“Percussor. I Delitti del reame pisano” di Marco Bertoli, NEPSedizioni. A cura di Alessandra Micheli

percussor

 

Non so se tutti voi sapete che una delle mie passioni, oltre la lettura di horror e di gialli è quella per la storia.

Gli eventi cosi complessi spesso concatenati tra loro, forieri di conseguenze sociali ed economiche, mi hanno sempre affascinata.

Per me la storia segue un andamento affatto lineare, ma piuttosto una sorta di spirale che, quindi, può innalzarsi sia verso l’alto che verso il basso.

Questo comporta che in realtà accadimenti, fatti, prospettive e decisioni, si possano ripetere in modi sempre differenti all’uomo protagonista di questo viaggio, con la possibilità costante di effettuare, di volta in volta, scelte diverse.

Ecco il senso dei corsi e ricorsi storici di Gianbattista Vico.

E’ la possibilità collegata al creativo talento umano, di superare le soglie della nostra avventatezza, delle nostre ossessioni proponendo decisioni diverse capaci, quindi, di creare scenari differenti e insegnamenti difformi.

Il concetto di ricorso storico ha quindi una valenza pedagogica; è l’intento di qualche arcana energia di insegnarci a vivere, di insegnarci la strada verso la consapevolezza dei nostri talenti e di mostrare anche la parte più oscura di noi stessi nella speranza che, una volta compresa, accettata e analizzata, possa essere superata e purificata.

La storia cosi considerata, non è affatto un insieme di fatti, seppur coerenti, totalmente slegati dall’uomo; non è una provvidenza o un elezione che ci tocca e ci sfiora.

E’ piuttosto il palcoscenico laddove l’attore tenta, a volte senza speranza, di proporre una recitazione sempre più realistica, in cui possa finalmente emergere la verità dell’uomo.

E divenire quindi reale.

Fino a che non prendiamo coscienza del nostro essere protagonisti, la recita diviene artificio, illusorietà transitoria e una grottesca commedia dell’arte portata avanti da “sempliciotti”.

Da questa considerazione strana e forse “mistica” della storia ne consegue un fatto determinante per la letteratura mondiale: i corsi e ricorsi storici, ponendo di fronte sempre nuovi bivi, diventando sempre più simili a un libro game dove un dado lanciato nell’etere può decidere la nostra sorte, spiana la strada a una domanda annosa e foriera di interessanti spunti di riflessione: cosa sarebbe successo se?

La possibilità di immaginare una deviazione temporale alternativa è causata dalla concezione elastica appunto degli avvenimenti e del destino che, non è fissato con uno scalpello sulla pietra, ma è scritto da una matita che noi possiamo cancellare.

E per questo il nostro bravissimo menestrello (inizierò a chiamare ogni talento con questo nobile appellativo) elabora una realtà creata, appunto, da scelte diverse e che quindi, non è affatto alternativa, ma possibilità reale.

Due sono le linee temporali evidenziate.

La prima riguarda un contesto politico sociale diverso da quello che noi studiamo sui libri di storia: un diverso finale per la battaglia della Meloria.

Come dite?

Non la conoscete?

E cosa ci sto a fare io mio adorabile lettore?

Non solo per allietare queste fredde giornate ma, nel mio piccolo per erudirti!

La battaglia suddetta, da quel nome cosi evocativo fu una storica, nel senso di grandiosa e importante, battaglia navale che coinvolse la Repubblica di Genova e quella repubblica marinara di Pisa. Tutto avvenne nel remoto agosto del 1284 alle coste del porto pisano.

E perché è cosi storica?

Perché cotale battaglia indebolì di molto la nobile flotta pisana dando inizio, udite udite, al declino della sua potenza, durante tutto il medioevo. Questo declino non causò direttamente la decadenza della repubblica ma ne minò le fondamenta, facendo in modo che, le conseguenze più nefaste, poterono sbocciare un secolo dopo, con il fetido tradimento di un certo Giovanni Gambacorta.

Ecco che una semplice disfida dalle conseguenze non proprio brillanti, diede l’avvio a una seria di eventi decisero, in un secondo tempo, di un popolo.

E’ il cosiddetto effetto farfalla.

E questo è il primo interessante insegnamento da ricordare: anche il più picoclo, inutile, miserevole evento, può creare uragani devastanti.

E cosi Pisa, indebolita nella reputazione inizia la sua lenta decadenza che la porta nel 1406 a essere assoggettata alla potenza di Firenze.

E fin qua ci muoviamo nel terreno impervio ma conosciuto dei fatti storici.

Il nostro Bertoli però, immagina un altro sfondo foriero di ulteriori cambiamenti sociali e politici: ossia che tale famosa battaglia riusci a onorare la meraviglia di Pisa e portandola a fondare un vero e proprio reame pisano retto dalla dinastia dei della Gherardesca.

E questa dimostrazione di forza avrebbe sortito un effetto farfalla al contrario: è Pisa a assoggettare la nostra Firenze governata dai mitici Medici.

Ecco che, il reame cosi raccontato, ha l’alone della forza indomita del mito.

Cosi come la Battaglia di Lepanto fu utilizzata per fini propagandistici, cosi la battaglia della Melora unisce il reame sotto l’egida del potere navale che rende Pisa regina dei mari a scapito della sua antagonista Genova.

E sapete qual’è la conseguenza sociale di un tale sicumero orgoglio?

Che non si teme più l’ignoto.

Un regno cosi forte, che ci vanta di una superiorità militare, è pronto si a cacciare ogni insidia nemica ma quella esterna, non interna.

Un popolo assoggettato a un mito si compatta e si rivolge infuriato a chi, quel mito tanta di demolirlo.

E’ una sottile ma importante conseguenza.

Il popolo che si riconosce nella forza della bandiera, non ha bisogno di nemici interni per ricompattarsi, non si lacera internamente, ma sostiene il reame ostentando la sicurezza del vincitore. E sottomettendo le sue personali libertà in favore di tale orgoglio “nazionale”.

Un popolo che, a causa delle condizioni economiche non floride, rose dalla costante perdita di consenso e di lettiggitimatà del potere, vanno riportati all’ovile usando la formidabile arma del dissenso internmo; ogni alleanza per la rivendicazione dei diritti, è stracciata dall’idea che, un corpo pernicioso cresce nel suo interno.

Zitti tutti e palla al centro.

E’ la spavalderia che permette al nostro regno di non demonizzare per nulla le forza arcane, ma anzi a usarle a proprio vantaggio.

Pisa o meglio il nostro reame pisano non disdegna per nulla la magia. Anzi assoggetta anch’essa in nome della conservazione di questo stato forte, sicuro e concentrato sulla meta: risplendere nella sua fulgida bellezza.

Ora, mi direte voi virgulti curiosi, ma la magia nel seicento era bollata come eretica!

Si e no.

Caria adorabili miei lettori, la verità è che, nel contesto del cattolicesimo, persino della controriforma furono due la concezioni della magia: una approvata dalla chiesa e messa al servizio dell’onnipotente, e una rifiutata come satanica.

E ovviamente la definizione di alta e bassa magia, dipendeva da un solo incredibile fatto: il ceto sociale.

La chiesa, infatti, durante tutto il 500 e il 600 si interessò di magia.

O meglio si interessarono le alte personalità di intellettuali cattolici, i nobili e le gerarchie ecclesiastiche di alta magia, contrapposta a quella popolare e dei settori considerati inferiori.

Un esempio?

Athanasius Kircher. Un gesuita.

Michelangelo Lanci. Diacono e prete.

Alessandro VII. Papa.

Giordano Bruno (nonostante la sua pessima fine) fu un domenicano.

Nonostante taluni veti sulla conoscenza (come si dimostra nella storia di Bruno) lo studio dell’ars proibita era accettata dai vertici del vaticano purchè restasse entro le rassicuranti mura delle sua dottrina, che essa non fosse diffusa a tutti, e non fosse usata come riconsiderazione dei ruoli sociali e come contestazione della stratificazione sociale.

Quindi restasse soltanto un mero diletto intellettuale.

Qualora lo studio esoterico potesse essere considerato mezzo per contestare la gerarchia sociale ( si pensi allo gnosticismo che demoliva l’idea di infallibilità papale e metteva in discussione il ruolo della confessione), beh allora doveva esser taciuta.

Pertanto, l’idea che la magia fosse accettata, non è affatto una fantasia. Solo che era tollerata dentro le mura del regno vaticano.

Trasportare tale regno, florido, sicuro, unito, compatto nel reame pisano è il solo unico volo pindarico di Bertoli.

Un regno che non temeva nulla poiché aveva dato prova e sfoggio della sua potenza.

E che però viene costantemente mincciato da cospirazioni, vendette, odi e tentativi di rovesciamento regio.

Ovviamente la ribellione era confinata nei ristretti lidi dei ceti alti.

Mai, mai dalla popolazione, sempre, sempre arrivata dall’elite al potere. Che un giorno si svegliava bella convinta di dover cambiare le carte del gioco.

Apparentemente.

O meglio cambiare il suonatore. Mai la musica.

Ecco che Percurssor inizia questa sua narrazione, raccontando, in fondo, ciò che ancora succede oggi: cambi di poltrone, omicidi di stato, duelli tra fazioni,, tutto a scapito dello spettatore medio.

Che anzi è marionetta nelle mani del potente.

Precurssor diviene, quindi, più di un libro di semplice evasione: è una narrazione romanzata sull’essenza della conoscenza storia, ossia la teoria dei ricorsi storici e narrazione del contrasto eterno tra potenti che litigano, che ci combattono, osservati da una popolazione che li osserva ma che resta sempre relegata agli angoli.

E sono contrasti osservati come fenomeni arcani, con riverenza, curiosità e meraviglia ma consci che sono troppo lontani da un vivere quotidiano abbellito da stenti e tentativi di sopravvivenza.

Il popolino è il pubblico che assiste allo spettacolo, capace di fissare il dito e mai la luna che lo stesso indica.

I miei complimenti a Bertoli per aver creato non solo una perfetta ucronia, ma anche per aver colto perfettamente quel senso si sconfitta di un popolo reso, costantemente e volontariamente, una massa disperata, che emerge lieve dal dal forte grido, tra le pieghe di un romanzo indimenticabile.


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