“Ape bianca” di Valentina Villani, Adiaphora edizioni. A cura di Ilaria Grossi. Introduzione a cura di Alessandra Micheli

 

Quando un libro ha la soave armonia del suono è molto difficile incastrarlo in biechi tentativi di analisi letteraria. La musicalità della parola associata alla spettacolarità a volte desolante delle immagini, lo rendi semplicemente un testo di numinosa bellezza. Allora poco importa comprendere lo stile, le tecniche letterarie, la struttura del testo e inquadrarlo in una precisa categoria. come si può descrivere un colore?

Come si può comunicare la poeticità di un tramonto?

Ma soprattutto come si può raccontare un dolore, quando esso è pura emozione?

È impossibile. Il testo di Valentina Villani non può essere da me analizzato poiché è un insieme di accordi armonici, un susseguirsi di frammenti visivi, di colori e persino di odori. Questa è magia, la magia di un talento che parte non solo dall’anima dell’autrice, ricca e composita, ma scende direttamente dalle regioni inesplorate e impervie delle idee. Se esiste davvero l’iperuranio platoniano, la Villani ha semplicemente creato un passaggio, ha collegato il mondo oltre a quello terreno e questo dialogo non è possibile incastrarlo in un linguaggio umano. Ed è il motivo per cui il testo non è un racconto, ma un susseguirsi di sussurri che parlano a una parte di noi profondamente e totalmente segreta. Dolore e vita, morte e rinascita sono elementi di un mosaico che colpisce, seduce ammalia e rapisce. Leggere il testo è un’esperienza estatica che ci pone direttamente fuori dai limiti del nostro corpo per essere per quell’istante benedetto solo spirito. Ed è la capacità di diventare energia che ci fa comprende un qualcosa che ai nostri sensi sfugge e sfuggirà sempre, troppo concentrati a piangere materialmente la perdita:

 

Nessun uomo, nessuna forza può abolire la memoria».

Scendono le mie lacrime mentre ripeto: «Nessuna forza può abolire la memoria».

E’ nella capacità tutta umana di ricordare che il senso della vita si compie persino nell’assenza, è la capacità di nutrirsi di immagini racchiude nella mente che dono la chiusura del cerchio della vita:

L’intero arco della vita si è compiuto e ora, proprio come la natura fa con i fiori che nascono, vivono, muoiono per poi rinascere, tu ritorni germoglio nella mia mente, perché possa nascere una nuova me. Vita, morte, nascita, la rassicurante ciclicità della natura.

È solo nella distruzione che porta a una sorta di vuoto primigenio che si compie il miracolo della rinascita, della ricostruzione del se perduto:

 

Un giorno mi sono accorta di esistere ancora, di respirare, di essere in grado di fare delle scelte, di poter raccogliere pezzi di me per poterli ricomporre in modi nuovi.

 

 e si assapora nuovamente la vita brulicante di un mondo in costante movimento:

Senza quel bruciante senso di vuoto, posso sentire di nuovo il brusio di sottofondo della gente che parla seduta ai tavolini esterni di un ristorante, in un vicolo del centro durante una mite serata di inizio estate.

La Villani beve tutto di un sorso l’amaro calide della distanza, scopre il mistero della morte che la trafigge con le sue acuminate spine. Eppure questo strazio non è che la capacità del corpo di arrivare a un nuovo livello di comprensione affinché il dolore divenga porta. E questa porta conduce necessariamente a una diversa forma dell’io, forse adulta, forse matura ma necessaria di movimento per poter evolvere.

Per un lungo e indefinito periodo di tempo ho trovato un accordo con me stessa solo nella disperazione e so che ho dovuto e probabilmente dovrò ancora fare i conti con una condizione esistenziale imprevedibile. So che mi sono lasciata trasportare da questa instabilità senza opporre resistenza, so che l’unica via possibile è stata quella di abbandonarsi al dolore così come ci si abbandona alla gioia.

Allora non è il dolore che si teme, ma la possibilità che esso ci trasformi. Non è il dolore che ci ferisce, ma la paura che proviamo quando quell’oscura signora ci prende per mano.

Si diventa adulti solo passando sotto la colonna del rigore, e la si abbraccia per poter godere dell’immensa sensazione di meraviglia quando il paradiso ci scopre dinanzi a noi. Ma non si può entrare nella dimensione della bellezza se prima non ci siamo totalmente liberati di ogni nodo, di ogni contraddizione, di ogni rimpianto. Ed è attraverso il ricordo, attraverso il confronto con l’assenza che la poesia si snoda dinnanzi a noi.

È un libro che va letto piano, assaporando ogni sfumatura, ma che ha bisogno di un’anima delicata, ricca e empatica, capace di coglierne i profumi lievi come quella della nostra Ilaria Grossi.

Lascio a lei la parola

Buona Lettura

 

 

 

“E lasciavi spazio anche nelle relazioni, srotolavi tappeti su cui era vietato camminare. Forse avevi paura che l’affetto potesse avvolgerti troppo, lasciarti senza respiro, spingerti in luoghi troppo stretti per essere condivisi con qualcun altro”

“Non sapevo cosa farmene di tutto quello spazio tra di noi”

 

Madre e figlia protagoniste indiscusse. La mamma, artista e pittrice, creava sculture con conchiglie. Distante, inquieta, assente con la sua presenza mentre la figlia è spaesata da tanta distanza e solitudine interiore. La distanza  tra madre e figlia, sembrava ridursi solo ad alcuni rari momenti trascorsi assieme quando durante una visita al museo, la figlia cerca di rubare foto sfuggenti della mamma o quando decidono di restaurare una vecchia sedia della sua nuova casa, facendola “rinascere”. In quei brevi momenti non c’era più distanza né competizione.

 

“Il mio senso è la ricerca di un senso in piccoli dettagli, in qualche odore familiare, in una tonalità di colore, in un gesto, in tracce comuni, in uno sguardo complice”

 

La notizia della malattia della madre è un macigno sul cuore e sullo stomaco proprio nel momento più bello e magico per una donna in attesa di un figlio. Ancora una volta l’assenza della madre avrebbe schiacciato con il suo dolore la gioia che stava sbocciando nella sua nuova veste di Mamma. Tra vita e morte, brevi sorrisi e lacrime, trovarsi in un limbo dove la malattia avrebbe creato altre crepe ed evidenziato ancora di più fragilità e irrequietezza.

 

“Ero arrabbiata, sì, molto arrabbiata. Mi stavi abbandonando e questa volta anche con il corpo, definitivamente”

“Come si fa a vivere il più grande degli abbandoni senza rimanerne intrappolati?”

 

Un corpo a metà, un’anima divisa a metà.

Una metà di te che annuncia un abbandono che ferisce, che scava in profondità, da non conoscere punti di sutura. La morte, il distacco definitivo e quel sapore amaro di non aver potuto dire o fare ancora qualcosa, senza preavviso. Cosa resta?

Restano i ricordi, odori e immagini che riportano in superficie ricordi, solo ricordi.

 

“Nessuna fotografia potrà restituirmi il vero senso di te”

 

Poesia e musicalità accompagnano una lettura che tocca l’anima, entra nelle crepe più nascoste e risveglia paure, a cui non vogliamo dare un nome, le nascondiamo perché sono figlie di un dolore troppo grande, la perdita della propria madre è qualcosa che non sarà mai cicatrizzato, non ci sono cure, non ci sono medicine.

E’ un pezzo di cuore che va via con lei.

Come si fa ad emergere da un dolore così grande?

 Attraverso la vita stessa, nonostante il dolore, sentire di nuovo il nostro respiro, sentire il vento sulla pelle, il profumo del mare  e  una nuova vita che cresce, nasce e riporta nuova luce.

Ti prenderà per mano e ti aiuterà a riconciliarti per sempre.

Complimenti Valentina Villani

Buona lettura

Ilaria Grossi

per Les Fleurs du mal blog letterario

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