“Tanto per parlà” di Michela Tranquilli, Eretica edizioni. A cura di Alessandra Micheli

Pe fa al vita meno amara

me so comprato sta chitara

e quando il sole scenne e more

me sento er core cantatore

la voce è poca ma intonata

Nun serve a fa ‘na serenata

Ma solamente a fa ‘n maniera

De famme ‘n sogno a prima sera

Tanto pe’ cantà

Perché me sento un friccico ner core

Tanto pe’ sognà

Perché ner petto me ce naschi ‘n fiore

Non potrete mai, dico mai capire l’amore che ci lega a questa città. Cosi bistrattata, cosi vilipesa e al tempo stesso cosi fiera di resistere nonostante il tempo e l’incuria.

Si erge con tracotanza e spavalderia, nonostante le ferite dicendo nun m’arrendo.

E questa sua scanzonata prestanza che nasce dal dolore, il profondo dolore, di non essere mai al passo con i tempi, troppo antica per la modernità e troppo moderna per chi ama restare fisso su un punto, la si ritrova persino in un dialetto che non è un dialetto.

E’ una presa di posizione.

E’ una dichiarazione d’indipendenza, è un atto ribelle, cosi come le pasquinate di un tempo.

Laddove tutto è regole e semantica, Roma diventa il dato che stona, l’antiregola per eccellenza.

Non lingua, non identità, non qualcosa di rigido, ma la cadenza lieve di chi si fa beffe persino dei valori consolidati.

In un daje non c’è semantica, c’è anima cuore o core.

Quello senza la U quello che è un respiro uscito troppo di corsa perché aveva bisogno di abbracciare l’aria e di spargersi come l’eco di un soave profumo di fiori per arrivare lassù nel cielo che sta morendo dissanguandosi per proteggere i suoi figli.

I tramonti rossi non sono forse il gemito moribondo del giorno?

Quell’agonia che poi porta il fresco della notte, espresso da tanto decantato ponentino?

Parlare romano non è, dunque, questione di lingua.

Non è un dialetto e non ambisce mai a esserlo.

E’ cadenza, suono, energia, volontà di prendere la parola e farla diventare frammento di anima.

Non una questione di senso.

Ma di sensazioni.

E questa parola usata per descrivere se stessi mai in rapporto al mondo ma all’emozione, spesso tattile diventa pertanto leggero, lieve eppure urlato.

Oh mio lettore!

Se sapessi come mi sento quando mi lascio andare e parlo romano!

E’ un ondata di energia, è movimento e’ rabbia dolore, divertimento che si mescolano e danno forma non a un’esclamazione ma a una forma di potere.

Io quando dico ennamo, quando dico ahò, non sto parlando.. sto dipingendo.

Una scena, una volontà, una precisa protesta.

Roma è libertà e Roma è persino ribellione.

Il potere per noi non è altro che un gingillo da irridere con sfrontatezza.

Il dolore?

Non è altro che qualcosa che riempie la bisaccia e che prima o poi verrà svuotato in terra e alla terra ritornerà.

Ecco scrivere in romano è un misto di genio, spensieratezza, irriverenza, amore, passione e divertimento.

Non è facile parlarlo perché non serve solo usare le corde vocali. Serve usare…il cuore.

E noi di cuore anzi do core siamo devastantemente privi.

Noi ci esprimiamo sapendo che nulla di ciò che esce dalle labbra ha valore morale.

Noi ci esprimiamo tanto per parlà perché se sentimo er friccio ner core.

E questo friccico non va assolutamente ignorato.

Perché se lo ignori il cuore diventa soltanto una distesa arida, si rinsecchisce come le foglie di una rosa dimenticata dentro una pagina e se le stroppicci si spargono nel vento e diventano solo..ricordi.

Ecco che questa silloge che oggi celebra non solo la cadenza romana ma un intera città, diventa la voce mia, di barbara, di mio nonno, di mio padre e di tutto coloro che se non davano la propria versione della vita, non avrebbero più sentito quel friccico ner core.

Ma con la leggerezza, la consapevolezza che in fondo, non è altro che il nostro tentativo di tenere testa al tempo, ai secoli che ci hanno ingannato, facendo finta che le promesse che ci hanno deluso in fondo, non siano altro che le solite trite pasquinate.

Una silloge che affronta i temi sociali, le emotività con quel modo particolare che, permettetemi il campanilismo, solo un romano può regalare.

De Roma nostra semo li moretti

semo romani e in più Trasteverini

mò nun pè dì semo li più perfetti

cantamo tutti e semo ballerini

Se dice: gente allegra Iddio l’aiuta

e a noi c’aiuta e vòi sapè perchè?

‘gnì tanto ‘na magnata e ‘na bevuta

e tutto quanto er resto viè da sè…

Semo Romani Trasteverini

semo signori senza quatrini

er core nostro è ‘na capanna

core sincero che nun t’inganna

si stai in bolletta noi t’aiutamo

però da micchi nun ce passamo

noi semo magnatori de spaghetti

de le Trasteverine, li galletti…

Fiori Trasteverini

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