“Chi ha ucciso Charmian Karslake?” di Annie Haynes, Edizioni le Assassine. A cura di Alessandra Micheli

 

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Vi è mai capitato di amare cosi tanto un libro da non trovare le parole adatte per raccontarlo?

A me si, capita con i gialli editi da Edizioni le Assassine.

Hanno tutto quello che cerco in un testo: struttura, emozioni, dettagli, descrizioni e significati.

Descrivono in maniera perfetta il secolo che da ambientazione alla vicenda, non limitandosi solo alla mera narrazione tipica di molte detective stories, concentrate soltanto sull’arduo compito dell’investigatore di turno, ossia collezionare indizi come un criceto impazzito, per scovare il perfido colpevole.

Questa struttura base è soltanto il mezzo per parlare di altro, perché il giallo in fondo è solo escamotage per stanare n modo molto più etico del thriller, molto più di classe il male.

Ma il male non si genera in modo spontaneo, cosi come narra secondo la tradizione medievale.

Ma si snoda attraverso le storie personali, le difficoltà che i protagonisti incontrano lungo la loro più o meno tortuosa strada e si originano da una precisa e particolare società che deve, quindi essere protagonista.

Il vero colpevole da stanare non è l’assassino.

Esso è solo il prescelto, colui che prende su di se il compito supremo che gli è stato donato proprio dall’ambiente sociale.

In ogni giallo nessuno è slegato dal suo ambiente.

Nessuno è in grado di scegliere autonomamente la sua strada.

Sono tutti, più o meno, i burattini manovrati da un oscuro Mangiafuoco, capace quindi di costringere i nostri piedi a calpestare quella o l’altra strada.

E cosi i personaggi di questo splendido affresco inglese.

Un americana facoltosa dallo strano e oscuro passato, innestata, con quella sua effervescente verve profumata di libertà e di possibilità, in uno strano villaggio, anacronistico e totalmente incentrato sulla reiterazione ingrigita di privilegi oramai superati.

In quell’abazia il tempo è congelato e le classi sociali, in barba alla strana innovazione inglese, appaiono conquiste impossibili da mettere in discussione.

Quello che molti trovano come elemento soffocante, stonato e incomprensibile, non è altro che un lato contraddittorio di un Inghilterra progressista, che si pose come guida di un Europa eccessivamente arretrata, ma che al tempo stesso, pur millantando la sua modernità, aveva nell’interno della sua stessa società forti e ferree resistenze.

Tutti voi conoscete la storia inglese vero?

Ebbene sia dato da sapere che, in Inghilterra ci fu la dimostrazione pratica del principio che diede vita all’America: l’esaltazione del self made man.

Ossia dell’uomo che, incurante delle restrizioni consuetudinarie, decideva semplicemente di far carriera snobbando i rigidi canoni della stratificazione sociale.

Tutti noi conosciamo la norma, peraltro ancora oggi viva, dell’elitarismo. Un figlio di ingegnere raramente diventerà un contadino.

E il contadino nato da contadini, raramente potrà ambire a divenire ingegnere.

Questo sistema di privilegi e di scorciatoie viene chiamato oggi classismo.

Tutto il contrario della moderna idea di meritrocrazia.

Essa presuppone uno interscambio o una comunicazione che ne impedisce la stagnazione; senza forze nuove ogni sistema chiuso rischia il collasso.

Ma questa è un altra storia.

In Inghilterra si assiste a una strana situazione, tra il 1540 e il 1880 sembra che quella inglese sia una élite aperta, che permetteva alla gentry ossia alla nuova classe mercantile nata in senso della rivoluzione industriale, di poter accedere agli stessi privilegi dell’antica classe nobiliare.

I nuovi ricchi avevano quindi più possibilità di entrare nelle fila della vecchia nobiltà terriera e furono da essi facilmente accettati.

In realtà, essi poterono si accedere allo stile di vita tanto agognato ma a patto di una loro rinuncia al passato.

In sostanza era si possibile che un ricco imprenditore divenisse “pari” di un lord ma a scapito del proprio passato, non visto come un dignitoso balzo in avanti, ma come qualcosa di cui vergognarsi e abbandonare.

Questo assumendo gli stessi attributi dei nobili come residenze eleganti, servitori, doppi cognomi, atteggiamento snobbisticamente annoiato e dedito a attività abbastanza tradizionali.

Questo mise quello stop alle innovazioni che si limitarono quindi a aumentare la ricchezza piuttosto che a modificare più profondamente la società.

Si interessante, direte voi, ma cosa centra con il nostro giallo?

Tutto.

Perché l’omicidio della bella Charmian, fatto che si evince dal titolo, parte e ha origine in questa strana e pazzesca tensione inglese tra speranza di riscatto e impossibilità a eseguirlo se non abbandonando del tutto la propria storia.

Un aspirante lord doveva dimenticarsi da dove veniva, costruirsi una nuova identità, abbandonando persino il proprio cognome.

E’ quindi dal passato che arrivano le frustrazioni, le vendette, gli odi, le rivendicazioni che porteranno all’atto più estremo frutto di questa contraddizione lacerante ossia l’omicidio.

Per questo il libro è interessante non solo perché perfetto nei dettagli classici della detective stories ma anche perché rappresenta anche un perfetto affresco storico. E da brava appassionata è in quell’elemento che si concentra tutto il mio imperituro amore per la Haynes che rende Hepton Abbey, rappresentazione perfetta del vero dramma inglese: una volontà di frenare l’innovazione con l’attaccamento morboso ai vetusti privilegi dell’antica nobiltà terriera.

Ed è da questo che il dramma si compie, e si snoda ai vostri occhi tra fruscii di seta e meravigliosi gioielli.

Li, nell’apparente serenità di una perfetta aristocrazia inglese, si cela il male, un male banale forse, ma non per questo meno orrendo.

***

Note.

La storia sociale descritta nella mia recensione, è tratta dal saggio “Una èlite aperta?” Di Lawrence Stoner e Jeanne Ci Fawtier Stone, il Mulino 1986.

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