corsa affannosa chiamata vita.

Ed è preziosa.

Perché sospesa come le stelle che presto brilleranno nel cielo, puoi essere tutto e nulla.

Anche chiudere gli occhi e sentire la pace.

Perché persino la notte, quando il mondo dorme, la tua mente non fa altro che elaborare il tuo vissuto.

Distinguere grano dalla pula, l’utile dal tossico.

E anche nei sogni non fai altro che muoverti, perché in fondo la vita è questo un movimento a spirale che parte dal basso per poi tornare in alto, sempre più in alto.

In quel crepuscolo tanto decantato dai poeti, io invece chiudo gli occhi e resto in quel limbo in cui nessuno mi smuove.

Ed è dopo aver assorbito l’energica stasi di quell’istante, che osservo il libro accanto a me.

Un libro dal titolo altisonante, che forse all’inizio mi spaventava, e non invogliava certamente la lettura.

Chiedersi il perché della vita non è sempre cosi facile sapete?

E io lo so perché non faccio altro che ripetere nella mente mai stanca se esista un perché.

Un perché al dolore che mi ha ferito la pelle.

Un perché delle delusioni, dei gesti mancati, e di tanta corsa spesso per sfuggire a chissà quale interrogativi.

O perché vuoi raggiungere quell’orizzonte che però sembra sempre cosi lontano.

Esiste un motivo per vivere?

E se esiste perché non lo sentiamo dentro, dentro quest’anima ferita a morte?

Se per vibrare noi abbiamo sempre bisogno di ferite pesanti nel cuore?

Se per farci ascoltare dobbiamo urlare al cielo?

O restare in silenzio, zitti e decisi a non mostrare lacuna debolezza. Come se vivessimo dentro una gabbia con altri leoni inferociti, dai ringhi possenti e inquietanti.

E se invece non fossero altro che latrati prodotti dallo stesso dolore che abbiamo noi?

Allora non avrebbe senso quell’eterno, costante lottare.

Quell’inerpicarsi su salite create dai solchi di altre anime ferite come noi.

Per raggiungere chissà quale obiettivo.

O perché qualcosa ci attende, lassù tra le nuvole.

Un dio forse, che ci ha creato cosi splendidi e cosi indifesi.

E noi che cosi grotteschi, cosi goffi, nonostante i tentativi di raggiungere chissà quale perduto splendore…

Osservo il libro accanto a me.

È una seduzione lenta e insistente, quella voce che parla di gnosi, di sacrificio, di ali spezzate perché sedotti da ghigni crudeli.

Di arconti decisi a ingabbiarci, noi che pallidi ricordi di lontani splendori strisciamo su questa terra polverosa, accecati e scottati da un sole alieno.

Guardo e non posso sottrarre i miei occhi a una barlume di verità che sento mia.

Io che so quanto sia meraviglioso l’Altrove, quello che ha rapito la persona più importante della mia vita.

Che mi amava cosi tanto eppure non ha resistito al richiamo di casa.

E allora che senso ha vivere?

A che serve farsi domande?

Che serve cercare il nostro posto, se siamo stati abbattuti ferocemente in quest’oggi, cosi vuoto, cosi sterile, cosi arido?

Se mentre gridiamo guardami a qualcuno lassù, nessuno risponde.

Distolgo lo sguardo.

Perché quel mio non sentirmi mai a casa, trova risposta proprio in questo testo.

Quando qualcuno che ha bisogno di risposte le trova in un gesto di compassione, verso una forma aliena che sente cosi vicina a lei. Caduta, ferita, e abbandonata da un dio che lo ha dimenticato.

E in un suono, in un abbraccio, nel suo non volerlo lasciare a strisciare solo sulla terra brulla che è il significato vero della caduta.

Cadiamo perché qualche mano possa porgersi a noi che ci sentiamo perduti.

Perché un canto possa ricoprire di piume candide, scapole d’angelo bruciate.

Perché è nel momento del riconoscimento di quel se che si sente dannatamente solo, cosi come è splendidamente espresso dal libro poetico e vero, vero perché richiama arcani ricordi, allora ogni cerchio si chiude.

Noi che per arroganza abbiamo scordato dio.

Noi che abbiamo lasciato un Arconte a sedurci.

Soltanto guardando il nostro ieri possiamo sentirci a casa.

Soltanto provando compassione per quella figura grottesca che striscia in quell’eone in cui siamo stati catapultati per errore, possiamo trovare il vero senso del vivere.

Dio è nato quando ha amato.

Quando per esprimere quella strana emozione ha creato qualcosa a sua immagine.

Perché lo chiamasse rendendolo qualcosa di più potente di un idea o di un concetto.

Ecco questo libro racconta la parabola di redenzione dell’uomo. Angelo caduto dalle lacrime di Dio

Angelo che ha perduto ogni ricordo, e che vivrà soltanto se noi lo riconosceremo, lo abbracceremo e piangeremo su quei moncherini di antiche ali dietro la schiena.

Quell’angelo siamo noi.

***

Per te

che sei tornata a casa troppo presto.

Ma che hai tracciato la strada della mia redenzione

Arriverò anche io. Ma prima ho bisogno di essere qualcosa di più di un idea.

E quando sarà stanca di questo piccolo riflesso di casa

arriverò a abbracciare di nuovo l’infinito.

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