“La prima notte del mondo” di Luigi Finucci, Seri editore. A cura di Alessandra Micheli

E’ normale chiedersi di quale notte parla Finucci.

Perché per ognuno, ognuno di noi esiste una notte precisa.

Quella che ci ha visto morire, più e più volte in attesa di una rinascita che è importante perché non compiuta.

La prima notte di una lacrima, di un bacio.

Di un sogno interrotto.

O la notte in cui la luce fu il grido capace di dare inizo all’esistenza di una cellula, di un atomo.

Della vita stessa.

La prima notte in cui il cuore è stato nominato, cosi come fece Adamo con ogni foglia, ogni sasso.

E quel nome ha dato la possibilità al sangue di circolare, tra le vene, fino a muovere le gambe, fino a farci diventare non soltanto pensiero ma azione.

O la prima notte dopo l’arte bizzarra di una creazione, che non procede per step, ma diventa un’esplosione, improvvisa e accecante, fino a farci venire qua, in questo piano d’esistenza che ferisce spesso i nostri piedi nudi.

O forse sono tutte le notti, ogni volta che appaiono diventano per noi le prima, e poi le ultima.

E poi il giorno che forse contiene più morte di quanta vita ne chiediamo.

Forse è soltanto la notte, in cui sei solo con te stesso, più vicino all’essenza e alle sensazioni più intense, a farci sentire di esistere, in quello spazio che riempiamo di parole, di urla silenti, di promesse fallaci.

La prima notte al mondo diventa cosi parabola personale per ognuno di noi, che è in fondo nient’altro che frammento di cielo, sguardo che squarcia l’immobilità dell’infinito.

Quella piccola, misera esistenza che forse è più improntante della perfezione degli angeli.

Proprio perché soffre, piange e sa morire, in attesa di una rinascita.

E cosi al ricerca di Finucci può essere davvero un percorso, lento e fatto di attimi fotografati dalla dittatura del verbo che li immortala, li rende congelati davanti al flusso che come un maelstrom ingoia ogni essenza, ogni assenza e ogni movimento, per rigettarlo poi fuori di lui frammentato ma sempre vivo.

E in quel fotogramma vediamo stelle morire e poi rinascere, pianeti che girano vorticosamente dentro e fori di noi

Atomi, si muovono

nello spazio imitando

un perpetuo sodalizio.

Il caso vorrà, nell’istante

imprecisato, che si formi

un assioma complesso.

Vita. Senza bisogno alcuno

di definizione

E’ l’inizio di ogni vita, che sia organica, che si pensiero, che si ascoltano un potenziale in embrione di un azione che forse deciderà il percorso del destino.

Ed è la bellezza de ogni origine, quello che non si esplicita in una concretezza, non ingabbiato dai limiti della materialità.

Bella perché è in embrione, bella perché contiene dentro di se il potere del tutto

Nel luogo più oscuro, le possibilità

di vita hanno le sembianze

di una cellula. Le origini

hanno parvenze insolite,

non hanno linguaggio

E cosi che inizia ogni crescita, da un’esplosione.

Esplosione cosi intensa che coinvolge e sconvolge.

E’ la partenza di ogni universo, del macrocosmo, cosi come di quel piccolo frammento di esso che è e resta il nostro io.

Da questo momento iniziale, la prima notte del mondo, si diventa poi azione concreta.

Gli occhi si aprono e si esplora il nostro oggi.

Si vive non più di potenzialità, ma di concretezza mai scevra da quell’istante di sacralità da cui proveniamo e da cui toerneremo

Ho moltiplicato le emozioni

le ho divise per il numero di costole

ho sommato il numero di battiti

infine, sottratto i giorni perduti.

Il risultato è stato uno zero.

E’ nell’esplorazione della materia, persino di quella meno nobile che la vita ha il suo compimento, tocca l’apice del massimo splendore.

Anche se guardiamo negli angoli, se rimestiamo nel fango, se tutto non ha mai la nobiltà del pensiero primordiale.

con la terra. Rossa!

Scorre forte, incrocia fiumi

riversa la furia in un lago

appartato; gli occhi contusi

celano una fenditura

occipitale, sul cranio.

Persino il sangue, persino la sofferenza, persino il luogo meno illustre di questa martoriata terra, diventa bellezza, forza e meraviglia.

E lontano da ogni definizione agiografica, colta e barocca, l’uomo diventa finalmente consapevole di un miracolo appena accennato nella creazione del capitolo precedente

Così lontano da casa

c’è una percezione ampia

le catene si rompono

con l’educazione familiare.

Porta d’acceso ad un mondo

primordiale.

Lontano dalla zona di conforto, la percezione abbandona lo schema comodo e inizia a comprendere quale accadimento grandioso sia avvenuto grazie alla prima notte del mondo, qualsiasi notte sia, per qualsiasi persona.

E se noi iniziamo a comprendere quale grandiosità ha la vita, iniziamo anche a rifiutare la blasfemia della banalità

Ora, c’è molta stanchezza. Le venature sono più evidenti

sembriamo vecchi. Una cosa è certa, abbiamo provato

a salire sui rami dell’amore.

Eppure…la salvezza resta nel dono della corporeità, quello che ha reso seducente una corporeità che si è sganciata dal possesso della potenzialità:

Caduti, le ossa si sono frantumate con la realtà.

Eppure le mani hanno trovato il modo di sfiorarsi, le mani

Siamo raggi di luce caduti, come lacrime, dagli occhi di Dio.

Abbiamo perduto la purezza dell’archetipo.

Ma guadagnato l’armonia dello sfiorarsi, di un corpo capace di farci godere di ogni raggio di sole.

E cosi la prima notte del mondo, forse diventa anche l’ultima, quella che ci fa sentire più acutamente la perdita che avverrà con il ritorno nell’alto dello spazio siderale.

È tutto meraviglioso

il vociare

la cadenza dei camminanti

il profumo dell’erba

le vertebre stanche. A tratti

il silenzio.

Tutto mancherà.

Anche le cose invisibili

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