“Nel mondo del tempo. Al di là delle valli gemelle” di Eward C. Browa. A cura di Alessandra Micheli

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Sono rimasta piacevolmente stupita dal libro di Eward Browa.

Questo per due motivi a me particolarmente cari.

Il primo riguarda la stesura, si legge e si comprende come il mondo descritto dall’autore sia per lui reale.

Lo ha visitato nei suoi viaggi onirici ed è descritto con quella facilità di chi, in fondo, abita tra due dimensioni il fantastico e il reale.

E sa che queste sono separata soltanto da un velo sottile, impalpabile a chi ha il dono o la fortuna di essere in fondo, straniero nella sua patria.

Browa non è di questo mondo e al tempo stesso è nel mondo e ogni tanto torna in quelle strane regioni e prende le storie per regalarle a noi affamati di immaginario.

Questo meccanismo lo si avverte già dalla prima pagina: come Mondi di inchiostro, basta aprire il testo e trovare una porta che ci conduce in un altro piano di esistenza.

Che conosciamo bene perché volenti o nolenti, lo scriviamo nei nostri sogni notturni.

Altra caratteristiche che è riuscita a convincermi, facendomi gustare una lettura che, come ben sapete non è nelle mie corde è la capacità di inserire il percorso campbelliano dell’eroe innovandolo.

Ci sono tutti i dettagli fondamentali dello schema eppure, per accorgersi della sua importanza bisogna analizzare parola per parola il testo. Perché è inserito in un modo talmente armonico che, quasi, non ci si accorge dell’attenzione stilistica.

Forse questo mio entusiasmo sarà dovuto alla mia poca dimestichezza con il genere direte voi miei lettori.

In realtà vi sbagliate.

Il fatto che il fantasy non sia in cima alla mia lista dei preferiti significa che lo conosco bene.

Come potrei, infatti, stilare una mia lista di preferenze sotto la totale ignoranza del genere? Per poter decidere e scegliere ogni essere umano DEVE conoscere. E quindi deve aver compiuto il suo percorso letterario scovando tra i libri quello che più si sposa con la propria anima.

Il fantasy, quindi, è stato il compagno della mia adolescenza.

Dopo un’abbuffata di classici, a tredici anni sono piombata nell’incanto di Tolkien e di Shannara, per poi divorare nel mio modo “compulsivo” ogni libro portante la dicitura fantasy.

Quindi tranquilli.

So di cosa parlo.

In ogni testo che parla di immaginario, infatti, si sente in modo molto oppressivo l’eredità dei suoi avi.

E questo può rischiare di legare il testo a degli archetipi che, seppur sono necessari se non sono fluidi sanno di cliché.

E cosi l’eroe ignaro del suo destino si trasforma nel più attuale giovane che sente il peso dell’abitudine e del consueto.

E che brama, dentro di se, una sorta di viaggio nell’infinito nell’ignoto e nell’avventura.

Un po’ quello che succede, oggi a tutti noi che ogni tanto sentiamo il peso della vita di ogni giorni.

E allora scatta qualcosa che ci spinge a desiderare lo straordinario al posto della vita quieta e quasi senza slanci.

Erick rappresenta un po’ lo spirito sopito di ogni essere umano, cosi ancorato alle certezze rassicuranti eppure cosi alieno a quell’istinto che portò Prometeo il nostro progenitore a rubare il fuoco agli Dei.

Cosi la spinta all’evoluzione, a trovare il proprio centro ossia se stessi, ci spinge a vagare per le terre sconosciute, apparentemente ed è qua il dettaglio innovativo, per la nostra gloria e per restare negli annali della leggenda.

Infatti, i libri fantasy pongono l’accento solo allo spirito cavalleresco che troppo spesso scorda l’antico codice e si nutre solo di onore e di prodezze. In realtà la vera spinta dell’eroe è sempre quella di ristabilire un ordine compromesso, quasi sempre purtroppo, dalla sete di potere.

O peggio dall’ignavia dei suoi abitanti.

E cosi i mondi, profondamente interconnessi e niente affatto distinti, divengono squilibrati.

E’ la predominanza della piccola ambizione, della rassicurante routine che emerge a scapito dallo straordinario e dell’immaginario.

In questo rapporto di forza se uno predomina sull’altro l’intera armonia cosmica ne risente.

Sopratutto il collante che tiene unite le varie dimensioni: il tempo.

Il tempo un questa cosmogonia non è altro che l’asse che unisce il sopra con il sotto, cosi come ci raccontavano i favolosi miti celtici.

Era un elemento fluido, che permeava con la sua arcana magia sia il regno ultraterreno che quello della realtà tangibile.

E’ quell’asse che è corrotto.

E come si recupera l’antica Maat cosmica?

Con il coraggio della speranza.

E’ il risvegliarsi e l’iniziare a concepire un’esistenza dinamica che ci sveglia dal grigio torpore e apre i nostri occhi prima ciechi.

Ed è allora che la vera, autentica battaglia inizia: quella con la corruzione trasformata nel nemico atavico rendendo di nuovo il futuro un libro da scrivere, ognuno con la sua personale penna.

Ecco che Erik diviene lo spirito risvegliato, colui che cura e ricuce le profonde lacerazioni di un anima che…non sogna più.

E non ha più l’ardire di inseguirli i propri sogni fino a rendere reali le leggende.

E allora alla fine del suo arduo e difficile cammino, Erik/uomo non solo ritrova se stesso, ma anche l’immortalità che gli spetta.

Del resto un sognatore è un uomo senza tempo.

Bravo Eward.

I miei più sinceri complimenti.

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