“Verso le strade feroci” di Mario Eleno, Eretica Edizioni. A cura di Patrizia Baglioni

Mi accorgo subito che qualcosa in questa raccolta è inusuale, di solito i versi vengono da una necessità di esplicitare la propria interiorità, di mostrare l’epicentro della sensibilità.

Anche qui si entra nel cuore del poeta, ma il viaggio è spaventoso, lo stesso autore trema ad esaminarlo, lo si evince dalla trama dei componimenti.

Questo è termine da romanzi, da narrazione, e invece tra queste “strade feroci” in forma di poesia, trovo un filo conduttore preciso, una strada da percorrere, uno scopo della scrittura.

Non è cosa da poco in poesia, perché di solito, una poesia rappresenta un momento, estemporaneo, che disegna uno stato d’animo, uno, la trama invece raccoglie il molteplice, lo unisce e lo rappresenta al lettore.

L’analisi parte dal corpo del poeta, dalla sua “Autopsia” dove si distingue la carne, dagli organi, “dalle listature che schiumano nel viola”, non si parla di anima (e questo la dice lunga) ma di cervello, “l’organo che sopravvaluta il mio essere”.

Comprendiamo quindi come l’approccio sia materialistico, razionale, rivelatorio non tanto di un’interiorità, ma di un’esteriorità che è sotto gli occhi di tutti.

Lo sfruttamento lavorativo è evidente, l’immigrazione e il commercio che c’è dietro è evidente, la corruzione morale è evidente.

Ma se è così vivida perché doverne parlare?

Perché nessuno affronta la questione.

La poesia può.

Esprime lo scandalo, l’incongruenza, la perdizione .

La poesia non solo può, essa vista come strumento espressivo delicato, stride in modo terribile quando affronta la sozzura, la distorsione umana.

La forma dei versi si adatta al contenuto, sciolti da regole formali e lessicali, spaziano nella pagina e nel lessico a disposizione, nessuna parola è vietata, vige la libertà.

La complessità della realtà non impedisce al poeta di riconoscere la bellezza che riscontra nella musica blues, nell’amore di una donna e in un tiglio.

IL TIGLIO

Sotto un tiglio di campagna

ho passato notti d’amore

gettando i miei occhi nel cielo

in mezzo agli astri

fra l’indice e il pollice stringevo Venere

gelso luccicante

e me la portavo alla bocca

per sentirne il sapore

Con la schiena sulla corteccia

afferravo la luna

incantato tamburello

e percuotevo la luce

accompagnando il canto della tramontana

fino all’alba

poi mi arrampicavo sui rami

per conquistare il primo calore del sole sulla cima

Le fronde mi riparavano

da tempeste elettriche e fulmini abbacinanti

erano la mia egida

la pioggia risuonava sulle foglie tachicardie carezzevoli

una musica imperturbabile

e l’anima del mondo invadeva

ogni anfratto delle mie vene e della carne

Allungato al suo fianco ero terra

abbracciavo il suo tronco come un fratello

non dormivo mai

respiravo il suo pneuma

lo guardavo oscillare in silenzio

quell’albero aveva radici nel cielo

e io volevo assomigliargli

Poi il percorso delle strade feroci è svelato, è quello percorso da un treno iper-veloce che non è più un viaggio ma è la fretta di arrivare dal punto A al punto B nel minor tempo possibile.

In questo ammasso meccanico, dove tutto sa di finzione, si smarrisce il senso del viaggio, si perdono di vista i binari, le tracce di esistenza, e il poeta visualizza cosa c’è fuori.

Non è un bello scenario, egli vede la feccia delle strade, “la faccia delle nostre paure / le vite gravide di paure”e vie feroci da percorrere con le sue “scarpe marsigliesi” che assomigliano tanto a quelle dei personaggi di Izzo.

Ecco, se volessi dipingere lo spirito di questa raccolta, esso si tingerebbe di noir, l’analisi ingenerosa della vita, la gettatezza degli incontri, l’impossibilità di salvarsi e i sentimenti estremi, l’amore vissuto in profondità quanto la sofferenza, entrambi si fanno poi carnali.

E la musica, una colonna sonora composta da malinconie.

La violenza è gravida, spunta in ogni testo, perché non dovrebbe, fa parte della natura umana, è contingente ad un’attualità segnata dalla guerra, dagli scontri tribali, dall’irruenza personale, la Terra sta diventando un luogo inospitale.

ESAUSTI MARINAI

La Terra sta diventando un luogo inospitale

«e dove andremo a vivere?»

mi chiede mia figlia

(silenzio)

questa strada porta

all’ultimo capitolo del mondo

la stiamo imboccando

esausti marinai

volgiamo i nostri pini alati

a rive minacciose

Penso ai morti

del Donbass

ai giovani palestinesi

afghani

ai Mapuche del Sud-America

ai figli dei migranti messicani

bloccati al confine

dal muro

ai piccoli siriani

ai curdi

a Boko Haram che stermina bambini

e agli altri

gli angeli sepolti nel Mediterraneo

La Terra sta diventando un luogo inospitale

«e dove andremo a vivere?»

mi chiede mia figlia

(silenzio)

questa strada porta

all’ultimo capitolo del mondo

la stiamo imboccando

esausti marinai

volgiamo i nostri pini alati

a rive minacciose

Mario Eleno d’altronde, in “Bocca storta”, ce lo dice chiaramente, il suo non è un libro tenero, scritto per rasserenare, per creare evasione, egli vuole impattare il lettore con le contraddizioni della realtà, vuole farlo uscire dalla sua zona comfort, deve trasmettere la sua inquietudine.

Una poesia senza mezzi termini, disturbante, amara e dannatamente autentica che non ha bisogno di fronzoli e altre descrizioni, deve solo essere letta.

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