“Il soffitto di cristallo” di Gianni Perrelli, Di Renzo editore. A cura di Alessandra Micheli

Il soffitto di cristallo- Gianni Perelli

 

Sono sempre stata refrattaria alle definizioni.

Le odiavo e scappavo da esse come se fossero demoni a rincorrermi.

E una di quelle più aborrite era Intellettuale.

Cosa significava?

Che ero un gradino sopra gli altri?

Intellettuale per me era una parola abusata, inutile.

Tutti noi ci basiamo sull’intelletto e tentiamo, in questa strana vita, di orientarci al meglio, pensando, riflettendo, raccogliendo dati e proponendo teorie.

Per ogni cosa specie riguardante il nostro ambiente.

Che non è solo quello geografico o simbolico ma, sopratutto, politico.

E la politica, volenti o nolenti, ci invade ogni anfratto dell’anima e dell’organismo.

Siamo decisi a creare uno stato, con un territorio, un popolo, un’autorità decisionale espressa nei modi più consoni alla nostra cultura.

E cosi abbiamo il mondo della rappresentanza, laddove si compie il miracolo più impensato: Signora sovranità passa dalla mani del popolo a quelle del suo delegato che, resterà tale, finché sceglierà saggiamente di immergersi nella Maat cosmica e trarne le giuste leggi perché armonia regni.

Sognatrice?

Non direi.

Diciamo che sul senso politico della democrazia ho passato giorni interi a riflettere.

Mentre le mie coetanee guardavano, annichilendo il pensiero non è la RAI, girotondo di apparenza, predecessore dei social pieni di carine immagini che oggi funestano il nostro ovattato mondo, io riflettevo su questi temi.

Intellettuale?

Migliore delle altre?

No.

Semplicemente educata all’esercizio della vera libertà: il pensiero.

Un pensiero che crea mondi, universi, valori e stati.

Il pensiero che domina sovrano spingendo i più a indossarlo come una veste di cui andare orgoglioso.

E altri che lo usano indebitamente come arma per sfondare il tetto di cristallo.

Ed eccoci al tema del libro.

Intellettuale oggi è un valore, che ci permette di capire come dietro l’apparenza ci sia un derisorio tentativo di convincerci che la sostanza non serve, che tutto può essere cultura e che possiamo indossare i migliori alibi per non pensare.

Intellettuale è chi, con in mano il libro di Perrelli, inizia coraggiosamente a vedere.

E non solo il trito e ritrito, mi si scusi il sospiro esasperato, tema della parità di diritti, ma la realtà delle nostre situazioni, del nostro essere cittadini, del nostro votare, del nostro sentirci uomini.

Non esistono i pari diritti.

Perché oggi forse non esistono proprio i diritti.

Tutto è un dovere, un io posso, un io devo.

Un apparire.

E per apparire in modo da esistere, significa necessariamente sgomitare.

Oggi non ci sono assolutamente i diritti.

C’è alibi del io posso, io devo essere, io farò.

Non c’è il posso?

Potrei?

Dovrei?

Il diritto è una forma di domanda che nella sua pomposa genesi rimanda a altre domande.

E per rispondere necessariamente dobbiamo rivolgerci all’altro.

Come il diritto alla libera espressione.

Che non significa sparare ogni scoria che ci ronza per una testa non allenata alla differenziazione, ma una caotica fuoriuscita di disordine. Possiamo dire tutto e il contrario di tutto urlando invano il nome della libertà.

E se noi stessi siamo oramai orfani di diritti, il rappresentante non fa altro che cavalcarle l’onda dicendoci le frasi che il nostro disordine brama.

Non una logica analisi della situazione, con tutti i pro e i contro.

Ma slogan, frasi banali che titillano il nostro uomo qualunque sdoganato in questo secolo confuso.

Il soffitto di cristallo viene distrutto.

Da una donna.

Una portatrice di ideali nata in senso a una borghesia aliena dal contato sociale del popolo.

Che non considerato, non compreso, non individuato e nominato, diviene massa.

E la massa, si sa è ben controllabile.

Una forza caotica da usare a proprio piacimento, a cui elargire briciole. Una forza che è lo specchio distorto della nostra carenza interiore.

Non crediamo più alla politica.

Ne alla sua necessità primaria, ossia permettere la libera crescita e la possibilità equa di sviluppare talenti.

E non solo di soddisfare bisogni.

L’entità politica si rese necessaria per un evoluzione del concetto di solidarietà del clan, in un ottica più grande, più globalizzata.

La città doveva divenire quello che era la piccola comunità: luogo di incontro, scontro mai violento, dialettica e possibilità, tramite questo diritto alla discussione, a trovare la forma migliore per far prosperare tutti.

Per dare una possibilità al futuro, perché gli ideali non divenissero ideologie, perché l’umo non diventasse anonimo o qualunque.

Perché ognuno all’interno dell’agorà si sentisse libero.

Era il sogno del perfetto mosaico, laddove ogni parte di un disegno era importante sia nel tutto che nel singolo elemento.

Ogni elemento era uno schizzo di pittura che assieme agli altri trovava la sua collocazione, il suo senso il suo obiettivo.

Qualcosa non è andato.

La libertà non ci è piaciuta.

Mano a mano abbiamo perso il gusto della decisione e ci siamo orientati verso il fallace sussurro di Mammona.

L’apparenza, il sedersi aspettando un miracolo dall’alto, la suadente forza dello slogan e della faciloneria, il togliersi il pesante fardello dell’ideale e dell’impregno.

Oggi il patto è stato sancito.

E la libertà di decisione è stata uccisa.

Nessuno sa chi è il malevolo criminale che ha materialmente compiuto lo sfarcelo.

Forse il politico deciso a sfondare quel tetto di cristallo.

Forse noi stessi che desideravamo qualcuno che lo sfondasse.

Forse la crisi che ha cercato di gabbarci creando non politici ma burattini protagonisti di una commedia alla De Filippo.

E cosi il libro diviene satira politica sociale.

Perrelli racconta ogni nostro dramma con penna feroce e incalzante.

Non ci risparmia descrizioni accurate di cosa siamo noi oggi.

Ne risparmia le accuse verso i sognatori, rei di aver sognato e di aver perduto lo slancio iniziale.

L’idealista un novello martire messo da parte dagli oscuri sotterfugi di una politica che si era stufata di essere coerente.

I soldi erano come melassa capace di appiccicarsi alle mani e era impossibile sottrattosi alla sua malia.

Una donna che tentava di dare un senso alla sua soddisfacente vita, ma cosi fredda e anonima da costringerla ad abbracciare l’ideale non tanto marxista, quanto sociale della sinistra.

Una donna che, appunto perché fortunata, aveva il sommo dovere di elargire a suo modo la stessa fortuna alle periferia non solo cittadine ma del mondo.

E che credeva di poterlo fare in politica.

Uomini che fingono un dibattito e che in realtà si abbracciamo finita la diretta TV, concordi che in fondo è meglio fregarlo quel popolo involontariamente costituitosi in massa.

Io so il valore della politica.

Per quanto disgustata, arrabbiata, delusa al pari di Paolo non sono mai riuscita a diventare una Livia.

Eppure la amo ancora la politica.

Amo le sue infinite possibilità.

Amo quella sua fragilità quella sua innocenza insozzata dai desideri egoistici.

Amo ciò che è stata e amo ciò che poteva essere.

Nonostante tutto continuo a credere che il sistema politico democratico possa accontentarsi in un connubio favoloso con l’ansia riformista del comunismo.

Senza divenire dittatura.

Ma non è necessario sfidare la fauci del parlamento per agire.

Non è necessario rischiare di esserne inglobati.

Non è necessario sfidare il tetto di cristallo.

Esso è li per ricordarci i pericoli e i limiti.

Per ricordarci che, sfondarlo, significa ferirsi e cercare a ogni costo un sollievo.

Significa farsi bendare le ferite, causate dagli aguzzi pezzi di vetro, da qualcuno.

Senza immaginare che quel qualcuno userà le suddette ferite per manipolarci.

Il soffitto di cristallo non fatto per chi agli ideali ci crede davvero.

Livia lo capirà.

Paolo lo ha già compreso.

Quello che il lettore invece dovrà comprendere, è quello che si svolge all’esterno dei due protagonisti alla ricerca di un identità perduta: la grottesca recita a nostro discapito.

Quel nostro essere massa usata da interessi altri.

Quel nostro addormentare la coscienza civile con l’iper-tecnologizzazione che ci rapisce in un mondo diverso, in un dimensione totalmente edonistica, lasciando gli sciacalli a dividersi le carcasse. Quello che il lettore dovrà capire è il momento di oggi, fatto di foto di solo godimento e non di schiaffi sul volto.

Di glamour e brillantini e non più di lavoro, sudore e rivendicazioni.

Di virtuale e non più reale.

Quello che il lettore dovrà fare è piangere lacrime di sangue su una libertà rinnegata.

Da parte mia ringrazio l’autore, perché ha risvegliato in me la voglia di fare politica.

Anche attraverso una recensione, uno scritto, un dialogo.

Lo ringrazio perché oggi sono fiera, assurdamente fiera, di essere un intellettuale.

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