“Samuel, Murphy e io” di Gabriella La Rovere, Scatole Parlanti. A cura di Alessandra Micheli

A volte ci sono autori conosciuti ma che non abbiamo mai davvero vissuto. Perché in fondo la letteratura è questo, vita, esperienza e movimento.

Ed è grazie a questo eterno camminare incontro a chissà quale punto nell’orizzonte che non respiriamo.

Altrimenti saremmo immobili, perduti in un attimo congelato nel tempo. Statici.

E quindi sempre destinasti all’oblio e all’evanescenza.

Non serve, dunque, conoscere il nome di un autore o ripetersi il titolo di un libro.

Quello ci fa mostrare coda di pavone, ci rende tronfi e orgogliosi di un sapere che è come cenere tra le mani.

Non è cosi, miei lettori.

Per leggere bisogna sentire l’esperienza unica di quel nome, magari famoso, dentro la pelle.

Quel libro deve parlare a noi, ai ricordi più intimi, a ossessioni e paure, a esperienze rimaste troppo tempo chiuse in un cassetto.

Credo che sia la forza delle mie recensioni e la bellezza del blog che, immeritatamente, gestisco.

La parola, nel nostro mondo diviene carne e sangue.

Viva.

Pulsante.

Indipendente.

Noi la raccogliamo dall’iperuranio e poi la lasciamo libera di vagare, di sfarfallare altrove, felici e grati perché ci è stato regalata la possibilità di accudirla, come un figlio che poi diventerà una freccia perduta chissà in quale bosco.

Ecco chi riesce, con la sua prosa a rendere un famoso nome, un famoso volto, qualcosa di diverso da una polverosa e accademica disquisizione, non conquista soltanto la mia attenzione.

Ma la mia anima.

E cosi ha potuto fare la nostra La Rovere.

Parlando un un mostro sacro della parola, di un nome sussurrato sempre con riverenza e ammirazione.

Ma appunto perché torpente, talentuoso e sacro, cosi distante da me.

Pur conoscendolo e pur avendolo letto, non mi sono mai, e sottolineo mai, soffermata sul potere emanato dalla sua prosa.

Bellissima.

Accattivante.

Ricca di quei dettagli che oggi insegnano ai nostri addetti ai lavori, come distinguere un buon prodotto per il pubblico affamato.

Ma è ,appunto, soltanto quello.

Prodotto.

Non vita.

Samuel Beckett, purtroppo lo ammetto, era soltanto questo per me.

Influente nome del ventesimo secolo.

Nome da sussurrare sentendosi quasi indegni.

Roba da studiosi.

Ecco mai come quest’analisi mi ha fatto rendere conto di come mi sbagliavo.

Beckett non è soltanto un possedimento degli accademici.

E mio.

Vostro di tutti.

E’ voce tonante che forse, racconta qualcosa di profondamente importante per la vostra vita.

Non soltanto per la cultura,

E per dimostrarcelo analizza il suo primo libro: Murphy.

Ma attenzione.

Non come lo farebbe un critico letterario.

Con il cuore e l’amore giusto affinché non fosse tanto la tecnica, la convenzione accademica a parlare.

Ma fosse il cuore.

Perché la Rovere ci fa comprendere come tra lei e questo straordinario talento ci sia un filo rosso di affezione, come se l’eredità umana, e sottolineo umana, stessa di Samuel fosse confluita nella sua di anima.

E quindi la sua disamina della poetica contenuta in quest’opera.

Fa luce su un bisogno primordiale, suo come mio: la contemplazione della diversità.

E sopratutto la coscienza di come essa possa rappresentare un dono, non già una condanna.

La diversità che emerge, fatta di fili invisibili ma comuni a tutti come la solitudine, le ossessioni piccole a grandi, i conflitti umani e le sue gradazioni di complessità (fino a sfiorare ovviamente il tema della follia e della neurodiversità) diventano una sorta di chiave per liberarci da una asfissiante prigionia: quella della perfezione dell’apparire.

Ecco che in fondo torniamo tutti a essere simili, seppur opposti.

Tutti in bilico sull’abisso della pazzia.

Un testo profondo, e al tempo stesso pervaso di una dolcezza quasi serena, quella ottenuta, semplicemente, con l’accettazione di questo essere cosi strano, cosi bizzarro e cosi imperfetto chiamato uomo.

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